Il Mibact ha avuto un’ideona: il museo della lingua italiana a Firenze

Più il linguaggio della politica è pomposo, più è evidente che procede per antifrasi: il significato reale è opposto a quello letterale. Così, quando il Ministero per i Beni Culturali annuncia il Piano Strategico Grandi Progetti, bisogna leggere: Piano Tattico Piccole Mance. Sugli undici progetti celebrati sui giornaloni (103 milioni di euro su un triennio), solo quattro appaiono davvero strategici, mentre sugli “altri non è possibile dare un giudizio pienamente positivo e sarebbe auspicabile un’attenta rivalutazione, sulla base dei ricordati presupposti di legge e in chiave di comparazione con alternative possibili” (così il parere ufficiale del Consiglio Superiore dei Beni Culturali, massimo organismo tecnico scientifico di quella amministrazione).

Ben due di questi progetti culturalmente bocciati appaiono mance pre-elettorali alla giunta comunale di Firenze. Una riguarda un’opera ormai di modernariato: la Loggia di Isozaki per l’uscita degli Uffizi, già vecchia quando fu progettata, venti anni fa, in imitazione concettuale della Pyramide del Louvre. L’altra è ancora più surreale, e riguarda un Museo della Lingua Italiana, da realizzare nel complesso di Santa Maria Novella. Ennesimo museo in una città che non riesce ora a tenere aperti nemmeno i suoi musei civici, e che risponde (è sempre il Consiglio Superiore) “alla tendenza ad un eccesso di musealizzazione estensiva del presente (fenomeno già ampiamente oggetto di critica da parte di molti studiosi), piuttosto che di pratica attiva e formativa dei cittadini attraverso una relazione con il patrimonio diffuso che li circonda”.

Promuovere l’italiano è sacrosanto, ma perché costruire un museo (comunale!) della lingua (nazionale) invece di finanziare le biblioteche morenti e le scuola pubblica indigente? Forse perché il vero obiettivo è riempire contenitori, tagliare nastri, invitare influencer?

Ora al Mit studiano il tunnel, proprio come negli anni 70

Il Ponte sullo Stretto di Messina, o Tunnel che è giusto tornato di moda, è come il maiale: non se ne butta via niente. Da cinquant’anni a questa parte – cioè dal grande concorso internazionale di idee del 1970 – ogni tanto qualcuno tira fuori una nuova proposta già vecchia per un’opera che, ammesso e non concesso che sia utile, è di quasi impossibile realizzazione, quale che sia la scelta tecnica.

Questa, per dire, è un’Ansa del 29 giugno 1987: “Stretto di Messina: il dilemma ponte-tunnel sciolto entro l’anno”. Il dilemma ponte-tunnel poi fu sciolto definitivamente anni dopo a favore del primo, quando ormai però sia la Dc (pro-ponte con l’Iri) che il Psi (pro-tunnel con l’Eni) s’erano entrambi sciolti da tempo in quel calderone post-politico detto Seconda Repubblica.

Quel dilemma, però, nel 2016 tornò ad agitare le notti di un ministro delle Infrastrutture: “Il ponte è una delle ipotesi, che non può essere esclusa a priori e non può nemmeno diventare l’ipotesi principale”, tanto che “sto facendo fare uno studio di fattibilità”, buttò lì Graziano Delrio. Poi non se ne fece più nulla e oggi è dunque quasi naturale – appena liquidata definitivamente la Stretto di Messina Spa, che da decenni doveva far finta di fare il ponte – tornare a far finta di poter fare il tunnel.

Il suo più acceso fautore è attualmente il viceministro grillino Giancarlo Cancelleri, già candidato bi-trombato alla presidenza della Regione Sicilia: s’è innamorato dell’intuizione, per così dire, di un gruppo di ingegneri in pensione coordinato da Giovanni Saccà. Il poderoso “progetto” è oggi all’analisi della struttura di missione del ministero delle Infrastrutture e la sua sola esistenza è bastata a donare nuova vita a un dibattito che pareva spento.

Com’è noto, domenica lo stesso Giuseppe Conte ha citato il tunnel, seppure rinviandolo alle calende greche di quando saranno ammodernate le infrastrutture di trasporto in Calabria e in Sicilia: “Quando completeremo il piano ferroviario dell’alta velocità, si porrà anche questo problema: sullo Stretto dobbiamo pensare a un miracolo di ingegneria, una struttura eco-sostenibile, leggera, compatibile coi territori, se del caso anche sottomarina. Tutte le ipotesi sono aperte”.

Ieri, però, la ministra competente, Paola De Micheli, s’è spinta parecchi passi più in là: “Presenteremo la nostra proposta in sede di Recovery Fund per completare il collegamento tra Messina e Reggio Calabria”. Il tunnel coi soldi di NextGenerationEu? Non proprio, spiegano al ministero delle Infrastrutture: “Chiederemo le risorse per lo studio di fattibilità e lì si valuteranno tutte le soluzioni progettuali”. E qui il pensiero non può che correre agli oltre quaranta gruppi di ricerca che hanno fatto studi di fattibilità nei decenni precedenti (costati uno sproposito di milioni). E non solo a loro: “C’è la possibilità che la Comunità Europea finanzi gli studi di fattibilità in vista della costruzione di un ponte sullo Stretto di Messina” (Ansa, 9 febbraio 1982).

Il problema del tunnel risorto è che al momento sono due. Negli articoli sull’intervento di Conte di domenica tutti gli inviati citano, evidentemente dopo appositi chiarimenti, il tunnel del Fehmarn Belt, che in 18 km dovrebbe unire un’isola danese a una tedesca: se ne parla da un quindicennio e i lavori – dicono – dovrebbero iniziare l’anno prossimo e concludersi nel 2030. Si tratta di un tunnel sottomarino, ancorato al fondo del mare con dei cavi e ovviamente c’è un progetto simile anche per lo Stretto di Messina: è il “Ponte di Archimede”, che ebbe il suo momento di gloria negli anni Settanta ma fu presto dichiarato infattibile (colpa delle correnti selvagge dello Stretto e del fatto che tra Scilla e Cariddi il fondo è purtroppo costituto da ghiaia e sabbia per decine di metri).

Il “secondo” tunnel, invece, è quello dell’ingegner Saccà che è allo studio del ministero (che ovviamente ne ha già studiato uno simile anni fa) ed è “subalveo”, cioè viene scavato sotto il fondo del mare: parecchio sotto visto lo strato di ghiaia e sabbia di cui sopra, più o meno a duecento metri, forse di più. E qui ci sono un paio di problemi. Intanto quella è una zona vulcanica e nello stretto passa la “faglia di Messina” (ricordate il terremoto del 1908?): scavare in profondità potrebbe non essere una buona idea, specie se si ipotizza – come alcuni geologi fanno – una salita in superficie della faglia. In secondo luogo per scavare a quella profondità e mantenere la pendenza massima per l’alta velocità dell’1,5%, il tunnel dovrebbe partire una quindicina di chilometri prima di Reggio Calabria e sbucare in Sicilia una quindicina di chilometri dopo Messina. Un modo bizzarro di connettere le due città su cui ci si interrogò già negli anni Ottanta, e poi negli anni Novanta, ritenendolo poco in linea con lo spirito dell’iniziativa.

Ma del dibattito sullo Stretto non si butta niente, com’è noto: vedrete che tornerà anche il momento del Ponte.

La guerra di “Martin Mystère” alla Bonelli. Disegnatore contro sceneggiatori: “È plagio”

Il “Detective dell’impossibile” Martin Mystère, forse non riuscirebbe a risolvere il caso ora al tribunale civile di Milano. Al centro della storia la denuncia per violazione del diritto d’autore intentata dal disegnatore Roberto Cardinale contro gli sceneggiatori della “Sergio Bonelli Editore” per cui lavora: “Dal 2014 ritrovo il mio materiale già pubblicato, sceneggiature e disegni, in svariati numeri di Orfani, Dylan Dog, Nathan Never – spiega Cardinale -. Addirittura anche degli inediti interamente ripresi”. Il fumettista da quasi 30 anni lavora come disegnatore per la serie di Martin Mystère, ma da sei combatte contro alcuni tra i più noti sceneggiatori di fumetti italiani che avrebbero attinto a piene mani dal suo materiale.

Perno di questa vicenda, che ha dato vita a un processo contro diverse figure della Bonelli, è Roberto Recchioni, curatore di Dylan Dog e di Orfani, che secondo Cardinale continuerebbe a plagiare ancora oggi. A ritroso però la figura che sembra dare avvio a tutto è Manfredi Toraldo, grafico, insegnante ed editore, il quale avrebbe ricevuto il materiale inedito da Danilo Chiomento, per la casa editrice “Allagalla” interessata a pubblicare Kepher, personaggio di Cardinale. Il materiale dato alla casa editrice torinese, consegnato solo per una valutazione, finisce in altre opere delle edizioni Bonelli e della Shockdom. “Diedi il materiale ad ‘Allagalla’, per la scuola in cui insegna Toraldo per mostrare il lettering di Kepher. Ma loro hanno ripreso i personaggi, trama, disegni”. La sceneggiatura arriva poi nelle mani di Roberto Recchioni e di Davide Rigamonti, curatore della serie Odessa e sceneggiatore di Nathan Never, di Lucio Staiano, direttore della casa editrice Shockdom e dello sceneggiatore Antonio Silvestri (Tauro).

Tutti ad oggi coinvolti nella causa, e dopo la denuncia uniti anche nel lavoro: dopo l’inizio del processo, infatti, Manfredi Toraldo, ad oggi contumace, è diventato sceneggiatore della serie dello stesso Davide Rigamonti. Insieme infatti firmeranno il nuovo numero di Odessa. Il momento fortunato di Toraldo, lo porta a far parte anche della Shokdom: l’editore Lucio Staiano infatti, dopo il processo, ha acquisito la sua piccola casa editrice, la ManFont, nel 2019. “Mi hanno ripreso tutto il lavoro di una vita – protesta Cardinale –. Come soggettista-sceneggiatore ho all’attivo diverse migliaia di pagine e queste persone le hanno utilizzate praticamente tutte”. L’amarezza traspare dalle parole di Cardinale, che da diversi anni, dopo la denuncia non disegna quasi più: “La Bonelli che ha creato eroi senza macchia, come Tex o Zagor, spero che prendano spunto da loro”.

Nel Pd si litiga anche da piccoli: sospeso congresso

È guerra aperta tra i Giovani democratici: accuse di brogli, “compravendite” e “intimidazioni” e un congresso chiuso nel caos. A cantare vittoria sono entrambi i due sfidanti ventinovenni: la molisana Caterina Cerroni e il toscano Raffaele Marras. La contestata vittoria di Cerroni, che sarebbe la prima donna a guidare i Giovani Dem, è stata festeggiata da diversi esponenti del Pd ma Marras, a suon di post vittoriosi su Facebook, ha contestato l’esito e adesso dovrà intervenire la commissione di garanzia del congresso. La ventinovenne, che ha corso in ticket con il milanese Davide Skenderi, sarebbe riuscita a battere (se il riconteggio dovesse confermare questo esito) il candidato sostenuto dalla maggioranza Pd, con tanto di sostegno di alcuni esponenti della segreteria di Zingaretti. Uno ribaltamento degli equilibri nazionali: con Cerroni si sono schierati diversi esponenti della minoranza del partito. Come Maurizio Martina e Matteo Orfini, ma anche Livia Turco e Barbara Pollastrini, che sottolineano l’importanza dell’elezione di una donna.

Per lo sfidante una polemica “incredibile, gli ultimi giorni di campagna congressuale sono stati segnati da spregiudicate operazioni di compravendita di voti”. I Giovani democratici sono autonomi rispetto al Partito democratico ma dal Nazareno sarebbe partito l’auspicio di una “soluzione unitaria”. Il clima interno però è incandenscente al punto che Caterina Conti, presidente della commissione di garanzia dei Gd, è dovuta intervenire con una nota: “Non ci sono ancora risultati ufficiali”.

Banchi, l’esercito per la consegna? “Annullare gara”

“L’esercito per consegnare i banchi? Al commissario Arcuri ricordo che le gare hanno delle condizioni. Se le condizioni si cambiano in corsa, le gare sono nulle”. A dirlo è Gianfranco Marinelli, presidente di Assufficio – sigla che raggruppa varie aziende italiane di arredo scolastico – commentando l’ipotesi di un intervento dell’esercito italiano per la consegna dei nuovi banchi monoposto alle scuole entro il 12 settembre, suggerita dal commissario straordinario Domenico Arcuri. “Si tratta di un’operazione straordinaria, forse mai messa in campo negli ultimi decenni. L’esercito ci ha già dato una mano durante i mesi più difficili, se dovessimo chiamarlo in causa anche questa volta non credo che si tirerebbe indietro”, ha detto Arcuri a In Onda su La7.

“Non vorrei – risponde Marinelli – che questa sua uscita sia dovuta al fatto che alcune imprese straniere abbiano negato possibilità di consegna offrendo però disponibilità su lotti minimi”. La gara, infatti, prevede che il vincitore debba occuparsi anche di consegna e installazione: il termine per la presentazione delle offerte è scaduto il 5 agosto, l’assegnazione è prevista per il 12. Secondo quanto annunciato dal commissario le offerte pervenute sono 14, di cui alcune da imprese estere. “Vorrei ricordare ad Arcuri – prosegue – che quella era una gara che prevedeva delle condizioni che non possono essere rotte. Ci sono aziende italiane che non hanno partecipato perchè prevedevano impossibile garantire la consegna. Dunque, la cosa più semplice è che la gara venga annullata”.

“Noi non facciamo polemiche – precisa Marinelli – ma pensiamo che nessuna azienda italiana abbia accettato le condizioni di consegna minima perchè non si può correre il rischio di andare incontro a penali. Se la fornitura andrà agli stranieri, in un colpo si azzererà l’industria nazionale dell’arredo scolastico”.

Savona e la passione per il grembiulino. Il presidente Consob ospite del Goi

Del rapporto tra Paolo Savona e la massoneria si è scritto molto. Ora se ne ha nuovo motivo: il presidente della Consob sarà ospite del Grande Oriente il 12 settembre a Rimini, durante la Gran Loggia 2020. Si parlerà di “economia italiana nel mondo”, ma quel che incuriosisce è la partecipazione di Savona, non iscritto eppure spesso accostato alla massoneria. Due anni fa, quando saltò la sua nomina all’Economia, il Corriere riferì di un Luigi Di Maio convinto che Savona facesse parte della “massoneria americana”. D’altra parte il nostro per decenni aveva frequentato il Pri con l’amico Armandino Corona, che del Goi fu Gran maestro. Per non dire del rapporto con Giancarlo Elia Valori e Luigi Bisignani, esponenti della catto-massoneria. “Il fatto che Savona partecipi alla parte pubblica delle nostre attività non significa siaun massone”, precisa il Gran Maestro Stefano Bisi. Che sia occasione per l’affiliazione? “I nostri metodi sono rigorosi. Si fa domanda, si viene a contatto coi fratelli e poi c’è l’eventuale approvazione, un po’ come nei vecchi partiti”.

Sileri: “Per questi Paesi Ue valutare altre quarantene”

“Se il trend dovesse rimanere questo, valutiamo, nei prossimi giorni, l’estensione dell’obbligo di quarantena a nuovi Paesi dell’area Schengen”. Cioè a Spagna, Grecia, Malta e Croazia, le mete vacanziere da cui provengono quasi tutti i contagiati “di ritorno” che preoccupano l’Italia. Lo dice al Fatto il viceministro alla Salute Pierpaolo Sileri, precisando che nei confronti di questi Stati è impossibile ipotizzare un blocco dei voli: la misura più probabile è quindi l’obbligo di isolamento fiduciario per 14 giorni, già in vigore per Romania e Bulgaria oltre che per i Paesi extra-Schengen. Ma la soluzione preferita dall’ex chirurgo, già esposta il mese scorso in un’intervista al nostro giornale, resta il doppio tampone per chi arriva da mete a rischio: “Penso agli Usa o agli Emirati Arabi, ma anche agli Stati europei più in difficoltà come Spagna o Croazia. Si fa il tampone in aeroporto, si aspetta l’esito isolati quattro o cinque giorni, a doppio tampone negativo si esce”. Questa, dice Sileri, dovrebbe essere la strategia comune da adottare a livello europeo, sulla scorta di quanto già messo in campo, ad esempio, dalla Germania nei giorni scorsi. Al momento in Italia non c’è obbligo di test per gli ingressi da nessuno Stato. Nel frattempo “il rischio va ridotto al minimo con tutti gli strumenti a disposizione, inclusi controlli rafforzati alle frontiere. Il vaccino non lo avremo fino al 2021 e non sappiamo se sarà immediatamente efficace. Dobbiamo farci trovare pronti alla seconda ondata, che poi, se tutto va bene, non sarà un’ondata ma al massimo una mareggiata: abbiamo imparato a usare le mascherine e a stare a distanza, a meno di un impazzimento collettivo non torneremo ai numeri di marzo”. Per il viceministro è importante soprattutto guardare al Nord Europa, con l’abbassamento delle temperature che potrebbe anticipare gli effetti che da noi avrà l’autunno.

Sul piano interno, invece, prosegue il confronto sul distanziamento a bordo dei mezzi pubblici. L’ipotesi uscita dal tavolo tra enti locali e governo è di installare pannelli tra le sedute su treni regionali e bus per derogare ai limiti di carico. Manca ancora il parere del Comitato tecnico-scientifico e il nulla osta dell’Inail sulla sicurezza dei passeggeri. Il ministro agli Affari Regionali Francesco Boccia ha aperto ai mezzi a pieno carico, pregando però i governatori di evitare l’ordine sparso delle ultime settimane sui trasporti ferroviari. Per aiutare il settore, messo in crisi dal crollo dei biglietti, il governo ha stanziato 700 milioni di euro nel corso del 2020. “Abbiamo confermato, insieme con i Comuni, la fortissima preoccupazione per la situazione del trasporto pubblico locale, quando a settembre riapriranno le scuole e riprenderanno le attività lavorative”, ha spiegato il governatore dell’Emilia-Romagna Stefano Bonaccini. “È chiaro che il riferimento di base deve essere la sicurezza sanitaria, ma governo e regioni, insieme, devono fare i conti anche con la sostenibilità del trasporto pubblico. Insieme dobbiamo trovare soluzioni che consentano la gestione dei servizi in un periodo in cui dovremo convivere con il contenimento del virus”. Più critica Claudia Maria Terzi, assessore lombardo alla Mobilità: “Avevamo chiesto un miliardo di euro per il distanziamento sui mezzi di trasporto, ma la risposta sono i 400 milioni del Decreto agosto. Risorse insufficienti per acquistare nuovi mezzi e compensare le minori entrate del periodo di lockdown.

Contagi per i rientri-vacanze: ogni Regione va per conto suo

Scendono a 259 i nuovi contagi da Covid-19 registrati ieri in Italia, in netto calo rispetto al giorno precedente (erano 463). E 4 i nuovi decessi. Ma a preoccupare restano soprattutto i rientri dall’estero: sono otto, da Nord a Sud, i focolai innescati da vacanzieri tornati da mete turistiche europee. In particolare dalla Grecia, da dove arrivano ben 15 contagiati di ritorno: 5 a Faenza, 5 nel Leccese (tra i comuni di Muro Leccese e Squinzano) e 5 in Valdarno (a Montevarchi e Terranuova Bracciolini, in provincia di Arezzo). Erano stati in Croazia, invece, sia i 21 giovani veneti trovati positivi tra Padova, Verona e Vicenza, sia altri 5 contagiati a Cuneo. E poi c’è Malta: da qui provengono sia gli 11 casi di Siracusa, sia 3 dei 5 del focolaio di Bologna (gli altri 2 erano stati a Parigi). E, sempre da Malta, rientravano a Roma gli 8 ragazzi positivi tra i 17 e i 19 anni, dopo una vacanza di una settimana.

In attesa di una indicazione unica nazionale, e quindi di un provvedimento del governo invocato più o meno da tutte le regioni che stanno fronteggiando la nuova emergenza dell’epidemia di Covid19 – ovvero i focolai accesi dagli italiani, soprattutto giovani, che rientrano dall’estero infettati dopo una vacanza –, c’è chi opta per misure soft e chi calca la mano. E il primo dato è che, ancora una volta, si procede in ordine sparso.

Tra queste regioni, ricapitolando, ci sono il Veneto (coi 21 contagiati in un gruppo di circa 90 studenti rientrati dalla Croazia, tra Padova, Vicenza, Verona, è la regione in questo momento col numero maggiore di “casi di rientro”), ma anche il Piemonte. Assieme a Toscana, a Puglia, Sicilia, Emilia Romagna e Lazio.

Nella cornice della misura nazionale che dal 9 luglio impegna chi arriva dall’estero a consegnare alle forze di polizia, in caso di controlli, una autodichiarazione, solo il Veneto di Luca Zaia ha optato per la raccomandazione del tampone o del test sierologico per chi rientra dopo un soggiorno: in Romania o in Bulgaria. Raccomandazione peraltro prevista dall’aggiornamento del piano di sanità pubblica, che si applica anche alle badanti o ai lavoratori rientrati dopo una trasferta oltreconfine.

Altrove si scelgono misure più morbide. Il Lazio di Nicola Zingaretti non molla la presa sui controlli (oggi concentrati prevalentemente ai caselli autostradali). Ma è proprio Zingaretti il primo a chiedere che dal governo arrivi un provvedimento valido per tutto il territorio nazionale. Richiesta a cui si accodano le altre Regioni. A partire dalla Puglia, che ha puntato sull’autosegnalazione sul sito della Regione, rendendola però obbligatoria, pena sanzioni pecuniarie: il compito di valutare l’entità del rischio è stato poi demandato alle aziende sanitarie che possono convocare chi è rientrato dall’estero e suggerire – ma non imporre – il tampone.

L’Emilia Romagna ha attivato un gruppo di lavoro per varare un protocollo valido per tutti i rientri. Per ora al centro dell’attenzione ci sono le badanti, poi le misure varranno anche per i turisti.

Il Piemonte per ora ha una proposta di delibera. Fermo restando il divieto d’ingresso – previsto a livello nazionale da chi proviene da Paesi come l’Armenia, il Kosovo, il Brasile, la Macedonia, la Bosnia (16 Paesi in tutto), la delibera prevede l’isolamento per chi arriva da un paese che non fa parte dell’area Schengen, con obbligo di segnalazione al dipartimento di prevenzione dell’azienda sanitaria locale.

Proprio come in Sicilia. “Il tampone è utile – dice Roberto Testi, direttore del dipartimento di prevenzione dell’Asl Città di Torino ed ex coordinatore del comitato scientifico dell’unità di crisi –. Ma vanno considerati il periodo di incubazione e i falsi negativi, che non sono infrequenti. In ogni caso la normativa di riferimento deve essere di carattere nazionale, non regionale”.

Molto soft le misure adottate dalla Toscana. “Ci affidiamo alle regole nazionali”, dice l’assessore al Diritto alla salute, Stefania Saccardi. Nel frattempo tutto si basa sul suggerimento e sulle raccomandazioni: a chi rientra dall’estero si consiglia l’autosegnalazione al medico di famiglia o all’Asl, insieme al test sierologico. Intanto in Toscana continuano i controlli, tra gli aeroporti di Pisa e di Firenze. E anche qui, per chi proviene da un Paese non Schengen, scatta l’isolamento fiduciario di due settimane.

Pd e Lega: uguali su grandi opere e sanità privata

Ci sono due modi per guardare alle elezioni in Toscana. Il primo è con una lente politicista, quella che “farà leggere nel risultato del centrodestra e di Ceccardi il risultato di Matteo Salvini” (così Adriano Sofri): quella che fa scegliere il cosiddetto “voto utile”. Un voto senza entusiasmo: non tanto per l’Eugenio Giani pesce bollito di un intramontabile potere dei corridoi, quanto contro il “fascismo” ruspante ostentato dalla caricaturale Susanna Ceccardi.

Oppure si possono usare gli occhi dei toscani: ma dei toscani poveri. Dei sommersi, non dei salvati. E allora scegliere un voto utile per la vita di chi lo dà, quel voto, e non per gli analisti politici che lo sezioneranno la notte del 21 settembre.

Un voto per Tommaso Fattori, per esempio, e per la sua lista Toscana a Sinistra. Io farò così: per eleggere a rappresentarmi Marcello Gostinelli, operaio cassintegrato della Bekaert iscritto alla Fiom, o l’economista Anna Pettini, presidente del corso di laurea triennale in Scienze Politiche.

È una scelta spartiacque, che parte dalla constatazione di un dato di fatto: Giani e Ceccardi sono (per usare un popolarissimo proverbio toscano) zuppa e pan bagnato. Che non vuol dire che siano uguali: perché la ribollita non è la panzanella. Ma vuol dire che sono molto simili, perché hanno alla base lo stesso ingrediente, che è per l’appunto il pane stantio che accomuna un Pd totalmente succube dell’Italia Viva di Matteo Renzi alla Lega di Matteo Salvini. Quel pane è la totale accettazione dello stato delle cose, dei rapporti di forza esistenti. Che vinca Giani o che vinca la Ceccardi, per i toscani non cambierà quasi nulla. A parte i toni della retorica, certo: Giani non farà le moschee senza avere il coraggio di dire perché (così hanno fatto Renzi e Nardella), la Ceccardi non le farà esplicitando posizioni razziste. Per farlo userà le parole di quella toscanissima Oriana Fallaci a cui Giani e i suoi dedicano vie e statue.

Come Fattori (consigliere regionale uscente) ha puntualmente documentato in tutta la legislatura appena finita, Pd e Lega sono stati d’accordo su ogni scelta strategica: grandi opere (a partire dall’ampliamento dell’aeroporto di Firenze), inceneritori, soldi alla scuola privata, privatizzazione crescente della sanità, consumo del territorio (a partire dal massacro delle Apuane) e sabotaggio della legge Marson sul paesaggio (non per caso Anna Marson, assessora tecnica della prima giunta Rossi, dichiara il suo voto per Fattori). Del resto, la legislatura si è chiusa con un accordo Lega-Pd per impedire la ripubblicizzazione dell’acqua in Toscana.

Qua sta la vera ragione della debolezza della Ceccardi (che sondaggi terroristici orientati da Italia Viva provano invece ad accreditare come fortissima): la destra dei poteri trasversali e segreti voterà compattamente per Giani. Scommetto che Denis Verdini e signora non voteranno per la candidata del genero Salvini, ma per il naturale rappresentante dei loro interessi: che sono gli interessi di chi vuole che tutto vada come è andato finora.

La scelta di Giani, imposta da Renzi, ha impedito anche solo il tentativo di costruire in Toscana qualcosa di simile all’alleanza giallorosa che in Liguria candida Ferruccio Sansa. È vero che in Toscana i Cinque Stelle sono sempre stati residuali, ma è anche vero che solo un’intesa con loro avrebbe potuto costringere il Pd a mettere in discussione il suo ossificato sistema di potere, innescando un processo che avrebbe coinvolto inevitabilmente anche la sinistra. Invece, niente: si è imposto il peggio del peggio puntando tutto sul voto utile, cioè sulla speranza che il pan bagnato sembrasse peggio della zuppa. Un ricatto morale amplificato dalla demenziale legge elettorale toscana che il Pd stesso si è costruito.

Ma ormai sappiamo che a forza di mali minori si è costruito un male maggiore, a forza di subire ricatti siamo arrivati a un’astensione di massa, a forza di pensare solo ai governi abbiamo distrutto la rappresentanza dei più deboli. Ora basta: con la zuppa, e anche col pan bagnato.

La Toscana non è più felix e nemmeno rossa

Tirrenia (Pisa), 19 settembre 1982. Ventotto ettari di macchia bonificata, dieci chilometri di nuove strade, 25 stand gestiti dai paesi dell’Unione Sovietica. Davanti al segretario del Pci Enrico Berlinguer ci sono mezzo milione di persone. Anzi di “compagni di Pisa”, come li chiama lui durante il comizio finale della Festa dell’Unità. Berlinguer parla per due ore e arringa la folla oceanica sulla “questione morale” contro “il pentapartito immobilista” e “i poteri occulti e mafiosi” che avevano massacrato il generale Dalla Chiesa. Standing ovation. Fermo immagine. Trentotto anni dopo, i compagni di Pisa non ci sono più. Sul palco di Tirrenia al posto di Berlinguer ci sono Matteo Salvini e Susanna Ceccardi. Sotto, in platea, i figli di quegli operai e artigiani che quarant’anni fa votavano comunista perché in Toscana “si è sempre fatto così”. Mille persone in tutto. Tra loro c’è Piero, ex ferroviere di 78 anni, che nel 1982 era sul pratone ad ascoltare Berlinguer e oggi stravede per “Matteo”: “È l’unico che pensa a noi – dice convinto – parla ai poveri, ai pensionati e vuole impedire che la marea di immigrati non rubi il lavoro ai nostri figli”. Pausa. “Io sono sempre stato comunista e lo sono ancora: ma alle prossime regionali voterò Lega”.

La partita del 20-21 settembre sta tutta qui: in gioco c’è il mito della rossa “Toscana felix” dove per i comunisti era un fallimento scendere sotto il 70%. Quel mito non significa solo Feste dell’Unità tutto lampredotto e Chianti o il porta a porta per vendere il giornale nel Mugello. La “subcultura rossa” che ha imperniato questa regione è molto di più: l’apparato, le coop, l’autarchia bancaria finita allo sfascio (Mps), l’occupazione di ospedali e Università. Non si muoveva una foglia senza il volere del “Partito”. Un sistema di potere. Oggi la “Toscana felix” non esiste più, o perlomeno è moribondo. Qualunque sarà il risultato finale. Basti pensare che dopo Enrico Rossi nessuno candidato a presidente della Regione ha un passato rosso. Né Eugenio Giani, 61 anni e storico socialista craxiano che i comunisti non li ha mai sopportati, né ovviamente le due giovani outsider Irene Galletti (M5S) e Susanna Ceccardi (Lega). La prima, 43 anni, non ha mai fatto politica (lavorava all’aeroporto di Pisa) prima di avvicinarsi ai primi meet up del M5S. Ceccardi invece di rosso ha solo la chioma e un nonno partigiano ucciso dalla X Mas. Lei i “compagni” li ha sempre combattuti fino da quando prendeva le botte a distribuire i volantini della “Padania Libera” davanti alle aule di Scienze Politiche a Pisa. Poi sono arrivati i muri rossi da abbattere: la prima in assoluto è stata Cascina (Pisa) dove nel 2016 vinse al ballottaggio per 101 voti. Oggi, forte delle 32mila preferenze alle europee, ci riprova con la Regione. Una missione quasi impossibile. L’unico candidato che ha una vocazione di sinistra è Tommaso Fattori, 44 anni, che con la sua “Sì Toscana a Sinistra” potrebbe diventare l’ago della bilancia al ballottaggio forte del suo 5-6%.

Poi ci sono i numeri che parlano chiaro. Negli ultimi cinque anni, il rapporto tra i comuni capoluogo si è completamente ribaltato: nel 2015 era 10 a 0 per il centrosinistra. Oggi – dopo le vittorie ad Arezzo, Grosseto, Pistoia, Pisa, Massa e Siena – siamo 6 a 4 per il centrodestra. Uno tsunami. Spiega Marco Valbruzzi, ricercatore dell’Istituto Cattaneo: “Ormai la Toscana è un luogo aperto alla competizione elettorale dove contano le candidature e le proposte: ma non si vota più in base all’appartenenza”. Molti storici elettori del Pci se ne sono andati da tempo e oggi non hanno alcun problema a votare la Ceccardi. “Il vero momento di rottura è stato il 2013 quando è arrivato il primo tradimento del partito, verso il M5S – continua Valbruzzi – Come quel marito fedifrago che dopo il primo tradimento si sente libero di farlo altre volte”. Questo è avvenuto nelle aree di maggior disagio economico della Toscana – la costa – dove il Carroccio può cavalcare i temi della sicurezza e dell’immigrazione. Sul voto potrebbero pesare i dati sull’occupazione, drammatici a causa dell’emergenza Covid: secondo l’ufficio Studi Ires da inizio anno la Toscana potrebbe subire una perdita tra i 70 e i 100mila posti di lavoro.

Per questo, conterà molto la capacità dei corpi intermedi – soprattutto il sindacato – di mobilitare ancora i propri iscritti. “Dobbiamo dircelo: il mondo è cambiato e non portiamo più in piazza 3 milioni di persone – ammette la segretaria toscana della Cgil, Dalida Angelini – ma il nostro ruolo è proprio questo: sappiamo che diversi nostri iscritti votano Lega e abbiamo il compito di indirizzarli sui nostri valori”. A salvare il centrosinistra non sarebbe più il voto di appartenenza quanto il pericolo dei “barbari” alle porte teorizzato da Nanni Moretti in Aprile: il diritto di non votare “per” ma “contro” qualcuno. In questo caso contro la destra salviniana. “Io la chiamo appartenenza negativa” conclude Valbruzzi.

Alle regionali di settembre non c’è solo in ballo il mito della “Toscana Felix” ma anche il modello di una regione ormai diventata “Firenze-centrica”. Da una parte, il fiorentino per eccellenza Eugenio Giani e dall’altra le due pisane Galletti e Ceccardi. Sulle infrastrutture Giani, che a Firenze ha il suo pacchetto di voti principale, parla solo di aeroporto e stadio di Firenze mentre Galletti e Ceccardi puntano sulla Tirrenica fino alla Maremma, sulla Grosseto-Siena e sui collegamenti interni. Sulla sanità il candidato renziano è in perfetta continuità con la riforma Rossi che ha accentrato e creato il modello dell’ospedalizzazione, contro la medicina territoriale proposta dalle sfidanti. È l’eterno ritorno del centro contro la periferia: Firenze contro Pisa, Firenze contro la costa. Strapotere e strapaese.

E a ben vedere è anche l’eterogenesi dei fini del renzismo – ontologicamente provinciale – che dal triangolo Rignano-Laterina-Pontassieve aveva fatto partire l’assalto alla Capitale e ai parrucconi “da rottamare”. Poi il renzismo si è fatto potere aviotrasportando assessori, portaborse, dirigenti, giornalisti, manager, capi di gabinetto e vigili urbani. E infine, si sa, i petali del Giglio Magico – insieme al padrino Denis Verdini – sono caduti con il suo leader. E adesso sono i renziani a rappresentare il “centro” contro la provincia. Dentro la ztl delle città stravincono loro, in periferia la Lega e il M5S. Ma potrebbe non bastare.