“Mi ricandido, guardo a sinistra. Ma col Pd zero giochi di palazzo”

Voleva farlo e voleva dirlo, da settimane. Lo ha fatto e lo ha detto, ieri. “Un progetto ha bisogno di tempo, e adesso bisogna partire” racconta al Fatto la sindaca di Roma Virginia Raggi. Si ricandiderà, come ha annunciato ieri in videoconferenza ai consiglieri del M5S, la sua maggioranza in Campidoglio. E in un lunedì di agosto le agenzie si intasano delle reazioni degli altri partiti.

Sindaca, perché l’annuncio ora?

Ne parlavo da settimane con la mia maggioranza, con il Movimento, con il mio staff e con la mia famiglia. Bisogna partire. Non c’è tempo per accordicchi o accordi di palazzo.

Allude al Pd? Il presidente del Consiglio regionale del Lazio Leodori, vicino al segretario dem Zingaretti, aveva proposto pubblicamente al M5S un accordo su un nome terzo.

Abbiamo passato anni a ripianare i debiti e a riparare agli errori del passato. Ora tutto ciò che avanza nel bilancio viene destinato ai servizi per i romani. Io voglio dialogare con la sinistra, ma il Pd non sa più farlo. Avrei voluto vedere i dem con me quando mi sono schierata contro CasaPound.

Lei fa parte del M5S, dove vige ancora la regola dei due mandati, che le impedirebbe di ricandidarsi. Ha avuto ugualmente il via libera dei big?

Tutti coloro che ho sentito mi hanno detto che apprezzano il mio lavoro e riconoscono i miei risultati, e mi hanno esortato ad andare avanti. Nel Movimento c’è un dibattito sui due mandati, e se ne sta discutendo.

Lei intanto si è ricandidata…

Ho messo sul tavolo la mia disponibilità. Nel frattempo c’è un dibattito sulla regola, che rispetto.

Cosa le ha detto Beppe Grillo?

L’ho sentito, e credo che sia d’accordo sulla mia scelta.

Davide Casaleggio vuole estendere il mandato zero anche ai sindaci per superare i due mandati. Ne avete parlato, giusto?

È la sua idea, sì. Vuole legare i mandati all’esperienza amministrativa.

Perché i romani dovrebbero rivotarla? Se dovesse convincere adesso una persona cosa le direbbe?

Innanzitutto, le direi di votarmi per non tornare al passato fatto di corruzione e affari loschi, a quel mondo di mezzo allargato. Poi le spiegherei che bisogna completare un percorso. In cinque anni non si può cambiare Roma, ma si può invertire la rotta. E noi l’abbiamo invertita.

Secondo diversi osservatori il suo metaforico bilancio è in perdita.

In questi anni abbiamo ripristinato i bandi di gara e messo a posto i conti. Abbiamo combattuto l’illegalità e i clan, abbattendo le case dei Casamonica e cacciando gli Spada dai palazzi occupati. Abbiamo ridato a Ostia le spiagge libere, invase dalla criminalità e da costruzioni abusive. Entro il 2021 avremo sistemato 780 chilometri di strade su 800. Abbiamo approvato un piano di mobilità sostenibile. E ogni anno investiamo su Roma un miliardo.

Sarà, ma su Roma incombe sempre il dramma dei rifiuti. Negli ultimi giorni lei si è nuovamente scontrata con il governatore del Lazio Zingaretti sul piano regionale: un bel guaio. Come affronterà il tema?

Con Zingaretti abbiamo una visione diversa. In base al suo piano il ciclo dei rifiuti dovrebbe essere smaltito tutto dentro Roma, ma così dovremmo dotarci di non so quante discariche. Sul tema dell’Ama (la municipalizzata dei rifiuti, ndr) devo confrontarmi anche con la Regione, ma risolverò anche questo problema, come ho fatto con Atac (la municipalizza dei Trasporti, ndr).

Il dem Filippo Sensi commenta così la sua ricandidatura: “Ma quindi gli autobus a fuoco oggi a Roma erano gli effetti speciali per l’annuncio della lieta novella?”.

Gli autobus che vanno a fuoco hanno tutti più di 15 anni. Quelli del Pd ci dicano dove negli anni scorsi hanno messo i soldi che servivano per rimpiazzarli, piuttosto. In due anni noi abbiamo messo sulle strade 500 nuovi mezzi.

Giorgia Meloni: “Oggi va in frantumi anche la regola dei due mandati del M5S, che da movimento dei cittadini diventa il partito dei nuovi politicanti”.

La politicante è Meloni, che sta in politica da anni. Di lei non si ricorda un provvedimento: viene spesata per le urla.

L’antifascismo è un valore ancora attuale per lei?

Lo è, nel momento in cui alcuni parlano alla pancia ed evocano paure sempre contro qualcuno e qualcosa. Anche se siamo in un’epoca totalmente diversa.

Lei ha spesso chiesto più poteri e risorse per Roma. A che punto è il dialogo con il governo?

Deve per forza proseguire, anche se in Parlamento c’è chi fa resistenza, magari ricordando Roma ladrona. Ma Roma ladrona non c’è più: da quattro anni i bilanci sono in regola e in attivo. Noi dobbiamo essere trattati come ogni altra capitale. Basti ricordare che ogni manifestazione pubblica in città, per fare un esempio, viene pagata con la fiscalità dei romani. E comunque che servano soldi oggi lo ha detto anche l’ex sindaco Francesco Rutelli, che non è un mio amico.

In quell’intervista al Messaggero Rutelli non è tenero con lei. Tra l’altro sostiene che un sindaco a Roma dovrebbe essere affiancato da almeno 100 persone.

Lo diceva anche nel 2016 quando sosteneva come candidato sindaco Alfio Marchini, che ha collezionato assenze in Comune.

Il M5S a Roma è un magma spesso impazzito. Diversi municipi sono caduti, alcuni consiglieri sono usciti. Quanto peserà sulla sua ricandidatura?

Ho parlato con presidenti e consiglieri, e mi hanno manifestato il loro sostegno.

Nel suo primo mandato la costruzione della giunta fu un calvario. Ora per l’eventuale squadra del futuro che idee ha?

Sicuramente sarà aperta alla società civile, in misura maggiore rispetto al passato. Le persone hanno imparato a conoscerci, e noi abbiamo sviluppato gli anticorpi per scegliere bene.

“Lo stipendio non basta”: la carica degli eletti locali

Poveri deputati costretti a chiedere, legittimamente, il bonus Covid riservato ai lavoratori autonomi in difficoltà durante l’emergenza coronavirus. Nonostante uno stipendio regolarmente incassato di 13.971,35 euro lordi al mese – tra stipendio base, diaria e rimborsi – chissà quale grandi difficoltà avranno avuto nel pagare le bollette, o peggio ancora nel riempire il carrello della spesa. Del resto, si sa, sono più svantaggiati rispetto agli altri colleghi onorevoli di Palazzo Madama che arrivano a quasi 15mila euro al mese. E che, come i deputati, tra vari benefit non pagano treni e aerei.

La richiesta dei 600 euro all’Inps, destinati a liberi professionisti titolari di partita Iva, co.co.co., lavoratori stagionali del turismo e dello spettacolo, a marzo e aprile non prevedeva limiti di reddito e fatturato. Poi a maggio la somma è salita a 1.000 euro a patto di dimostrare di avere subito una perdita di fatturato. Il sostegno è arrivato anche ai professionisti iscritti alle altre casse di previdenze, ma per loro è stato previsto da subito un limite di reddito.

Una notevole differenza che, non solo conferma come la politica abbia perso un altro pezzo di dignità ma, a poco più di un mese dal referendum sul taglio dei parlamentari, ha anche scatenato una guerra intestina tra i vari eletti coinvolti. Oltre ai parlamentari, ad aver richiesto il bonus ci sono anche 2mila tra amministratori locali che però non ci stanno a farsi paragonare ai “disonorevoli” che hanno uno stipendio netto di 5.000 euro. Gli altri 9mila arrivano dai rimborsi per affitti, spostamenti, vitto e lo stipendio di un collaboratore. Sono molti i parlamentari che però versano (dovrebbero) al proprio partito un contributo mensile. Ma ieri durante la caccia ai furbastri del bonus, alcuni amministratori locali la faccia ce l’hanno messa e si sono autodenunciati spiegando che con lo stipendio da consigliere di un paese non si vive. Lotte di casta che vale la pena ricostruire.

“Mi autodenuncio, non vivo di politica perché non voglio e non potrei”. La prima a fare coming out è stata Anita Pirovano, consigliera comunale a Milano in una la lista di sinistra. L’hanno seguita altri tre consiglieri comunali, legati sempre a liste di sinistra: Jacopo Zannini di Trento, Francesco Rubini e Rosario Piccioni di Lamezia Terme. Tutti rivendicano una differenza sostanziale economica rispetto ai deputati furbastri: non ricevono stipendio, indennità, rimborsi o benefit, ma un gettone di poche centinaia di euro. Zannini arriva a 600/700 euro. Basta pensare che i loro colleghi di Milano e Roma arrivano a 1.500 euro. Mentre i sindaci dei Comuni con meno di 3.000 abitanti guadagnano 1.659 euro lordi al mese, contro i 9.700 euro percepiti, ad esempio, dalla sindaca di Roma Virginia Raggi. Niente a che vedere con i 900 euro che si porta a casa un sindaco di un paese con meno di mille abitanti.

Poca roba anche per gli assessori: vanno da poco più di 2mila euro nei Comuni capoluogo di provincia, a poco più di 1.000 euro in quelli sopra i 20mila abitanti fino a 3.500 nelle grandi città. Nei paesi con meno di mille abitanti si prendono 250 euro.

Altre entrate rispetto a quelle di un altro auto-denunciato: Franco Mattiussi, consigliere regionale di Forza Italia in Friuli Venezia Giulia. Anche se ha dichiarato che grazie al bonus è riuscito a “far quadrare conti che comunque dovevano essere saldati”, come politico guadagna 10mila euro lordi al mese. Le cifre in busta paga lievitano quando si parla di amministratori regionali, nonostante i tetti e le limitazioni imposti negli anni. I governatori non possono superare i 13.800 euro, mentre lo stipendio dei consiglieri deve essere inferiore agli 11.100. Poveri politici.

Dara e la Murelli: i peones leghisti del sussidio Covid

Per tutta la giornata di ieri, i possibili furbastri leghisti che avrebbero ottenuto il bonus da 600 euro previsto dall’Inps per i titolari di partita Iva sono rimbalzati tra le chat interne al partito di Matteo Salvini. Lo stesso che, meno di cinque mesi fa, mentre il sito dell’Inps andava in palla per le troppe domande ricevute dai candidati al bonus, scolpiva sulla sua bacheca di Facebook il seguente pensiero-proposta: “In Svizzera con un solo foglio ti accreditano subito fino a 500.000 franchi (equivalenti circa a 500.000 euro) sul conto, in Italia milioni di Italiani sono in coda virtuale”. Con il senno di poi, per una volta viene da dire: “Per fortuna che siamo in Italia”. Quando si è scoperto che ad accodarsi per il bonus sono stati anche alcuni parlamentari, il leader leghista non ha avuto dubbi e si è scagliato contro di loro: “In qualunque Paese al mondo, tutti costoro si dimetterebbero”. Saputo che tra i furbastri c’erano anche alcuni dei suoi, l’ex ministro dell’Interno ha corretto il tiro: “Chiunque siano, immediata sospensione”. Di certo c’è che nessuno si è ancora fatto avanti, e che Salvini al momento non ha sospeso i suoi tre parlamentari. Eppure, all’interno del partito sono molti a dire di sapere con certezza di chi si tratta.

Uno di loro sarebbe il deputato mantovano Andrea Dara. Classe 1979, entrato alla Camera per la prima volta nel 2018 proprio grazie a Salvini, Dara si definisce imprenditore nel settore tessile. A lui è intestato il 60% di una piccola azienda che produce calze nell’alto mantovano, la “Manifattura Mara” di Castiglione delle Stiviere. Grazie al posto in parlamento, Dara ha raddoppiato il suo reddito, passato da 55mila euro a 104mila euro all’anno. Perché chiedere anche il bonus Inps riservato alle partite Iva? Alla nostra richiesta di commento, il deputato non ha risposto. Mentre a una testata locale della città di Mantova, raggiunto telefonicamente domenica sera, avrebbe spiegato che stava effettuando dei controlli sui conti correnti: ci sarebbe stato un errore, forse, del commercialista di famiglia (il quale avrebbe inoltrato in automatico, oltre alla richiesta del bonus per la madre del deputato, in società col figlio, anche quella per il deputato medesimo).

Va detto che è stato un decreto del governo durante l’emergenza covid ad autorizzare il pagamento del bonus senza limiti di reddito, e che chi lo ha richiesto non ha commesso dunque nulla di illegale. Oltre a quello di Dara, all’interno del partito ieri circolavano altri due identikit. Uno è quello di Domenico Furgiuele, 37enne di Lamezia Terme, scelto da Salvini per lo sbarco in Calabria nonostante le parentele ingombranti (il suocero, Salvatore Mazzei, è finito in carcere per tentata estorsione aggravata dal metodo mafioso). Contattato dal Fatto Quotidiano, Furgiuele ha negato di aver richiesto il bonus all’Inps anche perché – ha spiegato – “ho chiuso la partita Iva nel 2018”.

Chi invece non ha voluto spiegare meglio la propria posizione è Elena Murelli, 45 anni, piacentina di Podenzano, che sul sito della Camera si definisce docente a contratto all’Università Cattolica e “libera professionista specializzata in consulenze su finanziamenti europei per la ricerca e l’innovazione”. Secondo fonti interne alla Lega, sarebbe lei la terza parlamentare ad aver ottenuto il bonus. “No comment”, è stata l’unica risposta ottenuta alla richiesta di spiegazioni avanzata attraverso il suo portavoce. In attesa che i furbastri vengano allo scoperto, magari proprio su spinta dello stesso Salvini che prometteva dimissioni immediate per tutti loro, le voci all’interno del partito continuano a correre. E c’è chi fa notare che, guarda caso, tutti e tre i parlamentari più chiacchierati siano di strettissima fede salviniana. Come dire: con la scusa del bonus Inps, qualcuno sta cercando di fare terra bruciata intorno al leader leghista.

Bonus: l’hanno preso in 3 Mistero su Italia Viva e 5S

C’è chi come Stefania Pezzopane del Pd è pronta a vergare un emendamento per imporre la restituzione del malloppo e così togliere il Parlamento dal “verminaio” in cui è stato gettato. E chi, dopo il caso del bonus partite iva ottenuto da cinque o forse solo tre deputati in carica, attacca il governo, colpevole di non aver imposto un tetto al godimento dell’aiuto. Ma alla fine dei conti prevale il fronte di chi semplicemente vuol fare la pelle al presidente dell’Inps, Pasquale Tridico. Sulla graticola per la “fuga di notizie” che ha innescato un regolamento dei conti in piena regola. E che chiama in causa anche Nunzia Catalfo titolare del Lavoro che vigila sull’Istituto nazionale di previdenza nella bufera, da tempo tra i ministri in odore di sostituzione: la tentazione di prendere, come si dice, due piccioni con una fava è fortissima.

Ne sanno qualcosa dalle parti di Italia Viva che medita vendetta: accusa Tridico di una gestione da “barbari” dell’Inps per la gogna che si è scatenata dopo che pure un deputato renziano è finito nella lista dei furbastri di Montecitorio che avrebbero chiesto il bonus da 600 euro previsto nel Cura Italia. Il renziano vicepresidente della Camera, Ettore Rosato, dopo averne chiesto conto a ciascuno dei suoi (tutti hanno negato di aver anche solo fatto richiesta della provvidenza) è passato all’attacco chiedendo direttamente al presidente dell’Inps: “Ho sentito Tridico e mi ha rassicurato che nessun parlamentare di Iv ha incassato il bonus”. Episodio chiuso? Neanche per sogno perché nel frattempo tra le prime linee dei renziani c’è chi ne chiede le dimissioni con l’accusa di aver messo fango nel ventilatore oltre che aver provocato un danno alle istituzioni parlamentari oltre che all’Inps. Mentre le chat interne comunque ribollono attorno alla teoria complottista: Tridico in persona avrebbe additato Iv per vendicarsi delle rampogne che gli ha riservato in passato.

E la Lega? Dopo aver avviato un’indagine interna perché fin dal principio almeno tre deputati salviniani sono indicati come sospetti per aver richiesto il bonus, per tutta la giornata si è camminato sulle uova: il governatore del Veneto Luca Zaia ha usato la clava. Mentre Matteo Salvini, che all’inizio aveva pure adombrato l’eventualità che potesse trattarsi di un errore da commercialisti, ha minacciato sospensioni. “Forse era meglio parlare da subito di espulsioni” confessa un maggiorente del Carroccio. Certo “che si tratti comunque di due o tre deputati minori”.

I Cinque Stelle, dal canto loro, sono pronti a scaricare la “mela marcia”. Il reggente, Vito Crimi prende l’iniziativa di scrivere una e-mail a tutti gli eletti affinché rinuncino alla privacy ché sarebbe questa l’unica maniera per togliere Tridico dall’impiccio. Ma l’iniziativa ha suscitato più di un malumore e saranno diversi quelli che non risponderanno alla richiesta dei vertici del Movimento. Qualcuno inizia a dire che la scelta di fare i nomi è tutta politica: basta che il ministro Catalfo faccia la sua parte dando semaforo verde al presidente dell’Inps intenzionato, in caso contrario, a tenerseli nel cassetto. Insomma scoppia un caso anche tra i pentastellati.

Perché qualcuno fa presente che l’Anac addirittura prescrive, e fin dal 2013, la pubblicazione di tutti i soggetti che abbiano ricevuto provvidenze pubbliche con la sola eccezione dei dati “identificativi delle persone fisiche destinatarie dei provvedimenti in questione qualora da tali dati sia possibile ricavare informazioni circa lo stato di salute o la situazione di disagio economico-sociale degli interessati”. E non sembra proprio questo il caso dei parlamentari. D’altra parte invece c’è chi ritiene che pubblicare soltanto i nomi dei politici che hanno goduto del bonus cozzerebbe con la legge e forse pure con la Costituzione. Ad ogni buon conto il Garante della Privacy fa sapere che “non intende anticipare giudizi dal momento che il collegio potrebbe essere ufficialmente investito della questione”. Da chi? Dal governo se dovesse essere chiamato a rispondere in Parlamento. O da Tridico stesso.

Cosa che non servirà per chi si è già “autodenunciato”. È il caso di alcuni consiglieri comunali (tra i beneficiari del bonus ci sarebbero anche 2000 amministratori locali) come Anita Pirovano di Milano: “Noi consiglieri prendiamo solo un gettone di presenza. Io non vivo di politica a differenza dei parlamentari e dei consiglieri regionali”. O Jacopo Zannini eletto in comune a Trento e Francesco Rubini a Ancona. Ma poi lo rivendica pure il consigliere regionale di Forza Italia in Friuli Venezia Giulia Franco Mattiussi, titolare tra le altre attività di un hotel.

Petizione Il “Fatto” a Inps e garante: fuori i nomi

Una richiesta di accesso agli atti all’Inps e una petizione per sostenerci. Oggi Il Fatto Quotidiano invierà una lettera a Pasquale Tridico, il presidente dell’Istituto di previdenza, attraverso cui il direttore Marco Travaglio chiederà a nome del giornale e dei suoi lettori che l’Inps renda pubblici i nomi dei parlamentari, dei consiglieri regionali e dei governatori che hanno ottenuto il bonus di 600 euro destinato alle partite iva. Su change.org i lettori potranno sottoscrivere la petizione, raggiungibile anche da ilfattoquotidiano.it: “È diritto di chi scrive – è il testo della lettera – divulgare le generalità di politici che hanno ritenuto di formulare la richiesta ed è diritto di ogni cittadino conoscerle, al fine di potersi meglio determinare quando esprimerà il proprio voto”. Non basta, a nostra opinione, richiamarsi al diritto alla privacy dei politici, anche sulla base di quanto già stabilito in passato dall’Autorità garante per la protezione dei dati personali, “secondo cui i dati anagrafici dei soggetti beneficiari del bonus possono essere chiesti e ottenuto da chi abbia un interesse legittimo ad accedere ad essi”. Interesse che in questo caso si manifesta “nell’esercizio del diritto di cronaca” per poter “informare compiutamente i lettori”.

Bonus malus

Ormai qualunque cosa accada, anche la più misteriosa o imprevedibile, una certezza matematica ci conforta: la cazzata più enorme la dirà Salvini, peraltro opposta a quelle sparate fino a un attimo prima. É capitato sul lockdown, da lui chiesto a gran voce il 10 marzo (“Tutta Italia zona rossa, tutta Europa zona rossa, chiudere tutto!”), cinque mesi prima di invocare l’arresto di Conte per aver “sequestrato tutta Italia contro il parere del Comitato tecnico scientifico” (che ovviamente era d’accodo). É ricapitato per lo scandalo dei cinque deputati (più 2mila politici locali e un esercito di professionisti) che han chiesto e ottenuto il bonus da 600-1000 euro per partite Iva in difficoltà pur guadagnando 13-14 mila euro netti al mese. Noi pensiamo che le regole della privacy non valgano per gli eletti: i cittadini elettori hanno il diritto di conoscerne i nomi e le spiegazioni, per decidere se rivotarli o mandarli a casa. Perciò oggi il Fatto invierà una richiesta di accesso agli atti all’Inps sostenuta da una petizione fra i lettori sul sito, pronto anche a ricorrere al Tar. Ma nell’attesa, torniamo al Cazzaro Verde, che neppure stavolta ha deluso le attese. Prima, a botta calda, ha strillato: “Vergogna, dimissioni subito!”. Poi ha saputo che tre su cinque sono suoi e allora ha virato sulla “sospensione subito”. E ha incolpato “il governo che ha fatto il decreto che lo permette e l’Inps che ha dato quei soldi” (e ha scoperto i profittatori).

Ora, quel bonus era una misura di pronto soccorso per tutte le partite Iva impoverite dal lockdown e, per raggiungerne il maggior numero nel minor tempo possibile, doveva essere per tutti: altrimenti, a furia di carte bollate e controlli, avrebbe mancato lo scopo. Com’è accaduto per la Cig straordinaria, che ha le sue regole pluridecennali e infatti non è ancora arrivata a tutti; e per la nuova norma sui prestiti bancari garantiti dallo Stato che, provenendo da istituti privati, richiedono un’istruttoria minima su solvibilità, bilanci, garanzie, con tempi spesso lunghi. La logica del bonus Iva è l’“elicopter money” di Milton Friedman che, per raggiungere tanta gente, non va troppo per il sottile. Ci si affida al buon senso, al buon cuore e al buon gusto dei cittadini. Poi, a posteriori, si controlla. E, se qualcuno fa il furbo, è colpa sua, non del governo o dell’Inps: a meno che il quoziente intellettivo dei parlamentari che ha in mente Salvini (i suoi) sia così basso da non capire che un deputato con partita Iva che prende 13-14 mila euro al mese il bonus non deve proprio chiederlo, anche se il decreto non glielo vieta. Il bello è che, quando il bonus fu varato, Salvini e tutta la destra al seguito accusavano il governo di bonus troppo bassi e controlli troppo severi.

Come ricorda Emiliano Rubbi su Fb, il 30 marzo Salvini girava per tv e dirette social a strillare: “La Svizzera, compilando un foglio, ti mette a disposizione fino a 500mila euro. Servono aiuti subito! Io mi fido degli italiani!”. Naturalmente la Svizzera non s’è mai sognata di regalare mezzo milione a chicchessia in cambio di un foglio compilato, ma questo era il mantra del Cazzaro e dei suoi trombettieri. Gli stessi che ora incolpano il governo di non aver escluso i politici, come se fossero tutti uguali (ci sono sindaci e consiglieri comunali sottopagati che lavorano per mantenersi, diversamente dai governatori, consiglieri e assessori regionali che viaggiano dai 5-6 ai 13 mila euro netti al mese). “Ovviamente –scrive Rubbi– se per il bonus il governo avesse previsto parametri più stringenti, i tempi si sarebbero allungati per i controlli. E Salvini avrebbe urlato che il governo non si fidava degli italiani, diversamente da lui, e che di quei soldi c’era bisogno subito, non dopo mesi. Io mi chiedo come facciano gli elettori leghisti a sopportare di essere presi per il culo ogni giorno, costantemente, dal loro leader. Forse non capiscono, o forse gli sta proprio bene così, boh”.

Forse il suo calo di consensi, tanto clamoroso quanto tardivo, dipende anche da questo. Se vuole rialzarsi, o almeno provarci, il Cazzaro dovrebbe fare come i 5Stelle: chiedere a tutti i suoi eletti una rinuncia alla privacy da consegnare all’Inps per sapere chi ha ottenuto il bonus; e magari anche le dimissioni in bianco, per mandare a casa gli accattoni. Se non lo farà, provvederemo noi a ottenere le informazioni a cui tutti i cittadini hanno diritto. Anzi, non tutti: solo quelli che non hanno fatto i furbi. Perchè, oltre ai politici nazionali e locali, nelle stesse condizioni ci sono migliaia fra imprenditori, notai, avvocati, professionisti con conti in banca milionari che hanno pensato bene di arraffare pure i 600 e poi i 1000 euro con la scusa del Covid. Anch’essi non hanno violato alcuna norma, a parte quelle dell’etica e della decenza. É grazie a gente come loro (e sono milioni) che in Italia ogni misura di Welfare diventa una potenziale truffa, ogni bonus un malus: evasori fiscali e contributivi, prenditori che mandano i dipendenti in cassa e li fanno lavorare lo stesso, schiavisti del lavoro nero, falsi invalidi, finti disoccupati. Anziché farsi lapidare con ridicole scuse scajoliane (“è stato un disguido”, “è una vendetta di mia moglie da cui mi sto separando”, “è stato il il commercialista che ha chiesto il bonus a mia insaputa”), i cinque onorevoli furbastri potrebbero dire così: “Siamo rappresentanti del popolo e il nostro popolo ruba come noi”. Verrebbero lapidati lo stesso, ma per aver detto la verità.

Franca: i cavalièr, l’amore, l’arme e le grandi imprese

Pubblichiamo un estratto della prefazione di Lella Costa a “Tutte le commedie” di Franca Valeri (La Nave di Teseo).
Io la Franca (sì, con l’articolo, alla milanese ) semplicemente la venero e mi sono messa d’impegno per trovare un titolo suffi cientemente adeguato, e alla fine avrei scelto questo: Le donne, i cavalier, l’arme, gli amori, le cortesie, le audaci imprese.
Le donne, certo, che lei di donne ne ha raccontate, tratteggiate, canzonate, evocate, inventate tante, infatti ancora oggi usiamo la Cesira, o la Cecioni, per indicare in modo sintetico e impeccabile (e implacabile, anche, spesso) delle precise tipologie femminili che conosciamo e riconosciamo. Ma anche la donna, femminile e singolare, quella che lei è stata e continua a essere.

Mai banale, mai riducibile a schieramenti o militanze, mai tentata da adesioni formali a movimenti e battaglie che l’avrebbero – forse – costretta a rinunciare alla sua insopprimibile allergia per ogni forma di retorica. Gli slogan non si addicono a un’intelligenza come la sua. E quindi ha ragione lei quando sostiene che la cosiddetta comicità femminile è un’“invenzione balorda”, che esistono solo i bravi comici e i cattivi comici, e che il sesso non c’entra.

I cavalier, ma proprio scritto così, senza desinenza. Per due motivi. Uno è che Cavalier (per esteso, Cavalier King Charles) è il nome della nobile razza a cui appartengono alcuni tra i cani più amati della Nostra (la dinastia dei Roro, per esempio). Alcuni, appunto, non gli unici: il suo profondo, autentico affetto per le creature in questione l’ha portata ad accoglierne in casa una quantità imprecisata ma decisamente cospicua

L’altro è che, nel 2011, la Nostra è stata insignita del titolo di Cavaliere di Gran Croce al Merito della Repubblica italiana. Una cosa bella, decisamente, ma anche sacrosanta e forse persino doverosa, no? (…). E dunque non me ne vogliano le compagne di tante battaglie a favore della desinenza in -a se mi ritrovo ad affermare con decisione che la signora Valeri è, appunto, Cavaliere, o meglio ancora Cavalièr, con l’accento sull’ultima sillaba, a metà tra Ariosto e Goldoni.

L’arme Incruente ma potentissime, precise, implacabili; talvolta celate dietro schermaglie apparentemente soavi e marivaudages sublimi quanto efferati; efficaci, irresistibili, addirittura ipnotiche: dire che le armi di Franca Valeri sono le parole rischia di essere un’atroce banalità, me ne rendo conto. La rivoluzione (che non sarà un pranzo di gala ma può essere una commedia, o meglio ancora una tragedia da ridere) lei l’ha fatta senza proclami, senza bollettini di guerra (…) dando voce e corpo a quelle parole contundenti, usando qualunque mezzo, dalla radio al cosiddetto cabaret, dalla televisione al cinema, dal teatro all’opera lirica. L’ha fatta col sorriso appena accennato, con la vertigine della comicità più pura, con la sapienza delle trame, con la pietas travestita da ironia. Se non è una guerriera lei, non ne conosco nessuna.

Gli amori E non intendo quelli tradizionalmente intesi, più o meno romantici, più o meno orfici o dionisiaci o cavallereschi o idealizzati o carnali o spirituali o dituttounpo’ (i migliori, spesso). Non intendo mariti ufficiali e amanti clandestini (gli aggettivi sono intercambiabili), intese platoniche e passioni travolgenti (come sopra): che nella vita della Nostra ci sono sicuramente stati, e dei quali lei ha ritenuto di doverci raccontare solo ed esclusivamente quello che riteneva interessante, o condivisibile, o inevitabile (bugiarda no, reticente…).

No, vorrei rispettosamente azzardare un altro punto di vista, un’altra versione dei fatti: che in realtà uno dei Veri Grandi Amori (non l’unico, ovviamente) della signora Valeri sia stato, e tuttora sia, il suo pubblico. Soprattutto quello del teatro.

Le audaci imprese Non avere avuto paura di riconoscere una vocazione tanto insolita quanto in contrasto con la famiglia, l’ambiente sociale, la formazione culturale da cui proveniva. Non avere avuto paura di cambiare radicalmente la propria vita (…). Non avere mai rinnegato le proprie origini, sociali e culturali. Non essersi mai vergognata di avere studiato, e tanto, e bene. Di parlare un italiano perfetto, e di averlo saputo tradurre, a volte semplificare, senza mai tradirlo. (…).

Avere fatto dell’ironia la cifra prediletta, l’arma preferita, la sintesi del suo punto di vista sul mondo. Essere stata autenticamente aristocratica, autoironicamente snob, acutamente intelligente, prodigiosamente teatrale. Avere sistematicamente preso in giro gli aristocratici, gli snob, gli intellettuali e i teatranti. (…). Essere stata nazionalpopolare pur frequentando l’avanguardia, e trasversale quando era un aggettivo che si usava solo in toponomastica. Avere saputo recitare da sola o con altri, sempre con risultati straordinari.

Avere saputo scrivere per se stessa e per gli altri, sempre con risultati straordinari. Essere stata eclettica senza farlo pesare, autorevole senza farsi detestare, divertente senza farsi pregare.

Avere aborrito e bandito ogni forma di retorica. Avere sempre rivendicato autonomia di pensiero e di giudizio, e preso posizione per convinzione, mai per appartenenza. Aver saputo padroneggiare una partitura musicale esattamente come un copione teatrale. Avere amato il pubblico senza riserve.

E avere realizzato tutto questo col suo modo inconfondibile di essere donna: a volte da vera pioniera, spesso in solitudine, sempre con la grazia inarrivabile di un talento unico di cui noi – happy few – non saremo mai abbastanza grati.

“A casa i fed!” cosa c’è dietro la “battaglia” di Portland

Portland viene chiamata “City of Roses”, ma ha anche un altro soprannome, quello di “Little Beirut”, che gli fu dato dall’ex presidente degli Stati Uniti George W. Bush, esasperato dalle tante proteste contro di lui che vi si tenevano nei primi anni 90. Portland è nota per la sua lunga tradizione di lotte sindacali e i suoi movimenti anarchici. Qui, nel 2016, le proteste anti-Trump sono state molto seguite. Le recenti immagini sui social e in tv che già da alcune settimane mostrano la città pronta a incendiarsi di nuovo hanno dunque il sapore del déjà vu. Come in molte altre grandi città degli Stati Uniti, anche a Portland la popolazione si è sollevata dopo l’omicidio di George Floyd.

Il 26 giugno, mentre si abbattevano le statue degli schiavisti in varie città Usa, il presidente Donald Trump ha pubblicato un decreto per proteggere i monumenti federali. Il testo prevedeva anche l’invio a Portland di circa 100 agenti federali, i “Feds”. Questa decisione ha scatenato immediatamente delle proteste nella città, diventate più intense a metà luglio. All’indignazione per la presenza degli agenti federali, si è aggiunta anche la violenta repressione delle proteste, in particolare l’11 luglio, quando un giovane, Donovan La Bella, è stato gravemente ferito.

Sera dopo sera sempre più persone sono scese nelle strade, tra cui decine di donne del “Wall of Mums” (il “Muro delle mamme”). Il 14 luglio gli agenti federali hanno proceduto a diversi arresti. Per i dimostranti sono solo tecniche di intimidazione: i motivi dei fermi non venivano comunicati e le persone fermate erano poi rilasciate alcune ore dopo senza spiegazioni. Ogni sera, lo slogan “Feds go home!” risuona nel centro di Portland. I manifestanti convergono sulle due piazze vicine al Multnomah County Justice Center (sede del quartier generale della polizia di Portland) e soprattutto al tribunale federale. L’edificio, diventato il simbolo della presenza dei Feds in città, è protetto da un mese da alte barriere. A prima vista, Portland somiglia poco alla città che viene dipinta da molti media e da Washington. Non è “sotto assedio”, per riprendere le parole di Chad Wolf, il segretario generale del Dipartimento di sicurezza interna.

In centro alcuni muri sono imbrattati con le scritte “Blm” – che sta per “Black Lives Matter” – o slogan ostili alla polizia e agli agenti federali. I passanti si fanno rari e c’è poco traffico, ma è così in questo momento in diversi centri urbani degli Stati Uniti, disertati a causa delle misure sanitarie per l’epidemia di Covid-19. Bisogna recarsi davanti al palazzo del tribunale federale per capire a che punto sia la protesta contro i Feds. Qualcuno ha piantato la tenda e vi si è accampato. Vi si incontrano i volontari di Riot Ribs, un’associazione che da settimane distribuisce pasti gratuiti 24 ore su 24. Si trova qui anche la tenda degli “street medics”, che forniscono il primo soccorso e distribuiscono il necessario per proteggersi dai gas lacrimogeni. È in serata che la folla converge verso l’edificio federale, gruppi di amici, colleghi, persone di tutte le età. Qui non si vedono bandiere di organizzazioni politiche né si distribuiscono volantini. Sono presenti persone di culti diversi, come dei membri della chiesa mennonita (un movimento cristiano anabattista) o degli ebrei. Ma ad attirare l’attenzione sono soprattutto le donne del “Wall of Mums” e, anche se poco numerosi, i veterani del “Wall of Vets”. Meno numerosi delle “mamme” sono anche i “papà” del “Wall of Dads”, che si fanno notare per i loro aspiratori-soffiatori, delle macchine che in genere vengono usate per raccogliere le foglie morte e che loro usano per respingere le nuvole di gas lacrimogeno. A mano a mano che si fa notte, migliaia di persone si affollano davanti alle barriere che circondano il tribunale federale.

Si organizzano dibattiti, c’è chi racconta la sua esperienza personale. Alcuni giorni fa, degli amerindi sono venuti da varie regioni a sostenere il movimento Blm e a denunciare la colonizzazione delle loro terre, intonando canti rituali. Ma poi sul tardi la situazione degenera sempre, con lanci di oggetti e petardi, e i Feds che disperdono i manifestanti con i lacrimogeni. I dimostranti danno loro del filo da torcere. Portano caschi e maschere antigas e possono contare sull’aiuto degli “street medics” che parcheggiano poco lontano da lì il loro veicolo attrezzato per il pronto soccorso, detto il “Breonna Taylor Memorial”, dal nome della giovane donna di colore uccisa dalla polizia di Louisville, nel Kentucky, lo scorso marzo. La protesta di Portland contro i Feds ha diverse spiegazioni. Il loro invio in città è stato deciso contro il parere delle autorità locali.

Il 17 luglio, il governatore dello Stato dell’Oregon, il democratico Kate Brown, l’ha paragonato ad un’“invasione”. Alcuni manifestanti denunciano il “colpo di Stato” e parlano dei Feds come della “forza occupante”. In effetti, gli agenti federali sono utilizzati in genere per garantire il controllo alle frontiere o mantenere l’ordine nei centri di detenzione. Il loro invio a Portland è dunque visto come un attacco ai diritti politici degli abitanti e una violazione del primo e quarto emendamento della Costituzione americana, che garantiscono il diritto di assembramento pacifico e il divieto degli arresti arbitrari. Kate Brown, governatore dell’Oregon, aveva annunciato di aver raggiunto un accordo per il ritiro anticipato dei Feds, poi smentito dal Dipartimento della sicurezza interna. Ma da diversi giorni l’edificio federale è sotto la protezione della polizia di Portland e le manifestazioni si tengono in modo più pacifico. Nel contesto delle mobilitazioni attuali, che implicano anche in certi Stati riforme radicali della polizia, a Portland la municipalità resta cauta, anche se la polizia locale non sfugge alle critiche. Da quando sono arrivati i Feds, la città nega di aver collaborato con loro e anzi, il 23 luglio, ha anche vietato formalmente ogni forma di collaborazione con i federali. Eppure molti manifestanti sostengono di aver visto gli agenti municipali dar loro manforte durante le proteste.

Alcuni ritengono che il comune stia facendo il doppio gioco per far passare i suoi uomini per i “good cops” (“gli sbirri buoni”) e i federali per i “bad cops” (“gli sbirri cattivi”). Per inviare i Feds a Portland, Trump ha avanzato il pretesto di dover proteggere gli edifici federali, ma non ha mai nascosto che la sua intenzione principale è di “ristabilire l’ordine” nella città, così come nel resto del paese. Dall’8 luglio, nell’ambito dell’Operation Legend, delle truppe federali sono state dispiegate in diverse grandi città, in genere guidate dai democratici. Sono state inviate a Cleveland, Detroit e Milwaukee. Due teorie opposte prevalgono nell’opinione pubblica e tra gli esperti. Per alcuni, l’invio dei Feds è una strategia messa a punto dal candidato Trump che, in difficoltà nei sondaggi, vuole passare per l’uomo del “partito dell’ordine” (“Law and Order”) per rimobilitare la sua base elettorale. Per altri Trump starebbe commettendo un errore tattico che anzi raffredderà il suo elettorato, per lo più ostile ai Feds e all’interferenza di Washington nelle questioni locali. Si aggiunge che la fiducia nello Stato federale si sta sgretolando per via della crisi economica scatenata dalla pandemia. Trump sta facendo una scommessa rischiosa. Come a Portland, l’invio dei Feds rischia di innescare nuove proteste, come quelle verificatesi in tutto il paese a inizio mese in sostegno a Portland. Dall’omicidio di George Floyd, si contano già più di 65 giorni di protesta nella città. Non c’è motivo che cessino adesso, neanche se si riuscisse ad ottenere il ritiro dei Feds. I manifestanti non hanno mai perso di vista il principale motore della loro protesta, la lotta alla criminalizzazione dei neri e la critica radicale della polizia. Allora l’allontanamento dei Feds dovrebbe permettere allo slogan “Black Lives Matter!” di risuonare ancora più spesso nelle strade di Portland.

 

Governo, prime dimissioni: in forse anche il premier

Cinque giorni dopo l’enorme esplosione che ha devastato Beirut, e dopo le violente proteste popolari contro la corruzione e l’inadeguatezza della classe politica, il governo sotto pressione perde il suo primo membro. La ministra dell’Informazione, Manal Abdel-Samad (foto), ha annunciato le dimissioni, “nel rispetto dei martiri” e “in risposta alla volontà pubblica di cambiamento”. Hanno fatto lo stesso il collega ministro dell’ambiente Damianos Kattar (“Alla luce dell’enorme catastrofe … ho deciso di rassegnare le dimissioni dal governo”, mezza dozzina di deputati e altri ministri potrebbero fare lo stesso. Scossoni che aumentano ulteriormente l’incertezza e la debolezza del premier Hassan Diab, mentre la rabbia popolare è altissima dopo che almeno 160 persone sono state uccise dalla detonazione causata da tonnellate di nitrato d’ammonio stipate nel porto. Tra le macerie si continua a scavare, ma la speranza di trovare sopravvissuti è scemata. Intanto ieri i libanesi sono tornati a protestare nelle strade, dove sabato hanno assaltato i ministeri e i feriti sono stati centinaia. Il governo ha promesso un’indagine sul disastro, ma la fiducia è ai minimi.

Sia la popolazione sia vari attori internazionali, tra cui Onu e Ue, hanno chiesto che l’inchiesta sia indipendente. Dalle autorità di Beirut è arrivato un secco no. Gli sforzi di ricostruzione sono enormi, nel Paese che era già economicamente in ginocchio, e ieri si è svolta la conferenza internazionale dei donatori. Sullo sfondo un enorme interrogativo: come garantire che milioni di dollari non vengano sviati e sottratti, in un Paese famigerato per il denaro “scomparso”, i progetti di infrastrutture invisibili, la trasparenza inesistente? Anche perché il porto dov’è avvenuta l’esplosione era il cuore dell’economia basata sulle importazioni, nonché una fonte di mazzette così lucrativa che le fazioni politiche erano disposte a spartirsela perché tutti ne traessero vantaggio.

Ha tentato di rispondere la dichiarazione congiunta finale degli oltre 30 partecipanti alla videoconferenza: gli aiuti saranno versati “direttamente”” alla popolazione e in assoluta “”trasparenza”, in parallelo all’attuazione delle riforme chieste dal popolo. Ad aprire la conferenza il presidente francese Emmanuel Macron, che a Beirut era stato assaltato dalla folla in lacrime che lo implorava di impedire la corruzione sulla ricostruzione. I vari Stati hanno promesso 298 milioni di dollari in fondi e l’appoggio per un’indagine “indipendente e credibile”.

Se solitamente il linguaggio diplomatico prevede parole misurate, questa volta i toni sono diversi. Gli aiuti “non cadranno in mani corrotte” e il governo screditato di Beirut deve cambiare, ha detto Macron. La Germania, seconda per aiuti al Libano, ha aggiunto che “interessi individuali e vecchie linee di conflitto vanno superate, il benessere popolare deve essere la priorità”. Sul breve periodo, gli aiuti sono destinati all’emergenza umanitaria e relativamente semplici da controllare. Usa, Francia, Regno Unito e altri hanno chiarito che il denaro andrà direttamente a ong e organizzazioni locali fidate, come Croce rossa libanese e agenzie Onu. Più difficile la ricostruzione successiva, che prevede contratti e appalti. In Libano, questi passaggi hanno consentito che l’elite politica si arricchisse, mentre il Paese ha strade a pezzi, costanti cali dell’elettricità, spazzatura che si accumula nelle strade, fornitura d’acqua intermittente.

Il Libano ha accumulato debito per 100 miliardi di dollari, con una popolazione sotto i 7 milioni di persone (di cui 5 libanesi, 2 palestinesi e siriani, in gran parte rifugiati).

Libano tutto da ricostruire. È una questione mondiale

I libanesi sono un piccolo popolo dallo sguardo lungo, dotato di fantasia e di grande senso dello spettacolo. Non sottovalutiamo, dunque, la rivoluzione proclamata dalla piazza di Beirut il giorno prima della conferenza internazionale che ha riunito i potenti della terra per soccorrerlo. “Beirut capitale della rivoluzione” hanno scritto su uno striscione esposto a Palazzo Bustros, il ministero degli Esteri, dopo averlo occupato. Mentre in piazza dei Martiri venivano sinistramente issate delle forche per minacciare l’impiccagione dei governanti corrotti, compreso il fino a ieri temutissimo Hassan Nasrallah, capo degli Hezbollah sciiti.

Oggi questo popolo è piegato in ginocchio dalla misteriosa devastazione che ha distrutto la sua capitale, dalla bancarotta economica che l’aveva preceduta, e dalla dissoluzione dello Stato libanese che se ne profila come esito.

Ma pur nella disperazione non ha perduto quel suo sguardo lungo sul mondo, eredità dei fenici che solcarono per primi l’Atlantico grazie al legno di cedro delle loro imbarcazioni, e dal prezioso mosaico di culture da cui è composto.

Nessuna rivoluzione sociale, naturalmente, è alle viste. Anche se assistiamo al risveglio di coscienza di una società civile, i giovani in prima fila, che non accetta più di essere ghettizzata nei clan confessionali tuttora guidati dai signori della guerra civile. Per strada, a protestare, scendono insieme le componenti laiche dei cristiani maroniti, dei musulmani sunniti, dei drusi, ma anche di significative minoranze sciite insofferenti al disegno Hezbollah di imporsi come Stato nello Stato.

Le due Beirut hanno convissuto precariamente a lungo, anche nell’immaginario dei reporter stranieri: a passeggio sulla Corniche, le une accanto alle altre, giovani donne in abbigliamento provocante e coetanee avvolte nel velo nero.

Probabilmente non sapremo mai se l’esplosione del porto sia l’esito di un’azione terroristica sfuggita di mano ai suoi autori o invece un incidente causato da incuria criminale. Ma, rimettendo al centro Beirut e il Libano del conflitto mediorientale, impone al mondo intero di fare i conti col destino futuro del paese dei cedri.

Il crollo della lira libanese e il rapido precipitare nella povertà della popolazione, erano già il segnale di un cambio di strategia delle petromonarchie sunnite del Golfo: gli investimenti immobiliari e la concentrazione di enorme ricchezza finanziaria di cui ha goduto Beirut, vengono da tempo dirottate nelle città degli Emirati e nelle capitali occidentali.

I miliardari del Golfo a Beirut ormai ci venivano soprattutto per le loro trasgressioni: gioco d’azzardo, alcol e prostituzione. I celebri caffè delle spie occidentali, aperti h24 all’ultimo piano dei grandi alberghi, risultavano spopolati.

Solo l’Iran degli ayatollah, tramite la longa manus Hezbollah, considerava ancora strategico esercitare un controllo sulla costa mediterranea. Ragion per cui gli Hezbollah, indeboliti dall’impegno militare al fianco di Assad in Siria, puntavano a conservare la loro influenza nel governo, ma senza troppo forzare la mano. Consapevoli di non poter sottomettere alla sharia l’altra metà del Libano. Anzi, come appare chiaro oggi, ben più della metà.

L’area del centro di Beirut devastata dall’esplosione del 4 agosto era stata interamente ricostruita con denaro saudita dalla compagnia di proprietà della famiglia Hariri, Solidère. Fedeli a Riad, nemici giurati degli Hezbollah. Per quanto funestato da omicidi politici e attentati, questo equilibrio ha retto quindici anni, da quando i militari siriani furono costretti a lasciare Beirut.

Il Libano del futuro dovrà riuscire a far convivere tutte le sue componenti, sciiti compresi. Ma la piazza di Beirut ha fatto capire, con i suoi proclami rivoluzionari, che il nuovo equilibrio non potrà poggiarsi sul contrappeso fra i dollari delle petromonarchie e le armi delle milizie filoiraniane. Il popolo di Beirut non farà la rivoluzione ma chiama in soccorso il mondo per liberarsi da questa morsa infernale.