Come sabotare l’immaginario con la semiotica

Lo studio delle procedure cognitive, pragmatiche e interpretative della comicità è già una critica delle pratiche dominanti: aiuta a dare significato alle dialettiche della razionalità (quella fra razionalità logica e razionalità analogica, quella fra razionale e irrazionale, quella fra ragione e istinto) con cui le comunità umane costruiscono la propria immagine del mondo, che danno per scontata; allena, insomma, alla libertà di pensiero. Conoscere a fondo le leggi nascoste della comunicazione aumenta l’arsenale di cui un comico può disporre per i suoi atti di sabotaggio dell’immaginario. Cominciamo a esplorarle.

Elementi di semiotica. La semiotica, teoria dei segni e della comunicazione, considera la parola un segno creato per comunicare, cioè per mettere in relazione un significante (l’espressione fonica o grafica) con un significato (un concetto). Il concetto si riferisce a un elemento extra-linguistico, detto referente. La relazione fra significante e significato è una denotazione; l’integrazione di un segno come significato in un altro segno è una connotazione. Per esempio, la parola cazzo denota l’organo maschile della minzione e della copula, e connota la sede dei sentimenti maschili.

Le tre parti della semiotica. La semiotica si compone di tre parti: sintattica (studia la relazione fra i segni); semantica (studia la relazione fra segni e referenti); pragmatica (studia la relazione fra segni e utenti di una lingua).

Il segno. Tutto può diventare un segno, anche un gesto o un oggetto. Nel caso dei segni intenzionali (segni artificiali come la scrittura, o come il foulard fucsia che, esposto alla finestra da una casalinga, avverte il postino che il marito non c’è; e segni storico-naturali come le lingue, o il gesto dell’ombrello), per interpretarli basta mettersi d’accordo prima (è il motivo per cui, se la mucca fa mu, il merlo non fa me, enigma su cui si arrovellavano per scherzo Elio & le Storie Tese). Nel caso dei segni naturali (le tracce di rossetto su un bicchiere, i gemiti che provengono dalla stanza accanto, il rossore sulle guance di una donna che ha appena avuto un orgasmo), la loro interpretazione dipende dall’enciclopedia personale (cultura, esperienza) e dalla capacità di capire il contesto. I segni naturali sono detti indici. Quando un indice, per essere interpretato, richiede una serie di ragionamenti (all’ora in cui la donna è stata assassinata, il marito era in casa), si parla di indizio. L’interpretazione di un segno è un processo di inferenza.

Poiché anche gli animali producono segni, cui altri animali (della stessa specie o di altre) rispondono, si tratta di intenzionalità (quindi di interpretazione) o di istinto? Si consideri questa differenza: per un cavallo, il fluire di un liquido denso, viscoso, giallognolo, di odore pungente, dalla vulva tumida e rossa di una cavalla, è segno di calore (invito alla monta); per il semiotico lo stesso liquido è segno del segno di calore. Ovvero, i segni animali sono solo richiami. Lo studioso di semiotica, di fronte a quel liquido equino, non si sente spinto a scopare la cavalla. (Meglio non indagare). Inoltre, i segni intenzionali umani possono parlare dei segni, una funzione metalinguistica che i richiami animali non possiedono.

La significatività del segno è nella sua pragmatica: afferrare il significato di un termine non vuol dire conoscere le sue associazioni familiari (isotopie), ma sapere la regola sociale che determina cosa sia e cosa non sia rilevante all’applicazione di quel termine.

La retorica generale del Gruppo di Liegi (1970) analizza le tecniche di trasformazione del linguaggio, le loro specie e i loro oggetti. Il modello di riferimento è quello semiotico-comunicativo, secondo cui un messaggio a proposito di un referente è prodotto da un mittente per un destinatario, in contatto tramite un codice. Per decodificare un messaggio è essenziale un contesto.

Ridondanza e scarto. Ogni messaggio presenta un certo tasso di ridondanza, cioè di prevedibilità. Le figure retoriche (metabole) modificano il tasso di ridondanza di un messaggio. Questa modifica è una non-pertinenza, detta scarto. Lo scarto è percepito rispetto a una norma (grado zero). Il grado zero è ciò che il destinatario si attende, in base a quanto conosce: del codice linguistico (ortografia, grammatica, lessico, sintassi, semantica, pragmatica, tasso di ridondanza); del codice logico (veridicità); dell’universo semantico (cultura); del codice sociale (pratiche); del contesto in cui si trova la metabola. Le norme del codice linguistico sono dette isotopie. Le norme del codice sociale sono dette convenzioni. Quando pure lo scarto diventa convenzionale, si rende possibile lo scarto dallo scarto, come fa Mel Brooks nel film muto Silent movie, quando il mimo Marcel Marceau è l’unico di cui sentiamo pronunciare una parola (“Non!”).

La metabola è una trasformazione di un qualunque aspetto di un codice. Gli scarti dal codice linguistico (metabole grammaticali) sono di tre specie: metaplasmi, metatassi, metasememi. Le trasformazioni del contenuto referenziale, invece, sono dette metalogismi. Metaplasmi e metatassi sono metabole del significante. I metaplasmi trasformano l’unità (figure formali, come la sincope e l’allitterazione), le metatassi trasformano la frase (figure sintattiche, come lo zeugma e il polisindeto). Metasememi e metalogismi sono metabole del significato. I metasememi trasformano l’unità (figure semantiche o tropi, come la sineddoche e l’antonomasia), i metalogismi trasformano la frase (figure del pensiero, come l’ironia e l’iperbole). Esistono metabole del supporto: sono variazioni del medium grafico e tipografico. Sono possibili anche metabole del mittente, del destinatario e del contatto.

Quattro operazioni logiche rendono possibile la generazione delle metabole: sottrazione (-), aggiunzione (+), sostituzione (-+) e permutazione (modifica dell’ordine lineare delle unità). Vediamone alcuni esempi divertenti.

Metaplasmi. Per sottrazione: fema (eliminazione sonorità della fricativa labio-dentale, come nel pastiche del tedesco usato da Bonvi per le sue Sturmtruppen: “Foi non afete folontà”); apocope (era usata nelle canzoni dell’avanspettacolo, perché allude a una segmentazione alternativa e licenziosa: Cile-Calcu’/Cile-Calcu’/Cile-Calcutta; anche con aferesi: Taci dunque/dunque taci/taci dunque/ ‘tacci tu’ di Aldo Fabrizi). Per aggiunzione: infisso (asanisimasa di Fellini; dyna-fucking-mite di Terry Southern); parola-valigia (i modi “familionari” del barone Rothschild, in Freud); allitterazione (acciughe, salacche, baccalà in Palazzeschi); assonanza (“I leghisti sono… aspetta, come si dice… dai, quelli che si chiamano come quello strumento musicale che si suona con le bacchette…” “Xilofono?” “Xenofobi!”).

(16. continua)

Enzo aveva la schiena dritta (e fece tornare Luttazzi in Rai)

Enzo Biagi tornò in onda dopo l’editto bulgaro riproponendo il titolo del suo primo programma Tv: RT Rotocalco televisivo, nell’aprile 2007. L’esilio era durato cinque anni. In quella che fu la sua ultima trasmissione decise di intervistare l’unico del trio (Michele Santoro era già tornato su Rai2) ancora escluso: Daniele Luttazzi il numero uno della satira. In giro ci sono comici bravi, alcuni bravissimi che sanno imitare, ma la satira politica è un’altra cosa. Luttazzi è di un altro pianeta, è l’erede di Alighiero Noschese. Dall’intervista con Biagi, Luttazzi non ha mai più varcato la soglia della Rai.

Il 9 agosto, il più importante giornalista della televisione italiana, avrebbe compiuto cento anni: nato nel 1920 a Pianaccio, Appennino Tosco-Emiliano. La sua storia tv iniziò nel 1961 quando diventò direttore del Telegiornale: “Andavo a scoprire un modo nuovo di fare il mio mestiere”. Non c’è stato nessuno come lui che abbia saputo rinnovare il linguaggio della tv. Al Tg cambiò le regole scandalizzando i più conservatori: sostituì alla conduzione l’annunciatore col giornalista, portò le telecamere nei luoghi dove accadevano i fatti. Nel 1962 inventò il primo rotocalco televisivo Rt: “Pensavo che anche con le immagini si potessero raccontare delle storie e approfondirle come sui periodici di carta”. Quante trasmissioni di approfondimento giornalistico hanno preso spunto da Linea diretta del 1985. Infine Il Fatto di Enzo Biagi, prima edizione 1995, per un totale di 848 puntate.

L’intervista è stata la cifra del giornalismo di Biagi: è lui che ha inventato il faccia a faccia. I suoi incontri hanno fatto Storia, hanno accompagnato il telespettatore verso il nuovo millennio. La definizione che gli fu data lo calza a pennello: Testimone del tempo. Enzo Biagi è stato un giornalista “scomodo”. Lo è stato da vivo, lo è ancora oggi a 13 anni dalla scomparsa, in quanti, tra i politici, avrebbero voluto Biagi nell’oblio, come tentò l’ex Cavaliere allora presidente del Consiglio con l’editto bulgaro. Il 18 aprile 2002 lo accusò, con Santoro e Luttazzi, di aver fatto un uso criminoso della tv. La risposta di Biagi non si fece attendere: “Quale sarebbe il reato? Stupro, assassinio, rapina, furto, incitamento alla delinquenza, falso e diffamazione? Denunci”. Poi aggiunse: “Signor presidente, la mia età e il senso di rispetto che ho per me stesso mi vietano di adeguarmi ai suoi desideri. Sono ancora convinto che in questa nostra Repubblica ci sia spazio per la libertà di stampa. E ci sia perfino in Rai che, essendo proprio di tutti, come lei dice, vorrà sentire tutte le opinioni. Perché questo è il principio della democrazia. Sta scritto, dia un’occhiata, nella Costituzione”. Sua Emittenza aveva vinto una battaglia. Biagi, con il ritorno in tv nel 2007, a 86 anni, la guerra.

A lui piaceva sperimentare, intervistare era un modo per conoscere. Biagi e Luttazzi non si erano mai incontrati. Ricordo l’emozione dell’artista di fronte al maestro di giornalismo. Biagi, già segnato dalla malattia – se ne andò dopo pochi mesi – lo mise subito a suo agio, manifestandogli simpatia e stima professionale. Lo volle a Rt perché Daniele non aveva eguali nel raccontare, attraverso il linguaggio della satira, la realtà. Come aveva fatto a Satyricon nella puntata “incriminata”, che lo fece entrare nell’Olimpo dell’editto, quando Marco Travaglio presentò il libro L’odore dei soldi dedicato al re del conflitto d’interessi. Nell’intervista con Biagi, il comico lanciò il comma Luttazzi contro le querele vessatorie per impedire la satira, quella vera, che viene perseguitata da chi vorrebbe essere l’uomo solo al comando, tentando di imporre il pensiero unico. “Tu, se vuoi, potente di turno, mi puoi fare causa per 20 milioni di euro, ma se perdi la causa, i milioni li dai tu a me”.

Biagi e Luttazzi avevano in comune: la schiena dritta (definizione che diede il presidente Ciampi al giornalismo di Biagi), non aver mai perso una causa per diffamazione e le cacciate dai giornali e dalle tv sempre per ragioni politiche. “Tra me e i miei editori c’è sempre stato un politico di troppo”, raccontava Biagi.

Contrario. Una mancetta che alimenta gli stereotipi

Nel Paese in cui le donne si licenziano perché non sanno a chi affidare i figli, si incentivano le donne a rimanere a casa. Questo si legge nell’emendamento “Fondo opportunità” presentato a giugno da Federcasalinghe alla ministra Bonetti: “Serve a rasserenare queste mamme, sapendo che un giorno, cresciuti i figli, potranno avere l’opportunità di rientrare nel mondo del lavoro”. Due giorni fa, alla vigilia del Cdm, Bonetti ha di nuovo incontrato l’associazione. Non parliamo qui dei profili di incostituzionalità di una norma pensata per le sole “donne”, parliamo del merito. Si chiama “Fondo per la formazione delle casalinghe”, è di 3 milioni di euro (spiccioli) e ancora non è circostanziato, ma già da quanto scritto nel dl Agosto si comprende il pregiudizio di partenza. Si fa riferimento alla “formazione e all’incremento delle opportunità culturali e dell’inclusione sociale” delle casalinghe. Diamo loro i soldi per iscriversi a un corso di teatro? O le formiamo per uscire con le amiche? No di certo, replicherà la ministra: sono soldi volti alla formazione professionale, per dare loro l’opportunità di inserirsi nel mercato del lavoro. Cioè anziché intervenire sul welfare, aprendo asili e incentivando la condivisione dei ruoli in famiglia (come auspicato dalla Conferenza di Pechino, già nel 1995), diamo spiccioli alle casalinghe per imparare un mestiere che con i figli “cresciuti” potrebbe non servire. Alla faccia dell’empowerment femminile, cara ministra. State a casa, prendetevi ’sta mancetta e non vi azzardate a piangere nel post partum.

Favorevole. Queste donne esistono, giusto pensarci

Il modo in cui le immaginiamo, grembiule e sorriso, è fermo agli aAnni Sessanta. Ma le oltre 7 milioni di casalinghe odierne – quelle “pure”, per così dire, visto che le donne che non lavorano sono molte di più – sono spesso madri, istruite, uscite dal mercato del lavoro o mai riuscite ad entrarci, prive di autonomia finanziaria, sovente povere, fuori da ogni circuito ricreativo. Un esercito di invisibilissime che effettua oltre 20 miliardi di ore di lavoro l’anno (Istat 2017). Che dunque il governo, su iniziativa dei ministeri dell’Economia e delle Pari Opportunità, abbia deciso di stanziare tre milioni l’anno per la loro formazione e l’inclusione sociale e lavorativa è senz’altro qualcosa da salutare con favore.

Queste donne hanno bisogno anzitutto di essere riconosciute come interlocutrici e di avere informazioni sui loro diritti basilari (l’assicurazione contro gli infortuni, la pensione). Certo, parlare di “fondo alle casalinghe” sembra rimandare alla vecchia idea, proposta ad esempio Giulia Bongiorno, di uno stipendio alle casalinghe, che scoraggerebbe le donne nella ricerca del lavoro. Ma non è questo il senso della misura, basti ricordare il recente Family Act col quale la stessa ministra intende dare gli strumenti alle donne per uscire di casa. E allora non serve gridare ad un ritorno al passato. Semplicemente, non possono essere più ignorate. E dunque la direzione è questa: aiutare le donne a entrare nel mondo del lavoro, aiutare quelle che non possono farlo. E che meritano lo stesso rispetto di tutti.

Mail box

 

Taglio dei parlamentari: argomentate meglio

Gentile Direttore, lettore del Fatto Quotidiano dal suo nascere (mi ha ricordato il Nuovo Corriere di Romano Bilenchi del dopoguerra) e abbonato dal 2013, mi sento autorizzato a esprimere un pieno dissenso per il modo con il quale, da parte di due autorevoli e sperimentati giornalisti, rispettivamente direttore ed ex direttore, viene trattato il problema del taglio dei parlamentari oggetto di un prossimo referendum. La politica italiana, o meglio i politici, vi danno tante occasioni per utilizzare la vostra satira piacevole. È legittimo il Sì, ma come questo giornale è stato capace ed efficace di argomentare a lungo il No per altro referendum, lo si faccia anche per questo, a meno che non si abbiano altri argomenti che quello del risparmio del costo di un caffè all’anno per ogni cittadino. Grazie per l’eventuale ospitalità.

Paolo Chiarelli

Caro Paolo, mi batto da circa 30 anni per il taglio dei parlamentari. Sarebbe davvero comico se io mi convertissi alla difesa della casta più pletorica d’Europa – come fanno i giornaloni – solo perché quella sacrosanta riforma costituzionale (con tutti i correttivi sui collegi e il sistema elettorale che andranno poi fatti con legge ordinaria) l’hanno imposta i 5 Stelle.

M. Trav.

 

Una vera rivoluzione: i partiti tornino a scuola

Credo che il principale problema della politica italiana, e soprattutto dei politici italiani, sia lo scarso livello culturale. Non ci sono i personaggi di una volta che, sebbene appartenenti a un mondo corrotto e clientelare, almeno avevano una solida base culturale: erano persone preparate, erudite, capaci di affrontare argomenti senza la violenza animalesca tipica dei nostri tempi e magari capaci di promulgare leggi e soluzioni migliori. A mio avviso la vera rivoluzione che i 5 Stelle dovrebbero e potrebbero portare avanti è quella di creare una scuola per politici con docenti di elevato spessore morale e culturale, attraverso la quale formare i parlamentari e gli amministratori del futuro: potrebbero farlo utilizzando la rinuncia di parte dei loro emolumenti per destinarli a questa iniziativa.

Antonello Lupiani

 

La locomotiva del Nord è in panne. E il Sud?

In attesa dell’arrivo dei fondi Ue del Recovery Fund già si evidenziano gli appetiti egoisti delle lobby del Nord: molti leghisti e alcuni esponenti Pd, che definisco “diversamente leghisti” (es. Sala, Bonaccini e De Micheli), cantano in coro “tutto alla locomotiva del Nord”. Peccato che la locomotiva sia in panne e che l’economia italiana sia l’ultima in Ue da 20 anni (Einstein direbbe che c’è della follia nel ripetere le stesse azioni e aspettarsi risultati differenti). La De Micheli prosegue la tradizione del fu ministro dei “trasporti del Nord” Burlando. Come? Attribuendosi la totale gestione dei fondi Ue e assegnandone, bontà sua, al Sud ben il 40 per cento. Invece, tenendo conto dei parametri europei, a Sud e isole andrebbero 145 miliardi contro i 64 del Nord. Meno male che i paesi frugali hanno preteso il “freno a mano”! Quanto ai 5 Stelle è ora che si creino una degna commissione economica con piani di sviluppo dell’Italia e obiettivi generali, non di una parte a scapito dell’altra.

Michele Putignano

 

Salvini è il sintomo della malapolitica (tutta)

Caro direttore, leggendo il suo editoriale “Arrivano i Dpcv”, diventa evidentissimo quanto le già ingiuste accuse di diffamazione che le si muovono siano anche infondate: non c’è niente di meglio della realtà per dimostrare che non sono i giornalisti a parlar male del Cazzaro Verde, ma è lui stesso a calunniarsi da solo, semplicemente dando fiato alla bocca. Per di più, di recente, ciò è peggiorato: Salvini sembra aver perso il potere di influenzare i suoi follower, diventando invece succube dei social; altrimenti non si spiegherebbero le sue opinioni a banderuola, espresse quasi a caso, a seconda di dove tira il vento. Tuttavia, penso ci sia anche un insegnamento che dovremmo trarre dalle sue sconclusionate uscite: sondaggi settimanali se non giornalieri, trending topic studiati da esperti, politici con più social media manager che collaboratori… sono tutte cose che dimostrano come la pubblica discussione si sia trasformata in una borsa valori del potere, in cui si agisce non per l’interesse generale ma per quel numerino fine a se stesso del gradimento elettorale che sale o scende nelle infografiche. Salvini non è che il sintomo di un male che ha profondamente infettato la politica, e che andrebbe curato in fretta.

G. C.

 

Le troppe strade dissestate in Puglia

Egregio direttore, le invio questa email dopo l’ennesimo pagamento della ennesima multa: quest’ultima per aver superato di ben 1 km/h (tenuto conto della tolleranza) il limite di 90 km/h. Da buon cittadino ho accettato la pena per la trasgressione commessa su una strada che il codice stradale definirebbe quantomeno una “extraurbana principale” fissandone il limite a 110 km/h. Ora, capisco che ci possano essere punti critici dove è opportuno imporre determinati limiti, ma è possibile che per tutto il tratto stradale venga disatteso l’art. 142 del codice della strada? E se sì, perché? Forse che l’opera non è all’altezza di determinati standard di sicurezza? E di chi è la responsabilità in questo caso? Di chi l’ha progettata? Di chi l’ha realizzata? Di chi non fa manutenzione? Mi scusi per lo sfogo, ma vorrei veramente che qualcuno si interessasse con una bella inchiesta sulla SS16 da Foggia a Bari.

Pantaleo Andreula

Ballando con le stellette (militari)

“Ma quale punizione, la tenente che balla merita l’encomio”.

Roberto Saviano, “Repubblica”

 

Siamo anche noi deliziati dal meraviglioso balletto improvvisato (nel senso che il video ha colto tutti all’improvviso) dal tenente di vascello donna durante la cerimonia del giuramento nel cortile della Scuola sottufficiali di Taranto, sulle note di “Jerusalema”. E anche chi scrive spera che questo genio in alta uniforme e sciabola non venga colpito da provvedimenti punitivi . Eviteremmo però anche un encomio (come propone Saviano) poiché in cuor nostro vorremmo tanto che non fosse data altra pubblicità al graduato danzante e ai suoi marinai. Onde non rischiare che l’intera compagnia finisca immediatamente arruolata a “Ballando con le stelle”. Per poi imboccare una strada senza ritorno che la vedrà consegnata presso Barbara D’Urso, interrogata da Diaco (e indotta a inevitabile pianto liberatorio), accerchiata da Bruno Vespa, esiliata sull’“Isola dei famosi” (senza contare le foto segnaletiche di “Chi”, nella speciale rubrica “Operazione sottoveste”). Sarebbe bellissimo insomma se quella mirabile sintesi di armonia marziale e giovanile sfacciataggine restasse intatta e inviolabile dentro la Rete. Che quelle divise candide non finissero ricoperte di stupidi lustrini.
Temiamo però che sia già troppo tardi.

Antonio Padellaro

Baghdad brucia (di caldo) e l’alta marea fa vittime

In Italia – Agosto è cominciato, sabato 1, con una giornata bollente: termometri a 42,9 °C a Dorgali presso Nuoro, 41,6 °C a Gela e 38,6 °C a Novi Ligure, fino a 10 °C di troppo, ma in serata tempeste di pioggia, vento e grandine hanno spazzato proprio l’Alessandrino e anche l’Emilia. All’arrivo di correnti atlantiche più fresche nubifragi si sono rinnovati sul Monferrato domenica sera, 2 agosto (inconsueti i 101 mm piovuti su Alessandria in meno di 48 ore, più della norma di luglio e agosto messi insieme, che è pari a 84 mm). Lunedì pomeriggio a suon di temporali in Valpadana c’erano anche 20 °C in meno rispetto a due giorni prima, gravi danni ad aziende agricole per un tornado 20 km a Est di Ferrara e grandine da 6 cm di diametro a Lugo (Ravenna), torrenti in piena dalla Lombardia, al Friuli e alla Lunigiana (143 mm di pioggia a Pontremoli, mai rilevati in un giorno della prima metà di agosto). La notte seguente, 30 cm di neve allo Stelvio, non eccezionale nemmeno in piena estate, comunque notevole per la quantità. Intensi rovesci ancora martedì al Nord-Est (colate di fango nel Bassanese per 201 mm caduti in 4 giorni), poi le nubi si sono dirette a Sud causando nubifragi e allagamenti di strade tra mercoledì e venerdì dal Foggiano fino a Bari e Taranto (143 mm mercoledì a Carpino, Gargano). Varie trombe marine dalla laguna veneta alla Sicilia, giovedì panico tra i bagnanti in spiaggia a Cefalù. Ultimi temporali ieri, mentre il caldo tornava ad accentuarsi al Centro-Nord con 37 °C nel Pistoiese.

Nel mondo – L’uragano tropicale “Isaias” ha raggiunto solo la categoria 1 su 5 (venti a 137 km/h in North Carolina), ma nel suo lungo percorso da Porto Rico al Canada orientale ha lasciato sei vittime, molti danni e un black-out elettrico per sette milioni di utenti. Alluvioni in Pennsylvania, e marea di tempesta record nella serie dal 1935 a Wilmington, North Carolina, +128 cm: in coincidenza con l’alta marea astronomica e con l’aiuto del costante aumento dei livelli marini dovuto al riscaldamento globale (+33 cm in 85 anni in questa località), si sono battuti i precedenti primati degli uragani Matthew (2016) e Florence (2018). Inondazioni anche nel Sud-Est asiatico a causa della tempesta tropicale “Sinlaku”, fino a 368 mm di pioggia il 2 agosto in Vietnam, ma sott’acqua per piogge torrenziali pure Somalia, Sudan, Arabia Saudita e Yemen, qui grave bilancio di almeno 20 vittime. Diciotto morti inoltre in Corea del Sud nelle alluvioni e frane di una stagione monsonica molto lunga (44 giorni consecutivi di pioggia). Evacuazioni per incendi invece nello Utah e nel Sud della California. Si rinnova il caldo anomalo in Inghilterra, venerdì 36,4 °C ai Kew Gardens di Londra, e in Francia, dove il periodo gennaio-luglio 2020 è risultato il più caldo in oltre un secolo, e a Nantes si è raggiunto un primato di 39,6 °C. Non si scherza anche in Andalusia, ben 45,7 °C domenica scorsa a Vélez-Málaga (non lontano dal record nazionale spagnolo del luglio 2017, 47,3 °C). Ma la calura più micidiale si è concentrata in Medioriente, nuovi primati assoluti di 51,8 °C il 28 luglio a Baghdad, 46,0 °C il 29 a Damasco e 45,4 °C il 27 a Houche al Oumara (quota 920 m), record nazionale libanese. Luglio 2020 è stato il terzo più caldo nel mondo secondo il servizio Copernicus (+0,49 °C) dopo i casi del 2016 e 2019, e le ondate di calore sono sempre più una minaccia per la salute: entro il 2050 un aumento termico medio di 2 °C causerebbe 50 mila morti all’anno in Europa (ne abbiamo avuto un assaggio nel 2003 con 70 mila), e popolazione e sistemi sanitari devono prepararsi di fronte a questo nuovo rischio, sottolinea il rapporto Adaptation to Health Effects of Climate Change in Europe della Commissione europea.

 

Non di solo pane. “La vita è amore: soffre, ma non gode dell’ingiustizia”

La millenaria lotta per la vita da parte dell’umanità ha raggiunto in Occidente un livello di benessere e salute mai visti prima. Lo sviluppo scientifico e tecnico, insieme a risorse economiche rilevanti, ci ha fatto raggiungere frontiere impensabili solo poche generazioni fa. Tanto da suscitare un sentimento diffuso di superiorità e onnipotenza rispetto al resto del mondo che si può sintetizzare in frasi del tipo: “Da noi non può succedere”. È una delle ragioni, se non la principale, dell’impreparazione e incredulità con cui, salvo rare eccezioni, abbiamo affrontato in Occidente l’arrivo della pandemia. Dal negazionismo alla minimizzazione fino a illusorie ipotesi di contrasto.

La pandemia ci ha resi ancor più consapevoli di ciò che già sapevamo ma che cercavamo di tenere in un angolo della nostra coscienza: i limiti, la precarietà e soprattutto gli squilibri ingiusti dello sviluppo, basato su un uso “estremo” di tutte le risorse disponibili per una minoranza privilegiata dell’umanità. E ci stiamo interrogando sempre di più su come correggerne gli squilibri e, con una certa inquietudine, su come sarà il nostro futuro visto il presentarsi sulla scena mondiale di grandi competitori non occidentali. Qualsiasi risposta si troverà, dovrà tenere conto del fatto che la nostra generazione ha sviluppato una sensibilità diversa rispetto a quelle precedenti sul senso e sulla qualità della nostra vita personale e sociale. Vivere è una condizione primaria e fondamentale, ma sempre meno siamo disposti a vivere a qualsiasi costo e in qualsiasi condizione, come dimostrano per esempio il dibattito sulle questioni di inizio e fine vita, oppure l’attenzione crescente non solo alla quantità delle cose ma anche alla loro qualità: dei cibi, dell’aria, degli spazi che abitiamo, del modo in cui siamo curati, del numero di anni che viviamo.

Anche la Bibbia non si accontenta che l’essere umano semplicemente “viva”, ma chiede di qualificare questa vita secondo una scala di valori (“L’uomo non vive di solo pane”, Deuteronomio 8,3; Matteo 4,1-4), scegliendo molto concretamente quale “via” percorrere (“Io metto oggi davanti a te la vita e il bene, la morte e il male; poiché io ti comando oggi di amare il Signore, il tuo Dio, di camminare nelle sue vie”, Deuteronomio 30,15-16), rinunciando a vivere egoisticamente mettendo solo se stessi al centro di ogni cosa, ma vivendo nell’amore per il prossimo e per Dio (Marco 12,29-32). La scelta di qualificare la vita con la categoria dell’amore (“L’amore è paziente, è benevolo; l’amore non invidia; l’amore non si vanta, non si gonfia, non si comporta in modo sconveniente, non cerca il proprio interesse, non s’inasprisce, non addebita il male, non gode dell’ingiustizia, ma gioisce con la verità; soffre ogni cosa, crede ogni cosa, spera ogni cosa, sopporta ogni cosa”, I Corinzi 13,4-7) è definita dall’apostolo Paolo come la “via per eccellenza” (I Corinzi 12,31). Dunque, non basta difendere il diritto alla vita – il primo dei diritti – ma bisogna contemporaneamente impegnarsi per dare alla vita – alla propria e a quella del prossimo – senso, qualità, umanità, amore, dignità, speranza.

Non è un impegno da poco e non è neppure facile da definire in modo univoco nelle situazioni “limite” della vita o quando ci sono due o più vite in campo (interruzione di gravidanza, trapianti…) oppure quando ci sono risorse limitate e insufficienti per tutti. Ma la vocazione cristiana deve saper affrontare queste sfide con animo aperto al dialogo e all’ascolto, e soprattutto all’ascolto della Parola di Dio illuminata dallo Spirito.

 

L’Italia e gli italiani: il grande distacco

Vi siete accorti che da tempo una parte del nostro Paese (detto “centrodestra” ma composto da impulsi spesso non controllabili di destra estrema) non dice mai “Italia” ma sempre e solo “gli italiani, rivolgendosi a un popolo arrabbiato e rancoroso che vuole migranti respinti in mare, “clandestini” rinchiusi in lager (altrimenti stanno in alberghi di lusso a guardare la tv), carcerati in carcere, non importa se ingiustamente, figli di immigrati che saranno stranieri per sempre.

La bandiera nazionale è stata declassata, anche quando te la esibiscono gigantesca. Non è la patria. È un manifesto di partito. La divisione (dice “Italia” chi riconosce il passato, dice “italiani” chi chiama la folla in strada) è spiegabile. L’Italia viene da Dante, Petrarca, Leopardi; viene dal Rinascimento, dal Risorgimento, dalla Resistenza. Non puoi invocare l’Italia e farne il tuo riferimento mentre affondi un barcone in mare. “Gli italiani”, invece, si possono trasformare in “piazza”, dove, se la destra incattivita raggiunge il suo scopo, possono diventare crudeli, razzisti e chiamati a raccolta per le botte, le aggressioni, le fake news, gli insulti al Papa e a Mattarella e il ruolo malefico delle Ong e dell’ebreo Soros.

Per capire il grado di trasformazione tentato (e tuttora in corso) sugli “italiani” chiamati continuamente in causa come la parte oppressa e offesa dai non fascisti, può essere utile citare una frase di Luca Rossi, dirigente leghista di Modena, dedicata (senza una ragione al mondo) al giovane Patrick Zaki, egiziano (e dottorando della Università di Bologna), arrestato mentre andava a trovare la sua famiglia al Cairo, e tuttora detenuto senza accuse, senza protezione legale. Luca Rossi, capo leghista di Modena, dice la sua visione politica da italiano: “Esistono Paesi seri come l’Egitto che non si lasciano condizionare dalle Ong. Bye bye Zaki” (Corriere della Sera, 18 luglio). La frase è interessante come spontanea e festosa confessione di fascismo. Gli sembra segno della “serietà di un Paese” imprigionare qualcuno senza ragione e senza scadenza come atto di legittima autorità. Ma la vera rivelazione di questa frase (che può essere messa nella vasta antologia di invettive dedicate a nemici che la Lega preferisce insultare, da Carola Rackete a Sami Modiano) è che cosa intendano partiti e persone di cui stiamo parlando (che dobbiamo definire “destra” in una versione estrema perché non esiste il “centro”, che pure si nomina sempre come partner fantasma dell’estremismo): intendono una folla che si possa coinvolgere in vari tipi di linciaggio, da parole indicibili all’ aggressione fisica.

Ma è importante che i destinatari da convertire, nella continua baraonda di insulti e di accuse, siano “gli italiani” e non “l’Italia”, nel tentativo di cogliere gente disorientata e sola che sta al gioco del rancore cieco. È indispensabile non avere l’ingombro della parola “Italia” (che vuol dire la nostra Storia) e appellarsi a un presunto “italiani” affinché anche i peggiori di essi si sentano protagonisti.

Ci sono altri eventi, altre prove di questo triste discorso. “Non sei italiano, sei ebreo”: si sente distintamente pronunciare la parola “ebreo”, ripetuta ossessivamente al passaggio di Gad Lerner sul prato di Pontida. Nessuno potrebbe dire, in nome dell’Italia o dedicare all’Italia le frasi gridate dal fondo del barile della destra (che, ripeto, si deve definire estrema), mentre si aggira, in cerca di un regime adatto (la richiesta di pieni poteri) nel nostro Paese. È necessario chiamare in campo una folla senza volto: “Gli italiani” capaci di dire le frasi raccolte da Corrado Augias (“Il seme dell’odio”, Repubblica, 20 luglio) dopo la nomina, da parte di Mattarella, a Cavaliere di Gran Croce del sopravvissuto di Auschwitz Sami Modiano. Nella loro infinita tristezza e nella prova di sconvolgimento psichico, queste parole servono a capire come questa destra intende usare “gli italiani”: folla da comizio sboccato con brutta gente al comando. “Mattarella ha nominato l’ebreo Salomone Modiano (…) solito coglione lurido che pensa a tutto tranne che agli italiani… La ministra Castelli straparla sui ristoratori italiani, e questi politici pensano a Modiano, ’ste cazzate… Modiano è una marca di carte da gioco, eh già, questi giudei speculano sempre”. Gli “italiani” in questo sottofondo culturale del Paese degradato servono dunque a due funzioni: distinguerli dagli ebrei, che non sono italiani (frase di Mussolini), e dai migranti, che invadono il nostro Paese per sostituire la razza bianca con la complicità delle Ong, dell’ebreo speculatore Soros e del sindaco di Riace, arrestato ed espulso per avere accolto e sistemato in case abbandonate del suo borgo intere famiglie di emigrati. La pandemia ci ha insegnato l’unica strada utile: rifiutarsi di odiare, ma tenere le distanze.

 

Spiritello porcello: l’amplesso di Erin e John, fantasma dispettoso

Dalle novelle apocrife di Mildred Darby. Nella contea di Cork raccontano da secoli l’antica leggenda dello spettro di Feeney. Mick Feeney possedeva una fattoria dai terreni ubertosi, che accudiva con la moglie, con la giovane figlia Erin e con un numero imprecisato di figli. Un giorno, il vecchio Ellis Dillon, proprietario della piantagione confinante, morì, e Mick Feeney la acquistò a un prezzo generoso, rendendo allegra la vedova. Con l’aumento del lavoro, Feeney dovette assumere un aiutante, John Kelly, un ragazzo robusto, di bell’aspetto, e con un debole per le donne. Il suo unico difetto era il carattere pessimo, e Feeney litigava così spesso con lui che più volte minacciò di licenziarlo; ma non lo faceva mai, perché sua moglie intercedeva per il ragazzo, rammentando al marito che, se gli affari non erano mai stati così floridi, lo dovevano a John Kelly.

Un giorno, però, Feeney capitò nel fienile, dove udì le parole con cui John stava cercando di corrompere la virtù della bella Erin, che aveva 16 anni. Feeney gli saltò addosso, e quando Kelly stava per avere il sopravvento estrasse la pistola, uccidendolo sul colpo. Ovviamente ci fu un processo, e la giuria lo assolse, credendo alla storia della legittima difesa. Feeney assunse un altro aiutante, ma nei due anni successivi i raccolti furono pessimi; i muli morivano, i maiali si ammalavano di malattie che i veterinari non riuscivano a curare. Così, Feeney vendette la fattoria, e risalendo la costa si trasferì a Waterford, dove prese a costruire barche con successo. In casa Feeney, però, cominciarono ad accadere fatti strani: durante la notte, qualcosa scaraventava i ragazzi fuori dal letto, e la mattina i poveretti si risvegliavano sul pavimento. La vecchia domestica era certa che fosse opera dello spettro di John Kelly, tornato dai morti; e poiché la deridevano, una notte si nascose sotto il letto di uno dei ragazzi per vedere cosa accadeva davvero.

In casa stavano tutti dormendo della grossa quando un urlo agghiacciante li svegliò di soprassalto. Feeney e sua moglie, accorsi, trovarono la vecchia domestica a terra, mezza nuda, gli occhi sbarrati come due uova in padella. “Era lui!” sbraitava. “Mi toccava dappertutto, e le sue dita sembravano serpenti!”. Feeney, sconvolto, ne parlò con il reverendo Meehan, che lo rimproverò: come potevano, dei cattolici come i Feeney, credere alle baggianate gaeliche di una vecchia domestica? Aveva appena finito di dirlo, quando qualcosa gli percosse la testa, facendogli volare il cappello a 30 iarde di distanza. Il reverendo scappò a gambe levate. Le stranezze non cessarono: il cibo spariva dalla dispensa, le barche appena costruite affondavano, i pretendenti di Erin venivano spaventati a morte nel cuore della notte, e la signora Feeney guarì da un morbo incurabile. Finalmente, lo spettro si manifestò a Mick Feeney, per dirgli che era innamorato di sua figlia e voleva sposarla. Feeney si oppose: “Che nipotini avrei? Fantasmini che mi volano per la casa spaventando il gatto? Smettila di tormentare mia figlia!”. “Lascia che sia lei a decidere, Mick Feeney”, gli disse la moglie, che aveva sentito tutto. Il giorno dopo, lo spettro era fidanzato in casa. Quella notte, svegliato da gemiti inconfondibili, Feeney socchiuse la porta della stanza di Erin, e vide qualcosa di sovrannaturale: sua figlia nuda, sospesa un metro sopra il letto, che godeva di piacere come se un uomo la stesse possedendo; ma non c’era nessun uomo: solo la luce della luna.