Il Garante all’Inps: “Dica i nomi” Lega, Zaia all’attacco di Salvini

Nessuno ostacolo alla pubblicazione dei dati. Per i furbastri di Montecitorio che hanno ottenuto il bonus da 600 euro previsto dal governo per sostenere le partite iva messe in ginocchio dall’emergenza coronavirus si mette male: il collegio del Garante della Privacy è infine intervenuto per dire non si potranno nascondere dietro questo scudo che semmai serve a proteggere chi è in condizioni di disagio economico o sociale: non certo i parlamentari o gli altri amministratori locali “per i quali, a causa della funzione pubblica svolta, le aspettative di riservatezza si affievoliscono, anche per effetto dei più incisivi obblighi di pubblicità della condizione patrimoniale cui sono soggetti”. Ora però la questione della privacy in questa storia di miserabili (il copyright è del maggiorente del Pd nonché Commissario europeo agli affari economici, Paolo Gentiloni) non finisce qui: i tre nomi dei deputati che avrebbero beneficiato della sovvenzione nonostante il lauto stipendio di Montecitorio, restano coperti. Tra i pentastellati, che pure attaccano a testa bassa la Lega perché la lista degli amministratori locali del Carroccio reo confessi si allunga, il nome del deputato che avrebbe incassato il malloppetto ancora non viene fuori. E questo nonostante il pressing dei vertici del Movimento. Sospettati da alcuni di sapere e da tempo di chi si tratti dati gli ottimi rapporti con l’Inps di Pasquale Tridico. E da altri addirittura di aver orchestrato tutto agendo in combutta con lui per annichilire il fronte del no al referendum sul taglio dei parlamentari che da qualche settimana aveva ricominciato a sperare che il clima fosse cambiato rispetto a qualche mese fa quando una vittoria del Sì a valanga pareva scontato.

Non si sa se per uscire dall’imbarazzo in cui lo scandalo bonus ha fatto precipitare la Lega o perché ci crede davvero, lo dice senza mezzi termini, l’ex ministro salviniano Gian Marco Centinaio. Per il quale il caso è una “bufala” montata ad arte per fare da volano decisivo al referendum confermativo della riforma costituzionale del taglio dei seggi . “Avendoci governato insieme per quattordici mesi so che tutto quello che viene fatto dal M5s ha un secondo fine”. E poco importa se Luigi Di Maio insista sulla questione di principio: “Questa non è una gogna mediatica ma una questione di giustizia”.

Dalle parti del Carroccio per la verità, l’imbarazzo monta di pari passo al ridicolo delle scuse che hanno preso ad accampare i consiglieri regionali eletti sotto le insegne salviniane per giustificare di aver ottenuto il bonus nonostante lo stipendio erogato a fine mese non esattamente da fame: il direttivo del partito medita di non metterli in lista per le prossime elezioni di settembre, come rivela il commissario del Veneto Lorenzo Fontana in linea con Luca Zaia che pare meno incline alla linea che pare più morbida da parte del Capitano. Che per i deputati in odore di bonus ha parlato di semplice sospensione. Facendo intanto calare la cortina fumogena del silenzio stampa. Bocche cucite dunque sui due principali sospettati Andrea Dara e Elena Murelli. Quest’ultima peraltro tra i deputati che più ferocemente denunciarono le falle registrate nel sistema informatico dell’Inps il 1° aprile quando partì la procedura telematica per aver accesso al bonus. Con un’interpellanza al vetriolo (primo firmatario il tesoriere Giulio Centemero) aveva chiesto conto al ministro vigilante (quello del Lavoro) quali urgenti iniziative intendesse adottare per “garantire la conservazione dei dati sensibili” che gli aspiranti al bonus avevano fornito al server dell’Istituto di previdenza. Che aveva fatto cilecca per il sovraccarico delle richieste e pure perché gli hacker avevano fatto la loro parte. Determinando a ogni modo – secondo la denuncia leghista – , “una pericolosa esposizione dei dati degli utenti”. Tra cui c’erano tanti italiani e tra questi pure alcuni parlamentari. Ora il fatto è che se sulla questione della privacy è chiaro che non ci sono più scuse sulla possibilità di pubblicare i loro nomi, il Garante ha però evidenziato anche un altro fatto denso di conseguenze.

Ossia che aprirà un’istruttoria sul caso che tiene banco da oltre tre giorni. O meglio sulla “metodologia seguita dall’Inps rispetto al trattamento dei dati dei beneficiari e alle notizie al riguardo diffuse”. Secondo quel che risulta al Fatto gli uffici del collegio presieduto da Pasquale Stanzione scriveranno ai vertici dell’Inps per capire come e perché si è arrivati a compiere un approfondimento specifico sui politici che avrebbero fatto richiesta del bonus pur non violando alcuna legge, se non quella dell’etica pubblica. Ma a quanto pare di capire i commissari alla Privacy che si sono riuniti ieri mattina in teleconferenza sono anche particolarmente interessati a capire se è stata davvero la direzione antifrode dell’Inps a mettere insieme i casi dei tre deputati beneficiati dalla sovvenzione, i due che l’avrebbero solo chiesta ma senza riuscire a ottenerla e tutti gli altri. Ossia circa 2mila amministratori locali, tra consiglieri e assessori regionali (che prendono comunque signori emolumenti) e comunali (che invece percepiscono solo gettoni di presenza): casi troppo diversi sotto il profilo del reddito e legati solo alla natura dell’incarico.

E poi al Garante non sono neppure sfuggite le altre indiscrezioni di stampa, quelle relative alla tempistica: ossia che la segnalazione sarebbe scattata già a maggio. E dunque da maggio a oggi che è successo? O meglio chi ha visto questi nomi e per quali percorsi il caso è stato dato in pasto alla pubblica opinione? Quesiti a cui anche in Parlamento si vuol vedere chiaro. Un vasto fronte che va da Fratelli d’Italia ai renziani di Italia Viva ha chiesto che la commissione Lavoro di Montecitorio convochi in audizione Tridico. Che però può stare tranquillo almeno fino al 24 agosto quando la Camera, dopo le ferie, riaprirà i battenti.

Il salame disseta

Chi pensa che i colpevoli dello scandalo bonus-povertà siano i ricchi che l’hanno chiesto è totalmente fuori strada.

Alessandro Sallusti ha scoperto che è tutto un “trabocchetto organizzato da Di Maio e soci con la complicità del loro uomo all’Inps, quel Tridico”: “Siamo sotto elezioni regionali e i partiti di governo (5Stelle e Pd) sono in affanno nei sondaggi”. Insomma “è un’invenzione di quel genio di Casalino” e altri “scagnozzi di Conte” che “scovano 5 parlamentari disgraziati dell’opposizione che hanno chiesto il bonus povertà”. E, astuti come sono, per risollevare le sorti dei 5Stelle, fanno in modo che uno dei cinque furbastri sia dei 5Stelle. Ammazza che volpi. Del resto “a Di Maio e alla sua famiglia (come si evince dalle disavventure del padre), gli euro non hanno mai fatto orrore”. E, se non avete capito che cazzo c’entrino il padre di Di Maio e lo scandalo dei laterizi abbandonati su una carriola nel suo orto, non sapete cos’è la logica. Ah, il titolo dell’editoriale sallustiano è “Non scriviamo sotto dettatura”. Si ride di gusto.

Per Vittorio Sgarbi, è tutta colpa di una “legge idiota fatta da cretini come Fico” (che non scrive leggi, essendo il presidente della Camera, e poi quello è un decreto del governo). L’altro è Feltri: “Non me la sento di accanirmi contro coloro che hanno incassato furbescamente gli oboli, perché in fondo essi (gli oboli, ndr), e anche in cima (qualunque cosa voglia dire, ndr), erano concessi in ossequio a una legge firmata dagli amministratori dello Stato”. Quindi la colpa è di “un esecutivo talmente inetto da permettere a cani e porci di incamerare quattrini” e chi deve “liberarci della loro mefitica presenza” non sono i percettori indebiti del bonus, ma chi l’ha previsto per quelli debiti. Analogamente la colpa delle pensioni ai falsi invalidi non è di chi si finge invalido per intascarle, ma di chi le ha volute per gl’invalidi veri.

Stefano Folli, su Repubblica, teme che lo scandalo “potrebbe gonfiare le vele ai fautori del ‘sì’ nel referendum sul taglio dei parlamentari”. Ma poi si rassetta il riportino e si rassicura da solo: “Il punto è la qualità di chi viene mandato in Parlamento, non la quantità di deputati e senatori che oggi (senza i tagli) è in linea con i principali Paesi europei” (falso, ma fa niente). Dunque “il ‘sì’ alla sforbiciata non cura nessuno di questi mali, anzi li aggrava”. Se ne deduce che, per curare “lo squallore dei 600 euro”, il numero dei parlamentari non andrebbe ridotto, ma aumentato: da 945 a 1.890 o, perché no, 5mila cifra tonda. Vuoi mettere, a quel punto, la qualità. È la legge del circo: “Più gente entra, più bestie si vedono”.

Dimenticavo: “Il salame fa bere, bere disseta, dunque il salame disseta” (Montaigne).

Vorrei la pelle nera, ma non troppo: rischi e filtri

Inondati di luce naturale con una voglia di rinascita. In questa strana estate post pandemia, dopo mesi trascorsi in casa, ora la pelle si ritrova finalmente esposta ai raggi solari. “Il sole è un amico, offre tantissimi benefici sia per il corpo che per la mente, si produce vitamina D, e potrebbe anche aiutarci a ridurre l’impatto del Coronavirus”, spiega la dermatologa Pucci Romano, presidente dell’associazione scientifica di ecodermatologia Skineco. Gli Uvb, i raggi ultravioletti prodotti dal sole, sono capaci di destabilizzare il virus. “Basta pensare ai molti presidi disinfettanti utilizzati dai centri estetici che si basano proprio su questo effetto”, sottolinea la Romano. Che, tuttavia, mette in guardia dai rischi di un’esposizione eccessiva e da un utilizzo sbagliato dei solari che contengono troppi filtri chimici “certi o sospetti perturbatori endocrini”. E per questo anche dannosi non solo per la barriera corallina, ma soprattutto per la nostra stessa salute.

L’Fda, l’agenzia americana per gli alimenti e i medicinali, negli scorsi mesi ha infatti alzato il livello di guardia su quattro filtri chimici (avobenzone, oxybenzone, octocrylene, ecamsule) sostenendo che, anche dopo una sola applicazione, c’è il rischio che queste sostanze vengano assorbite nel sangue. Il problema per la pelle, insomma, non è certo il sole, ma il modo in cui ci si rapporta. Tutto diventa più complicato anche a causa del refrein ossessivo di media, marketing e sedicenti esperti della salute che raccontano di prodotti miracolosi che proteggono la pelle senza però ricordare i danni – dagli eritemi ai tumori – che un’esposizione sbagliata al sole può causare. I prodotti con filtri solari, che siano chimici o fisici, vanno utilizzati quando serve, unitamente al buon senso e alle più che note indicazioni (non esporsi nelle ore più calde, riapplicare il solare ogni due ore, sempre dopo il bagno, ecc). “Le armi più potenti restano il principio di precauzione e il nostro comportamento, visto che il sicuro per legge non esiste”, sottolinea Pucci Romano. Che aggiunge: “Si deve conoscere il proprio fototipo, una sorta di marchio di fabbrica, e di conseguenza esporsi con gradualità per dare anche tempo alla melanina di formarsi. Se ci limitiamo a utilizzare i solari per poche settimane all’anno si genera un comportamento virtuoso. E dal sole otterremo solo innumerevoli benefici”. Con buona pace delle rughe.

In villa con Suni: 007 filippini, Calimero, Lupo e tanti Agnelli

A metà degli anni Settanta frequentavo Susanna Agnelli ed ero spesso suo ospite, per qualche giorno, d’estate ma anche in alcuni weekend d’inverno, nella villa che aveva sull’Argentario, un po’ riparata, equidistante da Porto Santo Stefano e Porto Ercole dove impazzava il vippume di allora.

Susanna Agnelli, detta familiarmente Suni, l’avevo conosciuta grazie a un’intervista per L’Europeo che le avevo fatto nel 1975 quando, dopo essere stata eletta sindaco del Monte Argentario, aveva pubblicato Vestivamo alla marinara (“Il profilo ha da rapace” così iniziava il pezzo). In realtà la mia subdola intenzione non era tanto di conoscere lei, ma di farla parlare del fratello, il mitico Avvocato a cui era legatissima da adorante sorella minore (li separava solo un anno) e al quale era disposta a perdonare tutto.

Suni, simpatica, divertente, era incredibilmente naif per gli standard della politica italiana, non si trincerava dietro le consuete fumisterie (si sarebbe fatta più accorta quando diventò sottosegretario agli Esteri sotto Andreotti, un maestro nel genere). Era ritornata da non molti anni dall’Argentina dove aveva vissuto con il marito Urbano Rattazzi e non si era ancora abituata al politically correct di casa nostra. Le sparava quindi grosse, in tutta innocenza. Le chiesi: “Se non fosse presidente della Fiat che cosa sarebbe stato politicamente suo fratello?” “Ah, sarebbe stato certamente comunista, mio fratello”. Il giorno dopo in Fiat scoppiò il finimondo. Mi raccontò anche che Agnelli si divertiva a sfottere Spadolini, allora ministro della Cultura, perché per andare da Roma a Urbino aveva sentito il bisogno di prendere un elicottero (ad Agnelli piaceva molto guidare, anche in modo sconsiderato, tanto che in gioventù ci aveva lasciato una gamba). Spadolini si infuriò, telefonò al mio direttore chiedendo di rettificare, di dire che il giornalista aveva riferito male. Ma Tommaso Giglio non era tipo da stare a simili imposizioni.

La Agnelli aveva una sola guardia del corpo, un certo Calimero, ex uditore giudiziario, molto simpatico, che però non sarebbe stato in grado di affrontare nemmeno un gatto, in realtà fungeva da segretario. In una villa vicina, molto più vistosa di quella della Suni, soggiornava Mario Genghini, un potente palazzinaro romano, diciamo il Caltagirone di quei tempi. Genghini girava con nove guardie del corpo, il che voleva dire averne almeno una trentina. Il personaggio ci incuriosiva e insieme al conte Alvise di Robilant, che era anch’egli ospite con la sua giovanissima fidanzata venezuelana, decidemmo di invitarlo per un aperitivo serale. Arrivò vestito da yachtman e una moglie cotonata altrettanto assurda. Fu un’ora di imbarazzo generale. Prima di andarsene Genghini tirò fuori dal taschino interno della giacca un assegno e lo diede alla Agnelli borbottando qualcosa tipo “per il Comune”. Suni lo intascò. La sera ci fu una sorta di consiglio di famiglia. Io consigliai alla Agnelli di restituire immediatamente quell’assegno. Di Robilant soggiunse: “Fai quello che ti dice Fini che è un uomo di mondo”. Io avevo 32 anni e sentirmi dare dell’“uomo di mondo” dal conte di Robilant mi fece una certa impressione. Il giorno dopo il solerte Calimero andò a restituire l’assegno. Ma Suni si rifiutò di dirmi a quanto ammontava, con la scusa che non aveva avuto il tempo di leggerlo. Invece aveva avuto tutta la notte per farlo. A me interessava sapere quanto un Genghini valutasse la corruzione di un Agnelli. Ma non ci fu niente da fare. Ancora molti anni dopo, quando la incontrai per caso a Linate, le chiesi: “Allora adesso mi può dire di quant’era quell’assegno?”. Rien à faire.

La Agnelli faceva una vita piuttosto appartata, ma capitava che nella sua villa, che non era per nulla un porto di mare, vi arrivassero solo parenti stretti come il principe Caracciolo e che vi accadessero cose molto divertenti. Uno dei sei figli della Agnelli, Lupo Rattazzi, filava allora con la figlia del dittatore filippino Marcos. La villa fu invasa da 007 filippini che si appollaiavano persino sugli alberi e qualcuno, che non doveva essere poi tanto più abile di Calimero, ogni tanto precipitava a terra. Noi sorridevamo di quell’esibizione di potere. Facevamo una vita molto normale, bagni nello splendido mare sottostante, prendevamo il sole, lei a seno nudo (“ma questo non lo scriva”) e gite in bici alla Feniglia, dove la Agnelli, come sindaco, aveva libero accesso, per vedere i daini e i cerbiatti. Facevamo anche delle gare di bici. Io, che ero il più giovane della compagnia, le vincevo ma Suni, molto competitiva, mi arrivava a ruota. Una volta, tutta ansimante, disse: “Un giorno o l’altro ci verrà un infarto”. Aveva 52 anni, sarebbe vissuta, sempre in gran forma grazie al suo fisico da spilungona ma per nulla sgraziato, fino a 87 anni. Una volta le chiesi cosa pensasse di Andreotti che era in quel momento ministro degli Esteri e quale lingua straniera parlasse memore del fatto che uno dei suoi predecessori, Arnaldo Forlani, per tentare di dire grazie in francese disse “graz”. “Non so, forse sa un po’ di francese. Ma ha poca importanza. È di una categoria assolutamente superiore a tutti gli uomini politici che ho conosciuto”. Aveva anche una grande ammirazione per Fidel Castro che aveva incontrato a Cuba: “Un uomo dal fascino straordinario”.

Quando divenne a sua volta ministro degli Esteri il suo atteggiamento cambiò, non era più così alla mano come prima, teneva le distanze, si dava un po’ di arie. Scoprii, con una certa sorpresa, che il successo poteva dare alla testa anche a una Agnelli.

Quanto iniziai a leggere. Io e mio nonno, stesi a terra

Ho cominciato la mia vita come senza dubbio la terminerò: tra i libri. Nell’ufficio di mio nonno ce n’era dappertutto; era fatto divieto di spolverarli, tranne una volta all’anno, prima della riapertura delle scuole. Non sapevo ancora leggere, ma già le riverivo queste pietre fitte: ritte o inclinate, strette come mattoni sui ripiani della libreria o nobilmente spaziate in viali di menhir, io sentivo che la prosperità della nostra famiglia dipendeva da esse (…) Li toccavo di nascosto per onorare le mie mani con la loro polvere, ma non sapevo bene cosa farne e assistevo ogni giorno a un cerimoniale di cui mi sfuggiva il significato: mio nonno – goffo, di solito, tanto che mia madre gli doveva perfino abbottonare i guanti – maneggiava quegli oggetti culturali con una destrezza da officiante. L’ho visto mille volte alzarsi con un’aria assente, fare il giro del tavolino, attraversare la stanza in un paio di passi, prendere un volume senza esitazione, senza concedersi il tempo di scegliere, scartabellarlo, riandando alla poltrona, con un movimento combinato del pollice e dell’indice, poi, appena seduto, aprirlo con un colpo secco “alla pagina giusta” facendolo crocchiare come una scarpa. Talvolta mi avvicinavo per osservare queste scatole che si aprivano come ostriche, e scoprivo la nudità dei loro organi interni, fogli pallidi e muffiti, leggermente gonfi, coperti di venuzze nere, che assorbivano l’inchiostro e mandavano un sentore di fungo. (…)

Ero il nipote di un artigiano specializzato nella fabbricazione degli oggetti sacri (…) Lo vidi all’opera: ogni anno ristampavano il suo Deutsches Lesebuch. Durante le vacanze tutta la famiglia aspettava con impazienza le bozze (…) Il postino, finalmente, recapitava grossi pacchetti flosci, con delle forbici tagliavano gli spaghi; mio nonno spiegava le bozze incolonnate, le sparpagliava sul tavolo da pranzo e le crivellava di segnacci rossi; a ogni errore di stampa bestemmiava tra i denti, ma non gridava più, salvo quando la domestica pretendeva di preparare la tavola. Tutti erano contenti. In piedi su una sedia, contemplavo estatico quelle linee nere striate di sangue (…) Non sapevo ancora leggere, ma ero abbastanza snob da esigere di possedere libri miei. Mio nonno si recò da quel mariuolo del suo editore e si fece regalare Les Contes del poeta Maurice Bouchor, narrazioni tratte dal folklore ridotte per l’infanzia da un uomo che aveva conservato, diceva, occhi di fanciullo. Volli subito cominciare il cerimoniale d’appropriazione. Presi i due volumetti, li annusai, li palpai, li aprii negligentemente “alla pagina giusta” facendoli crocchiare. Invano: non avevo la sensazione di possederli. Tentai senza maggior successo di trattarli come bambole, di cullarli, di baciarli, di picchiarli (…) Mi impadronii di un’opera intitolata Tribulations d’un Chinois en Chine e me la portai in uno sgabuzzino; là, appollaiato su un letto pieghevole di ferro, feci finta di leggere: seguivo con gli occhi le righe nere senza saltarne una, e mi raccontavo ad alta voce una storia, facendo attenzione a pronunciare tutte le sillabe. Mi sorpresero – o mi feci sorprendere – ci furono esclamazioni, e decisero che era venuto il momento di insegnarmi l’alfabeto.

Fui zelante come un catecumeno; arrivavo al punto di darmi lezioni private: mi arrampicavo su quel letto di ferro con Sans Famille di Hector Malot, che conoscevo a memoria, e, metà recitando, metà decifrando, ne scorsi tutte le pagine, una dopo l’altra: quando l’ultima fu voltata, io sapevo leggere. Ero pazzo di felicità: mie, mie quelle voci disseccate nei loro piccoli erbarii, quelle voci che mio nonno rianimava col suo sguardo, ch’egli capiva e che io non capivo! Le avrei ascoltate, mi sarei riempito di discorsi cerimoniosi, avrei saputo tutto (…) Non ho mai razzolato per terra, non sono mai andato a caccia di nidi, non ho erborizzato né tirato sassi agli uccelli. Ma i libri sono stati i miei uccelli e i miei nidi, i miei animali domestici, la mia stalla e la mia campagna; la libreria era il mondo chiuso in uno specchio; di uno specchio aveva la profondità infinita, la varietà, l’imprevedibilità. Mi buttavo in incredibili avventure: ero costretto ad arrampicarmi sulle sedie, sui tavoli, col rischio di provocare delle valanghe che mi avrebbero sepolto (…) Steso sul tappeto, intrapresi aridi viaggi attraverso Fontenelle, Aristofane, Rabelais: le frasi mi resistevano come fossero oggetti; bisognava osservarle, girare intorno a esse, fingere di allontanarmi e ritornarci sopra all’improvviso per sorprenderle quando non tenevano la guardia: quasi sempre esse conservavano il loro segreto (…) Di queste parole dure e nere ho conosciuto il senso soltanto dieci o quindici anni dopo, e anche oggi esse conservano una loro opacità: è l’humus della mia memoria (…) Nei libri ho incontrato l’universo: assimilato, classificato, etichettato, pensato, temibile anche; e ho confuso il disordine delle mie esperienze libresche con il corso casuale degli avvenimenti reali. Da ciò venne quell’idealismo per disfarmi del quale ho impiegato trent’anni.

© Il Saggiatore S.r.l., 2020

Figlio adolescente in cerca di wi-fi “adotta” mantide

Nessuno si occupa di noi. Nessuno scrive di noi. Nessuno ha un pensiero per noi. Nessuno riflette su quante famiglie focolaio di conflitti e di faticose azioni diplomatiche ci sono, in giro per il paese. Nessuno ha erogato un bonus adolescente. Nessuno ha potuto usufruirne. E solo noi altri genitori di adolescenti, in vacanza con figli adolescenti, magari pure figli unici come nel mio caso, sappiamo quanto ne avremmo bisogno.

Sarebbero 600 onestissimi euro con cui potremmo pagarci il Prozac, le casse di vino da tenere nel bagagliaio dell’automobile sotto il vano per la ruota di scorta, con cui potremmo acquistare un documento d’identità falso su una qualunque rotta balcanica e negare di esser genitori di quella specie di locusta incazzata con le cuffie che ci trasciniamo dietro, in vacanza. L’estate da genitori con un adolescente che vorrebbe essere ovunque tranne che con i suoi genitori è qualcosa di profondamente segnante, e non conta quale sia il luogo di vacanza. Non bisogna sperare di edulcorare il male di vivere di un adolescente che vorrebbe essere con gli amici o la fidanzata in un ostello a Focene, stordendolo con hotel di lusso, città d’arte e mare cristallino. Che si trovi con noi a Capri o a Chieti Scalo, l’adolescente ci guarderà sempre con gli occhi della trincea, ovvero un misto di nostalgia di casa, adrenalina e volontà omicida. Qui di seguito una lista di ragioni per cui il governo Conte dovrebbe seriamente valutare di elargire il bonus adolescente alle famiglie in difficoltà durante l’estate 2020.

1) È una giornata di brezza leggera, i gabbiani volano alti sull’acqua trasparente come l’iride di un neonato. Un pesce volante taglia all’improvviso l’orizzonte, mentre un esemplare di dodo, da secoli ritenuto estinto, spunta fuori da un cespuglio per bagnare le zampe sulla riva. Mi giro verso mio figlio, gli chiedo con voce flautata “Com’è questo posto?” e lui, dopo un attimo di silenzio: “Fa cagare”. E così, ovunque.

2) “Amore stiamo andando in un hotel bellissimo con una piscina che grazie a uno speciale insieme di giochi d’acqua crea figure emozionali in cielo, la sera a cena servono le…”. “Una domanda mamma”. “Dimmi amore”. “C’è il wifi?”. A quel punto io rispondo che il wifi c’è, certo. Arriviamo accolti da un trio di arpisti e mentre siamo ancora nella hall dove ci servono un cocktail di benvenuto, l’adolescente sollecita: “Chiedi la password del wifi?”. Perché loro non vogliono più che li saluti fuori dalla scuola, ma quando si tratta di comunicare con qualsiasi adulto tornano improvvisamente immersi nel liquido amniotico, incapaci di emettere suoni. Mentre l’addetto alla reception spiega gli orari della colazione, l’adolescente mi riferisce nell’orecchio che il wifi è lento e non c’è campo, a quel punto leggo nei suoi occhi il rancore del sopravvissuto a due inverni in un gulag sovietico. E capisco che sarà una vacanza di merda, per cui dopo un drammatico consulto con gli azionisti, compro il 50% di quote Tim e il giorno dopo asfaltano la spa dell’hotel per piantare un ripetitore.

3) Trascinare a cena fuori un adolescente in vacanza è già un lungo lavoro di mediazioni quali “Giuro, ordino solo un antipasto. Freddo”, ma il vero dramma si pone se la cena è con amici. Gli adolescenti odiano tutti i nostri amici, mentre siamo in vacanza, e noi lo sappiamo. Non importa che siano adorabili, spiritosi, gentili, affabili e socievoli. Più o meno tutto quello che sono i nostri figli quando non sono in nostra compagnia, insomma. È per questo che prima del supplizio chiediamo al figlio almeno di fingere, durante la cena, di non desiderare che un commando terrorista irrompa nel ristorante. Dunque, dopo un’estenuante trattativa alla fine della quale il figlio promette di non mettere il muso, alla domanda conciliante del capotavola: “Allora ragazzo, come va questa vacanza?”, lui: “Mh”. Io so che quel “ragazzo” ha già irrimediabilmente inserito il mio amico nella casella “boomer”. Cerco di spostare l’attenzione della tavolata sulla vista mare, ma il mio amico insiste: “E la scuola, quando inizia?”. “Bah”. Con la domanda sulla scuola il mio amico è nella casella “boomer coglione”, quindi tento di evitare l’irreparabile spostando l’attenzione sul color ocra della spugnatura delle pareti. Il mio amico non si distrae. “Hai una fidanzata?”. “No”. “E cosa aspetti?”. A quel punto mio figlio guarda il mio amico con quell’odio gelido misto a un disprezzo educato e irreversibile che ho visto solo a Letta quando consegnava la campanella a Renzi, io cerco di spostare l’attenzione sulla prima cosa che mi viene in mente e cioè il cambiamento climatico. Mio figlio emette altre due consonanti fino all’arrivo del conto. A quel punto, gli esplode il sorriso di tutte le neo-spose del mondo, saluta i miei amici con pacche sulle spalle e carezze sulle nuche dei bambini come Papa Francesco.

4) Insomma. Mio figlio adolescente è in vacanza con me e con whatsapp da due settimane. La sua fidanzata è in Francia. I suoi amici sparsi per l’Italia e l’Europa. Il quinto giorno di vacanza ha salvato una mantide religiosa da sicuro annegamento in piscina. Pensavo fosse un episodio trascurabile. Avevo sottovalutato la spinta propulsiva della noia, negli adolescenti. Mio figlio ha adottato la mantide. Al momento dorme con un’insalatiera di vetro riadattata a gradino tropicale sul comodino. Trascorre almeno un’ora della sua giornata a caccia di insetti vivi con cui saziarla, mentre se io gli chiedo di passarmi una bruschetta a pranzo, me la fa scivolare per un metro dalla sua postazione alla mia come a un tavolo da gioco. E ora scusate, ma è andato a dormire: vado a prendere il vino dal bagagliaio.

Lai, l’editore eroe arrestato che fa paura alla Cina

“Ho sempre pensato che sarei finito in carcere per le mie pubblicazioni o per i miei appelli pro democrazia. Ma perché qualche tweet viene considerato una minaccia alla potentissima Cina? Questa è nuova anche per me”. Jimmy Lai lo aveva scritto a maggio. Ieri è stato arrestato dalla polizia di Hong Kong con i due figli; la redazione del suo gruppo editoriale, Apple News, perquisita a favor di telecamere da 200 agenti. Rischia dai 10 anni all’ergastolo in un carcere cinese: è accusato di aver violato la nuova legge, approvata da Pechino a fine giugno, che punisce qualsiasi forma di “collusione con forze straniere” e schiaccia ogni residuo di autonomia dell’isola dal regime cinese. La sua biografia è una storia della Cina contemporanea: nasce 71 anni fa nel GuangZhou in una famiglia ricca che ha perso tutto nella rivoluzione comunista. Sbarcato a Hong Kong a 12 anni su un barcone, si arrangia come può. È intelligente, impara l’inglese, fonda una catena di abbigliamento dal nome italiano, Giordano, che lo rende miliardario. La repressione brutale del movimento di Tienanmen nel 1989 lo trasforma in attivista pro-democrazia e critico autorevole di Pechino. In un clima di crescente censura fonda le pubblicazioni indipendenti Apple Daily e la rivista Next e diventa cittadino britannico. Continua a esporsi malgrado un tentativo di assassinarlo e un arresto a febbraio: “Quando sono arrivato qui non avevo nulla: la democrazia di Hong Kong mi ha dato tutto”. Un arresto di questo profilo è un punto di non ritorno, “la fine della libertà di stampa”, ha commentato Nathan Law, attivista costretto all’esilio a Londra. Ma Hong Kong è ormai un campo di battaglia globale: Pechino ha annunciato sanzioni a 11 cittadini statunitensi, fra cui i senatori repubblicani Marco Rubio e Ted Cruz.

Lukashenko VI contro tutti. “Ora c’è il rischio Maidan”

Scorrono sangue, lacrime e lacrimogeni a Minsk, ma poche informazioni verificate superano nelle ultime ore i confini bielorussi. È stato l’annuncio della sesta vittoria elettorale del presidente Aleksandr Lukashenko, nella notte di domenica scorsa, a far scoppiare le rivolte nella Capitale: 3 mila gli arresti, centinaia i feriti e almeno un morto. È il primo lutto slavo tra proiettili di gomma e granate sparate dalla polizia del presidente, mentre elettricità e Internet mancano in molte parti della città.

“Qui le cose cambiano ogni secondo”. Risponde dalle strade dove rimbomba l’eco dell’urlo Uchody!, “vattene”, il giornalista bielorusso Franak Viacorka. “Le proteste ci sono in tutto il Paese: anche nei villaggi la gente si raduna nei centri, incattivita dall’altissima cifra del risultato elettorale che il presidente si è attribuito”. Secondo i bollettini ufficiali Lukashenko avrebbe vinto con oltre l’80% dei voti, la sfidante Svetlana Tikhanovskaja avrebbe ottenuto meno del 10%, numeri di una vittoria inventata “grazie ad un sistema basato sulla falsificazione. Ora la popolazione chiede elezioni eque, a cui possano partecipare tutti i candidati arrestati a cui è stata vietata la corsa presidenziale”, spiega Viacorka.

La Tikhanovskaja, che ha chiesto il riconteggio dei voti, “non è leader della piazza ma il suo simbolo. Non rappresentante di un partito, ma di un movimento che chiede cambiamento. È moglie del blogger Valery Tikhanovsky, non una politica: ha ribadito più volte che non ama la sua posizione, ma sa di avere una missione. Teme la violenza delle proteste in strada, si dissocerà se diventeranno più cruente. Se però nei prossimi giorni centinaia di migliaia di persone scenderanno in strada, in maniera pacifica, potranno cambiare la storia” dice il giornalista.

Assediato, indebolito, ma non annientato, Lukashenko è sull’orlo di un equilibrio instabile che non si sa se perderà del tutto. Il dinosauro sovietico dai capelli bianchi e baffetti neri ha 65 anni e negli ultimi 26 anni il potere non lo ha ceduto mai: “quando parla di complotto orchestrato dall’estero, crede assolutamente in quello che dice. Non sa spiegarsi perché il popolo non lo ami. È un individualista, un cospirazionista: oggi ha parlato di rivolte incitate da cechi e polacchi, ma ieri erano russi, ieri l’altro americani”. Se il presidente denuncia una mano straniera dietro le proteste, è però il pugno pesante dei suoi Omon, polizia anti-sommossa, quello che pesta i cittadini che chiedono giustizia. È stato chiesto intanto un vertice straordinario di leader europei dal premier polacco Mateusz Morawiecki per frenare la brutalità delle forze dell’ordine. Queste elezioni hanno intanto lasciato un segno per le strade, nella storia e ora nelle prigioni bielorusse. Arrestati i giornalisti, perfino quelli della propaganda del Cremlino. È sparito invece nel nulla Maxim Solopov, corrispondente russo del giornale Meduza.

Prima di ipotizzare una fuga verso Mosca e un “finale Yanukovich”, – il fuggitivo presidente ucraino che scappò in Russia dopo la rivoluzione di Maidan nel 2014 – “Lukashenko si aggrapperà al potere con tutte le sue forze, non si immagina di vivere senza, è ciò che lo tiene in vita ed è così che ha trascorso tutta la sua esistenza. Dal 1994 non lo ha condiviso con nessuno, nemmeno con il suo cerchio più ristretto. Adesso calerà tutte le carte a sua disposizione sul tavolo”, conferma Viacorka. Brucia ancora Minsk, che vuole la resa dei conti e poi la rivoluzione, ma per il “padre della patria”, come si fa chiamare Lukashenko, i figli che mettono a ferro e fuoco le strade della nazione, sono forse come il virus Covid-19: “semplicemente una psicosi”.

Cisgiordania, per l’Alta Corte demolire le case lede la dignità

Un altro mattone a favore della causa palestinese, un altro punto a sfavore della eventuale campagna elettorale di Benjamin Netanyahu. Ieri l’Alta Corte di Tel Aviv ha revocato un ordine di demolizione della casa di una famiglia di un palestinese accusato di aver ucciso il soldato israeliano Amit Ben Yagal in Cisgiordania a maggio scorso. Secondo i giudici Memachem Mazuz e George Karra che hanno accolto la richiesta della famiglia di Nizmi Abu Bakr, “la demolizione comporterebbe un grave danno a una serie di diritti fondamentali, tra cui quello di proprietà e dignità umana”. Contrario soltanto il terzo magistrato, Yael Willner. “Una decisione miserabile”, ha tuonato Netanyahu. “Non possiamo concedere un vento favorevole al terrorismo”, ha continuato il premier israeliano che si è impegnato a chiedere un’altra udienza con un gruppo allargato di giudici. Di opinione opposta Mazuz che nelle motivazioni della sentenza, ha chiarito che la moglie e gli otto figli di Abu Bakr non sono coinvolti neanche “in azioni di favoreggiamento” nel delitto di cui è accusato l’uomo e che – a maggior ragione – se questi venisse condannato e dovesse finire in prigione, ciò lascerebbe definitivamente l’intero nucleo familiare senza un tetto. La demolizione sarebbe un danno dunque prima di tutto per loro”. Il giudice Karra, dal canto suo, ha affrontato la politica delle demolizione delle case più in generale, definendo “sconcertante” che “resti in vigore senza una discussione approfondita e sostanziale dei principi che rappresenta”. “L’uso continuato di questo strumento, che porta con sé gravi danni agli innocenti, rappresenta una punizione collettiva”, ha scritto Karra. Abu Bakr viveva con la famiglia in un appartamento al terzo piano dell’edificio di proprietà congiunta con suoi fratelli che hanno presentato con lui la richiesta di fermare la demolizione. L’ordine era solo per il terzo piano, e secondo un rapporto dell’esercito israeliano c’era una “bassa probabilità che la demolizione causasse danni strutturali all’edificio”. Non si è fatta attendere neanche la risposta del ministro della Difesa, Benny Gantz, che ha twittato: “Rispetteremo la decisione, ma una sentenza che revoca un ordine di demolizione per la casa del terrorista che ha ucciso Amit Ben Ygal è davvero deplorevole. Le demolizioni sono un deterrente, uno strumento importante nella lotta al terrorismo. Pertanto, ho incaricato i professionisti del ministero di richiedere un’udienza ulteriore”. Si tratta della prima volta che Gantz e Netganyahu sono d’accordo negli ultimi mesi.

Libano, lo Stato non c’è più. “Ha vinto la corruzione”

Continua ad aggravarsi il bilancio delle esplosioni di martedì 4 agosto al porto di Beirut dove sta ancora scavando anche una unità di pompieri italiani. Il numero dei morti è salito a 220 e i feriti a circa 7mila, numerosi quelli in gravissime condizioni ricoverati nei pochi ospedali rimasti meno danneggiati. Durante tutta la giornata di ieri, prima del discorso di addio del neo premier libanese, Hassan Diab, e del governo, la folla che da giovedì è in strada a protestare nuovamente e ad assaltare i ministeri, chiedendo l’uscita di tutti gli attori politici dall’esecutivo e dal parlamento, è andata montando davanti al Parlamento.

Incuranti delle cariche della polizia a suon di lacrimogeni, i manifestanti si sono arrampicati sui blocchi di cemento messi a protezione di quella che viene accusata di essere una “casta corrotta” che ha usato i tanti prestiti internazionali per arricchirsi e lasciare il paese nell’arretratezza. Tutti, nessuno escluso, sono visti al modo di leader avidi e sanguinari, come al tempo della guerra civile quando già si spartivano le risorse del paese. “Ma tutti sanno che le sole dimissioni dell’esecutivo non faranno uscire il paese dallo stallo politico. Se un futuro governo di salvezza, con mandato limitato, che includa anche i nuovi partiti e gli esponenti della piattaforma degli attivisti può dare maggiori garanzie ai donatori internazionali, ci vuole una legge elettorale diversa per condurre a un reale cambiamento”, spiega al Fatto Karim Makdisi, docente di politica internazionale all’Università Americana di Beirut. “La nuova legge elettorale dovrà farla questo governo a tempo. Perché fin quando vigerà l’obbligo di assegnare quote prestabilite di potere alle varie confessioni religiose, tutto resterà bloccato, come è accaduto e sta accadendo. Il punto è che se la nuova legge elettorale sarà proporzionale, come è da auspicarsi, le confessioni oggi in decrescita, quella cristiana per prima, potrebbero non passare”, continua il docente. In questi giorni possono succedere ancora molte cose. I partiti nati dalle proteste del 2015 contro la pubblica amministrazione di Beirut che aveva lasciato per settimane nelle strade della città tonnellate di spazzatura, purtroppo non sono ancora riusciti a unirsi. Ma ora c’è bisogno di uno sforzo di tutti. Ora, non domani, per far sì che la Francia e gli altri Istituti internazionali – prosegue Makdisi – nonostante le loro regole draconiane, ci aiutino, altrimenti qui si rischia la carestia e molti potrebbero approfittarne per agitare spettri di guerra, tenendo peraltro conto che gli Stati Uniti stanno soffiando sul fuoco”. Nel frattempo l’altrettanto contestato presidente Michel Aoun, ha avuto un colloquio telefonico con il francese Emmanuel Macron, sul risultato della conferenza dei donatori promossa da Francia e Onu.

E il segretario generale delle Nazioni Unite António Guterres ha anche chiesto che venga condotta “una indagine credibile e trasparente sull’esplosione”. Guterres ha poi confermato che l’Onu sta lavorando per aiutare il Libano sul piano umanitario. A rendere la situazione ancora più difficile è la recrudescenza del contagio che è aumentato esponenzialmente dal giorno del disastro. Per questo l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha fatto sapere che invierà 1,7 milioni di dollari di equipaggiamenti protettivi. “Anche il Covid sta mettendo a dura prova il Libano e la sua gestione da parte delle varie fazioni mostra che nulla è cambiato dai tempi della guerra civile. Quando è scoppiato il contagio, con la penuria di cibo e medicinali generati dalla disastrosa crisi economica in corso da più di un anno, gli ex signori della guerra come il druso Walid Jumblatt hanno requisito con i soldi pubblici quanto più cibo, medicine e scorte di carburante per darlo ai propri sostenitori. Questo tipo di atteggiamento estremamente polarizzante potrebbe portare a un nuovo conflitto civile”, conclude Makdisi, tornando sul ritorno in scena degli Usa contro il regime sciita iraniano e di conseguenza contro Hezbollah.

L’amministrazione Trump ha appena nominato inviato speciale per l’Iran il lobbista di estrema destra Elliott Abrams, già ‘perdonato’ da Bush senior per esser stato implicato nell’affaire Iran-Contras. Diab dimettendosi ha detto: “Il disastro di martedì a Beirut è il risultato di una corruzione endemica che ha impedito una gestione efficace del Paese. Alcune forze politiche hanno come unica preoccupazione il regolamento dei conti e la distruzione di ciò che resta dello Stato”.