Emergenza Ponte infinita: tesoretto elettorale di Toti

“Il governo chiarisca subito il significato della proroga. Se qualcuno pensasse di utilizzare una legge speciale per rinviare le elezioni, o peggio ancora per chiudere in casa gli italiani, questo avrebbe un solo nome: golpe!”. Si indignava così Giovanni Toti, il 12 luglio scorso, all’idea di un prolungamento dello stato di emergenza per il Covid. “Conte e Speranza farebbero bene a evitare equivoci pericolosi per la nostra democrazia”, tuonava il governatore ligure.

È lo stesso Toti che nemmeno un mese dopo chiede e ottiene – per un anno intero – la proroga di un’altra emergenza, quella per il crollo del ponte Morandi di Genova. Che al contrario dell’emergenza sanitaria, dopo due anni dal disastro è quasi impalpabile: il nuovo viadotto è stato appena inaugurato e gli strascichi sulla vita quotidiana dei genovesi, ormai, del tutto scomparsi. Ma c’è un dato decisivo: il commissario delegato all’emergenza ponte è proprio Toti, che grazie alla proroga, nei prossimi mesi, spera di intestarsi nuove elargizioni alle imprese e persino il rinnovo di centinaia di posti di lavoro. Un asso nella manica che potrà tornare utile in vista della campagna elettorale.

A sentire il governatore, il prolungamento serve “a concludere degli iter già avviati, come gli ultimi risarcimenti per l’autotrasporto che per l’anno in corso partiranno nel 2021”. Poi “siamo in attesa di capire se le nostre richieste per impiegare i fondi residui (13 milioni e 710 mila euro sui 30 complessivi di aiuti alle imprese non utilizzati, ndr) saranno accettate dal Governo”.

E infine, “potranno essere rinnovati anche i contratti del personale assunto per far fronte allo stato d’emergenza”. Partiamo da qui. All’articolo 2 il decreto Genova ha previsto un piano di assunzioni straordinarie, a tempo determinato, in enti locali e società controllate, per tamponare una serie di urgenze post-crollo. Operatori ecologici a rimuovere i detriti, vigili urbani a gestire la viabilità, funzionari pubblici a evadere le pratiche per gli indennizzi.

Sono 316 i contratti di questo tipo, in scadenza a fine 2020. Le assunzioni vanno approvate dal commissario straordinario e Toti ha appena lanciato un messaggio preciso: saranno rinnovati. Anche se quelle esigenze non sussistono più: la viabilità in Valpolcevera è tornata regolare, i resti del vecchio Morandi smaltiti da tempo e gli aiuti economici distribuiti alle imprese, almeno fin dove permesso dalle contraddittorie scelte della stessa Giunta.

E qui veniamo all’altro tesoretto che Toti spera di distribuire: quei 13 milioni e passa di fondi per la ripresa ancora inutilizzati, su cui la Corte dei Conti ligure ha espresso preoccupazione. Si tratta di una parte dei 30 milioni stanziati dall’articolo 4-ter del decreto Genova per le indennità “una tantum” a imprenditori e autonomi (15 mila euro) e per la cassa integrazione in deroga.

Di questi 30 milioni, Toti ne dedica 15 alle “una tantum”, altri 15 alla cassa. Ma a quest’ultima aderiscono in pochissimi: da qui i 13 milioni avanzati e mai reinvestiti, nemmeno quando, a febbraio, il decreto Milleproroghe ne destina 5 all’area di crisi industriale in Valpolcevera. “Toti avrebbe potuto fare di tutto con quei soldi, a partire da nuovi bandi per i contributi una tantum. Invece ha scelto di tenerli fermi”, denuncia Giovanni Lunardon, capogruppo Pd in Regione Liguria.

Ora però promette che darà battaglia per destinarli alle Srl, la categoria di imprese i cui soci sono stati esclusi dalle indennità. “È il governo che deve autorizzarci”, dice. Ma, come ricorda Lunardon, “l’esclusione delle Srl è il frutto di un’interpretazione incomprensibile data dagli uffici della stessa Regione, senza nemmeno consultare l’Avvocatura di Stato.

Al solito Toti cerca di scaricare su altri i propri insuccessi. È facile, ora che siamo in campagna elettorale, accusare il Governo per nascondere la propria inerzia: un presidente di Regione serio avrebbe trovato da mesi il modo di sbloccare quei fondi, anche sbattendo i pugni sul tavolo a Roma, se necessario”. Ma per quello non serve uno stato d’emergenza.

 

 

Disonorevoli bonus Fico: “I partiti facciano pulizia, nuova legge”

La politica ha perso un altro pezzo di credibilità. Ci sono cinque deputati che si sono presi il bonus di 600 euro per le partite Iva flagellate del Covid. E in serata, parlando con il Fatto Quotidiano, il presidente della Camera Roberto Fico non può che scandire: “È una brutta pagina, i cittadini hanno fatto enormi sacrifici in questa fase così difficile per il Paese ed episodi del genere appaiono incomprensibili”.

Il veterano dei Cinque Stelle lo aveva scritto su Facebook già in mattinata, dopo aver letto la notizia diffusa da la Repubblica: “È una vergogna, i deputati chiedano scusa e restituiscano i soldi”.

È tra i primi politici a commentare, mentre nella pancia dei partiti è caccia ai “furbetti” e sui social si dilata la rabbia, con hashtag che urlano #fuorinomi. E in mezzo al fuoco delle proteste rischia di finire anche Montecitorio, come istituzione. “Ma la Camera non ha avuto e non ha un ruolo in questa vicenda – dice Fico – Si tratta di cinque episodi”. Ma fanno già abbastanza rumore da soli. E allora, è sufficiente chiedere ai deputati “solo” di cosparsi il capo di cenere e restituire i soldi?

Il presidente della Camera non invoca le dimissioni: questione di galateo istituzionale, di rispetto dei ruoli. Però al Fatto fa capire che qualcun altro può e deve provvedere: “Mi auguro che le forze politiche a cui appartengono i cinque deputa-ti agiscano di conseguenza. Chi si comporta in questo modo dimostra che non crede al proprio incarico di rappresentante del popolo, e l’unico modo serio per fare politica è crederci fino in fondo”. Vale per tutti, anche per il partito di Fico, il M5S.

E se davvero uno dei cinque deputati fosse un 5Stelle, come rimbomba dalle indiscrezioni per tutta la domenica? “Al di là di quello che faranno i partiti, i deputati coinvolti dovranno scusarsi e restituire quanto percepito, prima possibile”.

Nel frattempo però è più che lecito domandarsi se la norma che ha permesso tutto questo sia stata costruita nel modo giusto. Se lo chiedono in tanti, anche dentro la maggioranza. E il presidente della Camera riconosce: “Questi provvedimenti sono stati emanati per far fronte a una situazione di emergenza e supportare professionisti e lavoratori. Ma se il legislatore ravvisa delle storture, e se il senso della norma viene travisato, è opportuno intervenire”.

Nell’attesa tutti vogliono sapere chi siano i cinque eletti. Ma c’è il muro della legge sulla privacy. E allora, non sarebbe opportuno che Fico intervenga direttamente, magari chiedendo che il presidente dell’Inps Pasquale Tridico venga audito in Parlamento sul tema? “Non penso che questa sia una strada percorribile, la strada maestra è un’altra”, replica il veterano del Movimento. E la via la spiega così, il presidente della Camera: “Chiedo ufficialmente ai cinque eletti di uscire allo scoperto, chiamandomi o informando i propri partiti. Si manifestino, e chiedano scusa”.

Chissà se a questo punto possono avere anche una qualche funzione, le scuse. Anche perché in questa storia di presunta furbizie e sicuro degrado sembra coinvolta anche una valanga di politici fuori del Parlamento: sindaci, consiglieri comunali e regionali, perfino governatori. “Chi ha continuano a ricevere uno stipendio mensile, come gli eletti a tutti i livelli, non poteva aderire a questo bonus, e mi sembra anche paradossale dirlo. La politica si fa per idee e grandi ideali: se mancano si è persa consapevolezza del proprio ruolo, anche se non bisogna generalizzare”.

Ma mi faccia il piacere

Quello che so.

“Dai, Travaglio, dicci quel che sai su Consip” (Piero Sansonetti, Riformista, 4.8). Mah, io so che il tuo editore Alfredo Romeo è imputato per corruzione nel primo filone e indagato per corruzione e turbativa d’asta nel secondo filone insieme a Tiziano Renzi, a sua volta indagato per traffico di influenze illecite. Ti basta o serve altro?

Disboscamento. “Io nel governo? No grazie” (Maria Elena Boschi, senatrice Italia Viva, Repubblica, 7.8). Per la prima volta, siamo totalmente d’accordo con lei.

L’alibi di ferro. “Salvini avvia la campagna per le Regionali e difende Fontana: ‘È ricco di famiglia’” (Repubblica, 2.8). Ah, beh, allora.

Invidia sociale. “Siamo al metodo Palamara. Fontana sta bene di famiglia, la mamma aveva avuto successo, l’attacco alla Lombardia è frutto dell’invidia della sinistra verso chi ha successo nella vita” (Matteo Salvini, segretario Lega, ibidem). Del resto, chi non ha mai sognato di essere Attilio Fontana?

Riflessi pronti. “Con tutto il cuore mando un abbraccio ai nostri amici libici” (Manlio Di Stefano, M5S, sottosegretario agli Esteri, dopo l’esplosione che ha distrutto Beirut, capitale del Libano, Twitter, 4.8). Deve aver saputo della morte di Gheddafi.

Tu quoque. “Salvini pugnalato come Falcone e Borsellino” (Roberto Calderoli, senatore Lega, sull’autorizzazione a procedere concessa dal Senato ai giudici per il processo a Salvini sul caso Open Arms, Adnkronos, 30.7). Giulio Cesare invece saltò in aria a Palermo per un’autobomba.

Il procuratore aggiunto. “Sarebbe meglio indagare il premier. Prima non ha isolato la Bergamasca, facendo lievitare i decessi, poi ha sequestrato l’intero Paese. Sempre agendo contro il parere di tutti. Se i pm si muovono per Salvini, devono farlo anche per lui” (Pietro Senaldi, direttore di Libero, 8.8). Il reato è evidente: omissione di Senaldi.

Allarme rosa. “Delrio: ‘Anche Conte deve intervenire. Costituzione a rischio’. Appello per la riforma del sistema di voto. ‘Altrimenti possono crearsi maggioranze capaci di cambiare da sole la carta’” (Repubblica, 5.8). Come fecero quelli del centrosinistra nel 2001 con la riforma del Titolo V della Costituzione e nel 2016 con la controriforma Renzi-Boschi-Verdini. Totalitari che non sono altro.

Il bugiardo che dice la verità. “Conte sbugiardato sul Covid. ‘Non ricevetti il parere dei tecnici’. Una sua intervista lo smentisce. Ai giudici il capo del governo negò di conoscere la carta del Comitato scientifico che chiedeva la zona ossa in Val Seriana. Ma a Travaglio un mese prima diceva il contrario” (F.F., Libero, 8.8). Il 2 aprile Conte dichiara al Fatto: “La sera del 3 marzo il Comitato tecnico scientifico propone per la prima volta la possibilità di una nuova zona rossa per i comuni di Alzano Lombardo e Nembro… Chiedo un parere più articolato: mi arriva la sera del 5 marzo e conferma l’opportunità di una cintura rossa per Alzano e Nembro”. Il 12 giugno dice ai pm che il verbale del 3 non lo vide, mentre lesse quello del 5 che aveva chiesto lui. E la bugia, di grazia, dove sarebbe?

Il tacchino nella pentola. “E nel centrosinistra cresce la fronda trasversale per il no al referendum” (Repubblica, 5.8). “Taglio parlamentari. Tra i democratici aumentano i ribelli” (Il Dubbio, 5.8). Quelli che non verrebbero rieletti.

Misteri d’Italia. “Cos’è successo a Bologna il 2 agosto 1940?” (a proposito della strage di Bologna del 2 agosto 1980, Giornale.it, 3.8). E niente, un futuro iscritto alla P2 con la tessera numero 1816 si preparava a compiere 4 anni.

Sorprese. “Fontana, un testimone smonta l’accusa. Memoria difensiva in Procura: ‘Sbigottito quando scoprì il contratto oneroso sui camici’” (Giornale, 4.8). Ma ancora di più quando scoprì che il fratello di sua moglie era suo cognato.

Che sarà mai. “Parla Bassetti: ‘Il Covid è molto meno letale di quanto sembrava’” (Verità, 5.8). Ha fatto solo 35 morti in Italia e 728mila nel mondo. Un dilettante.

Alnano. “Alfano ha (ri)trovato il quid e forse torna, persino rimpianto. Anche il Cav. lo rimpiange: ‘Era il più bravo che avevamo’” (il Foglio, 7.8). Pensa gli altri.

Ceccandhi. “Gandhi era sovranista come Salvini. Anche noi leghisti leggiamo i libri” (Susanna Ceccardi, candidata Lega a presidente della Toscana, il Foglio, 7.8). Solo che non li capite.

Il titolo della settimana/1. “Denuncia a Lampedusa. ‘I migranti hanno mangiato i miei 4 cani’. Un’imprenditrice agricola: ‘Scappano, entrano nei nostri terreni, sporcano e uccidono gli animali’” (Libero, 7.8). Ma crudi o in salmì?

Il titolo della settimana/2. “Fermano pure i treni per dispetto a Zangrillo” (il Giornale, 3.8). Eppure si chiama proprio così: “il Giornale”.

Il titolo della settimana/3. “Rampini, l’unico giornalista intelligente della sinistra” (Renato Farina, Libero, 7.8). Povero Rampini, non meritava.

Sarri, povero Cristiano: esonerato. Arriva Pirlo

Altro che “giorni di riflessione”. Non potendo esonerare se stesso, e in attesa di regolare i conti con Fabio Paratici, l’addetto al mercato, Andrea Agnelli, ha licenziato Maurizio Sarri, la più banale delle mosse, e promosso Andrea Pirlo, la più clamorosa delle scosse. A conferma che lo scudetto, il primo dell’allenatore toscano e il nono consecutivo della Juventus, proprio “un’impresa” non era. In caso contrario, perché cacciare prima Massimiliano Allegri, che di campionati ne aveva vinti addirittura cinque, e poi il successore?

Pirlo, 41 anni: non si contesta il genio geometrico. Si discute, semmai, l’improvviso e assoluto cambio di programma: da tecnico della Under 23 aziendale a domatore dei “titolarissimi”. Vergine di panchina, come il Clarence Seedorf che Silvio Berlusconi precettò al Milan, quando non era più il grande Milan, Pirlo aveva lasciato la Juventus a Berlino, in lacrime, la sera del 6 giugno 2015. Il destino adora i dettagli: una finale di Champions persa (col Barça di Messi) ne segnò il distacco, una notte storta di Champions ne scolpisce il ritorno.

Ha pagato, Sarri, l’eliminazione contro quel Lione che, all’atto del sorteggio, considerammo manna dal cielo: se vogliamo, una non notizia, anche se negli ottavi non capitava dai supplementari bavaresi del 2016. La Juventus, per la cronaca e per la storia, non alza la coppa dal 1996, e il Comandante era in carica dall’estate scorsa. Il contratto – triennale, a 5,5 milioni netti a stagione– sarebbe scaduto il 30 giugno 2022. E questo è il meno: il mancato passaggio ai quarti costa 10,5 milioni sull’unghia, più la trentina che la conquista del trofeo avrebbe garantito. Senza trascurare i 360 complessivi dell’operazione Cristiano e l’impennata globale degli stipendi (294 milioni).

Basta con le rivoluzioni a metà, la Juventus scalcia per uscire dal concetto di fabbrica. Pirlo vi ha giocato sia con Antonio Conte sia con Allegri, riconoscendo nel primo una sorta di stella polare. Quattro gli scudetti in bacheca e biennale l’impegno sottoscritto. Trova una rosa da rinfrescare e un Marziano con cui confrontarsi. Da fuoriclasse a fuoriclasse. Un po’ come fece Zidane al Real. E proprio questa, al di là delle esigenze di bilancio e calendario, deve essere stata l’idea che ha ingolosito la Famiglia. Zizou almeno un po’ di gavetta l’aveva fatta. Andrea, zero. Se Sarri fu una scommessa, questa va oltre, molto oltre. Forse troppo.

“Prima non leggevo copioni. Il successo? La copertina su ‘Settimana enigmistica’”

Il cinema è dentro i suoi “se” e i suoi “ma”, perenne sottofondo di parole, concetti, esperienze. E non è una forma d’incertezza, piuttosto di conquista, di capacità di stupirsi, in cui l’anomalia non significa “diverso”, ma differente prospettiva.

Valentina Cervi nel cinema ci si è immersa ancor prima di nascere: suo nonno era Gino Cervi, il Peppone contrapposto a Don Camillo, mentre suo padre Tonino è uno dei grandi sceneggiatori e registi degli anni Settanta. Lei ha debuttato nel 1988 con Mignon è partita, ma il primo vero ruolo è arrivato nel 1996 con Ritratto di signora, e da lì è partito un percorso tortuoso, difficile, intenso (“Pensavo che bastasse il solo talento, neanche studiavo i copioni. Poi quando mi sono ritrovata a terra e senza una lira, ho capito”); da lì è iniziata un’analisi frontale su se stessa fino a ribaltare la sua vita, scoprirsi e a 44 anni raccogliere delle gioie grazie a Gli infedeli, commedia in onda su Netflix, scorretta il giusto, provocatoria il giusto, piccante il giusto, recitata da attori bravi e liberi dai laccioli del perbenismo figlio degli ultimi anni.

Per i critici lei è tra le migliori.

Eppure dopo aver rivisto il film l’istinto mi ha portato a scusarmi con la troupe: credevo di aver portato a casa solo un “compitino”.

Il regista è Stefano Mordini, suo compagno.

Avevo già lavorato con lui, ma in questo caso non è stato semplicissimo: ci conosciamo troppo bene, e non si riescono sempre a creare tra noi “stanze mentali” di compensazione.

Portavate a casa il set.

Eh no, quando abbiamo girato sono andata a dormire in albergo, così sul lavoro eravamo solo regista e attrice.

Il film in origine è una commedia francese…

È stata un’intuizione di Riccardo Scamarcio, è lui che l’ha scoperta, amata e voluta portare in Italia, ed è sempre lui ad aver coinvolto un gruppo di amici come Filippo Bologna e Stefano; a me, all’inizio, neanche era piaciuta.

Però…

Avevo solo intuito il suo carattere dissacrante e liberatorio: Riccardo aveva voglia di esplorarlo, di uscire da un certo cinema intimorito, in cui per tutti il principale obiettivo è quello di non sbagliare; (ci pensa) davvero, siamo usciti dalla comfort zone, dall’angoscia preordinata del botteghino, dalla castrazione preventiva rispetto ai giudizi potenziali.

Addirittura.

Qualche mamma della scuola dei miei figli mi ha detto: “Film interessante, però non ho capito questo o quell’altro, mentre in Manuale d’amore le storie sono più chiare”. Il pubblico vuole essere rassicurato e imboccato, e i produttori spesso assecondano.

Lei e Mastandrea in un episodio diventate complici delle rispettive corna.

Succede; anzi, sta succedendo: la donna si riprende la propria identità rispetto alla classica narrazione maschile.

Molte sue colleghe denunciano l’assenza di ruoli femminili.

I ruoli maschili sono molto più complessi, ma a parte ciò, non mi ritrovo in questa lamentela generalizzata. È vero un punto: se giri per la Rai devi risultare rassicurante e bella; se invece lavori per il cinema, l’aspetto sexy è quasi obbligatorio. (Silenzio).

E…

Non ci sono ruoli neanche per gli uomini: è pieno di colleghi che trovano complicato scovare la propria identità; (sorride) il passo successivo è lavorare a Le infedeli, e ci stanno pensando.

Ha dichiarato che considera la monogamia erotica.

(Sorride) Adesso sì, forse perché ho trovato l’amore tardi, prima ho sperimentato; ma parlo per me, non amo gli assoluti.

Nel 2003 era in Passato prossimo con Claudio Santamaria, Paola Cortellesi, Pierfrancesco Favino, Claudio Gioè. Una sorta di super-cast.

Eravamo un gruppo di attori cresciuti insieme, tutti provenienti dalla medesima scuola, amici da una vita e insieme anche nella stessa agenzia; eravamo un po’ acerbi, ingenui, non ci rendevamo pienamente conto delle nostre potenzialità.

Lei…

Non avevo grandi ambizioni, forse perché fin da piccola sono stata fortunata, coinvolta in progetti belli con personaggi interessanti; (sorride) iniziare con Jane Campion è qualcosa di incredibile; mentre le delusioni sono arrivate dopo, quando scopri che le chiamate devono essere sostenute da una struttura. Adeguata.

Tradotto.

Dopo queste produzioni, per molto tempo non ho più lavorato, avevo dato per scontato troppe situazioni.

Esempio.

Non leggevo i copioni; comunque era un periodo strampalato, all’improvviso mi sono ritrovata senza la fuga nel set: fino ad allora mi nascondevo dietro al lavoro, costruivo la mie realtà parallele e la mie famiglie estemporanee.

Risultato?

Sono stata obbligata a fermarmi, lavorare su di me e accettare produzioni televisive, che anni prima avrei rifiutato inorridita; invece Distretto di polizia e La squadra si sono rivelati una grande scuola e soprattutto mi hanno dato la possibilità di fare la spesa.

Metafora o realtà?

Assoluta realtà: nel 2005 mi offrirono un ruolo da guest star ne La Squadra, la mia agenzia neanche voleva, mi credeva destinata a grandi situazioni, ma io non avevo i soldi per mangiare.

Sua madre non l’aiutava?

Non navigava nell’oro, e avevo la responsabilità di me stessa.

Insomma?

Quel set del 2005 fu la svolta: ricordo il risveglio in un albergo di Napoli, davanti al mare, pagata bene per un giorno di riprese: lì ho capito che quella dell’attore è una professione, non un destino. Sono scesa sulla terra.

Cercava la famiglia.

Era la liturgia stereotipata del set, con questi gruppi che si formano, si isolano dal mondo, ti proteggono dal mondo, credono che quello sia il centro del mondo, per poi abbandonarti miseramente dopo l’ultimo ciak. Comunque ciò accade solo in Italia, sui set stranieri il clima è molto più freddo.

In Ritratto di signora ha recitato accanto a Christian Bale.

Stupendo, intelligente, così intelligente da non montarsi la testa, ed è diventato un mio grande amore, nel senso di amicizia; sul set ho scoperto pure una Barbara Hershey inedita: il suo atteggiamento mi ha rassicurata.

Cioè?

Durante la pausa pranzo non mangiava perché temeva di non risultare all’altezza, o grassa rispetto alla Kidman; vedere una donna così talentuosa ma fragile mi ha rasserenata e ho capito che esperienza umana è il set.

All’estero c’è l’“intimacy coordinator” per valutare le scene di sesso.

Credo sia una grandissima stupidaggine; gli americani hanno ottime intuizioni, ma sono anche folli.

Torniamo a quel 2003: i suoi colleghi…

Erano decisamente determinati: Claudio Gioè è sempre stato un talento puro, meraviglioso, a vent’anni era maturo come se ne avesse cinquanta, e forse ha raccolto meno di quello che meritava.

Come mai?

Siamo in un Paese dove, per accedere ai ruoli da protagonista, la fisicità conta tantissimo; però io lo trovo super sexy, e lui è stato intelligente nel costruirsi un percorso importante.

Favino.

È il re della determinazione, con alla base un solido talento.

Santamaria.

Come Favino, un altro grande.

Cortellesi.

È una fuoriclasse, una delle poche in grado di mantenere più registri e restare sempre credibile.

E lei?

Abbraccio la tesi dell’“uno ottiene quel che merita”; e poi oggi sono più equilibrata, più centrata, distante dalla sofferenza di un tempo.

Come mai non esistono quasi più i divi?

Perché il cinema ha perso la sua forza immaginifica, la capacità di suscitare sogni e prospettive. E lo dico con una tristezza interiore pazzesca, perché sono nata sui set.

Le ultime generazioni non sanno di Don Camillo e Peppone.

Giusto gli anziani; (ci pensa) ma in generale quasi mai mi hanno chiesto di mio nonno (non lo ha conosciuto, ndr), forse solo qualche patito o studente universitario. È anche normale rispetto alla società in cui viviamo.

Si porta il personaggio a casa?

No, mai, piuttosto per me sono fondamentali la concentrazione e l’ordine, compresa la puntualità. Parlo per me. Poi ci sono attori che si ubriacano, si drogano fino alla sera prima, arrivano sul set e sono fantastici.

Ha respirato cinema fin da bambina.

Frequentavo i set con mio padre, poi andavo a casa sua nei weekend e trovavo chiunque, a partire da Sonego (storico sceneggiatore dei film di Alberto Sordi, ndr): vivevo cinema.

Chi l’affascinava?

La diversità; da mio padre trovavi chiunque, mischiato a chiunque: la diversità era parallela alla presunta normalità, e da bambina mi stupivano i suoi amici transessuali; però mi vergognavo di rivelare di essere figlia di divorziati.

Il cinema la coinvolgeva.

Mi consideravo inclusa perché mi sono sempre sentita vicina più a mio padre che a mia madre, quindi vivevo quella realtà come naturale.

Sua padre parlava di Peppone?

La questione non è cosa, mi diceva, ma come – la sua malinconia, il perenne desiderio di accettazione –, da lì estrapolavo la relazione di un padre attore mancato, assente. In realtà mio nonno era riuscito a realizzare la sua identità lavorativa, mentre mio padre continuava a cercarla.

Il suo cognome le ha mai dato ansia da prestazione?

Al contrario, mi ha suscitato motivo d’orgoglio, ma è stato sempre un confronto dolce: rispetto a loro sono una donna, mi sono sentita come portatrice di una bella eredità, anche se non semplice.

In particolare.

Sono cresciuta abbastanza sola ed è normale sviluppare una personalità forte, fondata sul credo di poter risolvere tutto in autonomia. Senza delegare.

A cosa è sfuggita?

Per tanti anni all’amore.

Si è mai sentita sopravvissuta?

Negli ultimi tempi, quando ripenso al ventennio precedente.

“Guidare a fari spenti nella notte”…

Più o meno quel genere di situazioni, ma sempre con una punta finale di controllo.

Un sogno realizzato.

Finire sulla prima pagina della Settimana Enigmistica: è successo circa quindici anni fa; mia nonna ci giocava sempre.

Una sua fobia?

Il dentista.

Scaramanzie?

Superate.

Lotteria?

Mai.

Chi è lei?

Un’anima in viaggio, forse come tutti quanti.

(Cantano i CSI “In viaggio”: “Viaggiano i viandanti, viaggiano i perdenti più adatti ai mutamenti; viaggia la polvere, viaggia il vento, viaggia l’acqua sorgente, viaggia Sua Santità; viaggiano ansie nuove e sempre nuove crudeltà”).

 

In ritardo per l’ora del tè, Miranda sogna nel frutteto

Miranda dormiva nel frutteto, coricata su una sdraio sotto il melo. Il libro le era caduto nell’erba e il suo dito sembrava ancora indicare la frase “Ce pays est vraiment un des coins du monde où le rire des filles éclate le mieux…”, come se si fosse addormentata proprio lì. Gli opali che aveva al dito si accendevano di verde, si accendevano di rosa, e ancora si accendevano d’arancio man mano che il sole, filtrando tra i meli, li riempiva. Poi, quando soffiò la brezza, il suo abito viola si increspò come un fiore attaccato a uno stelo; i fili d’erba chinarono il capo; e la farfalla bianca venne a svolazzare qua e là proprio sopra il suo viso.

A quattro piedi nell’aria sopra di lei pendevano le mele. All’improvviso ci fu un clamore acuto quasi fossero dei gong di ottone crepato battuti con violenza, irregolarità e brutalità. Erano solo gli scolari che dicevano all’unisono le tabelline, interrotti dal maestro, sgridati, che poi riprendevano le tabelline dall’inizio. Ma il clamore passò quattro piedi sopra la testa di Miranda, attraversò i rami di melo e, battendo sul bambino del vaccaro che raccoglieva mirtilli nella siepe quando avrebbe dovuto essere a scuola, fece sì che si lacerasse il pollice sulle spine.

Dopo ci fu un grido solitario – triste, umano, brutale. Il vecchio Parsley era, davvero, ubriaco perso.

Poi le foglie più alte di tutte in cima al melo, piatte come pesciolini sullo sfondo azzurro, a trenta piedi sopra la terra, risuonarono di una nota pensosa e lugubre. Era l’organo della chiesa che suonava uno degli Inni antichi e moderni. Il suono uscì fluttuando e fu tagliato in atomi da uno stormo di cesene che volavano a velocità enorme – da una parte o dall’altra. Miranda dormiva coricata nove metri più in basso.

Poi sopra il melo e il pero, duecento piedi sopra Miranda che dormiva coricata nel frutteto, le campane rimbombarono, intermittenti, arcigne, didattiche, perché a sei donne povere della parrocchia toccava la cerimonia dopo il parto e il Rettore rendeva grazie al cielo.

E sopra questo con un cigolio acuto la penna dorata del campanile si girò da sud a est. Il vento cambiò. Si mise a ronzare sopra tutto il resto, sui boschi, i prati, le colline, miglia sopra Miranda che dormiva coricata nel frutteto. Avanzò irruento, senza occhi, senza cervello, senza incontrare niente che potesse opporgli resistenza, finché, ruotando nell’altro senso, non girò di nuovo verso sud. Miglia più in basso, in uno spazio grande come la cruna di un ago, Miranda si alzò in piedi e gridò forte: “Oh, farò tardi per il tè!”.

Miranda dormiva nel frutteto – o forse non era addormentata, perché le sue labbra si muovevano molto leggermente come se dicessero: “Ce pays est vraiment un des coins du monde… où le rire des filles… éclate… éclate… éclate…” e poi sorrise e lasciò che il suo corpo abbandonasse tutto il peso sulla terra enorme che si alza, pensò, per portarmi sul dorso come se fossi una foglia, o una regina (qui i bambini dissero le tabelline), oppure, continuò Miranda, potrei essere sdraiata sulla cima di una scogliera con i gabbiani che gridano sopra di me. Più in alto volano, proseguì, mentre il maestro sgridava i bambini e batteva Jimmy sulle nocche delle dita fino a farle sanguinare, più a fondo guardano nel mare – nel mare, ripeté, e le sue dita si rilassarono e le labbra si chiusero dolcemente come se stesse galleggiando sul mare, e poi, quando l’urlo dell’ubriaco risuonò in alto, inspirò con un’estasi straordinaria, perché le sembrò di udire la vita stessa che lanciava un grido da una lingua ruvida in una bocca rossa, dal vento, dalle campane, dalle curve foglie verdi dei cavoli.

Naturalmente quando l’organo suonò la melodia degli Inni antichi e moderni lei si stava sposando, e quando le campane suonarono dopo la cerimonia per le sei donne povere, l’arcigno tonfo intermittente le fece pensare che la terra fosse scossa dagli zoccoli del cavallo che galoppava verso di lei (“Ah, devo solo aspettare!” sospirò), e le parve che tutto avesse già iniziato a muoversi, a gridare, a cavalcare, a volare intorno a lei, su di lei, verso di lei secondo uno schema.

Mary sta tagliando la legna, pensò; Pearman sta radunando le mucche; i carretti stanno salendo dai prati; il cavaliere – e seguì le linee che gli uomini, i carretti, gli uccelli e il cavaliere tracciavano sulla campagna finché non sembrarono spinti lontano, tutt’attorno e di traverso dal battito del suo cuore.

Miglia più in alto il vento cambiò; la penna dorata del campanile cigolò; e Miranda saltò su e gridò: “Oh, farò tardi per il tè!”.

Miranda dormiva nel frutteto, ma era addormentata o non era addormentata? Il suo abito viola si stendeva fra i due meli. C’erano ventiquattro meli nel frutteto, alcuni leggermente inclinati, altri che crescevano dritti con uno slancio che saliva su per il tronco, si allargava ampio nei rami e prendeva forma in gocce tonde rosse o gialle. Ogni melo aveva spazio sufficiente. Il cielo ospitava con precisione le foglie. Quando soffiava la brezza, la linea dei rami sul muro si inclinava leggermente e poi tornava indietro. Una cutrettola volò in diagonale da un angolo all’altro. Saltellando con cautela, un tordo avanzò verso una mela caduta; dall’altro muro un passero svolazzò appena sopra l’erba. Lo slancio degli alberi era limitato da questi movimenti; tutto l’insieme era compresso dai muri del frutteto. Sotto, la terra era compatta per miglia; increspata in superficie dall’aria oscillante; e nell’angolo del frutteto il verde-azzurro era tagliato da una striatura viola. Col cambiare del vento, un grappolo di mele venne lanciato così in alto da coprire due mucche nel prato (“Oh, farò tardi per il tè!” gridò Miranda), e le mele tornarono a pendere dritte sopra il muro.

© 2020, Garzanti S.r.l.

“Vogliamo cambiamenti”: chi la canta va in prigione

La canzone che innervosisce il potere in Bielorussia in questi giorni è stata composta negli anni lontani della perestroika e comincia così: “Invece del fuoco, c’è solo fumo. Invece del caldo, c’è solo freddo”. Se cominci a intonarla per le strade di Minsk puoi finire in galera, ma esiste da quando il leggendario Viktor Tsoi, frontman del gruppo Kino, l’ha scritta nel lontano 1986. È dal repertorio d’epoca sovietica che arriva infatti il brano Kochu peremen, ovvero: “vogliamo cambiamenti”. Già canto di battaglia della candidata dell’opposizione Svetlana Tsikanouskaya, e del suo movimento Vmeste, “insieme”, capaci di coinvolgere migliaia di persone in un’ondata di proteste senza precedenti, la canzone si sta diffondendo nel Paese come inno di resistenza al presidente Aleksandr Lukashenko, candidato incombente alle urne aperte oggi nel Paese.

È una melodia che arriva ovunque, soprattutto dove non deve, e perfino alla manifestazione in favore del capo di Stato, al governo dal 1994.

A farla risuonare sopra il cielo di Minsk durante il comizio di Lukashenko sono stati i dj Kirill Galanov e Vladislav Sokolovsky, subito bloccati dagli uomini dell’amministrazione, accorsi a spegnere gli altoparlanti quando la folla radunata intorno al palco aveva già cominciato a cantarla. Ammanettati a piazza Kievsky, lo stesso luogo a cui è stato impedito l’accesso ai rappresentanti dell’opposizione, i dj sono ora in galera per “hooliganismo e disobbedienza. Si sono difesi dicendo alle forze dell’ordine che il concerto era stato organizzato dalle autorità stesse e la gente, già dalle prime note, “apprezzava la canzone, infatti hanno cominciato subito ad applaudire e cantare”.

Tinello e video: così “Old Joe” si conserva per battere Donald

Parla poco, anzi pochissimo. Non esce quasi mai di casa, anzi non lascia quasi mai il basement, cioè il seminterrato, della sua casa di Wilmington, nel Delaware, lo Stato di cui fu senatore per 36 anni, dal 1973 al 2009, prima di essere per otto anni il vicepresidente di Barack Obama.

E ha già detto che non andrà a Milwaukee nel Wisconsin per accettare la nomination democratica il 20 agosto: lo farà da lì, dal basement trasformato in studio televisivo per una campagna al tempo del coronavirus. Il basso profilo di Joe Biden finora paga: il candidato democratico alla Casa Bianca ha un vantaggio nei sondaggi in media in doppia cifra su Donald Trump, il magnate presidente, che, invece, è onnipresente, in tv e sui social, e che sceglie di essere divisivo – anche perché non sa essere altro –, mentre il suo rivale si sforza di essere inclusivo.

Se i suoi guru lo fanno andare in giro poco, una ragione c’è: a quasi 77 anni – li farà il 20 novembre, poco dopo l’Election Day il 3 novembre –, Biden è un soggetto a rischio virus, con l’epidemia che fa ogni giorno 60mila nuovi contagi nell’Unione – sono cinque milioni in queste ore – e che ha già fatto 162mila vittime. E se i suoi guru lo fanno parlare poco una ragione pure c’è. Quando apre bocca, rischia di fare danni perché ha la gaffe facile. Negli ultimi giorni, l’ex vice di Obama ha dovuto cercare di correggere una frase infelice: voleva dire una cosa positiva per i latino-americani, ma ne ha detta una che suonava negativa per i neri, attribuendo agli ispanici una “diversità” maggiore degli afro-americani.

“A differenza della comunità afro-americana, con notevoli eccezioni, la comunità ispanica è incredibilmente diversa”, aveva detto in un’intervista. Trump l’aveva subito rimarcato: “Dopo queste dichiarazioni, Sleepy Joe(Joe il sonnolento, come lo chiama il magnate presidente, ndr) non merita più il voto nero!”, aveva twittato. E Biden ha twittato a sua volta: “In nessun modo intendevo suggerire che la comunità afro-americana è un monolite”.

Ma l’infortunio lessicale rilancia i timori sulla tendenza di Biden all’errore. Neri e ispanici sono due sue costituencies essenziali: nove neri su dieci e tre ispanici su quattro lo preferiscono a Trump. Passi falsi lì potrebbero essergli esiziali.

Proprio per sfruttare le amnesie e la mancanza di prontezza del suo rivale, Trump voleva aggiungere un quarto dibattito, a inizio settembre, ai tre tradizionali confronti televisivi fra i due candidati. C’è stata una richiesta formale in tal senso, che la commissione elettorale ha però respinto.

La mossa di Trump nasceva dalla convinzione del presidente di avere un vantaggio nei confronti testa a testa con Biden; e trovava una giustificazione nel fatto che quest’anno, causa coronavirus, molti più elettori del solito esprimeranno la loro scelta con il sistema dell’early voting, o del voto per posta, che cominceranno a essere accessibili ai primi di settembre. Molta gente, quindi, voterà prima dei dibattiti.

La prima sfida tv tra Trump e Biden resta fissata il 29 settembre in Indiana. I successivi confronti sono previsti il 15 e 22 ottobre in Michigan e in Tennessee. In calendario c’è anche un dibattito tv tra i due candidati vice il 7 ottobre.

Proprio il nome del vice, anzi della vice, è una scelta che Biden deve ancora fare, o almeno annunciare: ha tempo la prossima settimana, prima della convention democratica, che sarà praticamente tutta virtuale. L’ex vice di Obama ha già detto che la sua vice sarà una donna e ci s’attende che sia di colore: la terna delle “finaliste”, secondo i media Usa, che non sono però concordi, comprende la deputata della California Karen Bass, presidente del caucus dei deputati e senatori afro-americani; la senatrice della California Kamala Harris, che corse per la nomination, e l’ex consigliere per la Sicurezza nazionale e ambasciatrice all’Onu Susan Rice. Politico riferisce che oltre 300 delegati – su circa 4750 – della convention democratica e del comitato nazionale del partito hanno appena firmato una dichiarazione “pro Bass”, considerata “una scelta d’unità”.

Atomiche, kamikaze e missili: esplodono anche le fake news

Un attentato suicida islamista, un’offensiva segreta israeliana, una detonazione atomica. Come il nitrato stipato nel deposito 12 del porto di Beirut, veloce più della rabbia dei cittadini che invadono le strade in fiamme di una città già bruciata, è deflagrata nel web anche la disinformazione sulla catastrofe libanese. Perfino per Trump, subito smentito dai suoi stessi generali, Beirut ridotta in cenere è stata vittima di un “terribile attacco” per “una bomba di qualche tipo”. Per il presidente libanese Michel Aoun, tra le cause della devastazione “non si può escludere un missile o una bomba”.

“Niente di ciò che abbiamo visto indica interferenza straniera, certamente nessuna sorta di attacco di missile o razzo”. Dalla Gran Bretagna ha smentito complottisti ed entrambi i capi di Stato Elliott Higgins, fondatore di Bellingcat, think tank che analizza e confronta immagini satellitari, materiale foto e video in circolo in tutti i gangli di Internet. Gli investigatori nerd di Higgins hanno affrontato un mistero digitale dopo l’altro negli ultimi anni: dalla tragedia dell’aereo malese abbattuto in Donbass nel 2014 ai bombardamenti in Siria, fino al caso delle spie russe coinvolte nell’avvelenamento dell’ex agente dei servizi di sicurezza Skripal. Higgins su Beirut riferisce che “c’è stato un numero di video fake che mostrano missili che causano l’esplosione, ma sono tutti fabbricati o frutto di cattive interpretazioni delle immagini”. Il suo collaboratore Nick Waters, ex ufficiale dell’esercito inglese, è riuscito a risalire, per esempio, alla fonte primaria della falsa notizia dell’Hiroshima libanese.

A suggerire la pista della tragedia atomica è stato Veterans Today, un giornale americano che dice di rivolgersi agli ex soldati a stelle e strisce, ma prodotto da uomini che di solito scrivono in cirillico per Mosca. Il sito è gestito da un’organizzazione vicino al Cremlino ed è noto per la sua capacità di diffusione di teorie cospirazioniste anti-semite. La loro “indagine sul campo” informa “della scioccante verità: Israele ha pianificato questo attacco nucleare almeno un anno fa”.

Ad essere confezionate in informazioni ghiotte per complottisti e creduloni sono state le testimonianze raccolte da civili o reporter libanesi. Il primo video falso che si è diffuso in rete, ha rivelato una ricerca Reuters, è una manipolazione di un filmato di Youssef Kawtharani, che si trovava a Rue Chafaka nel momento dell’esplosione.

Il video di un collaboratore della Cnn, Mehsen Mekhtfe, è stato rubato, decolorato e pubblicato come “ripresa di una telecamera termica”, un salvacondotto cromatico per inserire scene da cartone animato, in cui si vede un’arma volante che fa esplodere la città.

Hany Farid, professore di Scienze forensi digitali a Berkley, California, ha confermato che si tratta “ovviamente di falsi”. Gli ha fatto eco l’esperto di missili Jeffrey Lewis, Middlebury Institute of International Studies: “Se il materiale fosse stato meno amatoriale avremmo potuto identificare il tipo di razzo, traiettoria e velocità”, ma quello nei fotogrammi non assomiglia nemmeno lontanamente a un missile vero che colpisce un bersaglio.

A scusarsi, questa volta, per non aver saputo impedire in tempo il tornado di disinformazione non sono stati solo Twitter e Facebook, ma anche i cinesi di Tik Tok. A non rimangiarsi la parola “attacco” finora sono stati solo i troll. E i presidenti.

“Impiccati” e manganelli. La rabbia travolge Beirut

Forche con i capestri penzolanti sulle macerie e fotografie dei leader politici, compreso il presidente Michel Aoun, date alle fiamme sono l’immagine plastica della collera degli abitanti di Beirut e di tutto il Libano. A quattro giorni dalla devastante esplosione che ha raso al suolo metà della Capitale, la conta dei morti ha superato 160, i feriti 6mila, e i dispersi oltre una ventina. Nel “sabato della collera”, migliaia di libanesi si sono riversati nelle strade di Beirut al grido di “rivoluzione, rivoluzione”. Uno slogan già utilizzato davanti al presidente francese Macron nella visita di due giorni fa per chiedergli indirettamente di aiutarli a spazzare via tutti i signori della guerra che ancora tengono in pugno le sorti del paese.

I libanesi di tutte le confessioni avevano iniziato a inneggiare alla rivoluzione alla fine dell’anno scorso quando l’inflazione raggiunse cifre da record e le tasse furono aumentate a fronte del collasso di tutti i servizi pubblici. L’incapacità e soprattutto la corruzione di tutti gli attori politici che compongono su base settaria – in seguito agli accordi di Taif del 1989 che misero fine alla lunga guerra civile, portando a una pace senza pace – il panorama istituzionale, ha condotto il Paese dei Cedri alla bancarotta. Nella tarda serata di due giorni fa, un gruppo di giovani si era già riunito nella piazza dei Martiri che porta al Parlamento per urlare la propria frustrazione causata dall’ennesimo inimmaginabile, per entità, disastro che ha ferito al cuore questo paese disgraziato. E ancora una volta la polizia ha risposto in modo brutale allontanandoli con gas lacrimogeni e bastonate.

Del resto la polizia, al contrario dell’esercito, in questi mesi ha sempre reagito con la violenza alla rabbia composta dei manifestanti. Durante la manifestazione di ieri però anche la gente esasperata ha iniziato a usare molotov per tentare di sfondare i blocchi di cemento messi a protezione del Parlamento e protetti da agenti e soldati. Se la polizia ha caricato i manifestanti, l’esercito si è comportato in modo opposto, come avvenuto anche in passato. Molti manifestanti con caschetto di plastica in testa per proteggersi dalle manganellate della polizia e dei miliziani in borghese di Hezbollah e mascherina sono andati ad abbracciare i militari che tenevano la mano sul cuore mentre sfilavano. Alcuni hanno dato loro la bandiera libanese per sventolarla insieme. L’unità tra esercito e popolazione è l’unica reale. L’odio dei libanesi è tutto contro la casta che si nasconde dietro le paratie di cemento nei palazzi della politica. I manifestanti sono tuttavia riusciti a prendere d’assalto il ministero dell’Economia dopo essere entrati in quello degli Esteri. Tra di loro c’erano anche ex militari in pensione. I dimostranti hanno dichiarato che il palazzo sarà la sede della “rivoluzione” e hanno chiesto al governo di dimettersi.

Uno degli ufficiali in pensione, Sami Ramah, ha letto una dichiarazione che si chiude con l’ordine di “dimissioni dell’autorità politica” all’ingresso dell’edificio, dopo che circa 200 manifestanti avevano fatto irruzione sventolando le bandiere con il pugno simbolo della lotta contro la casta corrotta. In serata erano oltre 250 i feriti per gli scontri nelle strade.

Per quanto riguarda le indagini sulla causa delle esplosioni, dopo l’apertura del presidente Aoun all’ipotesi di un attacco missilistico e la richiesta dei tracciati aerei satellitari alla Francia, viene proprio da Parigi la prima risposta che smentirebbe il presidente libanese: “La Francia ritiene che ci siano elementi sufficienti per ritenere che l’esplosione sia stata un incidente”, ha reso noto una fonte ufficiale dell’Eliseo. “Ci sono elementi oggettivi a sufficienza per ritenere che l’hangar sia esploso per motivi accidentali”, ha dichiarato un’altra fonte ufficiale della presidenza francese.