Russia, il vaccino-propaganda testato sui soldati “volontari”

“Per la prima volta al mondo è stato registrato un vaccino contro il coronavirus”. Lo riferisce sorridendo Vladimir Putin: Mosca taglia il traguardo in solitaria contro il nemico collettivo che ha fermato il mondo e contagiato 20 milioni di persone, quasi un milione solo nella Federazione del presidente.

Il vaccino russo è stato battezzato Sputnik V, come il satellite che regalò ai sovietici il primato della conquista dello Spazio, perché anche questa è stata una corsa, come quella agli armamenti durante la Guerra Fredda. Sputnik: come l’agenzia di notizie della propaganda del Cremlino che pompa giorno e notte, in oltre 40 lingue e a ogni fuso orario, la versione russa della storia a ogni latitudine. Vaccinazioni di massa annunciate entro ottobre per medici e maestri russi, nonostante la fase tre dei test non sia terminata.

Putin, padre di sua figlia e della nazione: “Il primo giorno ha avuto la febbre a 38, il secondo a 37, ora sta bene e ha molti anticorpi” ha detto il presidente del farmaco somministrato alla sua doch, sua figlia, ma senza specificare quale delle due lo abbia ricevuto. Né Maria né la minore Katerina sono state mai riconosciute ufficialmente dal presidente in pubblico, ma si tratta probabilmente della primogenita, cognome in codice “Vorontsova” usato per studiare nei collegi all’estero, nata a Leningrado nel 1985 e oggi dirigente della fondazione genetica Innopraktika, con un miliardo di dollari di finanziamenti dal governo paterno.

Dopo le numerose indiscrezioni dei media che suggerivano che le élite del Paese lo avessero già ricevuto, il vaccino, che non sarà obbligatorio, come conferma il ministro della Salute Mikhail Murashko, potrà essere somministrato a tutti da gennaio 2021 e garantisce immunità per due anni.

Testa d’ariete nella ricerca prima, nello sviluppo dell’anticorpo poi, è stato il controverso Istituto Gamaleya, istituzione moscovita nominata in onore del sovietico Nikolay, il microbiologo che, insieme ad altri, fece conquistare primati scientifici ai sovietici, che miravano, proprio come i russi di oggi, alla conquista della leadership mondiale del settore.

Se in Russia il Gamaleya riceve plausi in pompa magna, nel resto del mondo è circondato da dichiarazioni di stupore e perplessità per gli esperimenti condotti sui membri dell’esercito della Federazione. I soldati, ha assicurato più volte il ministero della Difesa russo, sono però tutti volontari. È stato lo stesso direttore del Gamaleya poche settimane fa, prima del presidente, a convincere dell’effettività del farmaco i cittadini delle Federazioni dalle poltrone dei talk show alla tv: Aleksanbdr Gintsberg ha testato il vaccino su se stesso prima di iniettarlo alle scimmie, in un’operazione scientifica e mediatica che il Cremlino può ormai dichiarare riuscita. Anche i laboratori segreti nelle lande remote della Siberia – che si occupavano di sviluppare armi biologiche in epoca sovietica – sono stati coinvolti nella ricerca.

“Ha superato tutti i test necessari, funziona e assicura immunità. Ripeto: ha superato i test” ha detto Putin al suo governo e alle telecamere per il resto del mondo che lo ha ascoltato e poi subito contestato. Se i volontari che si sono lasciati iniettare lo Sputnik hanno chinato la testa, non l’hanno fatto i tecnici dell’Oms, Organizzazione mondiale della Sanità. Per Tarik Jasarevic, portavoce dell’ente, il vaccino “non è stato sottoposto a rigorosi esami e valutazioni di tutti i dati richiesti” per ottenere approvazione. Secondo Kirill Dimitrev, direttore del Rdif, Russian Direct Investment Fund, Sputnik verrà venduto all’estero dopo accordi internazionali, le cui bozze già parlano di richieste da 500 milioni di dosi.

Nonostante la Aoki, associazione organizzazioni ricerche cliniche, abbia richiesto al ministero della Salute di Mosca di postporre la registrazione e la produzione di massa dello Sputnik per mancanza di dati certi, la risposta del dicastero, insieme a quella del Roszdravnadzor, agenzia statale addetta al controllo dei risultati degli esperimenti, è stata negativa: “Noi non vediamo ostacoli”.

La sconfitta del Covid-19, la vittoria nell’era della pandemia, come un allunaggio clinico. Un grazie agli scienziati “per questo importante passo, per il nostro Paese e in generale per il mondo intero” l’ha pronunciato ancora il presidente. Il vaccino, come tutto il resto, è propaganda, un’arte in cui i russi da sempre mantengono imbattuti il primato.

Il riformista-patacca: voti d’accoppiamento con carie e razzismo

L’orobico senatore Roberto Calderoli, nato odontoiatra, è un interessante agglomerato di antiche e nuovissime culture del manicomio Italia. Viene dall’insurrezione padana che marciò su Roma per farsi subito romana. Ha lo sguardo vivace dei provinciali esentasse che la fanno franca. Il temperamento fumatino dei secessionisti da bar in piazza, dopo il secondo spritz. La risata d’ampiezza celtica coordinata a un rossore che gli imporpora le gote ogni volta che racconta l’ultima trovata al suo pubblico: il tallero padano contro l’euro, i maiali contro l’Islam, le cannoniere contro gli sbarchi. Gli brillano gli occhi quando chiama gli omosessuali “culattoni” e gli immigrati “bingo bongo”, per poi godersi gli applausi con larghi ondeggiamenti della testa. Oppure quando maneggia, di liana in liana, i regolamenti del Senato e addirittura le riforme costituzionali che inaspettatamente la Corte e gli elettori gli bocciano per singolare dispetto.

A forza di pasticci legislativi, riforme patacca, finte leggi bruciate in un falò vero, e imbrogli d’architetture elettorali – la migliore l’ha chiamata “porcata” – si è fatto pavone laureato: “Conosco i regolamenti e le leggi meglio di chiunque altro”. E a cascarci non sono solo i militanti con l’elmo in testa sulla spianata di Pontida, ma anche i più furbi della furba sinistra, cresciuti tra i velluti e le virgole come Luciano Violante, Luigi Zanda, Angela Finocchiaro, che trovano tremendamente chic e assai spregiudicato considerarlo barbaro, ma arguto; un collega eccentrico: persino un razzista potabile, se diluito con il seltz del buon umore. Così che quando chiamò il ministro Cecile Kyenge “un orango”, se la cavò chiedendo scusa “era un pensiero riferito ai suoi lineamenti”, disse. E aggiunse: “Era una battuta per mettere simpatia”. Mentre non era una battuta, ma un intero ragionamento, quando l’altro giorno, in aula, ha detto che “siccome il maschio si accoppia con quatto o cinque donne” porta più voti delle femmine, “che di solito sono più fedeli”. Un arzigogolo di definitiva idiozia che ha annichilito tutti, tranne naturalmente Calderoli. Il quale una volta sola ammise al Corriere della Sera di conoscere il suo perimetro esistenziale: “Su di me non avrei scommesso un soldo”.

C’erano i molari guasti nel suo destino, cominciato nell’anno 1956, a Bergamo, tra i trapani e le carie di una famiglia benestante che fabbrica dentisti: lo sono stati il nonno, il padre, quattro zii e lo diventeranno tre fratelli su otto. Conclusa l’ordinaria giovinezza con la specializzazione in chirurgia maxillo-facciale, fu un incontro straordinario a cambiargli il futuro, quello con la mandibola volitiva di Umberto Bossi che predicava di cavalieri padani alla riscossa: “Taglieremo la gola al sistema da orecchio a orecchio”. Proposito che entusiasmò il giovane chirurgo, come una rivelazione professionale: “È Umberto l’uomo che mi cambiò la vita”. In un attimo passò da cavadenti a consigliere comunale. Dove si accese come tribuno acchiappa gonzi, sua parola d’ordine: “Bergamo nazione, tutto il resto meridione!”. Per poi entrare in Parlamento nel 1992 che fu anno mirabile perché iniziava la dissoluzione della vecchia Repubblica in quella nuova, con la folta schiera degli 80 leghisti appena eletti, tutti scesi dalle valli in pullman con le bandiere e lo stupore di trovarsi tra i bar pieni a mezzogiorno e le piazzette fiorite della primavera romana, dove la politica da sempre si rilassa al sole, mentre su al Nord si fabbricano tondini e smog.

Con lui c’erano l’indimenticato Roberto Castelli, ingegnere acustico, futuro ministro di Giustizia, Francesco Speroni, che da steward di Alitalia con cravatta texana, atterrerà al ministero delle Riforme istituzionali, il giovane Roberto Maroni, sassofonista di Varese e imminente ministro dell’Interno a sua insaputa. Tutti in fila spaesati dietro a Bossi che raccomandava: “Niente appartamenti in centro. Niente trattoria al Pantheon. Niente Tartarughino. So come è fatto questo diavolo di partitocrazia”. Naturalmente tutti si accomodarono nella nuova vita, cambiando al volo automobili, guardaroba e mogli. Intascando tangenti fin dal primo tesoriere, un tale Alessandro Patelli, rinominatosi “il pirla”, per giungere ai fasti diamantiferi di Belsito che pagava i figli, la villetta e le canottiere di Bossi, e arrivare ai 49 milioni di euro imboscati dalla patriottica Lega di Salvini.

L’apoteosi di Calderoli – che fonda un incongruo “Nerone fans Club” – arriva veloce, anche se con qualche inciampo: presidente del partito, vicepresidente del Senato, ministro delle Riforme. Peccato debba dimettersi, anno 2006, per avere mostrato in tv la maglietta con le vignette anti-islamiche, generando scontri e proteste in Libia, con 11 morti davanti al consolato italiano di Bengasi. Passato il lutto, risorge nella baita del Cadore, dove con tutti i crismi istituzionali, le salamelle e il vino portati da Giulio Tremonti redige in una settimana la nuova costituzione federalista, quella della Devolution, smaltita a stretto giro insieme con i vuoti di bottiglia.

Negli anni dell’ultima deriva berlusconiania, pretende il trasferimento di “almeno quattro ministeri al Nord”. E dopo la nascita del governo Monti, si intesta la presidenza del rinato Parlamento del Nord. Due trovate che dentro la stessa Lega giudicano “puttanate intercontinentali”. I colonnelli non gli fanno la guerra perché nel frattempo si è ammalato e ha combattuto la sola battaglia vinta in carriera. Così importante da averlo genuflesso almeno per un po’, convincendolo a sposarsi con Gianna Gancia, dinastia spumanti, stavolta davanti a un prete e non a un druido della foresta come accadde al primo matrimonio, anno 1996, in piena estasi pagana. Rinsavito, sembrava. Pronto per una nuova vita: allevare lupi e famiglia, forse aprire un ristorante in valle, “salumi, vino, formaggi, prezzi modici”, ascoltare Battisti all’alba, lacrimare davanti all’epopea di Braveheart. Piantarla con la pop politica dei lanciafiamme. Farsi dimenticare e dimenticarci. Peccato che invece no.

Gli amori di Pirlo, Agnelli & C. È la Juve, ma sembra Beautiful

E se dopo Beautiful, la soap opera che da più di trent’anni tiene avvinto mezzo mondo, fosse arrivata l’ora di convertirsi a B-Juveful, la telenovela made in Italy che da qualche tempo si sta dipanando in quel di Torino, località La Mandria, il parco naturale già residenza di Vittorio Emanuele II, con intrecci amorosi da far invidia a quelli di Ridge e Brooke e delle famiglie Forrester e Logan? La cosa certa è che l’aria che tira a La Mandria, dove risiede buona parte dei personaggi di B-Juveful, deve avere qualcosa di speciale. Un che di piccante che accende nuovi flirt, nuovi amori, nuove unioni. Tutti rigorosamente in salsa bianconera.

Il primo sassolino caduto a valle e diventato valanga, per tutti i sassolini che lo hanno seguito, porta le cifre illustri della prima lettera dell’alfabeto, A.A., e cioè Andrea Agnelli: il 44enne presidente della Juventus, sposato all’inglese Emma Winter (da cui ha avuto due figli, Baya e Giacomo), che nel 2015 ha lasciato di stucco la Real Casa abbandonando Emma per andare a vivere con Deniz Akalin, modella turca moglie, udite udite, di Francesco Calvo, che alla Juventus fungeva da direttore del marketing e lavorava fianco a fianco col presidente Agnelli (oggi Calvo è alla Roma). A dispetto dei malumori manifestati dal cugino John Elkann e dalla di lui moglie Lavinia Borromeo, molto legati a Emma Winter, Andrea e Deniz fanno ormai coppia fissa e dalla loro relazione sono nate Livia Selin e Vera Lin, 3 e 2 anni. Padrino di battesimo di Livia Selin è stato Gigi Buffon, portiere della Juventus dal lontano 2001 e grande amico di Andrea Agnelli. Buffon, che nel 2011 aveva sposato la showgirl Alena Seredova (da cui aveva avuto due figli: Louis Thomas e David Lee), al battesimo di Livia Selin si è presentato nelle nuove vesti di compagno di Ilaria D’Amico, la giornalista di Sky con cui vive dal 2014 e dalla quale ha avuto un figlio, Leopoldo Mattia. Alena Seredova, a sua volta, dopo la separazione da Buffon si è legata sentimentalmente ad Alessandro Nasi, top manager cugino di John e Lapo Elkann e molto vicino agli Agnelli, con cui ha fatto il suo terzo figlio, la bambina Vivienne nata il 19 maggio scorso.

Compagno di Buffon alla Juve dal 2011 al 2015 e oggi – benché più giovane – suo allenatore, anche Andrea Pirlo ha sbandato sentimentalmente nello stesso anno di Gigi, il 2014, mettendo fine al suo matrimonio con la compagna d’infanzia Patrizia Roversi da cui aveva avuto due figli, Niccolò e Angela. Pirlo ha conosciuto infatti la pr Valentina Baldini – guarda caso amica del cuore di Deniz Akalin – da cui ha poi avuto due gemelli nati a New York nel 2017, Tommaso e Leonardo. Valentina era la fidanzata storica di Riccardo Grande Stevens, rampollo di una illustre famiglia torinese molto legata agli Agnelli (il padre, l’avvocato Franzo Grande Stevens, fu presidente della Juventus dal 2003 al 2006 in piena era Calciopoli). Finita lì? Macché. A distanza di poco tempo il settimanale Chi pubblicava infatti le foto, e l’intervista, di Riccardo Grande Stevens (ex di Valentina Baldini) e Patrizia Roversi (ex moglie di Pirlo) sorpresi amichevolmente insieme in un locale torinese. E mentre la Roversi si affidava all’avvocato divorzista Annamaria Bernardini de Pace (che avrebbe ottenuto per la sua cliente un assegno mensile di 55mila euro), Riccardo Grande Stevens dichiarava papale papale che la fine del suo fidanzamento con Valentina non era avvenuta a causa di Pirlo, ma per una patologia di cui soffre la Baldini, lo shopping compulsivo, “che a volte ti obbliga ad allontanare da te persone anche dopo molti anni di relazione”. Non si sa se ironicamente o meno, Riccardo concludeva l’intervista facendo i suoi migliori auguri a Pirlo e Valentina.

Last but not least, un po’ come in Beautiful dove Brooke, che amava Ridge, si ritrovò un giorno ad amoreggiare col papà di Ridge, Eric, anche in “B-Juveful” l’aria frizzante de La Mandria ha scombussolato un tantino le cose in casa Nedved: dove Pavel, il vicepresidente della Juventus nonché amico e braccio destro di Andrea Agnelli, sposato a Ivana e con due figli maggiorenni chiamati con lo stesso nome dei genitori, Ivana e Pavel, pare aver perso la testa per la 23enne amazzone ceca Lucie Anovcinova, che ha gli stessi anni della figlia di Pavel, con la quale è stato sorpreso a Londra dai paparazzi dell’Est. Da quel giorno, sembra che il soprannome di “Furia ceca”, in casa Nedved, sia definitivamente passato alla moglie.

Covid, obbligo di test per chi rientra da Malta, Spagna e Grecia

“Occorre continuare a comportarsi con rispetto delle regole, non vorrei trovarmi nella condizione, causa veri e propri imbecilli o irresponsabili, di dover richiudere quello che abbiamo riaperto con tanti sacrifici dei cittadini”. Stefano Bonaccini, presidente dell’Emilia-Romagna, detta la linea sul Coronavirus: da oggi, in tutta la regione, ci sarà l’obbligo di fare il tampone per chi rientra dalle vacanze da Spagna, Grecia e Malta. Nella nuova ordinanza, firmata oggi, viene stabilito che ci si dovrà segnalare immediatamente ai dipartimenti di Sanità Pubblica delle rispettive Ausl di residenza per prenotare ed effettuare un tampone entro le 24 ore dal rientro. Se l’esito sarà negativo, non scatteranno provvedimenti di quarantena. Per quanto riguarda invece i rientri dalla Croazia, vale quanto stabilito dall’ordinanza relativa ai Paesi extra Schengen: l’obbligo di autodichiararsi, ai fini dell’autoisolamento di 14 giorni, al dipartimento di Sanità Pubblica competente che provvederà a organizzare l’esecuzione dei due tamponi previsti. Un quinto dei positivi al virus negli ultimi quaranta giorni in Emilia-Romagna sono ragazzi fra i 16 e i 25 anni: 300 sui 1.500 contrati dal 1° luglio. “La situazione è sotto controllo, ma bisogna assolutamente arginare nuovi casi – spiega l’assessore alla Salute Raffaele Donini – siamo arrivati a prevedere nuove disposizioni per chi rientra all’estero, e non solo per motivi di lavoro. È una questione di salute pubblica”. La Giunta di Bonaccini ha incontrato infatti, in questi giorni, anche i sindacati per completare il protocollo dedicato agli assistenti familiari. Per le badanti, spesso a contatto con le persone anziane, il primo tampone verrà tempestivamente effettuato nei luoghi dell’arrivo, o a domicilio: se positivo, la lavoratrice andrà subito condotta in una struttura alberghiera, senza che il costo ricada sulla famiglia dell’anziano seguito.

Dalla peste bubbonica al Coronavirus, rinascono le “buchette del vino” in Toscana

Inosservate dagli stessi fiorentini e per lo più ignote ai turisti, le “buchette” del vino si riprendono la rivincita grazie al Coronavirus. Durante la terribile peste bubbonica che colpì l’Europa a più riprese, tra i 1629 e il 1633, a Firenze coloro che vendevano il vino per evitare di contagiarsi entrando in contatto con gli acquirenti idearono una curiosa soluzione: il bicchiere poteva essere passato direttamente attraverso una finestrella ricavata nella muratura. Non a caso, il vano è alto e largo proprio come un fiasco, il tipico contenitore di vetro impagliato, panciuto e con il collo lungo. Negli ultimi mesi le buchette del vino hanno ripreso a essere utilizzate per ovviare alle norme di comportamento Covid-19 che impongono il distanziamento. Non più Chianti e Brunello ma spritz e mojito come sottolineano i media stranieri già innamorati di questa tradizione a cui hanno dedicato diversi servizi: persino The New York Post ha elogiato le finestre alcoliche toscane. Ma chi assicurava che il fiasco dell’acquirente in strada fosse davvero riempito con una bevanda all’altezza delle aspettative? Lo stemma sulla facciata identificava subito, e senza dubbio, la famiglia produttrice permettendo così di scegliere in base ai propri gusti A differenza dei nasoni romani “queste finestrelle in pietra, troppo piccole e troppo basse per potersi affacciare e ormai in gran parte accecate, il più delle volte passano inosservate ai fiorentini come ai turisti, o vengono catalogate come tabernacoli. Sembra incredibile perché sono più di cento e per la maggior parte si trovano in bella vista sui palazzi rinascimentali vanto della città, nelle vie percorse ogni giorno da orde di turisti. Ma come ha insegnato Edgar Allan Poe, sono proprio le cose in evidenza che sfuggono ai più” spiegano Diletta Corsini e Matteo Faglia, dell’associazione omonima Buchette del vino. In quest’estate piena di regole e norme per la nostra sicurezza, la Toscana sta riscoprendo le proprie finestrelle, fino a pochi mesi fa murate e inagibili e oggi meta indiscussa dell’aperitivo e non solo. C’è chi la sta usando per vendere i propri libri rilegati a mano e chi ci passa una vaschetta di gelato o un bel cappuccino.

“Don Cesar”, il boss della mafia nigeriana ministro della Cultura in patria a tempo perso

“Avete oggi la possibilità di eleggere il vostro nuovo Don. La famiglia è registrata in tutto il mondo. Sono un politico in Nigeria e vi posso dire che siamo crescendo. Con la grazia di Dio avremo il potere tra tre anni”. Era il 21 settembre 2013 e al Boscolo tower hotel di Bologna – dress code elegante – Osaze Osemwegie, detto Cesar, parlava a un platea di trenta affiliati della mafia nigeriana (cult dei Maphite) che vivono in Italia. Tre anni dopo sarebbe diventato ministro della Cultura dello Stato dell’Edo, nel Sud della Nigeria. Quindici giorni fa Osemwegie – che secondo il pm di Torino, Stefano Castellani avrebbe il compito di “promuovere, organizzare e dirigere l’associazione mafiosa” – è stato estradato in Italia, dopo cinque mesi di trattativa. Era stato arrestato a febbraio, tra la Germania e l’Olanda. Non è stato facile convincere la Corte di Amsterdam, che ha letto l’ultimo rapporto di Antigone sulle condizioni dei carcerati italiani, a consegnare il politico all’Italia. L’Olanda ha chiesto che il presunto boss non venisse detenuto in alcune prigioni segnalate da Antigone come lesive dei diritti umani. Alla fine, l’accordo è stato raggiunto e il “boss” è stato trasferito a Rebibbia (che non compare nella lista nera). Osemwegie è l’ultimo dei 44 nigeriani arrestati di una maxi indagine coordinata dal pm Castellani e svolta dalla Squadra anti tratta della polizia municipale di Torino, conclusa nel 2016. Cesar sarebbe un “Vice don internazionale”, carica apicale del cult dei Maphite. Risponde del reato di 416bis. Alla riunione di Bologna il politico, imprenditore a Londra, diceva: “Costruiamo un’organizzazione legale. Siamo membri di Maphite, ma se usciamo fuori da questa porta e qualcuno mi chiama così, io negherò”. Figlio di un capo della polizia, cittadino inglese con beni di lusso a Londra, Cesar ha accumulato appoggi in tutto il mondo. Alcuni giorni fa è stato rinviato a giudizio: verrà processato a Torino. Qui la procura è stata la prima in Italia a ottenere una sentenza per 416 bis nei confronti della mafia nigeriana.

I sogni di Penelope, la legge elettorale e gli allarmi del Pd

Grazie a quel meraviglioso errore della mente che risponde al nome di déjà vu, abbiamo avuto in questi giorni un’esperienza che vale la pena di condividere con i lettori. Il merito va ascritto al segretario del Pd Nicola Zingaretti, il quale ci ha messi in guardia con affannata apprensione istituzionale: “Votare a favore del referendum sul taglio ai parlamentari senza una nuova legge elettorale è pericoloso”. Rivolgendosi agli alleati, il segretario ha invitato a fare di tutto “affinché, a partire dal testo condiviso dalla maggioranza, si arrivi entro il 20 settembre a un pronunciamento di almeno un ramo del Parlamento”. Data impossibile, ma non scelta a caso: è quella fissata (anche) per il referendum sulla riduzione del numero dei parlamentari. Allarmati dal pericolo democratico e aiutati dalla canicola estiva, ci siamo lasciati andare a un sogno così reale che è ci parso quasi un ricordo, ambientato circa quattro anni fa quando si votò la riforma del Senatino à la Renzi, approvata in combinato disposto con la legge elettorale chiamata, con maggior creanza rispetto alla precedente dal nome suino, Italicum. Nel sogno il Pd di governo imponeva alle Camere (a suon di scorciatoie parlamentari, ghigliottine e canguri non proprio democratici) una legge elettorale dotata di capilista bloccati, pluricandidature e un premio di maggioranza abnorme e senza soglia dopo il ballottaggio. Tutti i vizi del Porcellum, già dichiarato incostituzionale dalla Consulta. Anche quello onirico è un mondo coerente e dunque nel nostro sogno la Corte costituzionale dichiarava illegittimo in più punti anche l’Italicum, addirittura prima che potesse essere utilizzato. Poi, siccome ogni tanto bisogna andare a votare per forza, era stato messo insieme un testo che accontentasse tutti i partiti nella bizzarra convinzione che la legge elettorale sia a disposizione dei partiti e non dei cittadini.

I sogni sono inesplicabili – avverte Penolepe nell’Odissea – parlano in modo ambiguo e non tutto per i mortali si avvera. “Due sono le porte dei sogni: una è di corno, l’altra d’avorio. I sogni che passano attraverso l’avorio ingannano, portano parole vane; quelli che vengono fuori attraverso il liscio corno si avverano, quando qualcuno dei mortali li vede”. Stavolta crediamo di essere passati attraverso il corno. E non perché il tema della legge elettorale non sia fondamentale nell’equilibrio costituzionale (lo abbiamo sempre sostenuto). Ci stupisce l’improvvisa ansia hic et nunc dei democratici sul tema: è pur vero che la questione del sistema di voto non si può depurare dagli opportunismi di parte, ma c’è un limite a tutto, perfino all’incoerenza e alla smemoratezza (chi non più tardi di quattro anni fa ha tentato di scassinare la Costituzione è credibile oggi nella sua difesa strenua? Chi ha imposto una legge elettorale lesiva del rapporto di rappresentanza può esser creduto quando parla di pericoli democratici?). In una democrazia parlamentare la legge elettorale non serve a scegliere un governo ma è lo strumento con cui i cittadini eleggono i loro rappresentanti. Ha rapporti con l’architettura istituzionale? Eccome, anche se i costituenti scelsero di non inserirla nella Carta a differenza di altri Paesi come la Spagna, per non vincolare il legislatore futuro. L’assemblea approvò però l’ordine del giorno Mortati che “patrocinava” il sistema proporzionale. Affermazione che, a nostro parere, vale ancor di più con un Parlamento dimagrito di un terzo. Senza dire che il proporzionale è il sistema più onesto: riflette perfettamente il principio di rappresentanza elettori-eletti. Dunque è più che giusto porre il tema del sistema di voto in relazione al nuovo assetto delle Camere, ma per esser credibili bisogna farlo con le migliori intenzioni. Altrimenti saremo sul ciglio dell’ennesima porta d’avorio, dietro cui ci sono solo parole vane.

 

Bonus Inps. La sindrome di Stoccolma di chi difende i farabutti dei 600 euro

Breve premessa: se ti metti in fila alla Caritas per avere un filone di pane e a casa hai il frigo pieno, la dispensa che straborda, lo champagne in fresco e il filetto alla Woronoff che ti aspetta, sei un pezzo di merda. Detto questo, ecco la vostra rubrichina, questa volta (mi scuso) per fatto personale.

Il 17 aprile scorso, quando tutti stavamo chiusi in casa come l’abate Faria nella sua cella, mi scrisse un mio amico bancario. Riporto le sue parole testualmente: “Sono sconcertato. In questi giorni sto vedendo arrivare sui conti dei miei clienti il bonifico da 600 euro che lo Stato riconosce ai professionisti in difficoltà per il Covid. Oltre la metà dei beneficiari ha un saldo di conto corrente e un deposito titoli valorizzati in un minimo di 50mila euro fino a punte da 3-400mila euro. Colleghi di altre filiali mi segnalano percettori con saldi oltre gli 800mila euro”.

Anch’io sono sconcertato (eufemismo). Riporto le sue parole, su Twitter, ovviamente coprendo la fonte, che potrebbe passare dei guai. Apriti cielo: le reazioni sono di vari tipi. Uno: ho inventato tutto, sono un mitomane che dice “un mio amico”, che è come dire “mio cuggino”. Due: come si permette il mio amico di guardare i conti correnti dei clienti? (ndr: è il suo mestiere). Tre: la legge non mette limiti, quindi hanno ragione loro. Se la legge ti permette di ammazzare a sassate un gattino fai bene a farlo. Quattro: sono il solito comunista-nostalgico (di cosa? Boh) che odia i ricchi. Cinque, sono invidioso di quelli che hanno tanti soldi sul conto, perché io sono un pezzente e loro invece ce l’hanno fatta, nella vita.

La cosa va avanti per qualche giorno. Mi chiama un bravo inviato di Piazzapulita, il programma di Formigli: posso metterlo in contatto con il mio amico? Rispondo di sì, ma raccomando il mio amico di chiedere garanzie di anonimato, perché anche se la legge non vieta di far licenziare un tuo amico, esiste pur sempre un’etica personale.

Il 24 aprile va in onda l’intervista al mio amico bancario, non ripreso in faccia e con la voce contraffatta, cosa che mi fa sempre ridere perché mi ricorda i genitori di Woody Allen in Prendi i soldi e scappa con gli occhiali, il naso finto e i baffi. Il mio amico – travisato come un bandito pur essendo una bravissima persona – non solo ripete le cose che ha detto a me, ma mostra qualche estratto conto (con i nomi rigorosamente cancellati, ovvio) dove si può leggere: saldo 600.000 euro, più 600 di bonus Inps. Il giorno dopo, silenzio: nessuno dice che era il cuggino di Formigli, o che l’inviato di Piazzapulita è un pezzente invidioso di chi ha un conto corrente grasso come un maiale.

Ed eccoci a noi: non siamo più chiusi in casa come Formigoni ai domiciliari, e la cosa si ripresenta paro paro con i cinque deputati – maggioranza leghista – (13.000 euro al mese) che hanno chiesto (e 3 ottenuto) il bonus Inps. Leggo le reazioni di oggi e quelle di ieri: praticamente identiche, ma con qualche variante: è stato il commercialista, no, la moglie, no, il socio, no, maestra, il gatto mi ha mangiato i compiti. Tutto qui. Aggiungo solo due cosette. La prima: quelli che si indignano con chi denuncia invece che coi i farabutti denunciati non sono miliardari, ma quasi sempre sfigati, però con la sindrome di Stoccolma. La seconda: tra gli insulti più ricorrenti che ricevetti ai tempi ce n’era uno divertente: giacobino. Interessante: nella bizzarra estate del 2020 c’è ancora chi odia i giacobini e fa il tifo per Luigi XVI, forse gli piacciono le brioches.

 

Taglio dei parlamentari, la sinistra sostenga il Sì

La riduzione del numero dei parlamentari, su cui si voterà al referendum del 21 settembre, mette in subbuglio persone e culture di sinistra. La difesa del Parlamento, della democrazia rappresentativa, della logica proporzionale della rappresentanza sono ingredienti essenziali di questa cultura che spingono molti a dichiararsi per il No. Da un punto di vista saldamente di sinistra – per quanto il termine sia stato inquinato e devastato – io penso di votare Sì.

Bisogna innanzitutto sgombrare il campo dal cumulo di ipocrisie e menzogne: la legge costituzionale di riduzione dei parlamentari è stata già approvata dalle Camere, in prima lettura dalla maggioranza Lega-M5S e in seconda lettura da quella Pd-M5S-Leu-Iv (accordo ora rinnegato da Iv). Con 553 voti favorevoli e 14 contrari è stata approvata l’8 ottobre alla Camera praticamente da tutti, anche da Fdi e Forza Italia. Se si ricorre al referendum, quindi, è solo a causa di una manovra di Palazzo che ha raccolto le firme di 71 senatori – e non tra i cittadini – tra cui, decisivi, quelli della Lega e di un paio di dissidenti M5S.

Inoltre, il progetto fa parte di un disegno complessivo – promosso dall’allora ministro dei Rapporti con il Parlamento, Riccardo Fraccaro – che prevedeva anche l’istituzione del referendum propositivo tramite la cosiddetta “legge di iniziativa popolare rafforzata”, proposta approvata alla Camera e che giace al momento dimenticata al Senato. Il pacchetto di riforme quindi risponde a un’idea di ristrutturazione della democrazia rappresentativa con sperimentazioni, parziali, di democrazia diretta in una visione organica. Il punto che viene messo a tema da questa legge, quindi, è se la democrazia rappresentativa possa prevedere una sua ristrutturazione, anche per fare i conti con il distacco progressivo che si è prodotto in questi decenni tra il “palazzo” e il “popolo” o se invece debba rimanere uguale a se stessa e quindi logorarsi a poco a poco.

La sinistra italiana ha sempre ipotizzato la riforma interna – ricordiamo la proposta di portare l’Assemblea dei deputati a 400 membri – ma non ha mai prodotto nulla se non leggi elettorali indecenti come l’attuale che porta il nome di Ettore Rosato di Iv. E tra le ipocrisie da disvelare c’è ovviamente quella di chi fa finta di non ricordare la proposta di Matteo Renzi, che appena quattro anni fa voleva addirittura abolire il Senato e che, convinto di poter vincere il plebiscito inscenato, si ruppe la testa sul referendum.

Ora la sinistra italiana dovrebbe decidere se intestarsi ancora una volta una battaglia di pura difesa dell’esistente, come appare la campagna per il No, oppure premere con le proprie idee (ma quali?) per una riforma complessiva. Sentiamo già l’obiezione: non è dalla riduzione del numero dei parlamentari che si può cominciare. Ma allora da dove? La riduzione dei deputati e dei senatori, ad esempio, accompagnata da una legge proporzionale il più pura possibile, sarebbe una riforma positiva. Perché, invece, è stato stipulato l’accordo di governo vincolando il Sì alla riforma in cambio di una legge elettorale con sbarramento al 5 per cento? E perché Leu e Iv si accorgono solo ora che quel limite è insuperabile ? Dormivano?

La democrazia italiana è in una fase di coma profondo da lunghissimo tempo e la nascita del Movimento 5 Stelle ha rappresentato l’epifenomeno. Per chi non l’ha mai votato, come chi scrive, ma che comunque cerca di analizzare i fenomeni politici, è insopportabile osservare la campagna sguaiata contro il presunto populismo di chi si è sbracciato nel far notare che la politica rappresentativa non funzionava più e aveva bisogno di correttivi. Quei correttivi non disegnano una prospettiva “anti-sistema” o , peggio, “anti-parlamentare”, ma provano a dare una riorganizzata a un sistema comatoso. Semmai, una sinistra “radicale”, come viene ormai definita la sinistra più estrema, dovrebbe rivendicare forme di democrazia diretta più spinta, di strutture concrete di partecipazione popolare e di rapporto organico tra i deputati e la base popolare. Nella Francia rivoluzionaria di fine 700 si dibatteva aspramente di “assemblee primarie” in grado di controllare gli eletti e di revocabilità del mandato. Queste sarebbero riforme radicali.

Quello di cui si discute ora è un semplice aggiustamento, una autoriforma che provi a ridare credibilità a un Parlamento che ha fatto di tutto per perderla. Non è una rivoluzione e nemmeno una svolta autoritaria. È un passo che acquista senso insieme alle altre riforme, già approvate o da approvare sulla base del patto di maggioranza: legge proporzionale, elettorato attivo e passivo uguale per Camera e Senato, delegati regionali, elezione del Csm. Si tratta di attenersi a quel patto se si vuole restare seri.

 

Cassa integrazione I “furbetti” valgono miliardi, altro che Rdc…

Cortese direttore, dopo che la dottoressa Meloni ha parlato dei milioni di euro “non dovuti” del Reddito di cittadinanza da parte di alcuni, il Fatto ha messo in evidenza quanto sia stato trattenuto da alcune aziende per cassa integrazione non fatta. Sono emersi prima 7,2 miliardi di euro, poi 2,7. L’altro giorno Stefano Fassina, che stimo molto, riparla di 7-8 miliardi. Anche se è impossibile un conto preciso, si può dare un valore abbastanza vicino per chiarire di cosa stiamo parlando? Può il dottor Tridico fare una valutazione per essere certi di cosa possiamo dire a eventuali “venditori di fumo”?

Massimo Rossi

 

Gentile Rossi, purtroppo no, al momento si possono fare solo stime “spannometriche”, che comunque è utile tenere a mente. Una breve premessa. “Il Fatto” ha parlato – sulla scorta di due studi: uno dell’Ufficio parlamentare di bilancio e uno di Inps e Bankitalia – di aziende che hanno attivato la cassa integrazione non avendo avuto cali di fatturato, dunque senza averne bisogno. Per come è stata strutturata la Cig “Covid-19” questo di per sé non è illegittimo: eticamente spiacevole, moralmente riprovevole, ma non illegale (certo, non avere cali di fatturato mentre si hanno i dipendenti in cassa integrazione ha come spiegazione più plausibile che si sia continuato a lavorare in nero…). Detto questo, veniamo al vil denaro: quanti soldi? I due studi parlano di una percentuale di “furbetti” di circa il 30 per cento: i 2,7 miliardi che lei cita sono una stima di metà luglio dell’Inps sulla base della Cig effettivamente pagata da febbraio all’inizio di maggio (per la precisione il 27 per cento di 10,09 miliardi). Fassina da dove ha preso i suoi “7-8 miliardi”? È possibile immaginare si sia basato sul totale della Cassa “Covid” che verrà usata nel 2020: in sostanza, il 30 per cento di “furbetti” calcolato sui 20-25 miliardi di euro di spesa totale ipotizzabili a oggi. Un immane trasferimento di ricchezza dalla fiscalità generale a imprese che non ne hanno bisogno su cui ovviamente l’Inps o altri produrranno in futuro numeri via via più precisi. Resta però – tornando all’inizio della sua lettera – che chiunque ritenga che le eventuali truffe sul Reddito di cittadinanza (“i milioni non dovuti”) siano un fatto economico di rilievo è un cialtrone.

Marco Palombi