Se dovessi scegliere l’elemento che più di ogni altro ha connotato i commenti all’operato del governo durante questi ultimi sei mesi, privilegerei l’infantilismo. Di fronte a un chirurgo che deve operarci noi gli chiediamo di “fare bene”; prima di ogni importante decisione governativa, si è chiesto a Conte di “fare presto”. L’altro giorno un economista notava con allarme che “la stima Istat sul secondo trimestre indica un crollo del 12,4 per cento, il peggior dato dal dopoguerra”. Ma cosa di peggiore del Coronavirus era successo dal dopoguerra a oggi? Un noto scrittore ha imputato alla ministra Azzolina di cambiare frequentemente idea come se, di fronte a una situazione mutevole, persistere in un’unica idea fosse una virtù. Un noto giornalista che ha sempre accusato di lentezza la Pubblica amministrazione, di fronte alla proposta della ministra Dadone di estendere subito lo smart working al 40 per cento degli impiegati pubblici, ha suggerito di rallentare l’operazione innovativa e procedere con prudenza. Poi ci sono gli “altristi”: qualunque cosa abbia fatto il governo, si doveva fare ben altro o in altro modo. Tutti lamentano che i provvedimenti sono finanziati con deficit in deroga, ma dove altro dovrebbe prendere i soldi uno Stato dal quale tutti pretendono soldi, del quale molti evadono le tasse e al quale, causa la pandemia, affluiscono molte meno risorse di prima? A loro volta gli imprenditori, tutti neo-liberisti a parole, hanno scoperto improvvisamente Keynes e competono tra loro non in idee shumpeterianamente innovative ma in richieste di sussidi statali come fossero la Caritas o Sant’Egidio.
Di fronte all’imponenza drammatica di un disastro epocale, imprevisto, improvviso e sconosciuto, la regressione allo stato infantile e autolesionista è possibile, ma non in misura tale da cadere quotidianamente e quasi universalmente nel ridicolo.
Da un paio di giorni l’infantilismo dei commentatori ha un altro argomento su cui accamparsi: il Decreto agosto che aggiunge 25 miliardi ai 20 di marzo (Decreto cura Italia) e ai 55 di maggio (Decreto rilancio). Buona parte di questi 100 miliardi sono andati alla cassa integrazione, al turismo, alle partite Iva, al rinvio di tasse, agli sconti fiscali per le ristrutturazioni.
Prima ancora che il governo varasse il nuovo decreto, il Corriere della Sera già paventava che sarebbero stati prorogati tutti gli ammortizzatori sociali vigenti e rimproverava il governo di adottare una politica di sostegno al lavoro invece di una politica selettiva che lasciasse al loro destino le aziende deboli e, sul cimitero di uomini e cose, finanziasse la rinascita della struttura produttiva italiana. Riconosceva – bontà sua – che gli sgravi contributivi alle imprese che fanno tornare i cassintegrati e a quelle che assumono nuovo personale a tempo indeterminato sono misure di stimolo. Ma subito avvertiva che “l’efficacia di questi incentivi è tutt’altro che scontata” come se in economia, e di questi tempi, ci fosse qualcosa di scontato. Poi era scandalizzato dal fatto che l’Italia è uno dei pochi Paesi che ha introdotto il divieto di licenziare, trascurando la lieve circostanza che l’Italia ha un governo di sinistra e qualcosa di sinistra deve pur fare. Quindi, affrontando il tema del lavoro, ricordava che, già prima del Coronavirus, l’Italia, rispetto alla Francia e alla Germania, aveva molti più disoccupati: oltre 3 milioni contro i 750.000 della Francia e i 470.000 della Germania.
Ma anche qui bisogna dirla tutta. Secondo i dati Ocse, in Italia, per decisione degli imprenditori, si lavora 1.723 ore pro-capite all’anno; in Francia 1.514; in Germania 1.356. Ci deve pur essere qualche correlazione tra queste cifre e il fatto che l’occupazione in Italia è al 59 per cento; in Francia è al 70 e in Germania al 79.
Tra il 2007 e il 2017, durante il decennio della crisi, le nostre politiche attive sono state un disastro. Nel 2007 il nostro tasso di occupazione era appena al 57,1 per cento. Allora si corse ai ripari con la legge Biagi; furono istituiti i vaucher; fu ridotto il cuneo fiscale per i privati; fu abolito l’articolo 18; furono varate le leggi del Jobs act; fu azzerata l’Irap. Tutto questo è costato allo Stato circa 30 miliardi ed è costato alla società una serie di conflitti con migliaia di ore di scioperi. Ebbene, alla fine del decennio, il tasso di occupazione era salito appena al 58,4 per cento. Una montagna di politiche attive ha prodotto un topolino di 1,3 punti di occupazione.
Ben venga dunque questo decreto d’agosto: 18 settimane di proroga della cassa integrazione, il blocco dei licenziamenti fino alla metà di novembre, la decontribuzione totale per 4 mesi per incoraggiare le imprese a far rientrare i dipendenti in cassa integrazione sono tre boccate di ossigeno che gioveranno all’economia e renderanno l’autunno meno caldo.