Il cinema è dentro i suoi “se” e i suoi “ma”, perenne sottofondo di parole, concetti, esperienze. E non è una forma d’incertezza, piuttosto di conquista, di capacità di stupirsi, in cui l’anomalia non significa “diverso”, ma differente prospettiva.
Valentina Cervi nel cinema ci si è immersa ancor prima di nascere: suo nonno era Gino Cervi, il Peppone contrapposto a Don Camillo, mentre suo padre Tonino è uno dei grandi sceneggiatori e registi degli anni Settanta. Lei ha debuttato nel 1988 con Mignon è partita, ma il primo vero ruolo è arrivato nel 1996 con Ritratto di signora, e da lì è partito un percorso tortuoso, difficile, intenso (“Pensavo che bastasse il solo talento, neanche studiavo i copioni. Poi quando mi sono ritrovata a terra e senza una lira, ho capito”); da lì è iniziata un’analisi frontale su se stessa fino a ribaltare la sua vita, scoprirsi e a 44 anni raccogliere delle gioie grazie a Gli infedeli, commedia in onda su Netflix, scorretta il giusto, provocatoria il giusto, piccante il giusto, recitata da attori bravi e liberi dai laccioli del perbenismo figlio degli ultimi anni.
Per i critici lei è tra le migliori.
Eppure dopo aver rivisto il film l’istinto mi ha portato a scusarmi con la troupe: credevo di aver portato a casa solo un “compitino”.
Il regista è Stefano Mordini, suo compagno.
Avevo già lavorato con lui, ma in questo caso non è stato semplicissimo: ci conosciamo troppo bene, e non si riescono sempre a creare tra noi “stanze mentali” di compensazione.
Portavate a casa il set.
Eh no, quando abbiamo girato sono andata a dormire in albergo, così sul lavoro eravamo solo regista e attrice.
Il film in origine è una commedia francese…
È stata un’intuizione di Riccardo Scamarcio, è lui che l’ha scoperta, amata e voluta portare in Italia, ed è sempre lui ad aver coinvolto un gruppo di amici come Filippo Bologna e Stefano; a me, all’inizio, neanche era piaciuta.
Però…
Avevo solo intuito il suo carattere dissacrante e liberatorio: Riccardo aveva voglia di esplorarlo, di uscire da un certo cinema intimorito, in cui per tutti il principale obiettivo è quello di non sbagliare; (ci pensa) davvero, siamo usciti dalla comfort zone, dall’angoscia preordinata del botteghino, dalla castrazione preventiva rispetto ai giudizi potenziali.
Addirittura.
Qualche mamma della scuola dei miei figli mi ha detto: “Film interessante, però non ho capito questo o quell’altro, mentre in Manuale d’amore le storie sono più chiare”. Il pubblico vuole essere rassicurato e imboccato, e i produttori spesso assecondano.
Lei e Mastandrea in un episodio diventate complici delle rispettive corna.
Succede; anzi, sta succedendo: la donna si riprende la propria identità rispetto alla classica narrazione maschile.
Molte sue colleghe denunciano l’assenza di ruoli femminili.
I ruoli maschili sono molto più complessi, ma a parte ciò, non mi ritrovo in questa lamentela generalizzata. È vero un punto: se giri per la Rai devi risultare rassicurante e bella; se invece lavori per il cinema, l’aspetto sexy è quasi obbligatorio. (Silenzio).
E…
Non ci sono ruoli neanche per gli uomini: è pieno di colleghi che trovano complicato scovare la propria identità; (sorride) il passo successivo è lavorare a Le infedeli, e ci stanno pensando.
Ha dichiarato che considera la monogamia erotica.
(Sorride) Adesso sì, forse perché ho trovato l’amore tardi, prima ho sperimentato; ma parlo per me, non amo gli assoluti.
Nel 2003 era in Passato prossimo con Claudio Santamaria, Paola Cortellesi, Pierfrancesco Favino, Claudio Gioè. Una sorta di super-cast.
Eravamo un gruppo di attori cresciuti insieme, tutti provenienti dalla medesima scuola, amici da una vita e insieme anche nella stessa agenzia; eravamo un po’ acerbi, ingenui, non ci rendevamo pienamente conto delle nostre potenzialità.
Lei…
Non avevo grandi ambizioni, forse perché fin da piccola sono stata fortunata, coinvolta in progetti belli con personaggi interessanti; (sorride) iniziare con Jane Campion è qualcosa di incredibile; mentre le delusioni sono arrivate dopo, quando scopri che le chiamate devono essere sostenute da una struttura. Adeguata.
Tradotto.
Dopo queste produzioni, per molto tempo non ho più lavorato, avevo dato per scontato troppe situazioni.
Esempio.
Non leggevo i copioni; comunque era un periodo strampalato, all’improvviso mi sono ritrovata senza la fuga nel set: fino ad allora mi nascondevo dietro al lavoro, costruivo la mie realtà parallele e la mie famiglie estemporanee.
Risultato?
Sono stata obbligata a fermarmi, lavorare su di me e accettare produzioni televisive, che anni prima avrei rifiutato inorridita; invece Distretto di polizia e La squadra si sono rivelati una grande scuola e soprattutto mi hanno dato la possibilità di fare la spesa.
Metafora o realtà?
Assoluta realtà: nel 2005 mi offrirono un ruolo da guest star ne La Squadra, la mia agenzia neanche voleva, mi credeva destinata a grandi situazioni, ma io non avevo i soldi per mangiare.
Sua madre non l’aiutava?
Non navigava nell’oro, e avevo la responsabilità di me stessa.
Insomma?
Quel set del 2005 fu la svolta: ricordo il risveglio in un albergo di Napoli, davanti al mare, pagata bene per un giorno di riprese: lì ho capito che quella dell’attore è una professione, non un destino. Sono scesa sulla terra.
Cercava la famiglia.
Era la liturgia stereotipata del set, con questi gruppi che si formano, si isolano dal mondo, ti proteggono dal mondo, credono che quello sia il centro del mondo, per poi abbandonarti miseramente dopo l’ultimo ciak. Comunque ciò accade solo in Italia, sui set stranieri il clima è molto più freddo.
In Ritratto di signora ha recitato accanto a Christian Bale.
Stupendo, intelligente, così intelligente da non montarsi la testa, ed è diventato un mio grande amore, nel senso di amicizia; sul set ho scoperto pure una Barbara Hershey inedita: il suo atteggiamento mi ha rassicurata.
Cioè?
Durante la pausa pranzo non mangiava perché temeva di non risultare all’altezza, o grassa rispetto alla Kidman; vedere una donna così talentuosa ma fragile mi ha rasserenata e ho capito che esperienza umana è il set.
All’estero c’è l’“intimacy coordinator” per valutare le scene di sesso.
Credo sia una grandissima stupidaggine; gli americani hanno ottime intuizioni, ma sono anche folli.
Torniamo a quel 2003: i suoi colleghi…
Erano decisamente determinati: Claudio Gioè è sempre stato un talento puro, meraviglioso, a vent’anni era maturo come se ne avesse cinquanta, e forse ha raccolto meno di quello che meritava.
Come mai?
Siamo in un Paese dove, per accedere ai ruoli da protagonista, la fisicità conta tantissimo; però io lo trovo super sexy, e lui è stato intelligente nel costruirsi un percorso importante.
Favino.
È il re della determinazione, con alla base un solido talento.
Santamaria.
Come Favino, un altro grande.
Cortellesi.
È una fuoriclasse, una delle poche in grado di mantenere più registri e restare sempre credibile.
E lei?
Abbraccio la tesi dell’“uno ottiene quel che merita”; e poi oggi sono più equilibrata, più centrata, distante dalla sofferenza di un tempo.
Come mai non esistono quasi più i divi?
Perché il cinema ha perso la sua forza immaginifica, la capacità di suscitare sogni e prospettive. E lo dico con una tristezza interiore pazzesca, perché sono nata sui set.
Le ultime generazioni non sanno di Don Camillo e Peppone.
Giusto gli anziani; (ci pensa) ma in generale quasi mai mi hanno chiesto di mio nonno (non lo ha conosciuto, ndr), forse solo qualche patito o studente universitario. È anche normale rispetto alla società in cui viviamo.
Si porta il personaggio a casa?
No, mai, piuttosto per me sono fondamentali la concentrazione e l’ordine, compresa la puntualità. Parlo per me. Poi ci sono attori che si ubriacano, si drogano fino alla sera prima, arrivano sul set e sono fantastici.
Ha respirato cinema fin da bambina.
Frequentavo i set con mio padre, poi andavo a casa sua nei weekend e trovavo chiunque, a partire da Sonego (storico sceneggiatore dei film di Alberto Sordi, ndr): vivevo cinema.
Chi l’affascinava?
La diversità; da mio padre trovavi chiunque, mischiato a chiunque: la diversità era parallela alla presunta normalità, e da bambina mi stupivano i suoi amici transessuali; però mi vergognavo di rivelare di essere figlia di divorziati.
Il cinema la coinvolgeva.
Mi consideravo inclusa perché mi sono sempre sentita vicina più a mio padre che a mia madre, quindi vivevo quella realtà come naturale.
Sua padre parlava di Peppone?
La questione non è cosa, mi diceva, ma come – la sua malinconia, il perenne desiderio di accettazione –, da lì estrapolavo la relazione di un padre attore mancato, assente. In realtà mio nonno era riuscito a realizzare la sua identità lavorativa, mentre mio padre continuava a cercarla.
Il suo cognome le ha mai dato ansia da prestazione?
Al contrario, mi ha suscitato motivo d’orgoglio, ma è stato sempre un confronto dolce: rispetto a loro sono una donna, mi sono sentita come portatrice di una bella eredità, anche se non semplice.
In particolare.
Sono cresciuta abbastanza sola ed è normale sviluppare una personalità forte, fondata sul credo di poter risolvere tutto in autonomia. Senza delegare.
A cosa è sfuggita?
Per tanti anni all’amore.
Si è mai sentita sopravvissuta?
Negli ultimi tempi, quando ripenso al ventennio precedente.
“Guidare a fari spenti nella notte”…
Più o meno quel genere di situazioni, ma sempre con una punta finale di controllo.
Un sogno realizzato.
Finire sulla prima pagina della Settimana Enigmistica: è successo circa quindici anni fa; mia nonna ci giocava sempre.
Una sua fobia?
Il dentista.
Scaramanzie?
Superate.
Lotteria?
Mai.
Chi è lei?
Un’anima in viaggio, forse come tutti quanti.
(Cantano i CSI “In viaggio”: “Viaggiano i viandanti, viaggiano i perdenti più adatti ai mutamenti; viaggia la polvere, viaggia il vento, viaggia l’acqua sorgente, viaggia Sua Santità; viaggiano ansie nuove e sempre nuove crudeltà”).