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“Licenziamo” chi è eletto ma poi cambia partito

Sono lettrice del Fatto dal primo numero. Per fortuna ci siete voi! Sono per il taglio dei parlamentari a prescindere e a differenza del lettore che ne vorrebbe sapere di più sul Sì, io rispondo chiedendogli cosa ne pensa del rappresentante dell’elettore in Parlamento quando cambia casacca o fonda un altro partito diverso da quello in cui è stato eletto? Anche se solo un centesimo va risparmiato e parecchi li manderei a casa a lavorare per provare come si vive con i miseri salari e la cassa integrazione con l’aggiunta della differenza di stipendio in nero!

Giovanna Fedeli

 

Sgarbi non può insultare anziché dialogare

Che Sgarbi sia stato sempre fuori dalle righe è cosa risaputa, ma dando più volte in una trasmissione televisiva del coglione al presidente della Camera mi sembra abbia superato ogni limite. Mi sono sentito io in imbarazzo. Chi è Sgarbi per permettersi di fare e dire quel che vuole? I due conduttori non hanno proferito parola, come se niente fosse. Da quando c’è la pandemia ho tolto dalla mia lista giornali, giornalisti, attori e cantanti. Mi rimane ancora Il Fatto Quotidiano.

Salvatore Lolicato

 

A Lesbo, gravi condizioni per migliaia di migranti

Caro direttore, sull’emergenza migranti, l’Italia governativa sta esortando insistentemente Bruxelles. Piero Fassino (presidente della Commissione Esteri della Camera) ha invitato l’Europa a intervenire: “Servono corridoi umanitari per svuotare i lager libici”. Speriamo, altresì, che le istituzioni internazionali si adoperino su un’altra questione gravissima. Sull’isola di Lesbo, il campo profughi di Moria ospita 20mila persone ammassate inverosimilmente, quando la capienza massima sarebbe 3mila. È vero, siamo alla soglia d’Europa, ma pare che si tratti di un angolo d’inferno, dove uomini, donne e bambini vivono miseramente in tende e baracche costruite con materiali di fortuna. Le condizioni igieniche sono molto precarie, con acqua potabile e bagni che scarseggiano. A Moria sopravvivono a stento centinaia di afghani, pachistani, iracheni, iraniani e palestinesi.

Marcello Buttazzo

 

DIRITTO DI REPLICA

In merito all’articolo dal titolo “Ministri sparsi. Il partito Gubitosi e quello Starace: così finisce male”, apparso a firma Carlo Di Foggia sul Fatto del 10 agosto si precisa che: 1) Pirelli non acquistò Telecom a debito, ma con mezzi propri e debito assunto da Olimpia. Il capitale proprio iniziale dei soci ammontava a circa 5,2 miliardi di euro; 2) Olimpia, per rafforzare la struttura finanziaria di Olivetti, promosse subito un aumento di capitale e un’emissione obbligazionaria in Olivetti, contribuendo con risorse proprie per circa 1 miliardo di euro. In totale l’aumento di capitale fu di circa 4 miliardi di euro, metà in azioni metà in convertibili; 3) Il debito, sotto la gestione Pirelli, scese dai circa 43 miliardi di euro (dato al 30 settembre 2001) ai 37,3 miliardi a fine dicembre 2006; 4) Nel corso della gestione di Marco Tronchetti Provera, inoltre, Telecom Italia fu l’operatore che dedicò agli investimenti una quota maggiore del fatturato fra gli ex monopolisti europei (pari a oltre il 17%) e i collegamenti in banda larga passarono dalle 390mila linee del 2001 ai 6,7 milioni di linee di fine 2006. Tutto questo fu riconosciuto anche dall’Agcom nella sua relazione annuale del 2006. Quanto allo scorporo forzoso della rete che – contro ogni logica industriale – avrebbe trasformato anche allora Telecom in un enorme rivenditore di servizi tipo Tiscali, ma con 30mila dipendenti, si arrivò a uno scontro con la politica che costrinse l’allora vertice dell’azienda a lasciare la guida della società.

Ufficio Stampa Pirelli

 

Ringrazio il dott. Tronchetti Provera per la sua cortese rettifica, che però non rettifica nulla. Pirelli e compagnia decisero di scalare Telecom passando – tramite Olimpia – per la Olivetti. In questo modo, con 5,3 miliardi, si presero un’azienda che quotava in Borsa quasi 70 miliardi. Attraverso il sistema di scatole cinesi, Tronchetti Provera ha guidato Telecom avendo personalmente meno dell’1 per cento del capitale, mentre alla Pirelli l’avventura è costata cara. Nel 2001, il debito di Tim non era di 43 miliardi di euro, a quella cifra si arriva sommando anche i debiti della controllante Olivetti, che nel 2003 la gestione Pirelli decise di “fondere” con Telecom scaricandoglieli addosso. La dissanguante Opa su Tim del 2005 lo portò poi a 46 miliardi.

A fine gestione Pirelli, si contavano 13 miliardi di debiti netti in più. Sugli investimenti, vale la pena ricordare che un anno prima dell’arrivo di Tronchetti Provera, ammontavano al 25 per cento del fatturato.

Carlo Di Foggia

 

In riferimento a quanto scritto l’8 agosto a pagina 14 del Fatto Quotidiano a firma di Gianluca Roselli nell’ articolo “Allarme azzurro, Berlusconi teme Calenda”, l’autore mi fa l’onore di una citazione, come “new entry” e presunto “ghostwriter” di Silvio Berlusconi. Gliene sarei grato, se la cosa rispondesse al vero. Purtroppo non è così. Sorvolo sulla “new entry” (sono in Parlamento, con intervalli, dal 2001, ma questo non è così memorabile, non saperlo è del tutto legittimo) ma devo darle una notizia importante. Il Presidente Berlusconi non ha unghostwriter, per la semplice ragione che non ne ha bisogno. È solito preparare personalmente (spesso nelle ore notturne, avendo le giornate piuttosto impegnate) i suoi interventi e le sue interviste.

Andrea Orsini

La Raggi si ricandida a Sindaco di Roma: è solo un “Vanity affair”?

La candidatura a sindaco di Roma della rapper Virginia Raggi, annunciata qualche giorno fa dopo incontri con Di Maio e Di Battista, e preceduta da un sonetto in vernacolo sul blog di Grillo (Sarò teppista, sì, ma je so’ amico/ e cerco d’appoggiaje l’elezzione/ perfino ne li posti che nun dico;/ c’è infatti Nena, quella co’ li nei,/ ch’ogni notte se pianta sur cantone/ e dice a tutti de votà pe’ lei) che è apparso come un bizzarro endorsement a un Raggi bis, seguito all’istante dall’apertura del capo politico del M5S Krimi a una riflessione ampia sulla cagata del limite del doppio mandato; la candidatura della Raggi, dicevo, festeggiata con l’incendio di due bus Atac, è stata inizialmente considerata l’ennesima trovata promozionale di una celebrità nota per gli annunci provocatori, ma in realtà è un progetto con una certa concretezza. Di candidature insolite o improbabili ce ne sono a ogni votazione italiana, ma interpretare quella della Raggi è più complicato del solito, principalmente per via dei noti problemi di gestione della capitale (trasporti pubblici, rifiuti, traffico, buche, smog, stadio). “La sua candidatura non è seria, ma non è nemmeno uno scherzo”, ha scritto Bruno Sbrana su Libero. “Ha aspetti del vanity project (cioè un progetto che ha principalmente lo scopo di appagare l’ego di chi lo porta avanti) e di un’operazione di sabotaggio da parte dei grillini, ma anche queste sono definizioni incomplete. È invece una creazione del tutto originale, finora sconosciuta alla scienza”. Naturalmente la Raggi non ha nessuna possibilità di vittoria, ma il suo nome sarà comunque sulle schede elettorali di milioni di persone. Ci sono elementi che suggeriscono che la sua candidatura non sia solo l’ossessione personale di una donna che da anni passa alle cronache principalmente per dichiarazioni sconclusionate e tracolli nervosi in pubblico. I giornali italiani, infatti, hanno scoperto che per la campagna elettorale della Raggi lavoreranno alcuni noti personaggi del MoVimento. La persona che si occuperà delle pratiche necessarie è Duccio Favagrossa, penalista presso lo studio legale Tirapelle, Bellomunno & Battilocchio, che ha lavorato per la Casaleggio Associati. Prima del voto elettorale, del resto, la candidatura della Raggi dovrà essere approvata da Rousseau, la scatoletta di compensato con due lucine, una verde e una rossa, creata da Davide Casaleggio con un seghetto da traforo durante l’ora di educazione tecnica quando faceva le medie. (Un manufatto che lascia ammirati, se ci si ricorda con quanta facilità la lama del seghetto si rompesse durante il procedimento. Per fare Rousseau, Davide ne avrà consumate come minimo otto). In generale, nessuno pensa che la Raggi possa avere qualche chance, vista l’impopolarità, ma c’è chi pensa che possa ottenere lo stesso un po’ di seguito, specialmente a Ostia, dove ha riqualificato un ampio tratto di arenile, rendendolo spiaggia libera attrezzata dopo anni di incuria e degrado. Il Giornale ha scritto che la candidatura della Raggi “sembra sempre di più un’operazione coordinata dai grillini per sottrarre voti al candidato del Pd, Massimo Carminati.”

Giochi da spiaggia. Indovinate quale dei due titoli informa davvero il lettore:

Cairo, la spinta del digitale. “Quinto media player in Italia” (Corriere della Sera, cioè Cairo, 5 agosto 2020)

Cairo, nel semestre rosso da 12,7 mln (Italia Oggi, 5 agosto 2020)

 

Meloni e gli altri che volevano 1000 euro a tutti

Achi fa zapping tv, per capire qualcosa sull’horror dei parlamentari accattoni, non è facile capirci qualcosa tra le urla incessanti di Vittorio Sgarbi, o sui chissà che c’è sotto del fratello d’Italia Guido Crosetto (“troppa efficienza dell’Inps nell’incrociare i dati”). Fin quando il direttore del Foglio, Claudio Cerasa riesce a dire qualcosa di sensato su carenza di controlli e bonus per gli autonomi. Regole, ricorda e ricordiamo, scritte nell’emergenza assoluta Covid quando tutti chiedevano di fare presto e si cercò di velocizzare i tempi di istruttorie ed erogazioni per evitare che anche quel modesto sostegno a più di quattro milioni di persone in enorme difficoltà s’impantanasse nelle solite pastoie burocratiche, e buonanotte ai suonatori. In quella fase gli enti erogatori avvertirono che i controlli successivi ci sarebbero stati, e difatti.

Il senno del poi è un giochino inutile e truffaldino perché in quella situazione senza precedenti il governo cercava di intervenire un po’ a tentoni. Sotto la costante pressione del “fate presto”, che in quei mesi sembrava (ed era) l’unica cosa giusta da fare. E con l’opposizione di centrodestra sulle barricate. Erano i giorni dell’helicopter money

(distribuzione di denaro a pioggia), tanto che il 28 marzo, Giorgia Meloni rilanciava su Facebook la proposta di Gianluigi Paragone dei “mille euro per ogni italiano”. Scriveva: “Le famiglie che hanno perso la propria fonte di reddito non possono aspettare i tempi della burocrazia per ricevere un aiuto dallo Stato. Bisogna dare subito mille euro con un semplice click a chiunque ne faccia richiesta (meglio online) direttamente alla propria banca”. La leader di FdI così concludeva: “Si stabilisce in modo semplice chi ne ha diritto come sostegno, chi come prestito, chi non ne ha diritto, ma le verifiche si fanno dopo, finita l’emergenza. Intanto zero burocrazia e zero perdite di tempo. 1000 euro a chi dichiara di averne bisogno. SUBITO!”. Sempre la Meloni, ieri, in una interessante intervista al Messaggero, a proposito di ciò che serve alle imprese dice “no a misure che durano pochi mesi mentre servono infrastrutture materiali e digitali”. Giusto. Ma quando sottolinea che “gli 80 miliardi dei decreti “Cura Italia” e “Rilancio” sono stati “dilapidati in mille rivoli con una logica assistenziale”, ci perdoni ma vorremmo capire meglio. Per esempio: se i mille euro a testa che cinque mesi fa lei chiedeva di distribuire, fossero stati effettivamente distribuiti si sarebbe trattato o no di “logica assistenziale”? E la regola sulle “verifiche che si fanno dopo”, vale anche per i 600 euro del bonus arraffato dai cinque o tre lazzaroni?

Le 2 Camere non pesano di meno con meno eletti

È da tempo che mi batto per una riduzione drastica del numero dei parlamentari, prima ancora che il M5S ne facesse una bandiera identitaria. Come ha di recente affermato Stefano Bonaccini, si tratta di un obiettivo della sinistra consolidato nel tempo. Basti ricordare le parole di Nilde Iotti, allora presidente della Camera. Oggi il tema è di bruciante attualità, in quanto la vittoria dei Sì al referendum, per quanto riguarda l’Italia, offre l’occasione per invertire una tendenza presente in tutto l’Occidente: quella d’indebolire la funzione classica dei Parlamenti, di contrappeso e controllo democratico degli esecutivi. Il potere effettivo del Parlamento non dipende da una benevola concessione dell’esecutivo, bensì dalla rappresentatività e dalla funzionalità sua propria. Sfido chiunque dotato di esperienza parlamentare a negare che essa sia inversamente proporzionale al numero dei suoi componenti. È impressa nella mia memoria, lontana ma recente, la visione di centinaia di parlamentari incapaci di impadronirsi dell’agenda dei propri lavori; di respingere decreti omnibus o “Milleproroghe” che impediscono di esercitare la loro funzione sacrosanta.

Tuttavia, i parlamentari, anche se non pletorici, devono essere rappresentativi del popolo che li elegge: non dei “nominati”, bensì espressione radicata di un territorio, piccolo o grande, che li elegge direttamente, con metodo proporzionale o maggioritario. Per questo, il Sì al taglio del numero dei parlamentari costituisce un primo passo necessario, assolutamente positivo, ma non sufficiente, a invertire l’involuzione in atto.

Di recente c’è stato un risveglio, trasversale, della corporazione dei politici di professione. Li muove anche – non voglio dire, soltanto – il pericolo della riduzione di circa un terzo di posti di lavoro ben retribuiti e accompagnati da numerosi privilegi che, evidentemente, hanno un peso superiore del voto espresso dai medesimi, quando fu approvato l’emendamento costituzionale in Parlamento. La Lega di Salvini addirittura si è adoperata per consentire di annullare la decisione attraverso l’imminente referendum confermativo. Anche Goffredo Bettini, uno dei più coerenti sostenitori dell’attuale governo, ha affermato che il taglio della rappresentanza parlamentare, senza una nuova legge elettorale, potrebbe costituire un pericolo per la democrazia. L’uscita di Bettini è comprensibile se fosse un promemoria, rivolto al M5S, di una modifica concordata del vigente Rosatellum – peraltro imposta a suon di voti di fiducia dal governo Gentiloni – in cambio del quale il Pd avrebbe rovesciato il suo precedente voto contrario al taglio. Sarebbe più credibile se specificasse che la legge elettorale auspicata non debba più consentire la permanenza di “nominati”, anche attraverso premi di maggioranza, che consentono ai partiti di sfornare parlamentari non scelti direttamente dai cittadini elettori. E la vittoria del Sì costituisce la migliore garanzia del varo di una nuova legge: costringerebbe il governo a metter mano a quella vigente e il Parlamento ad assumersi le sue responsabilità. Oggi la confusione è grande, se un fin troppo accorto politico quale Gianni Cuperlo motiva il proprio No allo scopo di difendere la Costituzione. Ricordo ancora un nostro casuale incontro: si accingeva a concludere la campagna elettorale a favore della riforma Renzi. In difesa della Costituzione?

D’altra parte, il M5S, a cui va il merito di avere individuato un punctum dolens della corporazione partitica, purtroppo ha finora fatto di tutto per segare il ramo su cui è seduto, per incapacità totale di trovare argomenti di merito per sostenere la riforma. Non basta motivarla con un pur non disprezzabile risparmio, antidoto al populismo reazionario, in quanto offre ai politici un’occasione per dimostrare che una necessaria lotta agli sprechi deve cominciare da loro stessi. Al M5S sfugge ogni ragionamento sulla funzionalità e conseguente dignità e potere effettivo del Parlamento.

Specularmente, la campagna a favore del No si riduce a un’accusa di demagogia da parte del Sì, a cui manca una pur argomentabile risposta, e su un vero falso: che il Parlamento ridotto per effetto della riforma (la Camera da 630 a 400 membri; il Senato da 315 a 200 membri) risulterebbe, per numero, il meno rappresentativo d’Occidente. Infatti, il Congresso degli Stati Uniti – l’unico confrontabile con il nostro Parlamento, perché dotato di due Camere con pieni poteri legislativi eletti direttamente dai cittadini – conta un numero totale di 535 parlamentari in rappresentanza di una popolazione quasi sei volte superiore a quella italiana. Con la riduzione a 600 eletti, il Parlamento italiano assumerebbe proporzioni appena inferiori al Bundestag tedesco, con 709 eletti in rappresentanza di una popolazione che supera gli 80 milioni, alla Camera dei Comuni britannica (630 eletti) e appena superiori all’Assemblée National della Francia (577). Il trucco, o svista che sia, sta nei dati superiori tratti dalle seconde camere degli altri Paesi, non direttamente elette, con poteri inferiori – nel caso della Bundesrat e del Senato francese – o quasi inesistenti, come nel caso della House of Lords.

Gli smemorati del taglio dei parlamentari

C’è riforma e riforma, quando si parla di tagliare il numero dei parlamentari. E soprattutto c’è chi – politici, opinionisti, giuristi – oggi filosofeggia sui “rischi per la democrazia” qualora gli eletti dovessero passare da 945 a 600 (come da riforma voluta dai 5 Stelle e già approvata in Parlamento e in attesa di conferma al referendum del 20-21 settembre) ma appena quattro anni fa digeriva senza indugi il progetto di revisione costituzionale Renzi-Boschi. Quello che aboliva il bicameralismo paritario mandando in Senato cento tra consiglieri regionali e sindaci nominati dai partiti. Ma i tempi son cambiati e oggi c’è da gridare al pericolo per la Nazione e guai, come ha scritto Mattia Feltri sull’Huffington Post, a “buttare il Parlamento” per colpa “di 5 rubagalline”, ovvero i furbetti del bonus partita iva. Ecco una rassegna da ieri (2016) e oggi (2020) per farsi un’idea di chi e come abbia cambiato idea.

Sabino Cassese, giudice emerito della Consulta.

Ieri: “L’assetto costituzionale che esce dalla riforma si iscrive nella nostra tradizione repubblicana e le fa fare un passo avanti, consolidandola”.

Oggi: “Le motivazioni sono solo quelle di dare un segno al Parlamento: tu conti di meno. Il risultato sarà rafforzare i partiti, il sistema diventa più oligarchico”.

Matteo Orfini, Pd.

Ieri: “La vittoria dei No significa far trionfare il Paese dei bronci e del pessimismo. Votiamo Sì, diamo forza alla speranza e al cambiamento”.

Oggi: “La riforma fa schifo. Era accettabile in un contesto con il proporzionale e altri contrappesi. Non si può dare indicazione di voto per il Sì”.

Mario Lavia, giornalista.

Ieri: “La domanda è se si vuole un sistema istituzionale più semplice o più complicato. Secondo me, se si sta al merito, l’elettorato preferisce il Sì”.

Oggi: “Zingaretti rischia di passare alla storia come il leader che avalla uno strappo alla Costituzione in cambio della sussistenza del governo. In gioco c’è la qualità della nostra democrazia”.

Luciano Violante, già presidente della Camera.

Ieri: “Il prossimo referendum ricorda quello del 1946 sull’alternativa tra Monarchia e Repubblica. Anche lì si decideva l’Italia del futuro. I sostenitori della riforma costituzionale hanno una visione realistica: non è perfetta ma fa funzionare meglio il Paese”.

Oggi: “Il taglio dei parlamentari senza il proporzionale e la fine del bicameralismo paritario potenzierebbe enormemente l’esecutivo e condannerebbe il Parlamento all’immobilismo o al disordine”.

Graziano Delrio, Pd.

Ieri: “Il Sì al referendum vuol dire puntare sulla crescita. Se prevalesse il No l’Italia tornerebbe dentro le sacche delle politiche di austerity ”.

Oggi: “La riduzione dei deputati e dei senatori, abbinata all’attuale legge elettorale ipermaggioritaria, crea uno squilibrio serio per l’assetto istituzionale del Paese: rischia di produrre maggioranze in grado di cambiare da sole, senza il necessario dialogo con le opposizioni, la Costituzione”.

Emma Bonino, +Europa.

Ieri: “Non è drammatico dire che a volte si sceglie il meno peggio”.

Oggi: “Io ho paura dei danni irreparabili per la democrazia italiana che deriveranno sul piano istituzionale dalla mera amputazione della rappresentanza democratica”.

Tommaso Nannicini, Pd.

Ieri: “Se dovesse vincere il No perderemo una bella occasione per poter continuare sul percorse delle riforme, di cui si parla da 30 anni senza fare niente”.

Oggi: “Il taglio dei parlamentari piace a chi vuol sostituire le Camere con Rousseau. Senza i correttivi richiesti a questa riforma malfatta e mal pensata si lascerebbe il Parlamento in balia del trasformismo. La riforma andava fermata prima”.

Riccardo Magi, +Europa.

Ieri: “Non è la nostra riforma ma permette di superare il bicameralismo e il disastroso regionalismo italiano”.

Oggi: “Mi preoccupa l’assurdità di questa riforma. Motivi fondati per questa amputazione del Parlamento non ce ne sono”.

Francesco Clementi, professore di Diritto pubblico comparato all’Università di Perugia.

Ieri: “Considerato tutto, ritengo che la riforma si meriti un 8 pieno, perché nessuna riforma costituzionale è perfetta essendo figlia di un compromesso politico. Tuttavia questa risponde, con rispetto e giudizio, ai problemi che in questo Paese si porta appresso da almeno 40 anni”.

Oggi: “Una riduzione dei parlamentari senza i necessari interventi di riequilibrio significherebbe sacrificare pesi e contrappesi sull’altare di un populismo illiberale. Sarebbe in gioco la democrazia rappresentativa”.

Giorgio Gori, sindaco Pd di Bergamo.

Ieri: “Abbiamo bisogno di una democrazia più efficiente, più semplice e più capace di prendere le decisioni”.

Oggi: “Non è questione di correttivi. Se anche si dovesse arrivare in extremis al proporzionale la sostanza non cambia. Il Pd ha fatto un errore madornale nel piegarsi al populismo e alla cultura antiparlamentare dei 5 Stelle. La riforma mina i fondamenti della nostra democrazia rappresentativa”.

Carlo Calenda, Azione.

Ieri: “Il referendum è uno snodo fondamentale per avere istituzioni più forti e più efficienti”.

Oggi: “Sono molto contrario, sono favorevole a un monocameralismo secco. Questa è una riforma fatta coi piedi”.

Ernesto Carbone, Iv.

Ieri: “Sono ottimista e sono convinto che vincerà il Sì. Se dovesse vincere il No, l’Italia rimarrebbe nella palude”.

Oggi, retweettando Gori: “Le leggi elettorali si fanno e si disfano. Dobbiamo pensare che il taglio dei parlamentari diventi a quel punto pericoloso per la democrazia?”.

Pierluigi Castagnetti, Pd.

Ieri: “Qusta è una riforma che modernizza il Paese”.

Oggi: “Non voglio assecondare pulsioni populiste”.

Beppe Fioroni, Pd.

Ieri: “Gli italiani sapranno scegliere il Sì al referendum perché serve al Paese”.

Oggi: “Voterò No perché senza un’adeguata legge elettorale non si fa altro che alterare la qualità della democrazia. Non si può inseguire il sentimento del tempo dei grillini”.

E Beppe sprona Virginia: “Daje!”

Per l’endorsement basta una parola, in romanesco: “Daje!”. Ed è quello che pesa di più perché arriva da colui che il Movimento lo ha fondato e che è ancora considerato il capo supremo in grado di stroncare sul nascere tutti i malumori: Beppe Grillo. Il day after di Virginia Raggi, che lunedì ha annunciato la volontà di ricandidarsi a sindaca di Roma, è quello degli applausi e del sostegno dei big del Movimento 5 Stelle.

Grillo pubblica una foto con una mano sulla spalla di Raggi (come dire: “Vai avanti!”) e a ruota arriva Luigi Di Maio, ex capo politico ma ancora la voce più influente tra i 5 Stelle: “Virginia sta facendo un ottimo lavoro a Roma”. Poi l’invito a sostenerla per compattare la base, visto che alcuni malpancisti vedono come un tradimento la fine della regola dei due mandati anche per i sindaci (la Raggi sarebbe al terzo): “Virginia ha bisogno del supporto di tutto il Movimento” chiosa il ministro degli Esteri. Tutti gli altri big si allineano presto: Alessandro Di Battista, primo sostenitore della sindaca di Roma, è entusiasta e pronto ad aiutarla in campagna elettorale, il capo dello staff vicino a Casaleggio Max Bugani le sussurrava la mossa da tempo e il reggente Vito Crimi non può che allinearsi. A Di Maio conviene che Raggi si ricandidi per tenere lontane le sirene di un accordo con il Pd anche nella Capitale. Un’ipotesi che la stessa sindaca ha escluso nell’intervista al Fatto di ieri: “Niente giochi di Palazzo” ha detto convinta.

La ricandidatura di Raggi – che ha giocato d’anticipo rispetto a chi iniziava a ventilare accordi coi dem – però si trasforma subito nel grimaldello per un passaggio chiave nel Movimento che prima o poi doveva arrivare: la fine dell’obbligo dei due mandati, anche per i sindaci. Come ha spiegato Raggi al Fatto, l’idea viene da Davide Casaleggio: “Vuole legare i mandati all’esperienza amministrativa” ha detto la prima cittadina. Un tema che non riguarda solo Raggi ma anche la sindaca di Torino Chiara Appendino che però non avrebbe intenzione di ricandidarsi. Resta il fatto che l’abolizione della regola per i sindaci dovrà passare per un voto su Rousseau. E potrebbe arrivare prima del previsto: almeno due grillini, tra Campidoglio e Parlamento, confermano che la candidatura della Raggi potrebbe portare a un’accelerazione. Addirittura entro la fine dell’estate. Una cosa è certa: secondo fonti qualificate, Casaleggio vigilerà perché l’abolizione della regola non sia estesa anche ai parlamentari perché in quel caso significherebbe che il M5S si è definitivamente trasformato in partito. Tutt’altro discorso invece per i sindaci. Tutte le correnti del M5S sono d’accordo sulla fine dei due mandati. Più per convenienza che per convinzione.

Il Pd per favorire la Raggi è tentato da un nome debole

La disfida di Roma non è per tutti. Dopo l’annuncio di Virginia Raggi, che si dice pronta a correre per un secondo mandato, a centrosinistra e centrodestra la corsa per la conquista di Roma più che una battaglia entusiasmante, sembra un percorso pieno di ostacoli, con rischio caduta incorporato. E così, sia Pd sia Fratelli d’Italia (i due partiti che dovrebbero esprimere i principali sfidanti), rimandano la scelta a dopo le Regionali. “Un po’ presto”, la prima considerazione. Inappuntabile, da una parte, tradisce però una difficoltà dall’altra. Da FdI non si risparmiano la frecciata: “La Raggi dopo tutto è il sindaco uscente. Che altro doveva fare? D’altra parte, voleva fare il ministro e le hanno detto di no”.

Ma intanto il Pd un candidato spendibile non ce l’ha. Nicola Zingaretti continua a fare pressing su Enrico Letta e David Sassoli. Entrambi continuano a dire un no categorico. Tra le opzioni ci sarebbe pure Roberto Gualtieri, il quale pare abbia reagito male anche solo per essere comparso nella rosa. Poi, c’è l’ipotesi Roberto Morassut, che sarebbe disponibile solo senza primarie. Per ora, però, il Nazareno non sembra disposto ad incoronarlo.

E allora, in campo resta proprio l’ipotesi primarie. Come peraltro ha detto lo stesso Goffredo Bettini. A correre sarebbero già pronti la senatrice Monica Cirinnà, il presidente del Terzo Municipio, Giovanni Caudo e Tobia Zevi (diversi incarichi politici alle spalle, tra cui quello nello staff di Paolo Gentiloni), che la prossima settimana lancia un tour nelle piazze di Roma per discutere il futuro della città.

Va detto che se il candidato dem dovesse essere un nome non esattamente di richiamo, si darebbe il via a quello che al Nazareno è stato ribattezzato lo “schema Bettini”: mettere in campo un nome che non superi il primo turno. Che di fondo non è poco per aiutare la Raggi e cercare di perseguire l’idea dell’amalgama dem-M5s, pur senza fare accordi per la Capitale (ieri per esempio il vicesegretario dem Orlando ha parlato di accordo possibile nelle Marche, per le Regionali). Senza contare che al secondo turno l’elettore del Pd potrebbe convergere sulla Raggi.

Ma a questo punto, oltre al fatto che la sindaca è tutt’altro che amata dagli elettori dem della Capitale, giocano le scelte del centrodestra. Anche lì, le variabili sono molte. Esclusa una corsa di Giorgia Meloni, FdI resta il partito più forte a Roma. Ma per decidere come giocarsi la partita, si aspetta di capire cosa farà Zingaretti. Perché se entra al governo e dunque si vota anche per la Regione, “va in pezzi il sistema di potere del Pd e a quel punto noi per Roma possiamo candidare anche Jack lo Squartatore”, commenta un esponente di spicco del partito. Altrimenti, la cosa è più complessa e dunque serve un nome moderato, un centrista, che al ballottaggio prenda anche i voti del Pd. Per il primo schema, l’unico nome che si fa è quello di Fabio Rampelli. Comunque troppo estremista. Mentre il secondo è stato ribattezzato “schema Cattaneo”. Anche se lui – Flavio Cattaneo – non è intenzionato. In alternativa, si pensa a Antonio Tajani o Franco Frattini.

E Carlo Calenda? “Non mi candido. Non è fattibile: al ballottaggio servono i voti dei 5S, ai quali non posso puntare. Ma se il Pd sceglie una mezza figura, noi presenteremo qualcuno di peso”. Di certo, è tutto piuttosto prematuro. Ma vengono in mente le elezioni del 2016. Quando il Pd schierò Roberto Giachetti, non il più forte e neanche il più motivato, e il centrodestra Meloni, che puntava più alla campagna elettorale che alla guida di Roma.

“È stato un errore… di mia moglie”

Dallo scaricabarile sul commercialista al banale “errore”, dalle mogli e compagne a chi rivendica a testa alta di aver preso il bonus dei 600 euro per fare “beneficenza” (con i soldi dello Stato, mica i suoi). Claudio Scajola si è un po’ defilato ma il suo spirito – e il suo “insaputismo” – vive e lotta insieme a noi. Vediamo le migliori autodifese dei politici che hanno preso il bonus.

“Commercialista, non farlo più”. Quando sono usciti i nomi dei tre consiglieri regionali del Veneto che hanno incassato il bonus, il leghista Riccardo Barbisan è cascato dal pero. Non riusciva a capacitarsi come quei 600 euro fossero cascati per magia sul suo conto corrente. E così ha alzato il telefono e ne ha cantate quattro al suo commercialista: “Non capisco cosa siano quei soldi, lui mi spiega: è il bonus, ho fatto richiesta e te l’hanno concesso”. Ohibò. Il 36enne Barbisan ha assicurato di aver strigliato bene bene il ragioniere: “Quando l’ho visto gli ho detto ‘per carità di Dio non farlo mai più’”. Luca Zaia non deve avergli creduto: non lo ricandiderà alle prossime regionali.

Compagne e mogli maligne. Chi si è accorto ex post del bonus è Diego Sarno, consigliere Pd in Piemonte, che ha ammesso di aver compiuto un “errore” e di aver restituito tutto in beneficenza. Bene, anzi male. Perché poi Sarno ha accusato la compagna via Fb: avrebbe usato la sua partita Iva per “provare la procedura” ma “per errore ha concluso anche la mia”. Un’altra moglie che non deve aver passato un bel quarto d’ora è quella di Alessandro Montagnoli, consigliere regionale di Verona (anche lui leghista): “Lei ha fatto la richiesta – ha detto all’Arena – ma in buona fede”. Sentiamo: “Quando è uscito il decreto Cura Italia, ho deciso con mia moglie di richiedere il bonus con l’intento fin da subito di devolverli per l’emergenza Covid e a chi lavora nella protezione civile”. È la beneficenza 2.0: non coi soldi propri ma con quelli dei contribuenti.

Soci generosi. Nemmeno Gianluca Forcolin, vicepresidente della Regione Veneto, riesce a fare “mea culpa” sul bonus anche perché, dice lui, “non mi è mai arrivato”. Resta il fatto che la richiesta c’è stata. Ma, continua, è stata avviata contro la sua volontà: “Sono socio in studio di tributaristi – ha detto al Corriere – Quando è esplosa la questione del bonus, in queste ore, ho verificato con la mia socia che, senza che lo sapessi, ha presentato domanda per tutti dove possibile”. A loro insaputa, ça va sans dire.

La falla nel sistema. La palma d’oro delle autodifese però non può che andare a Ubaldo Bocci, ex candidato sindaco di Matteo Salvini a Firenze. Dopo aver dichiarato nel 2019 ha dichiarato 277mila euro, ha incassato pure il bonus: “Volevo dimostrare che i soldi dovevano andare ad altri”. Peccato che, prima di darli in beneficenza, li abbia presi lui.

In 25 mila firmano col Fatto “Inps pubblichi tutti i nomi”

La petizione per rendere pubblici i nomi dei parlamentari che hanno chiesto i bonus, lanciata dal Fatto Quotidiano su Change.org, ha avuto una risposta straordinaria da parte dei lettori. Mentre andiamo in stampa, sono state superate le 20mila firme in meno di 24 ore. “È diritto di chi scrive divulgare le generalità di politici che hanno ritenuto di formulare la richiesta – come si legge nella lettera inviata al presidente dell’Inps Pasquale Tridico dal direttore del Fatto Marco Travaglio – ed è diritto di ogni cittadino conoscerle, al fine di potersi meglio determinare quando esprimerà il proprio voto”. Questi sono alcuni dei commenti dei firmatari della petizione su Change.org.

Silvana Leccardi

Spesso la privacy è solo un escamotage per evitare la trasparenza. Non sopporto i profittatori disonesti e chi non ha il coraggio delle proprie azioni.

 

Marina Filippi

Trovo giusto conoscere il nome di questi “onorevoli” che di onorevole non hanno alcunché e non sanno cosa siano l’onore e l’onestà!

 

Walter Zucconi

Voglio sapere i nomi di questi personaggi così avidi per evitare di votarli inconsapevolmente, loro e i loro partiti.

 

Piera Maria Mollar

Perché chi riveste una carica pubblica ha il dovere di essere trasparente e come cittadina contribuente ed elettore ho il diritto di sapere chi, pur sapendo di poterne fare a meno, ha ritenuto opportuno intascarsi soldi pubblici a discapito dei meno abbienti.

 

Caroline Sophie Bouchez

Ho una partita Iva forfettaria. Sono insegnante e sono rimasta quasi a zero. In più i mille euro non li posso avere a causa dei pagamenti in ritardo arrivati proprio nel bimestre 2020. Non ho altra fonte di reddito e queste persone si permettono di chiedere indennità e percepire stipendi statali. Vergognosi.

 

Silvana Scalas

Tante persone nel periodo più nero del Covid, sono rimaste in condizioni disperate rivolgendosi a Caritas, parenti, amici, e a tutti quelli di buon cuore, e questi schifosi con stipendi faraonici e senza dignità si sono approfittati di qualcosa di cui non avrebbero avuto diritto, sono senza vergogna.

 

Giuseppe Acciaro

Firmo perché la democrazia si regge, tra le altre cose, sulla conoscenza dei comportamenti comunque connessi all’ambito pubblico, dei nostri rappresentanti nelle istituzioni. Non possiamo interessarci solo alle parole che dicono e ai propositi che esprimono. Dobbiamo conoscere anche i comportamenti che adottano, se sono connessi al loro essere uomini pubblici.

 

Francesco Panti

Firmo non tanto per una questione di soldi ma per lo stesso motivo per cui scriverò Sì a settembre, è una questione di dignità.

 

Roberto Marcello

Chi fa politica è prima di tutto a servizio degli altri e dovrebbe essere di esempio morale.

 

Paolo Cerulli

Sono stanco di non dormire la notte pensando alla moltitudine di tasse da pagare e alla paura di non farcela, lasciando ai miei figli problemi su problemi e poi arrivano questi farabutti senza ritegno ad attingere allegramente al pozzo che io e milioni di italiani, con tanta fatica, riempiamo.

 

Maurizio Consoli

È una questione di giustizia, etica ed equità nei confronti di tutti i cittadini e soprattutto dei più deboli e indifesi.

 

Nadia Carrozzino

Io non ho potuto fare richiesta. Sto sbattendo la testa per capire chi pagare per prima fra i miei debitori e fornitori. Ma aspetto, paziente, tempi migliori. Ogni tanto devo combattere con lo spauracchio della depressione che già ho provato… Devo aggiungere altro o è chiaro il motivo della mia indignazione?

 

Giorgio Maria Chivilo

È giusto che ognuno si assuma le proprie responsabilità e impari ad avere il coraggio delle proprie azioni senza nascondersi dietro l’anonimato

 

Laura Biagioni

In Parlamento e nelle istituzioni, dal momento che vengono rappresentati i cittadini, il diritto alla privacy deve lasciare il posto alla trasparenza. Vorrei anche non trovare più questi nomi come candidati in prossime elezioni

In Iv caccia interna e accuse a Tridico: “Ci voleva colpire”

“Buongiorno. Nessuno dei nostri parlamentari ha ricevuto i 600 euro del Bonus Partita Iva. Ettore sta comunicandolo ufficialmente. Non ho parole per commentare. Auguro a tutti buone vacanze”. Dopo tre giorni di silenzio, Matteo Renzi interviene così nella chat dei parlamentari di Iv. Un messaggio piuttosto ambiguo. Perché Renzi non ha parole di commento? Perché, come dicono i suoi in batteria, “è gravissimo” e “vergognoso” che sia uscita la notizia che uno dei suoi deputati avesse preso il bonus, per essere poi smentita, su richiesta precisa del vicepresidente della Camera, Ettore Rosato, direttamente dal presidente dell’Inps, Pasquale Tridico? O forse perché il sospetto che un deputato di Iv il bonus l’abbia chiesto e non ricevuto avanza e non si ferma?

D’altra parte, già domenica Maria Elena Boschi aveva chiesto nella chat di auto-denunciarsi: “Se c’è un furbetto, si faccia avanti”. Lo stesso aveva fatto Rosato lunedì. Nessuno si è detto colpevole. Anche se la stessa chat si è trasformata in una specie di psicodramma collettivo. Sono fioccate però le auto giustificazioni.

Gelsomina Vono, senatrice ex M5S passata a Iv, è intervenuta più volte in difesa dei cosiddetti furbetti, secondo la linea che i liberi professionisti hanno dei costi fissi e dunque sono stati penalizzati dal lockdown. “Se non fosse che è una senatrice, il dubbio che si tratti di lei sarebbe fortissimo”, il commento dei colleghi di partito. Riccardo Nencini, per dire, ci ha tenuto a chiarire che lui non ha mai chiesto soldi, provocando l’ilarità collettiva nelle chat parallele. Solo uno dei tanti scherniti.

Ma intanto ancora la Vono così sobillava gli animi ieri: “Se è così, tutti sui social dobbiamo bombardare e chiedere responsabilità precise per Tridico, cane da guardia, anche stupido, del M5S, che ne approfitta per condizionare l’esito del referendum. Quello che ha fatto l’Inps, attraverso l’inadeguatezza di Tridico, è gravissimo”. Ma per tutta risposta Renzi frena: “No, non bombardiamo. Lasciamola andare. Faremo tutte le verifiche alla fine, perché è una storia molto strana”.

La reazione colpisce, anche perché in realtà l’ex premier è tornato ieri a chiedere le dimissioni del presidente dell’Inps perché “totalmente incompetente”. La strategia dei renziani è stata esattamente questa: intestare la responsabilità a Tridico, arrivando anche ad accusarlo di vendetta nei loro confronti, visto che ne avevano già chiesto le dimissioni nei mesi scorsi; avanzare sospetti sui 5 Stelle, puntando il dito su Tridico e sullo stesso Luigi Di Maio, considerati rei di aver orchestrato tutta la vicenda per spingere il No al referendum.

Il messaggio di freno non può essere neanche attribuito alla volontà di non mettere in difficoltà il governo, visto che ieri Renzi ha lanciato la battaglia per il vaccino obbligatorio contro il Covid, contraddicendo quanto affermato dal premier Conte appena qualche giorno fa.

Al netto degli interrogativi che restano sulla guerra politica che sta dietro all’uscita della notizia, evidentemente nessuno dentro Iv è pronto a escludere che qualcuno quel bonus lo abbia richiesto.