I 5 morti di Castelmagno, il sindaco accusa: “Mancano i soldi per mantenere le strade”

Questa tragedia ha strappato via la metà dei giovani del nostro paese. Non vorrei fare sterile polemica, ma si parla tanto di grandi opere quando ai piccoli comuni montani lo Stato non dà le risorse necessarie per mettere a posto le strade e per comprare la segnaletica”.

È la denuncia del sindaco di Castelmagno, Alberto Bianco, che commenta così il drammatico incidente in cui, nella notte tra l’undici e il dodici agosto, hanno perso la vita cinque ragazzi tra gli 11 e i 24 anni. Erano nove in tutto, a bordo di Land rover defender. Dopo aver visto le stelle sull’Alpe Chastlar, uno dei punti più panoramici della vallata del Cuneese, verso mezzanotte sono precipitati nella scarpata, giù per oltre cento metri. “Non erano né ubriachi né drogati – spiega il sindaco – sono bravi ragazzi che vivono qui e conoscono bene questi percorsi. Ma non c’è un cartello che segnali quella curva pericolosa. Io mi sento in colpa perché se fossi ricco lo avrei pagato io, ma faccio l’insegnante”.

“Abbiamo 25 km di strade – sottolinea Bianco – molte delle quali strette due metri e dissestate. I trasferimenti dallo Stato fanno pietà. Anche se il mezzo fosse stato omologato per sei, non credo che la causa dell’incidente c’entri col fatto che erano in nove, perché un ragazzino di 11 anni pesa poco”. Dei nove ragazzi, cinque sono morti sul colpo, due sono rimasti feriti, e solo altri due sono illesi. Sono in corso verifiche per capire se il fuoristrada fosse omologato per sei o per più persone. Le vittime sono Marco Appendino, 24 anni, conducente del mezzo e figlio di un imprenditore agricolo della valle, Nicolò ed Elia Martini, 17 e 11 anni, figli di un malgaro, Camilla Bessone, 16 anni, originaria di San Benigno e cheerleader, Samuele Gribaudo, 14 anni, suo compaesano e pallavolista del Cuneo Volley. Erano tutti in villeggiatura in borgata Chiotti, frazione sopra Castelmagno. Imponente la catena di soccorsi: nella scarpata che conduce verso le grange Tibert, a 1.800 metri di quota, sono intervenute quattro ambulanze del 118, decine di vigili del fuoco di Cuneo, gli uomini del soccorso alpino della val Maira, finanzieri e carabinieri di Pradleves e Dronero. I feriti sono ricoverati negli ospedali di Cuneo e Cto di Torino. Si ipotizza che il conducente, Marco Appendino, al buio non abbia visto la curva pericolosa, non segnalata. La strada non ha protezioni esterne. Il manto è un misto di asfalto e sterrato. Una piccola distrazione qui è fatale. “Dobbiamo proteggere le nostre strade, che sono beni pubblici – conclude il sindaco – ogni settimana 500 ciclisti salgono sul colle Fauniera e qui si corre la Fausto Coppi. Si ipotizza anche che il prossimo anno ci sia una tappa del Giro d’Italia. Dobbiamo avere le risorse per mettere in sicurezza le strade”.

Liti condominiali, boom di cause post lockdown

“Andrà tutto bene” ci eravamo detti all’inizio della pandemia, ma a distanza di pochi mesi è boom di cause civili tra vicini di casa. Sono infatti circa 2 milioni le cause pendenti nei Tribunali, relative a dispute tra condomini. Tra le regioni più litigiose spiccano Lazio e Campania, seguite da Sicilia e Veneto. Alla base di molte di queste liti sembra esserci una mancanza di comunicazione tra i condomini e i loro amministratori, tanto che in Italia ben 4 su 10 si dichiarano profondamente insoddisfatti dell’operato del proprio amministratore. “È tristemente evidente che i due mesi trascorsi fra le mura domestiche abbiano acuito delle tensioni già presenti da tempo” – spiega David Campomaggiore, amministratore delegato di Condes, prima azienda specializzata nel benessere condominiale – “tra i motivi più ricorrenti ci sono gli odori fastidiosi provenienti da altri appartamenti; i rumori molesti, spesso oltre l’orario consentito; gli animali domestici, per l’eccessivo abbaiare o perché il padrone non provvede a pulire dove sporca l’animale; e l’errato utilizzo delle aree condominiali comuni, con auto parcheggiate in luoghi non consentiti, materiali depositati negli androni, terrazze condominiali usate come ripostigli”. Quando non è possibile chiudere un litigio tra vicini con una soluzione di compromesso, occorre l’intervento dell’amministratore di condominio, tenuto per legge a risolvere queste controversie. “Molte discussioni potrebbero essere evitate, in queste situazioni l’amministratore di condominio può svolgere un ruolo chiave facendo rispettare le regole” sottolinea Campomaggiore, autore anche del libro “Condominio Benessere” (Bruno Editore). Naturalmente solo se il casus belli riguarda il regolamento condominiale e non ci sono di mezzo questioni o antipatie personali. “Io resto a casa” sì ma con il coltello tra i denti.

Rogo rifiuti ad Aprilia, disastro ambientale: “Livelli di diossina mille volte oltre i limiti”

Livelli di diossina 1.000 volte oltre i limiti. Divieto di raccolta, vendita e consumo di frutta e verdura e di tutti i prodotti di origine animale provenienti da un’area ricadente nel raggio di 2 km dalla sede dell’incendio. Un disastro ambientale in piena regola. È allarme ad Aprilia, provincia di Latina ma a soli 50 km da Roma, per gli effetti del terribile incendio esploso domenica sera alla Loas, un deposito di rifiuti di plastica e carta. Dai monitoraggi dell’Arpa Lazio, emerge che il livello di diossine registrato nelle prime 12 ore sia pari a 303 pg/m3, dove il valore massimo suggerito dall’Oms è di 0,3. Si tratta di un numero quattro volte superiore a quello registrato nel 2017, all’indomani del rogo che distrusse l’impianto Eco X di Pomezia, a pochi chilometri da Aprilia. Il sindaco della città pontina, Antonio Terra, ha firmato un’ordinanza con la quale si raccomanda ai residenti di “allontanarsi dalle proprie abitazioni” e di “tenere chiuse le finestre”. Annullate tutte le iniziative culturali in programma.

Marche: per chiudere l’Astronavina servono altri 2 milioni di euro

Se l’Astronave di Milano piange, l’altra creatura di Bertolaso, l’“Astronavina”, fatta atterrare nella Fiera di Civitanova Marche, certo non ride. Il Covid Hospital marchigiano, infatti, da mesi è oggetto delle accuse di comitati cittadini e di sindacati di medici e infermieri, e fioccano le inchieste della magistratura (due i fascicoli aperti, uno dalla procura di Ancona, l’altro da quella di Macerata), con tanto di esposti alla Corte dei Conti per danno erariale.

Polemiche certo non mitigate dal bilancio sanitario vantato dalla struttura da 84 letti di terapia intensiva. Costata 12 milioni di euro, tra opere civili e attrezzature, nei 9 giorni nei quali è stata operativa, ha prestato assistenza a 3 soli pazienti. E anch’essa, come la sorella maggiore di Milano, oggi è desolatamente chiusa e langue in uno stato comatoso, in attesa che si decida il suo destino.

Il candidato alla Regione del centrosinistra, Maurizio Mangialardi, ha già annunciato che, se eletto, chiuderà immediatamente l’inutile ospedale. Ma è più facile a dirsi che a farsi.

Per smantellare la struttura, infatti, serviranno ulteriori 1,8 milioni di euro: denaro (pubblico) che dovrà essere trovato nelle pieghe del bilancio della Regione. Soldi che andranno ad aggiungersi a quelli già versati per pagare strutture che fin dall’origine si sapeva essere destinate a essere smantellate. Se infatti le apparecchiature mediche – costate 5 milioni di euro – potranno essere distribuite tra i vari ospedali marchigiani, le opere civili – pagate 7 milioni – sono invece totalmente irrecuperabili.

E mentre si litiga, il conto delle spese si allunga: se nei giorni nei quali è stata operativa l’Astronavina è costata al Sistema sanitario regionale 1,3 milioni al mese di spese vive, oggi che è ferma necessita di 30mila euro ogni mese, tra vigilanza e pulizie.

A essere in discussione è l’intero processo che ha portato l’attuale presidente della Regione, Luca Ceriscioli, a volere fortemente quell’ospedale e a difenderlo anche quando ne erano diventate evidenti sia l’inutilità (le terapie intensive marchigiane non sono mai state sature, neanche nei periodi di picco pandemico), sia l’opacità delle procedure di finanziamento.

Opacità sulla quale indagano i pm chiamati in causa dai comitati cittadini che chiedono di fare luce sul ruolo svolto dal Cisom, il Corpo italiano di Soccorso dell’Ordine di Malta, l’ente extraterritoriale fortemente voluto da Bertolaso a capo del progetto, sul cui conto corrente la Regione ha dirottato le donazioni raccolte dai privati. Per i cittadini quei fondi – compresi i 5 milioni di euro donati da Banca d’Italia – sono da considerarsi soldi pubblici, e, come tali, dovevano essere gestiti e rendicontati. “Ma non è possibile avere una rendicontazione dettagliata delle spese, e questo è inammissibile”, spiega l’avvocato Giuseppe Bommarito, uno dei più attivi nel fronte anti-ospedale Covid. “Quei 7 milioni di impianti non trovano alcuna giustificazione. E se ci fosse stata una gara pubblica, i costi sarebbero stati dimezzati…”.

Lo stesso Bommarito ha calcolato che ogni letto di terapia intensiva dell’Astronavina è costato la bellezza di 140.000 euro: “Come un appartamento di medie dimensioni, una cifra assolutamente fuori mercato”, commenta. “Basta pensare che la Fondazione Carima (ex Banca Marche, ndr) ha regalato agli ospedali marchigiani 40 nuovissime postazioni di terapia intensiva pagandole 100mila euro l’una”, rimarca l’avvocato. “Questo giusto per avere un’idea degli extra costi”, conclude.

Il Bertolaso hospital è un deserto di spreco

La bisarca parcheggiata davanti all’ingresso riservato alle ambulanze è l’immagine più chiara dello stallo che regna nei padiglioni 1 e 2 della Fiera di Milano, quelli che ospitano il Covid Hospital di Guido Bertolaso. L’incrocio tra viale Scarampo e viale Teodorico, dove per mesi medici e infermieri hanno dribblato frotte di giornalisti alla ricerca di informazioni sulla struttura e i suoi pochi pazienti, oggi è un silente deserto. E i pochi rimasti in città che passano davanti al Gate n. 6 hanno tutto fuorché l’impressione di trovarsi di fronte all’hangar di quell’Astronave planata per salvare la Lombardia dallo tsunami del Covid-19. Del resto, la struttura da 221 letti di terapia intensiva, dopo la trentina di pazienti assistiti tra aprile e giugno, è chiusa per mancanza di malati. Ibernata, sebbene dal Pirellone ne assicurino l’operatività, ma imprescindibile per la giunta Fontana, tanto da essere indicata nel “Piano ospedali” (delibera n. 3264 del 16 luglio) come pilastro sanitario almeno per i prossimi due anni.

Sarà, ma intanto tutti gli ingressi sono lucchettati, i cancelli sbarrati e ogni attività soppressa. Non si vedono neppure i vigilantes, solo le telecamere sembrano sorvegliare questo investimento milionario, realizzato grazie a un esercito di 5mila donatori, tra cittadini e aziende, che ha riversato nei fondi gestiti da Fondazione Fiera e Fondazione di Prossimità almeno 21,6 milioni di euro. Soldi ai quali vanno aggiunti altri 25 milioni di euro confluiti sul conto corrente della Regione.

Un fiume di denaro che ancora non si sa come sia stato speso. A tutt’oggi manca, infatti, una rendicontazione puntuale, nonostante Fondazione Fiera e Fondazione di Prossimità l’avessero annunciata per il 31 luglio. Invece in quella data Fiera ha diramato uno scarno comunicato che aggiunge molto poco a quanto già noto: “Le infrastrutture realizzate (…) date in comodato gratuito, come da indicazioni della Regione Lombardia, al Policlinico di Milano, comporta un investimento aggiornato al 30 luglio 2020 di 17,181 milioni di euro, iva esclusa, per la realizzazione di 221 posti letto di terapia intensiva”, si legge. Non rendicontazione, ma generica elencazione di macro-costi senza destinatari né importi. Progettazione preliminare, definitiva, esecutiva, assistenza direzione lavori e coordinamento sicurezza: 0,393 milioni. Opere Civili: 7,693 milioni. Impianti elettrici e speciali: 4,592 milioni… Nella nota si legge anche che “le fatture pervenute al 28 luglio 2020” raggiungono “un totale imponibile di 13,309 milioni”, e che “il totale dei pagamenti effettuati a oggi è di 9.109.897,28 (di cui iva 1.659.087,33) per un totale pari al 51,9% dei costi sostenuti”.

Nella comunicazione infine si fa un cenno indiretto agli ulteriori 7 milioni che il Pirellone ha chiesto a Roma per completare i 64 posti di terapia intensiva, annunciati, ma non ancora realizzati.

Quanti speravano di poter conoscere i nomi dei 110 fornitori, i criteri di selezione, l’entità delle offerte ricevute, sono rimasti delusi. Informazioni che invece la procura di Milano – Maurizio Romanelli il pm titolare del fascicolo conoscitivo, senza ipotesi di reato né indagato, aperto a seguito dell’esposto presentato il 19 maggio dall’Adl Cobas – ha deciso di ottenere direttamente. Con la Finanza che, il 23 luglio scorso, ha bussato alla porta della Fondazione di Prossimità per acquisire numerosi documenti.

 

il report riservato di Kpmg e le otto fatture

Alcune informazioni su fornitori e compensi sono però desumibili dalla “Relazione sulle procedure di verifica richieste con riferimento ai costi rendicontati da Fondazione Fiera Milano al 7 luglio 2020”, un documento riservato elaborato da Kpmg per conto di Fondazione di Prossimità che Il Fatto ha consultato.

È un’analisi condotta su otto fatture, per totali 7.068.522 euro, dalla quale si evince che la parte del leone l’ha fatta Operamed Srl, società padovana specializzata in moduli prefabbricati, la quale si è aggiudicata tre contratti per complessivi 3.673.430 euro. Seguita da Sapio Life Srl (impianti gas medicinali), 1.239.520; AGIE Srl (impianti elettrici), 814.644; MT Milan Tractor SpA (sempre impianti elettrici), 994.500; Samp SpA (condizionamento) 285.714 e dal Consorzio Edile BTF (moduli prefabbricati) 60.714.

Ma il report Kpmg è importante anche per un altro aspetto: annunciato come incontrovertibile certificazione della bontà delle scelte di investimento, il report non fa alcuna analisi dei costi. Per specifica richiesta del committente. Lo scrive chiaro la stessa Kpmg: “Le procedure che ci avete richiesto di svolgere non costituiscono una revisione contabile completa o limitata (…) né un’analisi dell’affidabilità dei dati e delle informazioni oggetto delle stesse”.

Non solo. L’audit non giudica né la congruità delle spese né individua eventuali illeciti: “Le procedure che ci avete richiesto di svolgere non comprendono e non prevedono l’espressione di un giudizio professionale circa la congruità delle condizioni, dei prezzi e/o dei costi negoziati delle operazioni comprese nell’oggetto dell’incarico rispetto alle condizioni di mercato (…) Inoltre, le procedure richieste non sono finalizzate all’individuazione di errori significativi, frodi o atti illeciti estranei all’oggetto del nostro incarico”. Insomma, tutto meno di un suggello dell’operazione Ospedale in Fiera.

 

Alla Regione donazioni per altri 25 milioni

Ma i soldi per L’Astronave non sono arrivati solo da Fondazione Fiera: Regione Lombardia ha infatti registrato sul suo conto corrente 25 milioni di donazioni destinate all’Ospedale. Soldi che la giunta Fontana ha deciso di non usare per la Fiera, ma di incamerare con l’ultima variazione di bilancio. “Non essendo tali risorse necessarie (…) le donazioni destinate a tale struttura verranno utilizzate, previa autorizzazione dei donatori, per ulteriori iniziative legate all’emergenza”, ha spiegato l’assessore al Bilancio, Davide Caparini.

Fondi che non entreranno nel bilancio regionale, né saranno rendicontati, visto che a oggi non esiste un regolamento regionale che definisca le modalità di spesa e certificazione delle donazioni liberali. Inoltre, per cambiare la destinazione di quei denari il Pirellone dovrebbe avere l’autorizzazione espressa di ogni singolo donatore. E, considerando che a versare un obolo, più o meno sostanzioso, sono stati oltre 33.500 soggetti, l’impresa appare assai ardua.

L’alleanza giallorosa nei Comuni: il risiko città si vota su Rousseau

Il voto è arrivato. Prima del previsto. Dalle 12 di oggi alla stessa ora di domani, gli iscritti del M5S voteranno su Rousseau per abolire la regola dei due mandati per i consiglieri comunali e chiedere l’autorizzazione per le alleanze “con i partiti tradizionali” a livello locale. I due quesiti servono, il primo, per blindare la ricandidatura di Virginia Raggi e, il secondo, per sigillare gli accordi locali, presenti e futuri. Eppure, il voto su Rousseau provoca molti malumori nella base e anche tra qualche big. Il viceministro Stefano Buffagni posta su Facebook: “Tema mandati o alleanze con i partiti non sono un argomento da votazione a Ferragosto, ma da Stati Generali!”. Una mezza presa di distanza arriva anche da Beppe Grillo: “Sto in disparte, perché si dicono un sacco di cose e non voglio essere immischiato”. Ma i “sì” potrebbero prevalere, anche se non a valanga.

L’annuncio di Virginia Raggi ha provocato un’accelerazione in tema di accordi. In gioco ci sono Napoli, Milano, Roma, Torino e Bologna dove si vota nel 2021. I ragionamenti che si fanno ai piani alti della politica vedono connesse soprattutto tre città: Napoli, Roma e Torino. Una è destinata al Pd, una ai Cinque Stelle, una a un candidato comune. Quest’ultimo toccherebbe a Torino. Al momento, lo schema vede la Raggi a Roma e un dem a Napoli. Ma Zingaretti spera di convincere David Sassoli a correre per la Capitale. E a quel punto a Napoli molti considerano il candidato ideale Roberto Fico. Intanto, nelle Marche il Pd sta provando l’ultimo tentativo per stanare i 5S proponendo un ticket tra i due candidati Maurizio Mangialardi (Pd) e Gian Mario Mercorelli (M5S). E ieri è arrivato il “sì” della Consulta all’election day tra regionali e referendum per il 20 settembre.

 

Milano

Non si sono visti solo martedì Giuseppe Sala e Beppe Grillo. Si sentono ormai da mesi. All’ordine del giorno ora c’è la candidatura alla guida di Milano. Il Pd è pronto a sostenere un secondo mandato di Sala. Lui scioglierà la riserva solo dopo le Regionali. Magari potrebbe trovarsi di fronte anche a qualche altra scelta. In un eventuale governo di unità nazionale dopo una sconfitta di Pd e M5S (che molti vedono comunque guidato ancora da Conte) potrebbe ricoprire un ruolo. A Milano ad appoggiarlo sarebbe comunque solo la coalizione di centrosinistra. La convergenza dei Cinque Stelle potrebbe arrivare al secondo turno.

 

Roma

La battaglia di Roma, in casa Pd si va complicando. L’intervista di Michela De Biase, consigliera regionale del Lazio ma anche moglie di Dario Franceschini, ha stupito molti. Dentro al Pd, si va dallo “schema Bettini” che punta a sostenere un candidato debole che non arrivi al secondo turno per dare una mano alla Raggi, al pressing dei vertici su Sassoli, a chi spera ancora in un altro candidato M5s, alle ambizioni dello stesso Franceschini per influenzare la partita. Che però non includerebbero la De Biase: il capo delegazione dem punta al Colle e dunque non può prendere tutto. Ma se ci saranno le primarie lei si candiderà comunque. Questo mentre aumentano i malumori dei 5s sulla Raggi.

 

Bologna

Sono tre assessori comunali 40enni gli auto-candidati alla poltrona di sindaco: Matteo Lepore con la delega alla Cultura, Alberto Aitini alla Sicurezza e Marco Lombardo al Lavoro. Le primarie potrebbero rivelarsi un flop. Evitabile con un accordo con il Movimento Cinque Stelle. Il governatore Stefano Bonaccini negli ultimi tempi avrebbe sentito spesso Massimo Bugani, capo-staff in Campidoglio e storico consigliere comunale bolognese. Uno dei pochi alle scorse regionali a suggerire di non fare una lista 5S per evitare la debàcle.

 

Torino

Chiara Appendino con ogni probabilità non si ricandiderà e il suo annuncio farà cadere l’ultimo ostacolo di una nome comune di Pd e M5S. Il Pd lavora per il rettore del Politecnico di Torino, Guido Saracco, stimato anche nel mondo grillino. Ma, spiega una fonte M5S, l’accordo si farà solo nel caso in cui “il Pd faccia un po’ di pulizia al proprio interno con un’operazione di svecchiamento”. Mani avanti giustificate dal fatto che molti vedono Sergio Chiamparino pronto a correre nel caso l’operazione Saracco non andasse in porto.

 

Napoli

I dem lavorano sui ministri Vincenzo Amendola (che per ora smentisce) e Gaetano Manfredi. Ma l’accorto partenopeo sarà la conseguenza della partita di Pomigliano D’Arco, terra originaria di Luigi Di Maio. Qui si vota tra un mese e se i giallorosa dovessero trovare un candidato (forse Dario De Falco), la partita su Napoli sarebbe in discesa.

Esclusi i veri poveri: le storie di chi non ha preso i 600 euro di bonus

L’infausto record appartiene a un’ex addetta di un albergo di Montecatini Terme: da marzo a oggi, ha chiesto per ben sei volte all’Inps il riesame della sua domanda per il bonus da 600 euro destinato ai lavoratori stagionali, e per ben sei volte l’istituto ha risposto di no. Così, mentre i sussidi per l’emergenza Covid sono piovuti persino nelle tasche di parlamentari, Sara (nome di fantasia) ancora oggi non ha visto un centesimo pur avendone assoluto bisogno. E non è l’unica. “Lavoro ogni anno da aprile a ottobre in quell’hotel – racconta – ma per il 2020, con tante prenotazioni disdette, non sono stata richiamata”. Sperava nell’aiuto introdotto dal governo, ma è sorto un problema: il suo precedente contratto non era registrato come stagionale, ma a tempo determinato. Nulla cambia nella sostanza, ma questo le ha precluso i 600 euro, così come a molti suoi colleghi del settore.

“Ho preso l’ultima mensilità del sussidio di disoccupazione a febbraio – aggiunge – solo 360 euro, da allora non so nemmeno come pagare le bollette”. Miriana ha lavorato l’anno scorso in un ristorante di Rimini da giugno a settembre, quest’anno riesce a fare solo i week end, quindi guadagni crollati. Anche il suo contratto del 2019 non risultava stagionale: “Ho fatto due volte domanda del bonus, sempre rifiutata”. Contro l’esclusione di chi non risultava formalmente stagionale si è battuta l’Associazione nazionale lavoratori stagionali (Anls). “L’altro ieri – ha spiegato il presidente Giovanni Cafagna – l’Inps ha comunicato che riesaminerà le domande”. Sembra vicina la soluzione a questo pasticcio, ma per chi ne è stato vittima è stato dura restare a galla in questi mesi.

Mentre ai lavoratori autonomi sono stati distribuiti soldi senza chiedere di dimostrare il calo dei guadagni, e infatti li hanno presi anche politici nazionali, ai disoccupati del turismo sono stati posti paletti tali da trasformarsi in una lotteria. Secondo l’Anls, il 20% di queste persone è ancora a bocca asciutta. C’è chi, per esempio, non è stato ammesso al bonus solo per aver lavorato pochi giorni fuori dai mesi estivi con contratto intermittente. “Ho fatto solo sette giorni a chiamata lo scorso inverno – dice una ragazza che vive vicino Livorno – e anche se il mio contratto per tutta l’estate 2019 era stagionale, il mio ultimo rapporto di lavoro risultava diverso e non ho avuto ancora niente”. Le vie per non incassare i 600 euro sono infinite. Ci sono datori che, pur avendo bisogno di personale stagionale, assumono a tempo indeterminato – anche per incassare incentivi – e poi licenziano a fine stagione. E I lavoratori non hanno preso il sussidio.

Pure tra gli autonomi c’è chi è rimasto con il cerino in mano. La storia di Teresa, che ha 30 anni e vive in Puglia, è emblematica: lavora come consulente di comunicazione, ma non ha ancora aperto partita Iva poiché è un’attività iniziata da poco. “Con il lockdown, i miei clienti hanno tagliato sulla pubblicità – spiega – e hanno rinunciato al mio servizio. Siccome non ero ancora iscritta alla gestione separata Inps, requisito per ricevere i 600 euro, non ho potuto chiederli”. Nel frattempo stava anche svolgendo un tirocinio, ma ha dovuto interromperlo, quindi non ha più preso l’indennità del programma Garanzia Giovani. E anche per gli stagisti sospesi in Puglia non ha previsto aiuti, “nonostante una promessa dell’assessore regionale”, fa notare. Aveva due lavori, li ha dovuti fermare entrambi ma nessuno le ha dato diritto ai bonus. Se le si chiede che cosa ha pensato quando ha saputo dei parlamentari che l’hanno chiesto e ottenuto, conta fino a tre e dice che preferisce non esprimersi.

Antifrode, l’ufficio dell’Inps che va a caccia dei furbastri

Il sipario sulla storia dei furbastri di Montecitorio che, pur legittimamente, hanno ottenuto il bonus di 600 euro previsto per sostenere co.co.co e partite Iva durante l’emergenza Covid calerà domani con l’audizione del presidente dell’Inps Pasquale Tridico in Commissione Lavoro. Nell’attesa, però, il palco resta affollato e i colpi di scena si susseguono.

Il garante della Privacy, dopo aver sancito che in questa vicenda non è possibile trincerarsi dietro la riservatezza, ieri pomeriggio ha confermato l’apertura di un’istruttoria sulla metodologia seguita dall’Inps rispetto al trattamento dei dati personali dei beneficiari del bonus Covid. Insomma, l’Autorità vuole capire su quale base giuridica siano stati tirati fuori i nomi dei 5 deputati e la pletora degli oltre 2mila tra amministratori locali e regionali e come la notizia sia diventata di dominio pubblico. Eppure l’Inps, o meglio la Direzione centrale antifrode, anticorruzione e trasparenza dell’Istituto da cui è partita l’indagine, non ha fatto altro che fare il proprio lavoro: scandagliare tutti i dati per individuare e contrastare le frodi che vengono commesse dai contribuenti su pensioni e prestazioni a sostegno del reddito e assistenziali. E con diversi risultati ottenuti fino a oggi.

La task force, voluta da Tridico quando a metà 2019 ha riorganizzato tutte le strutture centrali e periferiche dell’Inps, si compone di un direttore, Antonello Crudo, tre dirigenti (di cui un direttore vicario) e una decina di dipendenti. Una struttura snella che alle casse dello Stato costa meno di 10 milioni di euro all’anno tra stipendi, indagini e costi vivi. La differenza rispetto alla vecchia organizzazione antifrode la fa il “campo” grazie a una ventina di dipendenti delle sedi locali dell’Inps che, una volta scoperta una frode, si mettono subito in contatto con la sede centrale di Roma, tramite un gruppo di Whatsapp. Un’operazione che in poche ore consente di far scattare l’indagine e riesce a trasformare quel caso locale in uno nazionale, perché magari la frode rispecchia un modello ripetuto anche presso altri sedi dell’Inps. La Direzione è operativa solo da inizio anno con le prime inchieste scattate durante il lockdown per monitorare tutte le eventuali anomalie (e ovviamente le frodi) che hanno accompagnato l’erogazione dei sussidi distribuiti dall’ente e aumentati in maniera esponenziale a causa del Covid.

È stata l’unità antifrode, ad esempio, a scoprire le oltre 30mila aziende che hanno richiesto la cassa integrazione senza averne diritto, così come continua a denunciare i percettori del reddito di cittadinanza o delle pensioni di invalidità che non ne hanno i requisiti. Il resto delle sue indagini è sulle evasioni contributive e sulle false compensazioni richieste dalle aziende. Controlli ad hoc scattati anche sugli oltre 4 milioni di beneficiari del bonus 600 euro. Resta da capire come son saltati fuori i cinque deputati: il Garante è curioso.

Salvini salva Dara e Murelli: i leghisti restano deputati

Dopo 48 ore di silenzio, arrivano le prime ammissioni in casa Lega. A parlare per primo, ieri pomeriggio, è stato Andrea Dara, uno dei due deputati salviniani ad aver ricevuto il bonus Inps da 600 euro insieme a Elena Murelli, come rivelato martedì da Il Fatto Quotidiano. Pochi minuti dopo l’ammissione di Dara, la Lega ha fatto sapere che sospenderà i due parlamentari dal partito. Non saranno costretti a dimettersi, come aveva annunciato Salvini prima che i nomi dei due leghisti iniziassero a circolare, né verranno espulsi dal partito. Sospesi. Significa che manterranno il proprio scranno alla Camera, e anche la tessera della Lega Salvini Premier.

Dara ha rotto il silenzio dopo aver saputo che il presidente dell’Inps, Pasquale Tridico, venerdì 14 agosto sarà in commissione Lavoro alla Camera per riferire sui nomi dei deputati che hanno ottenuto il bonus Covid destinato alle partite Iva. Per spiegare la scelta di richiedere i 600 euro, il deputato di fede salviniana – è stato eletto per la prima volta nel 2018 – ha scelto La Voce di Mantova, quotidiano locale di area di centrodestra. “Della richiesta specifica del bonus e del suo accredito io non ho avuto informazione e/o evidenza, proprio perché gestita direttamente dall’amministrazione della mia azienda”, ha spiegato Dara al giornale mantovano. Insomma, bonus richiesto a sua insaputa.

Sì, perché a detta del parlamentare, lui di questa storia non ne sapeva proprio nulla, tanto da aver trascorso “questi ultimi giorni, nei quali il mio nome è stato ripetutamente fatto in merito alla vicenda bonus, a ricostruire nel dettaglio quanto è accaduto, partendo dal dato di fatto che mai ho chiesto personalmente nulla all’Inps o a chicchessia”. Secondo quanto riportato da La Voce di Mantova, il deputato è “socio di minoranza di un’azienda che ha effettivamente percepito i 600 euro, ma questi non risultano mai essere transitati per il proprio conto corrente, bensì in quelli della ditta che aveva titolo per chiederli, essendo rimasta chiusa nei giorni del lockdown”. Una versione contraddetta dalle visure camerali, oltre che dal buonsenso tanto caro a Salvini. La Manifattura Mara Snc, azienda mantovana che produce calze e collant per conto terzi da quasi trent’anni, è infatti controllata al 60% proprio dal parlamentare della Lega, che è anche il legale rappresentante dell’impresa. Non dunque un socio di minoranza, ma l’azionista principale.

Sostiene Dara che “su proposta dello studio fiscale, avallata dalla mia socia, viene richiesto, come previsto dalla legge art. 28 DL 18/2020, il bonus Partite Iva, attraverso i pin nominali dei soci”. I 600 euro in questione sono riservati a persone titolari di partita Iva, non alle società private: normale quindi che i soldi siano stati accreditati sul conto personale di Dara. Il quale, contraddicendosi nello spazio di poche righe, lo ammette poco dopo con la seguente giustificazione: “I bonus sono stati girati, insieme ad altre somme, alla società per coprire emergenze nei pagamenti di dipendenti e fornitori, in assenza di pagamenti dei nostri clienti e ritardi nell’erogazione della CIG”. Colpa dell’Inps, insomma.

Perché per sopperire ai ritardi nel pagamento della cassa integrazione (l’azienda conta sei addetti in totale, di cui quattro dipendenti e due autonomi) il deputato è stato costretto a usare il suo bonus per anticipare loro parte dell’assegno pubblico. Evidentemente non gli bastavano i 13.971 euro di stipendio mensile lordo che incassa ininterrottamente da marzo 2018.

Se Dara ha cercato di fornire una spiegazione, Elena Murelli – 45enne piacentina, anche lei eletta alla Camera alle ultime elezioni grazie alla candidatura di Salvini – ha preferito il silenzio. A una nostra nuova richiesta di commento, inviatale ieri pomeriggio, la deputata non ha risposto. Per ora di certo c’è solo l’annunciata sospensione dalla Lega per lei e Dara. Lo stipendio da parlamentare è salvo.

Nelle Regioni serve l’autodenuncia: i furbastri gongolano

I nomi dei deputati che hanno richiesto il bonus Covid li avremo presto, per bocca del presidente dell’Inps Pasquale Tridico. Poi però servirà chiarezza sulle decine (almeno) di consiglieri e assessori regionali che hanno richiesto lo stesso sussidio, pur percependo stipendi simili a quello dei parlamentari. Avere la lista completa, però, non sarà affatto facile.

La questione è tecnica: non basterà l’azione del presidente del Consiglio regionale perché l’Inps renda pubblici i nomi. Il Consiglio non ha i poteri di una commissione parlamentare e servirebbe il consenso alla rivelazione dei nomi non solo da parte del titolare dei dati personali (l’Inps), ma anche, all’unanimità, delle persone a cui i dati si riferiscono (gli eletti). Difficile che la cosa vada a buon fine, a meno di novità dall’Inps o dall’Autorità per la privacy. Più probabile che i nomi arrivino per vie traverse, come la richiesta di accesso agli atti del nostro giornale in nome dell’interesse pubblico.

Nell’attesa, si va in ordine sparso. Uno dei nomi nuovi viene dal Lazio. Per la verità il caso riguarda la moglie del consigliere di FdI Sergio Pirozzi, che gestisce una piccola attività: “Il terremoto ha distrutto il negozio – ci dice l’ex sindaco di Amatrice – ci siamo rialzati, poi è arrivato il Covid. Mia moglie rischiava di chiudere e ha chiesto il bonus”. In Piemonte sono tre i consiglieri che hanno preso il bonus: i leghisti Claudio Leone e Matteo Gagliasso e il dem Diego Sarno, che ieri ha annunciato che devolverà le prossime sei indennità a un fondo per i lavoratori. In Lombardia la novità è che i 5 Stelle chiederanno ai colleghi di rinunciare alla privacy, presentando poi richiesta all’Inps. Almeno a parole, il Pd è d’accordo: “Per noi la privacy su queste materie non esiste”, assicura il capogruppo Fabio Pizzul. Dalla maggioranza di centrodestra, invece, tutto tace. Un nuovo caso è emerso invece in Liguria, dove si è auto-denunciato il leghista Alessandro Puggioni, a questo punto non ricandidato a settembre.

A nuove elezioni andrà anche il Veneto e qui Luca Zaia è alle prese con la grana del suo vice Gianluca Forcolin. Ieri il governatore ha cercato di distinguere la sua posizione (“Non ha chiesto lui il contributo, ha fermato la pratica…”) da quella degli altri due consiglieri leghisti coinvolti, Riccardo Barbisan e Alessandro Montagnoli. Complici le ferie, in Consiglio nessuno si sogna di chiedere gli elenchi all’Inps. Ma il M5S sfida Zaia: “I candidati esibiscano una dichiarazione giurata di non aver avuto accesso a bonus e aiuti, senza averne avuto necessità”. Nel Nord, oltre al bonus statale, si è approfittato anche dei contributi regionali. In Friuli Franco Mattiussi (FI) ha incamerato sia i 600 euro che i 5.400 per il suo albergo: “Non ho rubato nulla. Ho esercitato un diritto”. Così anche il civico Tiziano Centis, che ha ottenuto 700 euro dalla Regione. Allo stesso modo, a Trento il leghista Ivano Job ha ricevuto 5.200 euro per le sue attività mentre Lorenzo Ossanna (Patt) ne ha incassati 4.200 e l’avvocato Alessandro Olivi (Pd) 3.600. In Emilia e in Umbria qualcosa sembra muoversi. Nella Regione di Stefano Bonaccini è già calendarizzata una riunione dell’ufficio di presidenza per inizio settembre in cui si discuterà come procedere per avere i nomi. In Umbria, il presidente del Consiglio Marco Squarta (FdI) promette: “Subito dopo Ferragosto faremo un ufficio di presidenza con gli altri gruppi e chiederemo ai tecnici come fare per avere i nomi”.

E se in Toscana la 5 Stelle Irene Galletti chiede al presidente dem Eugenio Giani di interloquire con l’Inps, in Campania, in Puglia e in Sicilia i 5 Stelle stanno firmando moduli di rinuncia alla privacy che chiederanno di sottoscrivere anche ai colleghi. In Campania, però, il passaggio è diverso: il M5S sostiene che se la Regione ha fatto da tramite per l’erogazione dei bonus allora è in possesso delle informazioni sui furbetti e non è necessario passare dall’Inps. Interpellata dal Fatto, la presidente del Consiglio campano Rosetta D’Amelio (Pd) è però sicura che l’organo da lei guidato non debba assumere iniziative.

Dunque resta l’auto-denuncia. Ieri nelle Marche ha “confessato” l’assessore Moreno Pieroni. Più fantasiosa la strategia del presidente del Consiglio della Calabria Domenico Tallini: “Chiederò a tutti i consiglieri se hanno preso il bonus. A quel punto valuterò se sarà opportuno rivolgersi all’Inps”. Dipenderà da quanto saranno convincenti gli eletti.

 

Hanno collaborato Vincenzo Bisbiglia, Vincenzo Iurillo, Lucio Musolino, Giuseppe Pietrobelli, Paola Pintus, Giacomo Salvini, Elisa Sola, Andrea Sparaciari.