Certificati. Strumenti d’investimento spesso rischiosi, meglio comprarli dopo l’emissione

Titoli tossici: così si diceva in Italia al tempo dei crac finanziari di inizio secolo: Argentina, Cirio e Parmalat. Un’espressione che si adatta pienamente a parecchi certificati, chiamati anche all’inglese certificates. Si veda per esempio quello di Bnp Paribas, ma collocato in Italia, indicizzato all’azione tedesca Wirecard, codice NL0014790628. Emesso a fine aprile a 100 per la serie Airbag Cash Collect, dopo tre mesi valeva già zero e così uno non ci pensa più. Un airbag totalmente inutile. Per fortuna che Vincenzo Somma, direttore di Altroconsumo Finanza, dice che “non si tratta di strumenti molto pericolosi”, altrimenti chissà cosa sarebbe capitato.

Sfornati in continuazione e molto spinti da alcuni anni da banche e promotori, sono titoli sintetici, costruiti cioè a tavolino impacchettando insieme più componenti. In genere un’obbligazione a cedola nulla e una o più scommesse (cioè opzioni) su indici di Borsa o azioni. Già così uno intuisce che è roba un po’ complicata. Ma può essere molto complicata, come con l’ultima batteria di certificati “worst of” di Unicredit.

Le vicende dell’investimento dipendono dall’andamento di due o tre azioni e in particolare da quella che va peggio nell’ambito per esempio di Eni, Banca Intesa e Generali oppure di Tenaris e Prysmian. Qui basta che alla scadenza dopo tre anni una di esse abbia perso più del 30%, perché il rimborso del certificato venga decurtato nella stessa misura. Inoltre, come sono stati obbligati a scrivere nel prospetto: “L’investitore è esposto al rischio di perdita anche totale del capitale investito”. Né si tratta di un’ipotesi puramente teorica, come si è visto all’inizio.

Quanto è probabile che uno ci rimetta? La risposta tecnico-scientifica più sincera a tale domanda è: “Boh!”. Non esiste infatti nessun criterio obiettivo per valutare in modo affidabile un tale rischio.

A non rischiare nulla sono quelli che stanno dall’altra parte, cioè emittente, collocatore e venditore del prodotto, che si spartiscono anche un 4-5%, ovviamente scaricato sulle spalle del risparmiatore. A loro un certificato rende su base annua grosso modo come un fondo comune, senza più praticamente nessun lavoro e senza il rischio di riscatti.

Come per la previdenza integrativa, anche per i certificati ipotetici vantaggi fiscali sono lo specchietto per le allodole che aiuta a rifilare prodotti opachi e rischiosi.

Ma se di regola qualunque certificato proposto da banche e sedicenti consulenti è da rifiutare, ciò non è sempre vero per quelli in circolazione, già emessi e trattati in Borsa o su altri mercati. Per cominciare è frequentissimo che appena quotato un certificato scenda di prezzo, perché non comprende più il ricarico del venditore. Nell’universo dei certificati già in circolazione c’è spazio per un consulente competente per individuare e indicare opportunità di investimento.

Certo che è più difficile che consigliare beotamente i soliti Etf.

 

 

Lettura “ottimista” dei numeri: la ripresa (forse) è già iniziata

La crisi economica in corso, generata dal coronavirus, potrebbe avere un decorso più rapido per il nostro paese, un recupero più consistente nei prossimi mesi ed effetti meno drastici nel medio periodo di quanto inizialmente previsto. L’Italia potrebbe inoltre cavarsela meglio di altri grandi paesi del vecchio continente. È uno scenario ottimistico che si può tuttavia intravedere dai dati più recenti dell’Istat, i quali mostrano anche quanto siano stati consistenti gli effetti economici della pandemia.

Se poniamo uguale a 100 il livello della produzione industriale dell’Italia a febbraio, non ancora influenzato dal lockdown, esso si attesta a 78 in marzo e 55 in aprile, con una riduzione complessiva del 45%. Se ripetiamo il calcolo per i consumi abbiamo 100 in febbraio, 79 in marzo e 71 in aprile, con una riduzione complessiva del 29%. Ma all’interno dei consumi gli alimentari sono lievemente cresciuti mentre tutta la riduzione si è concentrata sui non alimentari: essi sono scesi a 62 in marzo e a 47 in aprile, un calo totale del 53%. Infine per il Pil nel suo complesso la riduzione è stata del 5,4% nel primo trimestre rispetto al precedente e del 12,4% nel secondo. Se poniamo uguale a 100 il Pil del quarto trimestre 2019 la stima per il secondo del 2020 è di 82, una riduzione complessiva del 18%. In sintesi il coronavirus in soli due mesi ha quasi dimezzato la produzione industriale, più che dimezzato i consumi non alimentari, ridotto di quasi un terzo i consumi complessivi e cancellato quasi un quinto del Pil. Si tratta di numeri mai visti in così breve tempo da quando esistono le rilevazioni macroeconomiche e che si sono verificati solo in tempi molto più lunghi durante la crisi degli anni 30 e in pochissimi paesi, tra i quali Usa e Germania.

Com’è possibile, dunque, ipotizzare uno scenario ottimistico? La risposta è che non dobbiamo limitarci a leggere i numeri, dobbiamo anche interpretare la natura di questa crisi, che ha origini totalmente extra-economiche. Essa è una conseguenza esclusiva della crisi sanitaria del coronavirus e del drastico rimedio che è stato adottato per contrastarla. Lo scenario ottimistico si basa tutto sull’efficacia della rimozione della causa sanitaria della recessione e sul fatto che gli effetti economici temporanei non generino aspettative permanenti di recessione. Il vantaggio economico dell’Italia rispetto ad altri paesi sta tutto nella rapidità e nella drasticità della risposta sanitaria che si è saputo dare nei mesi cruciali della pandemia, attraverso un lockdown drastico. Esso ha permesso, almeno per ora, di mettere sotto controllo il virus e riprendere in sicurezza gli abituali comportamenti economici di consumo e di produzione. Altrettanto non è riuscito ad altri paesi, europei e non.

I consumi degli italiani, che dal livello 100 di febbraio erano scesi a 71 in aprile nel loro totale e a 47 per i non alimentari, sono risaliti a 98 a giugno per entrambi gli aggregati: in soli due mesi un recupero pressoché totale dei precedenti due mesi di caduta. Dunque un perfetto andamento a V, il percorso migliore che si potesse auspicare. Inoltre, poiché alcuni settori (trasporti, turismo, ristorazione) sono rimasti prevedibilmente indietro nel recupero, è evidente che altri comparti si sono invece espansi e li hanno in gran parte compensati. È probabile che in luglio i consumi siano saliti sensibilmente sopra la quota 100 di partenza e questa sarebbe un’ottima notizia, in grado di segnalare la rimozione della causa principale della fase recessiva. Per ora la produzione ha recuperato di meno, essendo risalita solo a quota 87, ma occorre tener conto della più lenta ripresa dell’export e forse anche di una minore reattività dei nostri imprenditori. I prossimi mesi ci diranno se la produzione nazionale riuscirà a tenere il passo della ripresa dei consumi. Per ora ci tocca però osservare come le importazioni di beni di consumo non durevoli, trainate dalla ripresa della domanda, siano maggiori di un anno fa.

La differenza fondamentale tra la recessione da Covid e altre di origine prettamente economica consiste nel fatto che nei mesi del lockdown i consumatori non hanno speso non perché non volevano o non disponevano del potere d’acquisto, ma perché non potevano; le imprese a loro volta non hanno prodotto perché non potevano e non perché non volevano. Rimossi quei vincoli, grazie al successo italiano nel contenimento della pandemia, i consumi sono totalmente ripresi e non vi è ragione perché non debba farlo totalmente anche la produzione. Se accadrà, il Pil tornerà positivo già nel terzo trimestre, contenendo la caduta della prima metà dell’anno e permettendo di mettere in archivio i pessimi numeri da cui siamo partiti.

Tutto quel che serve sapere su rete unica e guerra Tim all’Enel

Cos’hanno in comune una partita finanziaria sulle telecomunicazioni che si trascina da vent’anni e i miliardi di finanziamenti in arrivo da Bruxelles col Recovery Fund? Apparentemente niente, come niente sembrano avere a che fare col futuro di aziende di settori diversi come Mediaset e Rai. Eppure l’apparenza inganna.

Le cronache raccontano che nei giorni scorsi il presidente del Consiglio, nel cuore della più grande crisi economica del Paese in tempo di pace, abbia trovato il tempo di fare una telefonata al consiglio di amministrazione di Tim. Per quale ragione? Per chiedere di congelare almeno fino a fine agosto la decisione su un’intesa fra l’ex monopolista, il fondo d’investimento americano Kkr e Fastweb sul tratto finale della rete che porta la linea telefonica dentro casa. Motivo: il governo vorrebbe infatti creare un’unica rete di nuova generazione, indispensabile alla digitalizzazione del Paese.

L’infrastruttura è particolarmente importante perché è l’autostrada su cui transitano i dati e la voce. Esattamente come le auto sulla rete viaria. Proprio per questo, considerato anche quello che sta accadendo sulle concessioni autostradali, il Parlamento vorrebbe che la nuova “autostrada” fosse almeno a maggioranza pubblica, venisse gestita da un soggetto che non vende anche servizi di telefonia e fosse neutrale rispetto alle aziende che producono i contenuti.

In altre parole, il Parlamento vorrebbe evitare di ripetere gli errori fatti negli anni 90, quando la rete Telecom, costruita coi soldi dello Stato, venne privatizzata assieme alla compagnia telefonica. Il timore è che, esattamente come per le autostrade, i privati pensino più ai profitti che non agli investimenti e per di più in un settore fondamentale per il futuro del Paese: un bel pezzo dei finanziamenti del Recovery Fund Ue verrà investito nel digitale e nell’economia verde, che sfrutta le tecnologie di telecomunicazioni per ridurre al minimo i consumi energetici. Una transizione tecnologica accompagnata da altri soldi pubblici: a settembre arriveranno voucher per circa 200 milioni destinati a famiglie e imprese per incentivare il passaggio alla banda ultralarga.

Qual è il problema? Il progetto della rete unica si scontra con almeno due ostacoli. Il primo, il più importante, è la volontà di Telecom Italia: l’ex monopolista vorrebbe retrocedere la sua rete, collaborare sui nuovi investimenti con l’azienda para-pubblica Open Fiber, che fa capo a Enel e Cassa Depositi e Prestiti, ma anche continuare ad avere il controllo del network. In pratica un nuovo monopolio. Per di più in mani private, sia pure con Cdp nell’azionariato. Il rischio sono investimenti centellinati e sottoposti al giudizio del mercato visto che la società è quotata.

Tim del resto ha le sue buone ragioni per pretendere il controllo della nuova rete: deve ripagare 31,5 miliardi di euro di debiti lordi che – dalla privatizzazione in poi – sono stati scaricati sulle spalle della società dai suoi acquirenti che l’hanno comprata a debito. La rete è il suo bene più prezioso, tanto che ne garantisce la solvibilità con le banche creditrici.

D’altro canto la concorrente Open Fiber è cresciuta e, secondo le stime del fondo Macquarie, vale circa 7 miliardi. Telecom, invece, ha una capitalizzazione di Borsa da 5,7 miliardi e informalmente valuta OpenFiber molto meno: circa la metà. Per il governo e per Cdp è quindi difficile giustificare un’operazione in cui si fondono le due reti, quella di Tim e quella di Open Fiber, lasciando il controllo alla società che vale meno, che fa capo a investitori privati e che, per ripagare i suoi debiti, potrebbe in futuro anche essere tentata di aumentare il “pedaggio” di accesso alla rete penalizzando i fornitori di connessione e, in definitiva, gli utenti.

Il secondo ostacolo alla nascita della rete unica è di carattere politico finanziario: nel capitale di Tim e in quello di Mediaset c’è un socio ingombrante, la francese Vivendi, il cui obiettivo è sempre stato conquistare le tv di Silvio Berlusconi. Vivendi non è disposta a collaborare su Tim senza una contropartita su Mediaset e così il governo si trova tra due fuochi.

Senza contare che, per Mediaset, più tardi si sviluppa la banda ultralarga in Italia, meglio è. Come insegnano i casi Netflix e Amazon video, le nuove reti aprono la competizione anche sul fronte dei contenuti e dividono la torta pubblicitaria – già aggredita da società come Google e Facebook – su un numero maggiore di concorrenti. Una brutta prospettiva per uun impero costruito sul duopolio Mediaset-Rai e una partita da gestire sul filo di un difficile equilibrio di interessi per il governo.

Il futuro “Il Paese se la passa male: Il vantaggio Usa è netto, per questo ora attaccano”

Dario Fabbri è analista geopolitico per Limes e spesso le sue letture, informate, dei fatti del mondo sono sorprendenti per il lettore non specialistico. Questa sulle tensioni tra Stati Uniti e Cina non fa eccezione.

La questione Huawei-5G è la parte più visibile dello scontro, ma più in generale quale momento geopolitico stanno vivendo Usa e Cina?

Due momenti molto diversi, spesso capovolti rispetto alla percezione che se ne ha in Occidente. La Cina ha una città, Hong Kong, abitata da una popolazione che ha un’alterità quasi antropologica rispetto al resto del Paese. La parte occidentale della Cina è abitata da una popolazione turcica e musulmana, che non si sente cinese, il Tibet da una popolazione non cinese. Se pensiamo a questo sembra un Paese sull’orlo del collasso, mentre tutti immaginano che vicini al collasso siano gli Stati Uniti: in sostanza si ha l’impressione che siano gli Usa nelle condizioni in cui invece è la Repubblica Popolare. Gli Stati Uniti vivono un momento di profondo turbamento interno, ma rimangono in netto vantaggio sul loro principale concorrente, vantaggio che s’è addirittura allargato per inerzia. La Cina se la passa peggio: non riesce a controllare un solo mare rivierasco, neanche il mar Cinese meridionale.


Cos’è la supremazia “per inerzia” degli Usa?

È un fatto che ha cause strutturali. Vivere su un’isola geopolitica, ad esempio, consente agli americani di non doversi guardare perennemente le spalle: un vantaggio impareggiabile. Gli Usa sono una talassocrazia: possono andare per il mondo senza preoccuparsi di ciò che succede nel loro continente di appartenenza, cosa che la Cina non può fare, perché è circondata da potenze che dipendono da lei, ma la guardano con sospetto. Un altro fattore è la potenza marittima. La Cina non riesce ancora a garantirsi il controllo delle linee di approvvigionamento dove si muovono i suoi flussi di esportazioni ed energia. Queste rotte sono sotto schiaffo degli americani, che controllano gli stretti.

In questi 4 anni di presidenza Trump cosa è cambiato ad esempio nel commercio?

Trump è stato eletto perché ha promesso agli Usa di diventare un Paese convenzionale. Mentre un impero persegue scientificamente il deficit commerciale, Trump aveva promesso di ridurlo, se non annullarlo, e far diventare gli Stati Uniti una potenza come le altre. Nonostante i dazi di Trump, però, il deficit degli Usa verso l’estero è cresciuto: dimettersi da potenza globale non è una decisione arbitraria. Ciò che hanno fatto i dazi di Trump è stato colpire alcuni settori strategici di potenze ostili, come l’industria pesante tedesca o la tecnologia cinese.

Sembra che la Cina sia diventata un problema solo con l’arrivo di Trump.

Gli Stati Uniti in realtà hanno in testa la Cina dagli anni Novanta, da quando crolla l’URSS e si ritrovano soli sulla cima del mondo. All’epoca pensano di sfruttare la Cina, la sua manodopera a basso costo e la sua industria a basso valore aggiunto. Da allora all’inizio degli anni Duemila, con l’ascesa cinese, cambia l’approccio americano e cominciano le frizioni. Se i primi anni di Obama sono segnati dalla sensazione che la Cina sia in un’ascesa imperiosa, quasi inarrestabile, alla fine del mandato obamiano c’è la sensazione opposta, cioè che la Cina ha tali deficienze strutturali da poter e dover essere colpita. Questa percezione è passata anche negli apparati statunitensi e poi in Trump stesso, che si è accodato all’assalto alla Cina, determinato negli anni dalla sensazione che Pechino fosse molto meno potente di quello che appariva.

Le elezioni Usa cambieranno qualcosa?

Se vincerà Biden cambierà la narrazione, ma nei fatti l’approccio non muterà granché: non a caso il contenimento della Cina da parte degli Usa comincia con Obama. Nei prossimi anni, insomma, assisteremo a un momento molto simile all’attuale, di aggressione americana ai danni della Repubblica Popolare.

Quali sono ruolo e posizione dell’Italia?

L’Italia è una pedina pregiata nella competizione Cina-Usa. L’Europa resta ancora oggi il continente decisivo del pianeta: ce lo dimostra il fatto che gli Usa, l’unico egemone globale, dominano l’Europa, ma non l’Asia. I cinesi lo sanno bene e puntano a rovesciare in Europa l’egemonia americana sul pianeta portando le nuove vie della Seta nel vecchio continente. L’Italia, oltre a trovarsi nel continente decisivo, è un Paese magico nella sua potenzialità culturale e allo stesso tempo sgangherato, quindi è il boccone più avvicinabile. Inoltre, gli italiani tendono a scambiare l’economia per la strategia e, avvicinati da Pechino, immaginano grandi vantaggi. Siamo affascinati dalle lusinghe della Cina, un Paese economicamente in ascesa ma che in realtà se la passa male. Dall’altro lato siamo nella sfera d’influenza degli Stati Uniti, che hanno avuto un atteggiamento quasi “ruvido” in questi anni. Balliamo fra queste due potenze, col rischio di prendere schiaffi dagli uni e dagli altri se non capiamo come sfruttare la nostra posizione centrale.

“Permesso, sospeso, bandito” Com’è messo il 5G di Pechino

Uno dopo l’altro: aumenta di settimana in settimana la lista dei Paesi che voltano, più o meno ufficialmente, le spalle a Huawei per lo sviluppo del 5G. L’azienda cinese è accusata dal presidente Usa Trump di “spionaggio” e di mettere in pericolo con la pervasività delle sue infrastrutture la sicurezza nazionale. La Cina, che finora sembrava essere leader globale nello sviluppo della rete superveloce (complice il rapporto qualità/prezzo) sta subendo dagli Usa una guerra a colpi di ban commerciali e di divieti di fornitura, accolti anche da altri paesi. L’ostilità, che non è certo recente, ma recentemente è culminata in diverse prese di posizione nette. L’incertezza, intanto, ha permesso alle aziende occidentali che sembravano essere rimaste indietro, di mettersi in pari negli ultimi due anni. E adesso che l’alternativa occidentale sembra esser pronta, sarà più facile “scaricare” Pechino.

Così in Francia l’agenzia nazionale per la cybersicurezza ha detto agli operatori che le licenze per l’uso delle apparecchiature Huawei scadranno tra 3 e 8 anni e che non potranno essere rinnovate. Non si vieta nulla ma si fa in modo che per il 2028 Huawei sia fuori. In Portogallo – come in parte è successo anche in Italia – sono state le principali società di telefonia mobile (Nos, Vodafone e Altice) a rinunciare a Huawei nelle reti “core” dell’ infrastruttura 5G, la parte dove passano le informazioni e si agganciano i servizi (non le antenne, insomma). Scelta controcorrente rispetto alla posizione del governo che alla Reuters aveva detto, dopo un’analisi del rischio approfondita, di non avere problemi con nessun operatore.

Il Regno Unito, bisognoso di ricalibrare le sue alleanze post Brexit, ha invece ufficialmente bandito Huawei per il 5G dopo che a gennaio aveva deciso di consentirle un ruolo limitato. Gli operatori potranno rimuovere i dispositivi entro il 2027 con questa motivazione: il ban statunitense e lo stop alle forniture dei chip americani a Huawei ha “cambiato in modo significativo” il panorama e non si può garantire la sicurezza. Questa prova di lealtà, secondo alcune stime, costerà (in sostituzione di tecnologia) due o tre anni di lavoro e 3,1 miliardi di dollari. E la Gran Bretagna ha chiesto aiuto, per l’alternativa, al Giappone, dove Huawei non è benvenuta come in Australia e Nuova Zelanda (paesi del Commonwealth).

Certo, la strategia europea – dove la frammentazione degli operatori è molto ampia e rende più lenta l’assegnazione delle frequenze – è ben diversa da quella americana. La Commissione Ue ha dato indicazioni di massima, come diversificare i fornitori, distinguere le varie parti delle reti e valutare attentamente i partner, ma molti paesi stanno a guardare per capire ciò che farà la Germania, per cui la Cina è un mercato primario per il comparto industriale. Qualche settimana fa Politico ha rivelato che Huawei ha offerto alla leader Deutsche Telekom un accesso privilegiato alle forniture di materiali per rendere il loro rapporto a prova di ban.

La situazione è meno definita invece nei paesi a sviluppo tecnologico meno rapido ma comunque strategico come in America Latina, dove il completamento del 4G è previsto per il 2025 ma il 5G è visto come l’opportunità per dare una scossa alla crescita industriale. Il Brasile è il sesto paese più popoloso al mondo: qui Tim ha deciso di escludere Huawei dalla gara per le componenti “core” e nell’ultimo anno, sia Washington che Pechino hanno aumentato la pressione sul presidente Bolsonaro. Trump è arrivato a garantire supporto finanziario, tramite l’International Development Finance Corporation (una banca di sviluppo per contrastare il potere finanziario cinese). Il filo-americano Bolsonaro se da un lato ha detto che avrebbe preso in considerazione le preoccupazioni Usa, in cuor suo sa che in Cina va circa un terzo delle esportazioni brasiliane e che Huawei, che opera in Brasile da oltre due decenni, fornisce molte attrezzature per il 3G e il 4G e ha promesso un investimento di 800 milioni di dollari per un altro impianto di assemblaggio entro il 2022.

Dinamiche simili all’Argentina, la cui dipendenza economica dalla Cina sembra stia spingendo nella direzione di Pechino proprio nel bel mezzo della negoziazione del debito estero col Fmi e i creditori: momento in cui sarebbe meglio non offendere quelli di Washington.

Siccome il vuoto non esiste, quando Huawei è costretta a lasciare, c’è un’azienda che resta e spesso ha cuore europeo. Tanto la finlandese Nokia quanto la svedese Ericsson, per dire, oggi sostengono di avere la forza per sostituire tutte le apparecchiature Huawei nelle reti del Regno Unito. Prendiamo Ericsson: ha realizzato centri e supplychain ovunque, anche in Cina, dove operano proprio sul 5G. In Polonia ed Estonia produce antenne utilizzando il 5G nella fabbrica (avviata all’inizio di quest’anno) ed è in Texas per il mercato nord americano, dove è principale operatore con Samsung (da poco in corsa sul 5G) e Nokia. Senza contare Brasile, India e Messico.

In modo strategico, negli ultimi tre anni e parallelamente alle posizioni critiche su Pechino, l’azienda ha abbandonato gli altri rami di sviluppo per concentrarsi sulle reti di comunicazione, la loro originale attività. Gli investimenti in ricerca e sviluppo sono passati dal 14 al 18%, sono stati assunti 7mila ricercatori per il 5G. E hanno fatto breccia anche in Germania dove, la settimana scorsa, è stata annunciato una estensione dell’accordo con Deutsche Telecom. In Europa c’è chi ha molto da guadagnare dalle tensioni tra Usa e Cina.

L’arte del saluto. Le infinite sfumature della stretta: dammi la mano e ti dirò chi sei

La ragione principale per cui non ho mai vinto un premio è che non ho mai partecipato a un concorso. Perciò, per la prima volta in vita mia, ho pensato: “Provaci, che ti costa!”. Il coraggio mi ha ripagata, ho studiato, ho scritto e ho capito che nessuna occasione va sprecata. Il mio primo testo teatrale spicca nella terna delle migliori opere prime. Arrivo alla serata della premiazione con il cuore in gola. Mi sento bella, ho un vestito raffinatissimo, da grande sartoria, me lo ha regalato Manolita, fiera di me come solo una vera amica sa esserlo. La mia borsa di Fendi suscita sguardi di invidia, le scarpe di mia madre, strettissime, di due misure in meno mi strizzano i piedi e mi costringono a un sorriso forzato e un po’ tonto. Molti studi dimostrano che sorridere è un’arma di seduzione: un bel volto sorridente è più attraente di un’espressione severa, persino nei concorsi di drammaturgia E allora sorrido e davanti a certi sorrisi è impossibile resistere, come quello dell’attrice inglese, gentilissima nonostante non mi conosca affatto. Incrocio un attore italiano, un divetto da sceneggiato televisivo, lo saluto e lui, guardando altrove mi porge solo le falangette di due dita, una mezza manina che rivela la sua considerazione nei miei confronti. Ci rimango male, ma più per la sensazione fisica, fredda, sgradevole, come se avessi toccato la coda di una biscia. Ha inizio la premiazione. Salgo sul palco con cautela, più per le scarpe che per l’emozione. Al buffet vengo lusingata, soprattutto dall’abbraccio della grande attrice inglese; il divetto caracolla verso di me complimentoso… “Non si sta mai tranquilli…” mi dice credendo di fare il simpatico. È prodigo di lodi e di congiuntivi, improvvisa un commento sgrammaticato, la sua mano, da serpe, avvinghia la mia, stavolta con tutto il metacarpo. Se per entrare nelle grazie dei mediocri basta un premio, per uscire dalle mie grazie basta una brutta stretta di mano.

(Ha collaborato Massimiliano Giovanetti)

 

La magia del Teatro. Il “noir” di Piera degli Esposti arguta capocomica che dà la caccia a un assassino

Èun libro a due velocità e a due diversi stati d’animo (mi servirebbe la parola mood, che è una cosa più complessa dell’umore). Sto parlando di un noir in cui gli eventi accadono in fretta, ma poi sostano in spazi in cui la cultura del teatro vuole calma e tempo per narrare e sono i punti in cui i nodi prima si vedono e poi, gradatamente, rivelano, prima di rientrare nel narrare febbrile e intenso della vicenda con una buona dose di sospensione da vero e riuscito thriller. Ti avventuri fra le pagine tristi e allegre di questo libro (L’estate di Piera di Piera degli Esposti e Giancarlo Simi), altro sdoppiamento insolito e capace di agganciare il lettore, e ti vengono in mente certe grandi canzoni degli anni 70-80, strofe lunghe e indugianti che sboccano in refrain travolgenti di cui vuoi far parte. Qui il noir assassino e la tenacia ossessiva di seguire la traccia (con Piera che compare dalle due parti, in dialogo con l’assassino e in conversazione con chi non sa ancora di doverlo cercare) si alternano fra scatti di rincorse improvvise e di pacate lezioni di teatro che contengono le risposte, belle e culturalmente rigorose come se fossero vere.

La trovata è che Piera, l’autrice, compare nel libro come Piera Drago, protagonista con il suo linguaggio e la sua straordinaria esperienza di teatro, col pretesto di mettere in scena, in un teatro occupato e con ragazzi più appassionati che competenti, un Riccardo III interpretato da una donna, dunque sovrapponendo un compito culturale quasi impossibile al volontariato indagativo che si è assunta perché sente, perché sa, perché ha visto, anche se non visto, perchè sa chi è l’assassino. In questo modo Piera ottiene sia l’ipnotica attesa del pubblico con monologhi di interpretazione shakespeariana che sono la parte più bella del libro, ma sono anche la graduale rivelazione della caccia al delitto. Tutto ciò, ho detto, gode di un tempo più profondo, segnato soprattutto da una lentezza due volte astuta: serve alla storia ma serve anche per un testo bello e limpido sul Teatro, su un dramma che, come il delitto, si svolge in teatro. E riesce a fare, di Shakespeare e di Riccardo III, due protagonisti del dramma, senza enfasi, senza alzare la voce. L’altra voce del libro, il co-autore Giampaolo Simi, è fattuale, pratica, ricca di informazione su luoghi e persone, di rapido sense of humor con gerghi e intonazioni che caricano la storia di attualità. E, senza rivelarlo apertamente, di politica, ma alla maniera di una cultura, non di un partito. E dotando la storia narrata di investigatori che non frequentano tipicamente il noir. Come un buon capocomico, Piera dedica molta attenzione ai personaggi minori. Anche quelli con una sola battuta, dove trovi sempre un accento, lo spunto di un carattere, un segnale di vita, uno gesto da notare. Simi è un buon partner nel non inseguire l’attualità. Il tempo e il luogo non sono questa Italia o quella di poco prima. Ti fanno capire che la conoscono bene, l’una e l’altra. Ma non vogliono che il lettore si entusiasmi alla parodia, ma si interessi al loro linguaggio e alla loro storia. Secondo me ci riescono.

 

Danimarca. Il Paese modello che scambia destra e sinistra

Chissà che il futuro non sia la Danimarca. Laggiù la storia si è divertita a rimescolare i segnaposto. Il partitone della destra ha nome ‘Sinistra’ (Venstre) e i suoi avversari, i social-liberali, si chiamano ‘Sinistra radicale’ (Radikale Venstre) malgrado aderiscano all’Alde, il raggruppamento dei liberali europei. E poi il partito che guida il governo, Socialdemokratiet. Nelle ultime elezioni ha impiantato sulla linea antica (più welfare, più tasse sui ricchi) una politica anti-immigrazione che fa proprie “alcune posizioni dell’estrema destra” (così l’americana Foreign policy).

Nella precedente legislatura Socialdemokratiet aveva votato il 90% delle proposte dal governo di destra, inclusa la gran parte del cosiddetto ‘Piano-Ghetto’, un set di norme per ‘danesizzare’ 23 enclaves urbane popolate da poveri, in gran parte musulmani (agli abitanti delle aree sospette verranno imposte sin da bambini lezioni sui ‘valori danesi’, affinchè amino la patria e rispettino la legge, che li punirà con pene aggravate se sgarreranno).

Non è difficile immaginare quale sarà l’esito sui malnati di questa pedagogia differenzialista. Ma se Socialdemokratiet intendeva accattivarsi gli elettori della destra moderata, l’operazione è riuscita. Avendo risucchiato voti ai conservatori, il partito ha tenuto. Il suo quasi-successo ha rafforzato anche in Italia il sospetto che per rimontare occorra farsi un po’ danesi riguardo ai migranti. E questo pone un problema: se su una questione discriminante come le migrazioni molta sinistra si scopre simile alla destra, forse termini come ‘sinistra’ e ‘destra’ vanno riformulati, o perlomeno utilizzati con circospezione fin quando non saranno aggiornati. Nel frattempo potremmo cercare di decifrare la genealogia di misteriosi prodotti estemporanei del Grande Rimescolamento – il renzismo, i franceschiniani, i giggini, gli ubiqui ‘liberaldemocratici’, i socialisti-sovranisti, giù giù fino a Giorgio Gori, una ricombinazione non meno sorprendente di quella studiata nel Drosophila melanogaster, o moscerino della frutta

 

Ministri sparsi. Il partito Gubitosi e quello Starace: così finisce male

Magari è destino che ai governi più deboli della storia italiana spetti il compito di rimettere il dentifricio nel tubetto delle disgraziate privatizzazioni d’antan: Autostrade, Ilva, Alitalia e soprattutto Telecom, oggi Tim, la madre di tutte le razzie. Ma non è scritto da nessuna parte che lo debbano fare in modo dilettantesco. Telecom era un gioiello, le scalate a debito dei privati (che di loro non ci hanno messo un euro) – dalla “razza padana” di Colaninno alla Pirelli di Tronchetti Provera – ci hanno restituito servizi da Paese sottosviluppato e un’azienda zombie. Nel 1997, quando Prodi e Ciampi avviarono l’oscena privatizzazione, il monopolista fatturava 23 miliardi di euro, oggi 17; aveva 8 miliardi di debiti netti, oggi 24; è passata da 120 mila a 50 mila dipendenti; gli investimenti sono rimasti al palo.

Da due anni è il momento della mitica “rete unica”, da realizzare attraverso la fusione della rete Tim e Open Fiber, l’investimento suicida fatto da Enel e dalla solita Cdp nella fibra ottica finanziato con miliardi di nuovo debito solo perché nel 2015 nessuno poteva contraddire Matteo Renzi, deciso a sfidare Tim. Open Fiber sta facendo quello che Tim per anni non ha fatto, ma da sola non sta in piedi. Tim è in difficoltà, privata della sua rete, ammesso che non imploda, si trasformerebbe in una gigantesca Tiscali, un operatore di servizi pachiderma (si stimano 20 mila esuberi) e non in grado di competere con i rivali. Per questo l’ad Luigi Gubitosi considera inderogabile che Tim abbia il controllo della futura società della rete, a cui servono 5-10 miliardi di investimenti.

Il governo ha tre opzioni: o sceglie una rete “neutra” o accetta i paletti dell’ex monopolista o lascia tutto così com’è. Serve scegliere. Invece si va avanti per “quote”, come se si discutesse degli emendamenti alla manovra. Una parte dei partiti vuole la rete “neutra”; un’altra no; il ministro Gualtieri spalleggia Gubitosi, altri colleghi invece lo attaccano; l’ad di Enel Francesco Starace finge che Open Fiber sia una figata e non vuol vendere, Cdp dopo averci litigato un anno ora è allineata a lui in chiave anti-Gubitosi e così via. Chi decide: Palazzo Chigi? Il ministero dello Sviluppo? Il Tesoro (dove Gualtieri ha chiamato Franco Bassanini, che nel 99 con D’Alema sostenne Colaninno e oggi dà consigli su come rimediare ai disastri mercatisti)? Come insegna il caso Autostrade, calciare il barattolo a tempo indeterminato è molto rischioso.

 

Champions League Solo lontani ricordi, quando a vincere erano i vecchi (giocatori)

Non la vinciamo da 10 anni (l’ultima a riuscirci è stata l’Inter di Mourinho, 22 maggio 2010, 2-0 al Bayern) e ormai al cospetto dei club spagnoli e inglesi siamo diventati nani da giardino. E così, mentre la fase finale della Champions League 2019-20, rabberciata in qualche modo causa Covid-19, ha riacceso i motori vedendo Juventus e Napoli finire subito fuori strada, un po’ di consolazione possiamo trovarla solo andando a spulciare tra le statistiche dove grazie al nostro splendido passato siamo ancora giganti. Italia e italiani li troviamo ovunque, in ogni voce, in ogni specialità. E nel Luna Park Champions a brillare sono soprattutto i nostri grandi vecchi. Non ci credete? Seguiteci.

Dal ’55-56, anno di nascita della Coppa dei Campioni, poi divenuta Champions League nel ’92, c’è un solo caso di padre e figlio trionfatori nel torneo: parliamo di Cesare e Paolo Maldini, una vittoria papà (’63), cinque il figlio. Paolo Maldini è anche il giocatore, assieme a Gento del Real, ad avere giocato il maggior numero di finali: 8, di cui 5 vinte; e sempre Maldini vanta il record del gol più veloce mai segnato in una finale: dopo 51,2 secondi, al Liverpool, a Istanbul nel 2005. “Non è un paese per vecchi”, dice il titolo del famoso film; ma la Champions, per gli italiani, lo è eccome. Sapete qual è il calciatore più anziano mai sceso in campo in 64 anni di coppe? Marco Ballotta, che a 43 anni e 252 giorni difese la porta della Lazio al Bernabeu, contro il Real, l’11/12/07. E sapete chi sta lottando con tutte le forze per soffiargli il record? Gigi Buffon, che è secondo avendo preso parte a Leverkusen-Juventus, nel dicembre scorso, all’età di 42 anni e 311 giorni. In quanto al goleador più vecchio, a Totti sarebbe bastato giocare mezza stagione in più per scavalcare al comando Burgsmuller del Werder che nell’88 segnò un gol a 38 anni e 292 giorni; Totti lo fece invece in CSKA-Roma, novembre 2014, a 38 anni e 59 giorni. Solo medaglia d’argento, peccato.

Gli allenatori che hanno giocato più finali (4) sono quattro: due sono italiani e Ancelotti è quello che ne ha vinte di più (3), mentre Lippi è quello che ne ha vinte meno (1: gli altri sono Munoz e Ferguson, 2 vittorie). Ancelotti figura anche, assieme a Trapattoni, nel settebello dei grandi capaci di vincere sia da giocatori che da allenatori: ma è quello che ha portato a casa più trofei di tutti (5) precedendo Munoz, Zidane e Cruijff (4), Guardiola, Trapattoni e Rijkaard (3). Con 3 trionfi, Ancelotti è l’allenatore più vincente in assoluto assieme a Paisley (Liverpool) e Zidane (Real Madrid); e figura fra i 5 capaci di vincere con due club diversi, Milan e Real (gli altri sono Happel, Hitzfield, Heynckes e Mourinho).

Il Milan è la squadra con più vittorie consecutive (10) e con meno gol subiti (2 in 11 partite) in una stessa edizione; assieme al Real vanta il record di finale vinta col maggiore scarto di gol (4-0 allo Steaua, il Real 7-3 all’Eintracht) e assieme a Real e Juve il record di finali consecutive disputate (3). L’Atalanta è la sola squadra, col Newcastle, a essersi qualificata dopo 3 sconfitte iniziali nei gironi; il Napoli il club eliminato col maggior numero di punti (12). La Juventus è la squadra con più finali perse (7) e con più espulsi in assoluto: 26, davanti a Bayern (19) e Inter (17); in due edizioni ha avuto ben 5 espulsi, record assoluto. Ahi! O meglio: AIA!