Scende un velo di commozione, a leggere il racconto empatico che il Corriere della Sera dedica a Matteo Salvini, a un anno esatto dal giorno in cui il leghista ha fatto iniziare la crisi del mojito. È la cronaca sentimentale dello sbandamento estivo di un leader solitario, che porta sulle spalle tutto il peso del mondo, abbandonato dai falsi amici, lasciato in compagnia unicamente della sua stessa coscienza. “La solitudine del leader”: il pezzo inizia così, con la prima pennellata emotiva. Poi descrive quei giorni: “Salvini è sempre nervosissimo, poco prima di arrivare a Milano Marittima ha litigato con Giancarlo Giorgetti. L’opinione pubblica vede un Salvini vincente, portato in trionfo dalle folle da spiaggia, ma lui è sempre più stretto dall’angoscia per le decisioni da prendere”. Prenderà – come sappiamo – le peggiori possibili. E non si è più ripreso. “La storia dell’ultimo anno è racchiusa nella frase che gli hanno sentito dire in tanti: ‘Prima tutti mi dicevano di far cadere il governo, mi davano del cogl… Un minuto dopo la fine del governo hanno cominciato a darmi del cogl… perché ho rotto il giocattolo’. Per questo Salvini non si fida più di nessuno. Per questo è solo”. Viene quasi da abbracciarlo.
A Malpensa torna in pista il partito del cemento: il piano per l’espansione
Nuovi volumi commerciali, logistici e ricettivi. Una “cittadella aeroportuale”, con hotel uffici e negozi che in pianta vale 110.000 metri quadrati. Sempre a ridosso del bosco e della brughiera protetti della Valle del Ticino, a rischio di incorrere in una nuova infrazione europea. A Malpensa torna così il Partito del cemento. A inizio luglio, Enac – per conto di Sea – ha depositato un nuovo masterplan dell’aeroporto per raddoppiare l’area logistica e riuscire a dirottare sulla Lombardia un milione di tonnellate di merci. La fretta è tale che il piano è stato pubblicato a inizio luglio, con un termine per le osservazioni di Comuni e comitati fissato al 5 settembre. Il ministero, bombardato dalla mole dei 120 documenti tecnici correlati al piano, si è “dimenticato” di trasmettere la comunicazione dell’avvio della procedura di Via alla Regione Piemonte, sui cui passa la metà dei voli. Risultato probabile: l’iter dovrà ripartire. Anche a questo si attaccano gli enti locali e i comitati del territorio lombardo e piemontese per chiedere un rinvio.
Tanti sono i nodi da affrontare: compensazioni e mitigazioni ambientali, il rischio di nuove contestazioni dell’Ue, ricadute occupazionali e impatto sul sistema trasportistico attorno all’hub. Ma Covid e lockown hanno messo in ginocchio i conti di azionisti e decisori pubblici, creando i presupposti di un consenso politico alle ruspe trasversale. Ne ha bisogno la proponente Sea che chiude la semestrale 2020 con -68,4% di passeggeri, -17,4% di movimenti merci, dimezzamento dei ricavi e perdita di 204 milioni. Il che è un grosso guaio per Milano, primo azionista con il 54,8% delle quote. Nella manovra che Palazzo Marino sta mettendo a punto, gravata da 200 milioni di minori entrate del trasporto locale, si sente tutto il peso del mancato dividendo della controllata, da sempre bancomat per le spese correnti della città. Il sindaco Sala non si è ancora espresso. Anche l’azionista Cdp spinge per lo sviluppo: per la “modernizzazione” di Linate e Malpensa, in piena emergenza Covid, ha staccato a Sea un assegno da 75 milioni. In Regione, il Pd ha tentato di rallentare la corsa. Il 28 luglio ha chiesto che il progetto fosse inserito in un più vasto Piano d’Area. Il precedente masterplan, che conteneva il progetto di una terza pista, era stato ritirato nel 2014 per timore di una nuova infrazione Ue per danno ambientale. “Non ci sono i fondi”, è stata la risposta, coi sindaci dei Comuni attorno, leghisti e non, che sognano strade, parcheggi e compensazioni varie “per il territorio”. La Lega, da sempre sponsor dell’hub varesino, sperava di pescare 30 milioni dal decreto Rilancio. Dopo il no, l’eurodeputata leghista Isabella Tovaglieri è ripartita col refrain dello “schiaffo a Malpensa e al Nord”.
Scaramucce sull’asse Roma-Milano, dove da sempre ballano i destini di Malpensa e pure quelli di Alitalia che non ha alcuna intenzione di volare da lì. Lo ha fatto durante la fase 1, ma dal 1° agosto ha ripreso a volare da Linate e continuerà a farlo. Alla fine, dicono le stime, farà perdere a Malpensa un quarto del suo attuale traffico. L’obiettivo dichiarato da Sea di riportare un milione di passeggeri ad agosto appare un miraggio. Più promettente è la partita dei cargo su cui Sea concentra ora e per i prossimi 15 anni la sua scommessa. È da vedere se governo e Regioni concorrenti nel general cargo accetteranno la zampata della Sea. Che dalla brughiera di Busto Arsizio, a suon di cemento e nuovi volumi da edificare nel cuore del Parco del Ticino, si candida fare la parte del leone.
Mose, contro i poltronifici arriva l’Autorità (e i soldi)
Via i commissari straordinari voluti dall’Anticorruzione dopo lo scandalo tangenti. In liquidazione dopo quarant’anni il Consorzio Venezia Nuova, grazie a una nuova figura di commissario, che dovrà completare i lavori del Mose, con il recupero di 530 milioni di fondi derivanti da risparmi di oneri finanziari, occupandosi di compensazioni e contenzioso con le società private travolte dallo scandalo. Resurrezione (sotto altra forma) del Magistrato alle Acque decapitato nel 2014 dagli arresti e di fatto chiuso, con trasferimento delle funzione al Provveditorato alle opere pubbliche del Triveneto. Ma soprattutto creazione di un’Agenzia per la Laguna di Venezia, soggetto pubblico completamente nuovo e multi-tentacolare che si occuperà non solo della gestione del sistema di dighe mobili contro le acque alte (attraverso una società apposita), ma anche di tutte le problematiche legate alla Laguna e che diventerà sede del Centro studi sui cambiamenti climatici. Tutto questo cercando di evitare eccezioni di incostituzionalità, dribblando competenze locali, facendo i conti con la legge di Salvaguardia e cercando di evitare epiloghi onerosi nella liquidazione del Consorzio, costituito da società private che ora sarebbero già pronte a presentare il conto.
Il governo ha varato la nuova governance per i molti problemi che assillano la laguna, a cominciare dal Mose. La forma giuridica (annunciata dal premier Giuseppe Conte il 10 luglio quando furono alzate per la prima volta tutte le paratoie) è quella del decreto Agosto, al culmine di un lavoro di limatura tra Pd e M5S, che ha lo scopo di creare una struttura moderna ed efficiente, non un poltronificio o una nuova burocrazia. La riforma è ambiziosa e ruota attorno all’Agenzia per la Laguna di Venezia, che ha “natura di ente pubblico economico” con autonomia organizzativa, patrimoniale, contabile e di gestione, sotto la vigilanza del ministero delle Infrastrutture. Dovendosi armonizzare con le principali leggi di Salvaguardia (1973 e 1984), farà da segreteria del Comitatone interministeriale. Si occuperà del “programma triennale della Laguna di Venezia, gestione e manutenzione del Mose, opere di salvaguardia”. Praticamente tutto ciò che riguarda la Laguna, compresa una società partecipata per il Mose. Ma assorbirà una ventina di altre funzioni: edilizia demaniale, opere pubbliche, demanio marittimo, polizia lagunare, sanzioni amministrative, qualità delle acque, gestione di acque e canali statali, controllo dalle acque alte, giurisdizione sulla navigazione interna, manutenzione dei canali, prelievo di fanghi.
In pratica, vengono assorbite le attività dell’ex Magistrato alle Acque chiuso per scandali.
A capo dell’Agenzia un presidente nominato dal ministero dei Trasporti, d’intesa con Regione e Città metropolitana. Il comitato di gestione sarà completato da sette dirigenti scelti tra i dipendenti di quattro ministeri (Infrastrutture, Economia, Ambiente, Cultura), Regione Veneto, Comune di Venezia e Città metropolitana. C’è poi un Comitato consultivo di cinque membri, scelti su proposta dei sindaci di Venezia e Chioggia, Autorità portuale, Capitaneria di Porto e Giunta regionale. L’Agenzia avrà 100 dipendenti, con selezione pubblica, il che pone problemi sul futuro dell’organico del Consorzio Venezia Nuova e consociate, oggi superiore alle 230 unità.
Infatti, il decreto prevede la cancellazione del Consorzio Venezia Nuova (e collegata Comar) che però è costituito da imprese di costruzioni private ed è concessionario dello Stato per il Mose. Se ne occuperà un “commissario liquidatore” (nominato dal ministro Paola De Micheli), che assumerà le funzioni svolte da “tutti gli organi, anche straordinari”. A questo punto dovrebbe finire l’era degli amministratori straordinari nominati dopo lo scandalo, che sono Giuseppe Fiengo e Francesco Ossola. Il liquidatore farà completare il Mose e lo consegnerà (a fine 2021) all’Agenzia, controllerà i bilanci e adotterà atti “di natura negoziale”. Di conseguenza, dovrà chiudere le partite economiche aperte, creando un fondo di beni del Consorzio a garanzia di “eventuali obbligazioni non soddisfatte”, ovvero malfunzionamenti e contenzioso. Questo rischia di diventare un capitolo oneroso e litigioso, visto anche che le società private chiedono allo Stato circa 200 milioni di euro di danni, come conseguenza del commissariamento di fine 2014.
“Capisco che i politici, dopo 5 anni, decidano di prendere in mano il Mose, visto che siamo alla fase finale. Ma una telefonata avrebbero potuto farcela…”, commenta Giuseppe Fiengo. Che non nasconde qualche perplessità sul decreto. “Mi pare confuso in alcune parti. Siamo sicuri che la riforma abbia le ragioni d’urgenza che motivano un decreto? Noi amministratori straordinari non siamo un organo del Consorzio e quindi come può il liquidatore assumere i nostri poteri? E qualche dubbio c’è anche sulla messa in liquidazione di una società privata…”.
Reski, giornalista (candidata) critica Brugnaro e urta i colleghi
È una vera tempesta in un bicchier d’acqua quella agitata da Gazzettino e Nuova di Venezia contro la giornalista Petra Reski, rea di aver scritto per il quotidiano tedesco Frankfurter Allgemeine Zeitung (FAZ) un articolo sul crollo del turismo a Venezia dopo il Covid, criticando l’inerzia del sindaco Brugnaro. Secondo i quotidiani lagunari, la “colpa” di Reski – che vive a Venezia – è di essere candidata alle prossime elezioni comunali nella lista civica “Tera e Aqua” a sostegno del candidato sindaco Marco Gasparinetti, rivale di Brugnaro. In particolare, il Gazzettino dedica al “caso” un’apertura di pagina, con corposo richiamo in prima. “Accusa Brugnaro sul giornale tedesco, ma è una candidata”. “Venezia-Germania, attacco a Brugnaro”. Per La Nuova, addirittura, “si parla anche di possibili contatti con l’ambasciata tedesca”.
“La mia candidatura era pubblica e ben nota anche alla FAZ, visto che il mio articolo conteneva persino un passaggio in cui avevo descritto la mia decisione di candidarmi. Il giornale lo ha pubblicato senza questa precisazione, è stata una decisione che ho scoperto solo quando l’articolo era già stampato”, spiega Reski al Fatto. Non solo: poiché il pezzo è scritto in tedesco, la giornalista lo offre gratis, tradotto in italiano, alla testata online Ytali. Il cui direttore, dopo le polemiche, aggiunge alla pubblicazione un proprio commento in cui specifica che non la ritirerà, ma solo “perché gli elettori possano valutare con maggiore consapevolezza fino a che punto la propaganda politica possa cercare di orientarli”. Un commento che Reski giudica offensivo, tanto da chiedere lei stessa la rimozione dell’articolo. Il giorno dopo, il Gazzettino titola: “Il quotidiano tedesco fa togliere l’articolo anti-Brugnaro”, suggerendo che l’iniziativa fosse partita direttamente dalla FAZ. “Solo l’idea che un sindaco possa far togliere un articolo uscito in un giornale tedesco perché il contenuto non gli piace fa capire che la libertà di stampa in Italia non significa un bel niente”, commenta Reski.
Trivelle, l’emendamento M5S aumenta ancora le restrizioni. Il settore si rivolta
Le trivelle continuano a dividere. A riaccendere le polemiche è il nuovo emendamento al decreto Semplificazioni presentato dal Movimento 5 Stelle. “È un colpo mortale alla politica energetica del Paese che rischia di affossare definitivamente territori come il Ravennate, la Val d’Agri e Gela, mettendo a rischio 20.000 posti di lavoro”, tuonano Filctem, Femca, Uiltec. Che si scagliano così contro i Cinque Stelle colpevoli, a loro dire, di dare il colpo di grazia all’attività di estrazione e produzione.
L’emendamento, dedicato alla “semplificazione e accelerazione del Piresai”, cioè il piano per la transizione energetica sostenibile delle aree idonee, prevede di bloccare le nuove esplorazioni limitando anche quelle esistenti. Rimarrebbero delle “aree residue” che non sarebbero però automaticamente disponibili, “nemmeno se già beneficiano di permessi ambientali e concessioni”. Il Pitesai potrà, infatti, indicare “la presenza di ulteriori eventuali vincoli di carattere ambientale e territoriale sorti in epoca successiva al decreto di conferimento che rendano in tutto o in parte non compatibile la prosecuzione delle attività”.
Chi vorrà rivendicare i diritti su aree già autorizzate con tanto di concessione, dovrà presentare un’istanza al ministero dell’Ambiente. Il nuovo emendamento, che continua a mettere a punto il nuovo sistema anti-fonti fossili in Italia, ha cambiato forma svariate volte tra diversi compromessi politici.
Al momento le operazioni sono ferme fino a febbraio 2021. Un emendamento al decreto Milleproroghe, approvato a febbraio, ha infatti allungato di sei mesi la moratoria portando da 18 a 24 mesi la sospensione dei permessi per la ricerca e la prospezione di idrocarburi, in attesa dell’approvazione da parte dello Sviluppo economico e dell’Ambiente del piano in questione.
Intanto se le riscossioni per le ricerche sono ferme, essendoci una moratoria che blocca quelle già autorizzate (in attesa del piano), per coltivazione e stoccaggio invece la situazione è diversa: in quei casi non c’è stato alcuno stop produttivo ma le compagnie petrolifere non hanno ancora avuto nessun aumento sulla quota perché manca un decreto (che risulta essere in fase di finalizzazione) emesso dal ministero dell’Economia di concerto con quello dello Sviluppo economico che, come previsto dalla norma sulle trivelle, stabilisca i modi e i tempi per corrispondere gli oneri concessori maggiorati.
“È incostituzionale”. Il governo impugna la legge “scempia-coste” della Sardegna
La “Scempia-coste” è illegittima e va fermata. Il governo ha impugnato davanti alla Corte costituzionale il testo della legge 21 promulgato il 13 luglio dal Consiglio regionale sardo: “Norme di interpretazione autentica del Piano paesaggistico regionale”, con cui la maggioranza sardo-leghista di Christian Solinas voleva neutralizzare il Ppr Soru avocando a sé il potere decisionale esclusivo sulla disciplina della fascia costiera, dei beni identitari e dell’agro nell’isola. In pratica una mossa per mandare in soffitta la co-pianificazione territoriale Stato-Regione, ora bocciata dal Cdm perché in contrasto con gli articoli 9, 97 e 117 della Costituzione. Finirà alla Consulta anche la legge regionale 17 del 24 giugno, che prorogava per l’ennesima volta il Piano Casa Sardegna, trasformato da provvedimento eccezionale a premio volumetrico ordinario. Salgono così a nove le leggi impugnate in appena un anno e mezzo di legislatura, un quarto della produzione legislativa della giunta Solinas. Tre di queste riguardano la tutela delle coste e del paesaggio.
“126” poeti di quartiere: trap, droga e nichilismo
La “scalea” del Tamburino è un’icona nascosta di Roma. La gradinata verticale di viale Glorioso tiene fisicamente insieme due pezzi di città: ai piedi c’è Trastevere, in cima Monteverde, poco più su il cannone del Gianicolo, la fontana della Grande Bellezza, una delle terrazze più belle del mondo.
Al Tamburino è cresciuto Sergio Leone: “Qui ho vissuto come in un’arena”, raccontava il regista. “Dalla scalinata che chiude la strada, venivamo giù a taboga con delle tavole di legno. Ci facevamo pipì sopra, perché scivolassero meglio. Facevamo a sassate, ci battevamo contro quelli di Monteverde. Era la nostra via Pal, e avrei voluto farne un film”. All’inizio della strada c’è una targa dedicata a Leone: “Il mio modo di vedere le cose – c’è scritto – talvolta è ingenuo, un po’ infantile ma sincero come i bambini della scalinata di viale Glorioso”. È passato quasi un secolo, ma è ancora una via Pal, un micro universo giovanile e un simbolo di Roma. Lo spirito è lo stesso, i bambini sono cambiati.
In questi giorni quei gradini sono citati dalla cronaca perché sono stati eletti da gruppi di ragazzi romani come luogo dei loro “assembramenti”: risse, botte, droga. “Movida selvaggia”, si legge nelle formula retorica e tremenda dei titoli di giornale. Se questo posto è ancora una calamita e un punto di riferimento per molti giovani, Sergio Leone non c’entra. Invece probabilmente c’entrano i versi e l’immaginario di un collettivo di musicisti che ha dedicato il suo nome proprio al numero di scalini di viale Glorioso: “126”.
Sono gli ultimi cantori di Roma. Hanno nomi che probabilmente non dicono nulla a chi ha più di trent’anni: si chiamano Franco, Ketama, Pretty Solero, Asp, Drone, Ugo Borghetti.
Cresciuti insieme, la scalea del Tamburino era il loro ritrovo (“Ci incontravamo in quelle scale ai gradini più in alto, affogavamo i mozziconi in un mare d’asfalto” è il verso con cui si apre uno dei pezzi più belli).
Negli ultimi anni la loro popolarità è esplosa ben oltre i confini del raccordo anulare. Che musica facciano – trap o rap, ognuno ha il suo percorso – non è tanto chiaro e nemmeno così importante. I 126 raccontano un frame, una cornice, una parte di realtà: lo spirito di un pezzo di generazione (i nati nei primi anni 90) e di un pezzo di città.
L’immaginario che raccontano questi ragazzi è legato alla strada, ma non nel senso violento e tradizionale del tipo gangsta rap. Al contrario, i 126 si definiscono Lovegang, cantano – a modo loro – l’amore per le radici comuni: Trastevere, le trattorie e i bar, i personaggi mitologici di quartiere (il Vichingo, “una delle ultime schegge del popolo di Roma”, come lo ha definito Gianni Di Gregorio, il regista di Pranzo di Ferragosto).
Ma dentro al collettivo in realtà c’è di tutto: Franco126 si è allontanato dal rap e ha scelto la canzone d’autore, ha fatto uscire un disco dolente e dalla scrittura raffinata, sono arrivati i paragoni persino con Califano.
Gli altri hanno un’impronta più diretta, cruda, anche selvaggia. Senza retorica e senza filtri. I versi di Ugo Borghetti sono un cazzotto, un racconto allucinato, un faro su dipendenza e depressione e sul rapporto spregiudicato di una generazione con la droga (“Il mio contatto volendo mi riempie di droga come a Sinaloa/ Quattro sacchi in padella/ Sto fumando quella e non parlo d’erba… Qua stamo ancora in paranoia che cucino coca”). La scorsa estate Pretty Solero si è conquistato la fama, per così dire, sui media tradizionali spogliandosi e masturbandosi in stato di completa alterazione durante il festival Rock in Roma, sul palco più grande e importante solcato dai componenti della Lovegang fino a quel momento. Questo invece è uno dei versi più celebri di Ketama: “Parlo sempre di droga perché non facciamo altro/non ho contenuti perché sono vuoto dentro”. Impossibile chiedergli di spiegare: alla domanda sul senso di queste parole risponde che “non vogliono dire niente, non hanno significato, mi piaceva solo come suonavano, le ho scritte di getto”. Non c’è niente da capire.
Oppure c’è da capire che sotto la patina di nichilismo brutale c’è un racconto collettivo. Con le radici in uno dei quartieri nobili del centro di Roma. I 126 non sono figli dell’emarginazione economica e sociale, ma di famiglie borghesi, benestanti. E malgrado questo sono divorati dalla noia, senza orizzonte (prima che li riscattasse la musica), familiari all’allucinazione come un esercito di adolescenti e post-adolescenti simili a loro.
È anche il racconto, in filigrana, del rapporto della città con la cocaina, che la inonda ovunque: in tutti i quartieri, strumento di mediazione di mille rapporti e mille miserie. Anche e persino sulla scalinata dove giocavano i bambini di viale Glorioso.
Picchiarsi un giorno a Roma (contro la noia)
Urla, bottigliate, bestemmie e tante botte. Spesso senza alcun motivo: uno sguardo “sbagliato” o un posto a sedere che doveva rimanere libero. Il ring è Trastevere. Una ventina sono i ragazzi “noti” alle forze dell’ordine, altrettanti girano intorno. In totale almeno tre o quattro “comitive” consolidate. Senza contare i tanti avventori occasionali. Si parla di risse tra adolescenti, per la maggior parte. Ma anche di aggressioni a negozianti bengalesi e scherzi di cattivissimo gusto, come gli sputi sui citofoni che, soprattutto in tempi di Covid, non hanno di certo divertito i residenti.
L’età media dei protagonisti scende fino ai 13-14 anni, le forze dell’ordine li conoscono bene. I magistrati da un po’ di tempo hanno iniziato a studiare il fenomeno, che per chi ha più di 24-25 anni è quasi incomprensibile, nelle dinamiche e nell’organizzazione.
Perché per capire cosa accade nella Capitale durante le notti violente sulla riva destra del Tevere, bisogna immergersi dentro un universo generazionale che ha pochissimi punti in comune con i precedenti. “Si scrivono su Instagram attraverso i direct (la funzione di messaggistica privata, ndr), litigano e si danno le ‘punte’ in piazza Trilussa o piazza San Cosimato. Poi quando si vedono, si affrontano e si picchiano”, ci racconta “Sercio” – che in romanesco significa “sasso”, ma che è anche la storpiatura del nome Sergio – un 16enne di Cinecittà che la sera “bazzica” Trastevere come decine di suoi coetanei. “Ogni tanto qualche calcione lo tiro pure io”, confessa. C’era anche lui il 16 luglio scorso sulla Scalea del Tamburino, divenuto luogo di ritrovo di decine di ragazzini anche grazie ai videoclip girati da alcuni dei principali rapper e trapper romani di ultima generazione. “Si erano dati appuntamento per fare a botte, non è vero che hanno litigato sul posto”, racconta ancora il 16enne. Il risultato? Una scena degna dei film di Bud Spencer e Terence Hill, con calci e pugni volati per almeno 10 minuti.
Il 22 luglio i carabinieri della compagnia di Trastevere, ne hanno arrestati tre, tutti minorenni, finiti in comunità: le risse e i “dispetti” ai commercianti da qualche tempo erano diventati furti, rapine e scippi. Secondo gli investigatori, è tutto collegato. Nei comunicati stampa si parla di “baby gang”. Il termine “banda” è troppo impegnativo: “Lascia presupporre che vi sia un’organizzazione verticistica di ispirazione criminale, ma non c’è nulla di tutto questo – assicura al Fatto un inquirente – Dovremmo chiamarla mafia e presupporrebbe un tipo di lavoro diverso da parte nostra. Ma posso assicurare che non siamo nemmeno lontanamente vicini a quella roba lì”.
A sentire i diretti interessati, il termine corretto è “comitive”, definizione che ai 30-40enni richiama situazioni da Ragazzi del muretto che oggi non esistono quasi più. “È tutto sui social”, ci dice ancora Sercio, facendoci capire che è tutto virtuale: “I ragazzi del quartiere? Li frequento, un po’ a scuola, un po’ a giocare a pallone. Ma a Trastevere ci vado con quelli di Instagram”.
Eccolo l’altro luogo comune da sfatare: le distinzioni “mucciniane” fra “coatti di periferia”, “pariolini”, “fasci” e “zecche” sono da rimuovere. Le comitive, stando ai racconti di chi analizza il fenomeno, sono “democratiche” e “trasversali”: via le distinzioni di genere, ceto e provenienza. I canoni sono altri. “I ragazzi noti sono di Monteverde e Balduina come di Tor Sapienza e Fidene. Moltissimi vengono dalla provincia. Anche da Viterbo”, racconta ancora chi indaga, confermando che “le distinzioni sociali sono azzerate, conta il coinvolgimento in questo meccanismo”.
E perché proprio Trastevere? “È un luogo iconico, c’è tutto: la movida, l’alcol, le piazze. Non c’è un motivo particolare. Il fenomeno esiste e basta”.
La conferma arriva anche da Daniela, una 17enne che incontriamo nel rione e che si ferma a chiacchierare. “Guarda che noi femmine meniamo più dei maschi eh”, dice con una punta di orgoglio: “E poi alla fine maschi o femmine che importa”. Componente importante quella del gender fluid: si litiga (spesso) per le ragazze, come da tradizione, ma anche per i ragazzi (tra ragazzi) e viceversa. “L’importante è che sai menare”, racconta.
Nelle afose notti trasteverine, il fenomeno delle risse tra adolescenti si mischia alla movida selvaggia “classica” di chi ha qualche anno in più. Solo sabato 1 agosto, i carabinieri sono dovuti intervenire in piazza Trilussa per fermare cinque ragazzi fra i 20 e i 30 anni. C’entrava l’alcol, forse anche la droga, che a Trastevere viaggia a fiumi nonostante la presenza costante degli agenti in borghese. Ma quella sera è stata un’altra cosa. “Parliamo già di un target diverso”, spiegano gli inquirenti. Capita che le “punte” dei più giovani non siano solo a Trastevere. Un esempio? L’8 giugno un gruppone di 19enni si è pestato a sangue in Corso Trieste, nei pressi del liceo Giulio Cesare. A inizio luglio, il “rissone” si è svolto sulla spiaggia di Fregene, in agosto, invece, le comitive prediligono l’isola di Ponza.
A Roma si sta svolgendo un lavoro d’indagine sul fenomeno nel suo complesso. Anche se al momento non c’è un fascicolo specifico in Procura. Carabinieri e polizia producono decine di informative legate ai singoli episodi: denunce per risse, segnalazioni per possesso di stupefacenti, contravvenzioni per il mancato rispetto delle regole del consumo di alcol in strada o delle normative anti-Covid. “È un problema sociale prima che giudiziario”, ribadiscono gli inquirenti. Fenomeno che sembra non riguardare più soltanto la Capitale.
Il 25 luglio scorso fra Domodossola e Verbania si sono picchiati a colpi di bastoni, estintori e sassi per vendicare un pestaggio subìto a causa di alcuni complimenti di troppo alle ragazze del gruppo; il 15 luglio a darsele di santa ragione sono stati alcuni giovanissimi di Genova, nei giardini del Quinto; il 21 luglio il ring si è trasferito sulla spiaggia toscana, a Marina di Grosseto. La dinamica? Sempre la stessa.
Lega: altre operazioni sospette Dodici bonifici a “The King”
Soldi usciti dalle casse della Lega Nord e finiti sui conti di un fornitore. Lo stesso fornitore grazie al quale, proprio in quel periodo, il commercialista salviniano Alberto Di Rubba ha realizzato una plusvalenza da oltre 1 milione di euro. È questo, in estrema sintesi, il contenuto di un documento della Uif (Unità di informazione finanziaria) di Banca d’Italia. Le carte raccontano un nuovo capitolo delle trame finanziarie leghiste, e per la prima volta collegano il partito a un importante imprenditore: Marzio Carrara, l’uomo che i giornali di settore descrivono come “the king of print”, colui che sta trasformando Bergamo nella capitale italiana della stampa su carta. “Le mie aziende non sono riconducibili, né direttamente né indirettamente, ad alcuna organizzazione politica”, tiene a precisare al Fatto Carrara.
Partiamo dalla fine della storia. È il 6 Settembre 2018. Il Tribunale del Riesame di Genova quel giorno conferma il sequestro dei 49 milioni di euro della Lega. Secondo i giudici, il denaro è sequestrabile in “tutti i conti correnti riconducibili” al partito. È il game over definitivo per Salvini, che solo in seguito otterrà l’ok dalla Procura di Genova per la rateizzazione del debito in quasi 80 anni. Il documento di Banca d’Italia racconta cosa è successo alle finanze leghiste da settembre 2017 ad agosto 2018. Cioè pochi giorni prima della sentenza del Riesame.
In quell’anno i detective della Uif ricevono parecchie segnalazioni di operazioni sospette. Denaro che dai conti della Lega finisce su quelli di un’azienda bergamasca. Si chiama Cpz e fa capo a Carrara, 45 anni, erede di una storica famiglia di stampatori. In meno di un anno, la Lega effettua dodici bonifici sui conti della Cpz, per un totale di 837mila euro. Quei bonifici, spiega Carrara, si riferiscono ai servizi di stampa forniti alla Lega per le elezioni politiche e regionali del marzo 2018. Gli investigatori, però, considerano le operazioni sospette per via di un altro giro di denaro che nello stesso periodo corre parallelo. Perché se da una parte Carrara incassa soldi dalla Lega, dall’altra paga una cifra molto simile a uno dei commercialisti più importanti del partito.
Il 10 maggio 2018 Di Rubba – oggi indagato dalla Procura di Milano per peculato nella vicenda della Lombardia Film Commission – riceve infatti sul suo conto due bonifici da Carrara, per un totale di 1,1 milioni di euro. Motivo? “Pagamento per la cessione delle quote di Dirfin Srl”.
La faccenda è complicata, bisogna stare attenti a nomi e date. Dirfin è una società di consulenza fondata nel novembre del 2017 e posseduta interamente da Di Rubba, già allora professionista con incarichi di spicco nella Lega. Poco dopo essere stata costituita, Dirfin sarà protagonista di un colpaccio finanziario. L’affare va sotto il nome di Arti Group Holding, società fondata a Bergamo nel dicembre del 2017 con tre azionisti. C’è Carrara, proprietario del 45 per cento delle quote attraverso la finanziaria Cafin. C’è il manager Alessandro Bulfon, titolare del 49 per cento delle azioni tramite la Advancy Holding Srl. E infine Di Rubba, che detiene il restante 6 per cento via Dirfin.
Un mese dopo essere stata fondata, a gennaio del 2018, Arti Group Holding compra NIIAG, una grande società che stampa libri e cataloghi. La acquista dal Fondo Bavaria per 5 milioni di euro. E solo quattro mesi dopo, a maggio, la rivende alla Elocograf del gruppo Pozzoni, altri imprenditori del settore, per 29 milioni di euro. Insomma, una plusvalenza di 24 milioni.
Il documento di Banca d’Italia fa notare cosa succede subito dopo la vendita di NIIAG. Sì, perché una volta terminata l’operazione, finanziata interamente da Carrara, lo stesso fornitore della Lega liquida i suoi soci della Arti Group Holding. Per il suo 6 per cento, che aveva pagato 10 mila euro, Di Rubba incassa da Carrara 1,1 milioni di euro.
Niente di strano, spiega l’imprenditore, che descrive Di Rubba come un professionista di sua “assoluta fiducia”, della cui consulenza si è servito per alcune operazioni di ristrutturazione aziendale: “Al fine di dividere gli utili realizzati senza dover attendere la chiusura del bilancio, decisi di acquistare le partecipazioni degli altri due soci”. Dunque, il milione incassato da Di Rubba è il profitto che il commercialista della Lega avrebbe comunque ottenuto come azionista della Arti Group Holding. Tutto regolare, è insomma la tesi di Carrara. Che annuncia però di voler tagliare i ponti con la Lega e con tutti gli altri partiti con cui finora ha lavorato: “Tenuto anche conto del particolare contesto di crisi che stiamo affrontando e delle negative ripercussioni mediatiche che l’attività di stampa in favore di partiti politici sta avendo, abbiamo deciso di non offrire più i nostri servizi di stampa a nessun partito politico”.
Aumento delle terapie intensive: le Regioni in ritardo per l’autunno
Per capire il rilievo di quel che segue, un ritardo delle Regioni nella creazione dei nuovi posti di terapia intensiva previsti da una legge in vigore da maggio, serve una breve premessa. L’implicito scambio realizzato tra cittadini e Stato durante l’emergenza Covid è il seguente: noi accettiamo il lockdown e la relativa enorme crisi economica, mentre il sistema sanitario si riorganizza per l’emergenza. È il principio che sta alla base della “convivenza col virus”, una fase in cui la vita torna (all’ingrosso) alla normalità e il sistema sanitario è pronto ad affrontare eventuali aumenti dei ricoveri (ad oggi, fortunatamente, non alle viste).
Quello scambio si basa dunque sul fatto che, se ci fosse una seconda ondata, eviteremmo gli errori veri: non faremmo contagiare gli anziani e i soggetti a rischio (Rsa e ospedali), avremmo i letti a disposizione per curare i pazienti (visto che ora qualche cura c’è). Per questo il 19 maggio, nel decreto Rilancio, erano stanziati 1,4 miliardi per aumentare i posti di terapia intensiva (+3.443) e sub-intensiva (+4.213), più 250 milioni per ristrutturare i Pronto Soccorso in modo da isolare i pazienti infettivi fin dall’arrivo. Le scelte su come farlo, visto che la sanità è regionale, sono appannaggio dei cosiddetti “governatori” e delle loro Giunte: appositi piani di riorganizzazione della rete ospedaliera andavano presentati entro 30 giorni e approvati nei successivi 30 dal ministero della Salute.
Ora, il punto non è che di giorni ne siano passati 82 e quei benedetti piani (neanche tutti) siano ancora alla registrazione della Corte dei Conti, quanto che in sostanza i lavori non sono partiti quasi da nessuna parte. L’assessore della Regione Piemonte Luigi Icardi – ieri sul Sole 24 Ore – ammette che così non saranno pronti per l’autunno, quando gli esperti del governo temono la “seconda ondata”, e poi se la prende con Roma: “Ci devono dire al più presto cosa dobbiamo fare”.
In realtà, cosa fare è abbastanza chiaro ed è previsto dal decreto del 19 maggio che si possa fare anche senza aspettare il via libera ai Piani inviati a Roma: non solo si possono avviare i lavori in deroga a quasi tutte le normative, ma “qualora la Regione abbia già provveduto alla realizzazione dell’opera, anche solo in parte, il Commissario all’emergenza è autorizzato a finanziarle”.
E invece niente, nonostante le terapie intensive siano state falcidiate dai tagli negli ultimi trent’anni: riaverle, Covid o no, è interesse di tutti. Qualche numero aiuta a capire perché servono e specie se si crede, come dicono tutti i governatori, che c’è un rischio per la salute. Pre-Covid i posti letto in Italia erano 5.179: in media durante la stagione invernale (influenza) pieni all’80%. Quando la pandemia ha investito l’Italia, insomma, c’era all’ingrosso il 20% dei letti da destinare ai nuovi malati, numeri che hanno portato alle drammatiche scelte (chi attacco al respiratore?) che molti medici hanno dovuto fare nei mesi passati.
Poi – smettendo di curare parecchie patologie, usando i privati e convertendo persino le sale operatorie – ad aprile si arrivò a oltre 9mila posti di terapia intensiva. Quanti sono oggi? Venerdì i letti disponibili in tutta Italia erano 6.570, cioè il 27% in più dell’era pre-Covid.
L’obiettivo per ottobre è avere circa 8.500 posti (0,14 ogni mille abitanti) e che siano “strutturali”, cioè di qui in avanti integrati nel Servizio sanitario nazionale (il che, nonostante il via libera del governo, rende ballerina la posizione di strutture come l’Ospedale in Fiera di Milano o l’Astronave di Bertolaso nelle Marche).
Dalla riapertura, in sostanza, le Regioni non hanno aumentato i letti. Le due performance “peggiori” rispetto al passato sono appannaggio di Toscana, che ha più o meno gli stessi letti di prima (375), e incredibilmente Lombardia, che è passata da 854 a 929, cioè 75 in più, con una percentuale di copertura di 0,09 letti ogni mille abitanti, il 35% in meno di quanto dovrebbe e meno della media nazionale. La cosa curiosa è che solo per le nuove terapie intensive la Regione in questi mesi ha avuto in uso 382 respiratori dalla Protezione civile: la maggior parte, evidentemente, è ancora imballata in magazzino.