Meno casi, ma il dato resta alto. “Guai ad abbassare la guardia”

Cala per la prima volta da cinque giorni il numero dei nuovi contagi in Italia, scesi a 347 (dopo i 552 di venerdì e i 402 di giovedì). Siamo comunque ben sopra quota 300, superata appena tre volte in tutto il mese di luglio e già quattro dall’inizio di agosto. I decessi di ieri sono 13, dato in salita rispetto alle scorse giornate. A contagi zero restano solo Sardegna e Molise, mentre la maggior parte dei casi – come al solito – sono al Nord: 76 in Lombardia, 63 in Veneto, 44 in Emilia-Romagna, 31 in Piemonte. Stabile il numero dei ricoverati in terapia intensiva: 43, solo uno in più rispetto a venerdì.

A Padova preoccupa il nuovo cluster nel gruppo di 18enni tornati il 1° agosto dal viaggio di maturità sull’isola di Pag, in Croazia. Dopo i sintomi manifestati da una ragazza, tutta la comitiva di 24 persone è stata sottoposta a test: sono già 8 i padovani risultati positivi. Decine i familiari e gli amici sottoposti a isolamento. Anche in Toscana 8 dei 23 positivi di ieri sono giovani rientrati da viaggi in Grecia e Croazia: in borgo San Lorenzo (Firenze), 70 cittadini sono in quarantena dopo aver avuto, nei giorni scorsi, contatti con una parrucchiera che ha contratto il virus. “Se non fronteggiato adeguatamente il Sars-CoV-2 conserva la stessa virulenza delle origini: non abbassare la guardia”, scrive sui social Walter Ricciardi, consigliere scientifico del ministro della Salute, Roberto Speranza. Mentre per l’epidemiologo Pier Luigi Lopalco “abbiamo buone probabilità di evitare una seconda ondata, sempre a patto che la trasmissione venga contenuta con misure di prevenzione”.

Nel frattempo il premier Conte ha firmato il decreto che proroga le “misure precauzionali minime” fino al 7 settembre. Obbligo di mascherina nei luoghi chiusi aperti al pubblico, sui mezzi di trasporto e ovunque non sia possibile mantenere la distanza di un metro, con l’esclusione dei bambini fino a sei anni. Dal 1° settembre torna il pubblico alle manifestazioni sportive “di minore entità, che non superino il numero massimo di 1.000 spettatori per gli stadi all’aperto e di 200 spettatori per impianti sportivi al chiuso”. Eventuali deroghe andranno sottoposte dai presidenti delle Regioni al Comitato tecnico-scientifico.

Il tutto mentre in Europa cresce ancora l’allarme, con vari Paesi che ormai dichiarano l’inizio della seconda ondata. La Spagna è la nazione europea con più infezioni totali (oltre 314mila) e conta al momento 580 focolai attivi, mentre in Francia schizza il numero dei contagi: oltre 2mila in 24 ore, il dato più alto da maggio. Più di mille al giorno i nuovi casi anche in Germania, dove per chi arriva da gran parte degli Stati extracomunitari il tampone è diventato un obbligo. Fuori dal Vecchio continente, il Brasile di Bolsonaro ha superato quota 100mila morti, di cui oltre mille (e 50mila nuovi positivi) soltanto ieri.

Il comma per le toghe fuori ruolo

Un magistrato fuori ruolo è un istituto previsto dall’ordinamento. È una piccola “casta” che somma stipendi, accumula privilegi e promozioni per un lavoro non svolto. È un problema per l’ufficio di appartenenza, però è anche una risorsa preziosa per lo Stato. Per questo il governo ha deciso di impedire a chi sceglie il collocamento esterno di far carriera almeno per due anni, ma allo stesso tempo di salvare tutti i magistrati che sono già fuori, e magari dentro gli uffici del governo.

Impegnati nei palazzi del potere, fra dipartimenti, gabinetti, segreterie, ce ne sono quasi 200. Ad arginare il fenomeno ci aveva già pensato la legge Severino, che prevede un limite massimo di 10 anni fuori ruolo, ma un’interpretazione favorevole si trova sempre. Ora ci riprova Bonafede: il suo decreto stabilisce che i magistrati fuori ruolo a capo di uffici di governo nazionale o regionale, “non possono fare domanda per accedere a incarichi direttivi per un periodo di due anni dal giorno di cessazione dell’incarico”. Il collocamento non sarà più solo un privilegio, prima di accettarlo bisognerà pensarci bene.

La severità del comma 1, però, è subito addolcita dal comma 2: “Le disposizioni si applicano solo agli incarichi previsti successivamente”. Una carezza ai magistrati già fuori ruolo. Non a tutti: per chi è già arrivato al grado più alto, è vicino alla pensione o lontano dalla promozione, il problema non si pone. Solo ad alcuni. A partire dalla schiera dei consiglieri di Stato, i più richiesti, al punto in certi casi da non metter piede per anni a Palazzo Spada. Per loro l’avanzamento di carriera (e di stipendio) è quasi automatico, sulla base dell’anzianità che scorre anche mentre sono altrove (le valutazioni invece sono “abbonate”, a differenza di chi resta). I più noti sono già presidenti di sezione, ma c’è pure chi dovrebbe diventarlo a breve. Come una consigliera nel legislativo del ministero dell’Economia. Dal governo spiegano che si tratta di una norma transitoria per i casi di incompatibilità, sarebbe stato scorretto cambiare le carte in tavola, e che altrimenti ci sarebbero problemi nei dicasteri. Vero, perché riguarda tutti i magistrati, amministrativi, contabili, militari. Fra quelli ordinari ce ne sono almeno una quindicina in posizioni interessate dalla norma e quindi potenzialmente anche dalla sua postilla. Soprattutto nel ministero della Giustizia che ha partorito il decreto. E raramente si è vista una legge penalizzare chi la scrive. In fondo, un magistrato fuori ruolo non è che una deroga.

“È una riforma coraggiosa che stronca le spartizioni”

Le agenzie battono al ritmo delle critiche, quelle delle associazioni della magistratura alla riforma del Csm. Il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede fa una pausa e risponde: “Ogni opinione è legittima, ma io chiedo a tutti di non girarsi dall’altra parte. Il cambiamento non si può più rinviare”.

Si aspettava queste reazioni?

In queste settimane ho letto e ascoltato tutte le proposte, con attenzione. Quando le ritenevo meritevoli le trasmettevo al mio ufficio legislativo. Ma a un certo punto bisogna fare sintesi. e questa è una riforma coraggiosa. Andava fatta, perché la magistratura deve recuperare credibilità agli occhi dei cittadini.

In diversi obiettano che il nuovo sistema di elezione a doppio turno, ripartito in 19 collegi, porterà comunque ad accordi tra correnti. Possibile, no?

Coloro che lo sostengono non lo motivano. Tutti chiedevano che l’elezione dei membri del Consiglio andasse circoscritta nei territori, e noi lo abbiamo fatto, cosicché i magistrati apprezzati a livello locale possano essere votati. In un voto nazionale, chi non apparteneva a correnti non aveva possibilità.

Ma gli scambi tra correnti si potranno sempre fare….

Con il nuovo sistema di voto è praticamente impossibile prevedere l’esito delle votazioni. Saranno possibili fino a quattro preferenze, con obbligo di alternanza di genere e valore ponderato applicato al voto. Così si stroncano i metodi spartitori.

Meglio il sorteggio integrale, dicono alcuni. Di certo più semplice, no?

Chi lo afferma non vuole che la riforma vada avanti. Per istituire l’elezione solo tramite sorteggio servirebbe una riforma della Costituzione, ed è evidente che non ci siano le condizioni per farla in Parlamento.

Una forma di sorteggio peraltro ci sarà, ma per l’Anm è incostituzionale.

La riforma prevede che il numero minimo di candidati debba essere di 10 in ogni collegio, con alternanza di genere. Abbiamo previsto il sorteggio per arrivare a questa quota in caso qualcuno abbia premura di far scarseggiare candidati in base a vecchie logiche.

Sempre l’Anm la esorta a evitare “la negazione del vitale pluralismo culturale e della identità politico-amministrativa che la Costituzione assegna al Csm”.

Il pluralismo culturale è andato a farsi benedire con il correntismo. Rispetto le associazioni dei magistrati, leggo gli atti dei loro convegni e le consulto. Ma le associazioni non possono comportarsi nel Csm come i partiti si comportano in Parlamento. Nel Consiglio superiore della magistratura non si fa politica.

Per l’Unione Camere penali però il testo consegnerà il Csm ai pubblici ministeri. Perché lei ha fatto saltare la quota di quattro pm dentro il Consiglio?

Sa in quanti si sono presentati per quei quattro posti nella precedente elezione? Quattro, in tutta Italia. Saranno i magistrati a decidere per chi votare.

C’è lo stop alle porte girevoli tra politica e magistratura. Se eletti, non si potrà più fare il giudice o il pm. Quanti malumori ha suscitato nella maggioranza?

È stato uno dei punti più semplici della riforma, uno dei più condivisi. Di questa norma sento parlare da quando andavo al liceo…

L’ha fatta in solitudine?

Ho fatto 10 o 12 riunioni di maggioranza sul testo. E mi sono avvalso della collaborazione di alcuni studiosi, i professori Renato Balduzzi, Roberto Romboli e Daniela Piana. Ho recepito molti dei loro suggerimenti e voglio ringraziarli.

Il caso Palamara le ha permesso di avviare questa riforma. Senza non avrebbe mai potuto, no?

Il caso Palamara ha impedito di rinviare tutto a chi avrebbe avuto voglia di farlo. Non è stato più possibile buttare la palla in tribuna.

L’ex presidente dell’Anm ha indicato come testi a sua difesa magistrati e politici. Non crede che potrà creare problemi al governo?

Assolutamente no. Non entro nel merito, perché io sono titolare del potere disciplinare. Ma le dinamiche politiche vanno distinte da quelle della magistratura.

La riforma prevede che per accedere a incarichi direttivi si debba essere in ruolo da almeno due anni. Ma non si applica a coloro già fuori ruolo. È un favore?

No, è una scelta di politica legislativa. Per tutti i casi di incompatibilità si applicheranno norme transitorie, cioè la riforma varrà per il futuro.

Pur di dare il seggio a Lotito Forza Italia va contro se stessa

“Quello che sta accadendo nella Giunta per le elezioni del Senato fa letteralmente schifo”. Il portavoce nazionale di Sinistra italiana, Nicola Fratoianni non usa metafore per definire la situazione che si è materializzata al Senato l’altro giorno. Anzi notte tempo, come da migliore tradizione.

Martedì scorso la Giunta presieduta da Maurizio Gasparri, col favore delle tenebre, ha reinterpretato, diciamo così, la legge elettorale per consentire a Claudio Lotito di Forza Italia di staccare un biglietto per Palazzo Madama. Facendone fare le spese a Peppe De Cristofaro di LeU che però ha ottenuto un risultato migliore alle elezioni del 2018 nel seggio assegnato a Vincenzo Carbone (forzista di recente passato tra i banchi renziani di Italia Viva) e oggetto di contestazione: non lo sostiene l’interessato De Cristofaro o quelli della sua parte politica, ma un insospettabile. Ossia Lucio Malan, forzista di lungo corso, che nella relazione conclusiva sul caso alla fine delle operazioni di riconteggio di schede e verbali durate mesi e mesi al Senato, non ha potuto che constatare “che il seggio spetta a Liberi e Uguali e lo perde la coalizione di centro destra”.

Ma l’aritmetica, oltre che le regole imposte dalla legge elettorale per l’assegnazione dei seggi, evidentemente non valgono e non bastano dalle parti del Senato. I forzisti (insieme a quelli della Lega e a Fratelli d’Italia) hanno votato contro il loro collega Malan mandando sotto la maggioranza che si è divisa: da una parte Pd, M5S e Leu, dall’altra Italia Viva che vorrebbe mantenere il seggio a Carbone. Il risultato? E stato nominato un nuovo relatore (l’azzurro Adriano Paroli) che ha accolto pari pari le doglianze di Lotito che chiede per sé il seggio in base a un’interpretazione della legge elettorale inedita. Che ha poco a che fare con calcoli e riconteggi e che però restano agli atti: i resti (determinanti per l’assegnazione dei seggi nella quota proporzionale) sono risultati maggiori per la lista Liberi e Uguali che ha ottenuto 68.965 voti a fronte dei 68.682 della coalizione di centro destra. Che però vuole che sui numeri si chiuda un occhio. Anzi, tutti e due.

Uno a Conte, uno a Di Maio: nuovi vertici in Agcom e Anac

Lo scacchiere delle nomine nelle Authority si completa – dopo mesi di proroghe, rinvii e spartizioni – nel segno di Giuseppe Conte e Luigi Di Maio. Il primo nome partorito dal Consiglio dei ministri di venerdì è stato quello di Giuseppe Busia alla guida dell’Anac, l’Autorità nazionale anticorruzione. L’attuale segretario generale del Garante della privacy sarà il successore del magistrato Raffaele Cantone. Due anni di retroscena lo raccontano attirato da una parte all’altra dei palazzi alla ricerca della migliore collocazione, fortemente voluto dal premier Giuseppe Conte a Palazzo Chigi come segretario generale nel 2018. Tentativo poi fallito per le divergenze con la Lega. Poi fu in pole position per la poltrona della stessa Autorità della privacy da cui proviene (andata invece a Pasquale Stanzione, in orbita Pd) e, come trapelato spesso, anche “candidato” all’Agcom nel lungo sudoku delle trattative.

Avvocato, Busia è facilmente definibile come “tecnico di lungo corso” in un’orbita politica definita. Come già raccontato sul Fatto ai tempi della sua “candidatura” a Chigi, Busia assaggia la politica con Francesco Rutelli, che lo nomina vicecapo di gabinetto al ministero della Cultura durante il governo Prodi. Con Salvatore Vassallo e Stefano Ceccanti, contribuisce a definire le regole per le Primarie del Pd ancora in gestazione. Era il 2007, era Walter Veltroni. Cinque anni più tardi, il presidente Antonello Soro – il primo capogruppo dem a Montecitorio – lo arruola per la Privacy con l’assenso degli altri membri dell’Autorità: la leghista Giovanna Bianchi Clerici, Augusta Iannini (già magistrato e moglie di Bruno Vespa) e la professoressa Licia Califano. Busia ha rivestito l’identico incarico all’Autorità degli appalti pubblici – poi confluita nell’Anac – all’epoca di Sergio Santoro e non è scoperto sul fronte del Quirinale. Infine, la vicinanza a Conte.

C’è chi critica la sua nomina ritenendo che senza un magistrato alla guida l’Autorità venga indebolita e “svuotata”, soprattutto in un momento delicato per l’economia del Paese, con l’arrivo di tanti soldi da gestire nei prossimi anni e con la politica in fregola per il “modello Genova”, cioè in deroga a tutta la normativa possibile in materia di appalti. Busia ritiene invece di tornare dove ha già lavorato a lungo (quando era nell’autorità per gli appalti pubblici) portando in più con sé l’esperienza maturata alla Privacy, dove si è occupato soprattutto dei contatti con l’Anticorruzione e di trasparenza, tanto da voler rendere una casa di vetro” la stessa Anac.

All’Autorità per le Comunicazioni (Agcom) va invece Giacomo Lasorella, attualmente vicesegretario generale della Camera. In questo caso l’intesa è con il ministero dello Sviluppo di Stefano Patuanelli visto che dovrà vigilare sui media, l’editoria e le telecomunicazioni. Posto delicatissimo se solo si pensa allo sviluppo della banda ultralarga (dunque dovrà affrontare la partita fra Tim e Open Fiber) e alla partita aperta tra Mediaset e il suo azionista di minoranza Vivendi.

Fratello della giornalista Carmen, Lasorella è entrato alla Camera come consigliere parlamentare nel 1989 e per 12 anni è stato il capo del servizio Assemblea, dopo essere stato all’ufficio del Regolamento e a lungo segretario della giunta per le Autorizzazioni negli anni di Tangentopoli. Prende il posto di Angelo Cardani, andato in scadenza. Ieri ha ricevuto l’appoggio pubblico sia del forzista Giorgio Mulé che di Michele Anzaldi di Italia Viva. Tanti complimenti bipartisan, ma Lasorella ha rapporti molto buoni con Luigi Di Maio, di cui fu una sorta di mentore a Montecitorio durante la legislatura 2013-2018, quando l’attuale ministro fu vicepresidente della Camera. Al tempo Lasorella era in lista per diventare segretario, ma la Boldrini gli preferì Lucia Pagano.

La composizione del collegio, invece, ha confermato l’assetto ereditato dal Patto del Nazareno. Gli altri componenti, eletti dal Parlamento, sono infatti Enrico Mandelli apprezzato dalla Lega e gradito a Silvio Berlusconi, a lungo editore di una emittente televisiva locale lombarda, e Laura Aria, dirigente del ministero dello Sviluppo economico specializzata nel settore tv e distaccata a lungo proprio all’Autorità (in quota Pdl, ma non dispiace a Di Maio). Poi il deputato Pd Antonello Giacomelli, già sottosegretario allo Sviluppo economico con delega alle Comunicazioni nei governi Renzi e Gentiloni (e non disprezzato, ancora una volta, da Berlusconi). Meno forte la quota 5Stelle: il lungo iter di proposte e voto da parte dei parlamentari ha portato alla designazione della sociologa Elisa Giomi, professoressa universitaria attiva negli studi di genere ed esperta di linguaggio sessista nella comunicazione. Mai come in questo caso, insomma, il presidente farà la differenza.

Italia in lockdown. I 3 mesi della tragedia Covid. I fatti, i detti e i contraddetti

È il 31 dicembre 2019 quando le autorità cinesi segnalano all’Oms un cluster di casi di “polmonite ad eziologia ignota” a Wuhan, provincia di Hubei. I sintomi più comuni: febbre, tosse secca, mal di gola e difficoltà respiratorie. Una settimana dopo, verrà identificata la causa: un nuovo virus, appartenente alla famiglia dei coronavirus. È così che il mondo conosce “2019-nCoV”.

9 GENNAIO. La Cina conferma di aver identificato il patogeno sconosciuto: è SarsCov2, strettamente correlato al coronavirus della sindrome respiratoria acuta grave (SARS). In Italia, il ministero della Salute invia una nota: “Polmonite da nuovo coronavirus in Cina”. Qualche giorno prima, Pietro Poidomani, medico di base di Cividate Al Piano (Bergamo), rientra dalle vacanze di Natale: su 50 pazienti visitati, 12 presentano febbre, tosse secca e affanno. Prescrive loro una radiografia al torace: per tutti, risultano complicazioni da polmonite, con marcati addensamenti interstiziali. A fine gennaio, nei territori dell’Asst Bergamo Est, le radiografie al torace prescritte nei pronto soccorso e ospedali, sulla base di polmoniti anomale, saranno 2.099.

10 GENNAIO. L’Oms, dopo aver diffuso la notizia dell’epidemia in corso, pubblica un pacchetto di linee-guida.

22 GENNAIO. Riunita per la prima volta al ministero della Salute la task force che coordina le iniziative “2019-nCoV”. Emanata una circolare con indicazioni sui casi sospetti.

FINE GENNAIO. Il professor Antonio Pesenti, dell’Unità di crisi-task force Regione Lombardia, partecipa a una riunione a Roma all’Iss. Vengono sottoposte simulazioni dell’andamento del virus. E si appronta informalmente un piano per le terapie intensive.

26 GENNAIO. È in questa data, secondo lo studio che poi pubblicherà il virologo Massimo Galli, che il virus entra in Italia, nella zona del Basso lodigiano.

31 GENNAIO. Due turisti cinesi, provenienti dall’Hubei, sbarcati a Malpensa una settimana prima e ricoverati all’Istituto Spallanzani, risultano positivi al Covid-19. L’Italia blocca i voli diretti da e per la Cina. E il governo dichiara lo stato d’emergenza nazionale per 6 mesi.

3 FEBBRAIO. Viene istituito il Comitato tecnico scientifico.

18 FEBBRAIO. Mattia M., 38 anni, con sintomi influenzali si presenta all’Ospedale di Codogno (Lodi). Non era mai stato in Cina.

19 FEBBRAIO. Allo Stadio San Siro, in 45.792 assistono alla partita di Champions: Atalanta-Valencia.

20 FEBBRAIO. Mattia torna in Pronto soccorso. L’anestesista Annalisa Malara infrange il protocollo per i casi Covid-19 ed effettua il tampone. È il paziente 1.

21 FEBBRAIO. Muore Adriano Trevisan, 78 anni, di Vo’ (Padova): è la prima vittima accertata di Covid-19.

Il ministero della Salute emana un’ordinanza che dispone la quarantena di 14 giorni per chi sia venuto a contatto con un positivo al Covid e la “permanenza domiciliare fiduciaria” per chi rientrato dalla Cina.

Insieme al governatore Attilio Fontana, il ministero firma le prime restrizioni per 10 Comuni del Lodigiano (tra cui Codogno): scuole chiuse, niente manifestazioni pubbliche, stop alle attività non essenziali.

22 FEBBRAIO. Nuova circolare del ministero della Salute: definiti i vari casi (sintomatico, paucisintomatico, asintomatico) e indicato il triage separato per i sospetti.

23 FEBBRAIO. Entra in vigore il primo Dpcm: sancita l’istituzione della zona rossa intorno ai 10 comuni del Lodigiano e al comune di Vo’ Euganeo. Intanto, le Regioni e i Comuni iniziano a muoversi in ordine sparso.

In mattinata, in una riunione tra Attilio Fontana, il prefetto di Lodi, funzionari del ministero e il capo della Protezione civile Angelo Borrelli era emersa la necessità di allargare la zona rossa ad almeno 20 comuni del Lodigiano. Allargamento che non avverrà mai, nonostante l’ordinanza con cui alla Regione Lombardia venivano riconosciuti i pieni poteri per inasprire le disposizioni.

Anche a Bergamo c’è una riunione in prefettura: presente anche il sindaco Giorgio Gori. Si parla della sospensione delle manifestazioni per il Carnevale. Così come anche in una riunione serale coi vertici della Regione e oltre 200 sindaci della Bergamasca. All’alba, dall’ospedale di Alzano Lombardo erano stati trasferiti a Bergamo i primi due casi positivi della Val Seriana: uno dei due, era un paziente ricoverato da metà febbraio e poi dimesso. Nel corso della domenica pomeriggio, il “Pesenti Fenaroli” verrà chiuso per qualche ora e poi riaperto, senza tracciamento nè isolamento dei sospetti, tra pazienti e parenti degli stessi.

25 FEBBRAIO. Secondo Dpcm per i Comuni di Lombardia, Veneto, Emilia Romagna, Liguaria, Piemonte, Friuli Venezia Giulia. Sospese tutte le attività sportive. Si fermano i viaggi di istruzione e le visite ai musei a partire dall’1 marzo. Le Marche chiudono le loro scuole, ma il governo si oppone.

26 FEBBRAIO. Attilio Fontana annuncia in diretta Fb che si metterà in isolamento domiciliare: una sua collaboratrice è risultata positiva. Qualche centinaio di chilometri più in là, a Bergamo, il dem Giorgio Gori si dice sereno: “Il clima di preoccupazione è andato molto aldilà del necessario”. Inizia la campagna #Bergamo non si ferma, seguita qualche giorno dopo da quella della Confindustria locale “Bergamo is running”.

L’assessore regionale al Welfare e Sanità Giulio Gallera dice: “Dalla Val Seriana arrivano numeri non trascurabili, ma è presto per dire se i casi siano tutti legati al contagio di un medico di Alzano. Situazione che abbiamo individuato e circoscritto”.

27 FEBBRAIO.La paura sembra già passata. Il sindaco di Milano Beppe Sala lancia #milanononsiferma. Intanto chiede al governo di riaprire i musei, di “sconfiggere il virus della sfiducia”: “Ci sono finalmente le condizioni per un graduale ritorno alla normalità”. Nicola Zingaretti arriva a Milano per un aperitivo a favor di telecamere. Da destra, anche Matteo Salvini lancia la sua ricetta su Fb: “Riaprire tutto quello che si può riaprire! Riaprire! Tornare a correre, a lavorare!”.

28 FEBBRAIO. Anche i giornali di destra sono spazientiti. Libero: “La normalità è vicina. Si torni a vivere”. Il Giornale: “Basta psicosi. Isolato Conte, il Nord riparte”. Intanto si riunisce il Cts che chiede per Lombardia, Veneto ed Emilia lo stop alle manifestazioni sportive (ma ok alla Serie A a porte chiuse), ma anche la “soppressione dell’obbligo di chiusura di tutte le attività commerciali”, ferme restando le misure per la zona rossa.

29 FEBBRAIO.Giorgia Meloni in un video-appello ai turisti di tutto il mondo: “Le immagini e le notizie che vi arrivano della nostra Nazione non raccontano il vero”. Nella provincia di Bergamo i casi passano da 103 a 209 in poche ore. Ma l’assessore Gallera ripete: “Nonostante i numeri importanti, non riteniamo di gestire con ipotesi di zona rossa Alzano. Nuove zone rosse non sono all’ordine del giorno”.

1 MARZO. Terzo Dpcm che rafforza e proroga le disposizioni già prese per i comuni interessati. Resta la zona rossa nel Lodigiano e a Vo’, ma anche altre province vengono messe sotto osservazione (zone gialle). In Lombardia e a Piacenza si sospendono palestre e centri benessere; a Bergamo, Lodi, Piacenza e Cremona si stabilisce la chiusura dei centri commerciali nel weekend. Raccomandato lo smart-working. Nella sua riunione, il Cts chiede che le Regioni aumentino del 50% i posti letto in terapia intensiva.

2 MARZO. In una nota riservata, l’Iss chiede al governo di istituire una zona rossa per i Comuni di Alzano Lombardo e Nembro. In un’intervista a Radio popolare, l’assessore Gallera: “Ad Alzano c’è una situazione sicuramente complicata. La strategia che abbiamo deciso di adottare, più che quella di fare un’altra zona rossa, è quella di collocare in isolamento tutti i contatti diretti e i positivi asintomatici”.

3 MARZO. Il Cts indica al governo la necessità di procedere a una seconda zona rossa per Alzano e Nembro. Quando il premier Conte verrà sentito dai pm di Bergamo sul punto, metterà a verbale che il parere del Cts gli è materialmente giunto il 5 marzo. Il governo valuta se allargare la zona rossa ai due Comuni o se, visto il trend dei contagi in tutta la Lombardia, non sia più opportuna una misura più generalizzata. In una intervista al Fatto, Conte ricostruirà: “Chiedo agli esperti di formulare un parere più articolato: mi arriva la sera del 5 marzo e conferma l’opportunità di una cintura rossa per Alzano e Nembro. Il 6 marzo, con la Protezione civile, decidiamo di imporre la zona rossa a tutta la Lombardia. Il 7 marzo arriva il decreto”. Libero non ne può più: “Pressante richiesta al governo: ‘Lasciateci lavorare’”.

4 MARZO. Il governo incontra le parti sociali e gli enti locali. In serata, un nuovo Dpcm con cui si chiudono le scuole in tutta Italia fino al 15 marzo e si prorogano ed ampliano restrizioni già attive per cinema, musei, sport.

5 MARZO. Il governo è pronto a chiudere Alzano e Nembro. All’imbocco della Bassa Val Seriana arriva un contingente di alcune centinaia di uomini, tra carabinieri e polizia per cinturare Nembro e Alzano. I check point sono venti, sulla carta. L’ordine però non arriverà mai. Il Giornale torna a lamentarsi: “Sanno solo chiudere”.

6 MARZO. Il Governo valuta l’allargamento della zona rossa a tutta la Lombardia.

7 MARZO. Il Cts, dopo essersi riunito a lungo, propone l’adozione di misure differenziate. Segue un Consiglio dei ministri che durerà fino a tardi. Trapelate le prime misure restrittive, i treni, principalmente da Milano e diretti verso il Sud, vengono presi d’assalto. Nel cuore della notte il premier in una conferenza stampa annuncia le restrizioni.

8 MARZO. Quinto Dpcm: la Lombardia è ufficialmente una zona rossa, allargata anche a 14 province tra Piemonte, Emilia Romagna, Marche e Veneto.

Con una delibera, la Regione Lombardia chiede alle strutture delle Rsa e hospice di valutare di accogliere pazienti a bassa intensità Covid, per liberare posti letto negli ospedali al collasso.

9 MARZO. Sesto Dpcm con cui viene deciso il lockdown per l’intera Italia che diventa tutta una grande zona “arancione”: #ioRestoACasa.

Ha collaborato Giacomo Salvini

Menzognavirus

A che serve l’autonomia regionale sulla sanità, oltre a fare danni? A garantire, in caso di emergenza, informazioni e decisioni immediate senza allungare la catena di comando fino a Roma. Il 21 febbraio, quando esplode il primo focolaio a Codogno (Lodi), il sindaco e quelli dei 9 limitrofi chiedono subito la zona rossa, la Regione li appoggia e il governo la dispone. Lì e in quello del secondo focolaio: Vo’ Euganeo (Padova). Tipica restrizione che investe più Regioni e dunque spetta al governo, in base alla legge 833/1978 che assegna quel potere emergenziale ai sindaci (per aree di un solo Comune), ai presidenti di Regione (aree multicomunali) e al governo centrale (aree multiregionali). L’indomani, 22.2, esplode il terzo focolaio, il secondo targato Lombardia: l’ospedale di Alzano (Val Seriana, Bergamo). Ma, guarda un po’, viene gestito all’opposto degli altri due: l’ospedale viene riaperto in poche ore per ordine dei vertici sanitari regionali, senza sanificazione, contro il parere dei medici; né il sindaco di Alzano né quelli dei Comuni vicini chiedono la zona rossa; la Regione non la dispone (pur avendone il potere e anche il dovere), non la chiede al governo, anzi la esclude esplicitamente. Anche nei giorni seguenti, quando i contagi galoppano verso Bergamo. Nessuno dà l’allarme, anzi tutti – dall’assessore Giulio Gallera in giù – minimizzano. E dire che il 23.2 il presidente Attilio Fontana – come rivelato ieri dal Fatto – si fa conferire il potere speciale (in aggiunta a quello di legge) di disporre zone rosse: “Il Presidente della Regione Lombardia, sentito il Ministro della Salute, può modificare le disposizioni di cui alla presente ordinanza (quella che elenca i 10 comuni lodigiani cinturati, ndr) in ragione dell’evoluzione dell’epidemia”. Firmato: Fontana e Speranza. Ma poi Fontana non allarga la zona rossa agli altri 10 comuni lodigiani infetti, né alla Val Seriana. E non chiede al governo di farlo: l’archivio Ansa non riporta una sola sua dichiarazione su Alzano. Ne parla Gallera, che oggi racconta di aver chiesto la zona rossa in Val Seriana. Balla totale: “Stiamo guardando con attenzione alla zona di Alzano, ma non c’è nessuna ipotesi di nuove zone rosse” (27.2); “Nuove zone rosse non sono all’ordine del giorno. Non riteniamo di gestire con ipotesi di zona rossa quella zona lì” (28.2); “La situazione nella Bergamasca rimane stabile… Non c’è nessuna idea di costruire zone rosse, restano quelle che sono, l’abbiamo condiviso col governo” (29.2); “Ad Alzano c’è un numero di casi importante, la strategia che abbiamo deciso, più che fare un’altra zona rossa, è isolare tutti i contatti diretti e i positivi asintomatici” (2.3).

Ancora Gallera: “È un dato oggettivo il forte incremento dei casi nella zona di Alzano. Abbiamo chiesto all’Iss di fare valutazioni e suggerire a noi e al governo le migliori strategie” (6.3). L’aumento dei contagi nella Bergamasca (+129) supera quello del Lodigiano (+98), ma Gallera continua a scaricare su Roma: “Attendiamo le decisioni del governo”. Altre 8 Regioni, molto meno contagiate, dispongono 116 zone fra rosse e arancioni: la Lombardia zero. Così, quando ormai tutta la Bergamasca e mezza Lombardia sono compromesse, si muove il governo in beata solitudine. Contro i niet di Regione, industriali (Confindustria Bergamo: “Bergamo is running”, 29.2), sindaci della Val Seriana e di Bergamo (Giorgio Gori: “Bergamo non ti fermare!”, 27.2).

Il perché dei due pesi e due misure fra Lodigiano e Bergamasca è il segreto di Pulcinella: la Val Seriana è una delle zone a massima densità industriale; comandano i padroni, non i politici. Oggi, a leggere i giornali e a sentire i leghisti, pare che tutto ciò non sia mai avvenuto. Anziché la luna, si guarda il dito: cioè il fatto che Conte, impegnato il 3 e il 4.3 a chiudere tutte le scuole e in altre bagattelle, lesse solo il 5.3 il rapporto del Cts del 3.3 sulla zona rossa ad Alzano; e avrebbe mentito al Fatto il 12.6 datando il report del Cts al 3.3 (la pura verità). Che l’abbia letto due giorni dopo non cambia nulla, perché sia il 3 sia il 5 la zona rossa non aveva più senso, con l’intera Bergamasca e il grosso della Lombardia fuori controllo. Infatti il Cts, richiesto di approfondire, il 6 suggerì di chiudere con zone gialle l’intera Lombardia e altre 14 province, cosa che il governo fece subito il 7, ma con zone rosse. Poi però tutti ritennero che non bastasse e l’11 scattò il lockdown nazionale.

Quindi: Conte non ha mentito; non ha disatteso il parere del Cts (pur avendo il diritto di farlo: i tecnici consigliano, i politici decidono); e il lockdown fu condiviso da tutti, anche da chi ora finge di dimenticarsene e chiede ridicole dimissioni: “Per mettere in sicurezza il Paese serve applicare misure più restrittive a TUTTO il territorio nazionale, senza distinzione” (Salvini, 9.3). “Chiudere tutto adesso per ripartire il prima possibile. Le mezze misure non servono” (Fontana, 10.3). Dei morti in più in Val Seriana deve rispondere chi, in Regione Lombardia, dormì nell’ultima settimana di febbraio. Lo disse una fonte al di sopra di ogni sospetto il 16 marzo: “A Nembro e Alzano la zona rossa sarebbe servita tre settimane fa: la verità è che adesso la zona rossa deve essere tutta l’Italia e tutta l’Europa. O capiamo questo, o resta la strada inglese e Dio ci scampi”. Chi parla non è Conte pro domo sua: è Roberto Calderoli, leghista e bergamasco.

Guida megagalattica per (ex) autostoppisti

Zaino extralarge in spalla. Sorriso. Cartelli. Pollice all’insù. Sul ciglio della strada ad aspettare per ore, o per qualche istante, che una macchina o un camion ti caricasse. Con la pioggia o sotto un sole bruciante, e alle volte non c’era nemmeno una meta. Il percorso era tutto interiore: un’iniziazione, come in On The Road di Jack Kerouac. E lì eravamo agli anni 50: il boom vero e proprio ci sarebbe stato nei due decenni successivi, con gli hippie e Easy Rider.

Il sogno sconfinato dell’autostop è ancora vivo e attende di tornare a lottare insieme a noi, non appena le nuvole del Covid si saranno diradate. Viaggiare gratis nel mondo (e persino nell’universo, stando alla Guida galattica per gli autostoppisti di Douglas Adams) alla scoperta di luoghi autentici e sperduti. Perfetti sconosciuti che si incontravano e fidavano reciprocamente, in un determinato frangente spazio-temporale: tanto non si sarebbero mai più rivisti. Una vertigine di libertà. Il rischio di imbattersi in uno psicopatico c’è sempre stato, ma era calcolato, a meno che non si fosse ossessionati da The Hitcher, la lunga strada della paura. Alle nostre latitudini cinematografiche, in verità, i riferimenti classici sono molto meno splatter: il Ruggero di Carlo Verdone in Un Sacco bello, finanche Massimo Troisi in Ricomincio da tre.

Elegia dell’autostop, contro ogni psico-onda lunga del lockdown. Non è un caso che tra le hit di quest’estate c’è Autostop: “Cerco il mare in autostop/ Dai tuoi occhi a un altro shot/ Noi restiamo ad aspettare/ Voglio stare ancora un po’”, canta il rapper torinese Shade. Il suo video è ambientato tra Milano, la pianura friulana e Lignano Sabbiadoro: non esattamente la California, ma in compenso il ruolo dell’autostoppista è interpretato dalla modella Merisiel Irum. Una di quelle che farebbe inchiodare i furgoncini country alla Quentin Tarantino: “Vuoi un passaggio, baby?”. E in fondo chi ha continuato ad alzare il pollice negli ultimi 50 anni non ha commesso nessun reato: in base al nostro Codice della strada, l’autostop è illegale soltanto in autostrada e sulle arterie extraurbane. Precisazioni superflue: quel che resta dell’idea romantica dell’autostop oggi si pianifica attraverso piattaforme digitali come BlaBlaCar. Per risparmiare soldi e stress, e dare un bacio all’ambiente. Autostop online, che controsenso.

La “Crapa pelada” del duce e la Peppa che amò Caravaggio

Cosa diavolo può legare il Caravaggio, la cristallina idiozia della censura fascista, la serie americana più cool di sempre, la Milano del ’600 (pre peste), il jazz? Seguire il filo, risalire alle fonti, alle origini, alle leggende, fino al salto sulla sedia quando uno, vedendo Breaking Bad, la serie di Vince Gilligan, una delle più famose e popolari su Netflix, pilastro contemporaneo della fiction mondiale, sente quella musica, la riconosce (e come non riconoscerla?). Maddai, possibile?

La canticchia Gale, per la precisione, chimico specializzato che “cucina” cristalli di metanfetamine, e la canticchia con il sottofondo dell’originale – un disco – mentre si prepara la cena. Il disco sta ancora girando che lo ammazzano malamente (terza stagione, episodio 13).

Ma che musica? Ecco, giusto, prima le fonti.

“Crapa pelada

l’ha fa i turtei/

Ghe ne dà minga

ai so’ fradei/

I so’ fradei fan

la fritada/

Ghe ne dan minga

a crapa pelada”.

Filastrocca scemetta, per bambini, una solfa, una tiritera divertente. Chi lo direbbe che è una cosa che parte dal Caravaggio, arriva a Rabagliati, viene combattuta dal fascismo, trionfa alla Liberazione e sbarca nella super-fiction americana?

Non facciamola lunga: piccola storia di una grande canzone.

Prima la leggenda, la genesi. Il Caravaggio, era ancora “soltanto” Michelangelo Merisi, viveva a Milano, più o meno il 1590. Testa calda, lo sappiamo, ma capace di innamorarsi. “Lei” si chiama Peppa Muccia, prostituta, lui la rapisce (ah, l’amore!), i fratelli di lei (tre, dice la leggenda) non possono perdonare, recuperano la ragazza, danno una sonora mazzolata al pittore e a lei, punizione umiliante, rasano i capelli a zero. Ecco Crapa pelada viene da lì, tradizione orale, storia di dispetti e di ripicche: lei fa i tortelli ma ai fratelli non li dà, li darebbe solo al suo amore, che però chissà dov’è (ve lo dico io: a Roma, dove di lì a qualche anno diventerà “Il Caravaggio”).

Un passaparola di generazioni. Per trovarla in forma di canzone – e che canzone! – bisogna aspettare secoli, il 1936, quando Giovanni (Tata) Giacobetti, cantante, contrabbassista, futuro fondatore del Quartetto Cetra, si ricorda della filastrocca popolare, la riscrive insieme a Gorni Kramer (Francesco Kramer Gorni, inarrivabile maestro di fisarmonica, precursore del jazz in Italia, re del varietà).

La musica viene da uno standard americano, precisamente da It Don’t Mean a Thing, che Duke Ellington scrive nel 1932, tutto è saltellante e sincopato, le parole in dialetto lombardo rimbalzano su quella tessitura che è un piacere, c’è ironia, forse sarcasmo, jazz, swing, accidenti!

Funziona. La canta Alberto Rabagliati. Funziona pure troppo. E poi la stupidità della censura fa il resto.

Basta leggere il Radiocorriere di quegli anni si capisce perché: “Musica negroide”, espressamente vietata dal ’37, ma sottotraccia si suona ancora, la Resistenza è anche un po’ swing. E dopotutto cosa regala Milton a Fulvia in Una questione privata di Fenoglio? Over the rainbow…

C’è di peggio (non ridete) il jazz è anche “musica afro-demo-pluto-giudo-masso-epilettoide”. Insomma, contrabbassi e orchestrine al posto di chitarre e mandolini? Non scherziamo, dove andremo a finire? Non c’è molto da ridere, se pensate che Giorgia Meloni se la prende con Imagine di John Lennon… Il lupo, il vizio, ecc. ecc.

Dunque la canzone non si sente, non passa all’Eiar, la radio, ma la canticchia mezza Italia, divertita, di nascosto, l’infantile Crapa pelada ritmata con curvature vocalese nel ritornello, così americana, esotica, divertente; nei locali da ballo la si canta alla fine, quando un po’ di gente se n’è andata, anche le guardie: carboneria jazz degli anni Trenta.

Il fatto è che nel 1936, in Italia, quando la canzone conquista tutti, Crapa Pelada è uno solo. Lui, il mascellone volitivo, il duce dell’Impero, la macchietta solenne del fascismo, l’assassino di Palazzo Venezia. Ridere del potere, ammiccare, fischiettare, alludere, sono tutte cose che i regimi temono come la peste nera. Canticchiare Crapa pelada ti può costare la galera: un grande successo semiclandestino.

La storia delle censure fasciste alle canzonette è vasta e in certi casi anche esilarante. Quando Italo Balbo si schianta in aereo, per dire, diventerà un problema anche cantare Maramao perché sei morto (Consiglio-Panzeri, 1939, esecuzione del Trio Lescano), con quel verso meraviglioso e italianissimo, “Pan e vin non ti mancava”, e quindi che cazzo andavi a schiantarti nei cieli di Tobruk? Malumori nel regime, canzonette divertenti, fischiettate come segnali, una resistenza piccola, passiva, fatta di minimi gesti, segni di riconoscimento, bastava una strofa e si sapeva come la pensavi.

Poi, il regime finiva come si sa, Crapa pelada, quello vero, pure, e nel 1945 il Quartetto Cetra ne incideva – sembra un festeggiamento – una versione portentosa, prima melodica e poi (mi scuso) swinghissima, vorticosa, che diceva sì, certo, usiamo lo swing per cantare filastrocche assurde, cretinate, frittate e tortelli, ma anche per dire che si può, finalmente. Si liberava tutto, si liberava anche una canzone. Grande successo.

Che Crapa pelada sia poi finita nella raffinatissima colonna sonora di Breaking Bad, e quindi definitivamente consegnata al culto pop dei nostri anni, può essere un caso, ma ne fa in qualche modo uno standard del jazz mondiale, con milioni di visualizzazioni, una cosa che non morirà, andrà avanti ancora, da quando tre fratelli di Milano diedero una manica di botte al Caravaggio.

La cultura s’è fatta populismo

Se il populismo politico sembra un po’ fiacco, continua a trionfare il populismo culturale: oggi uno scrittore, un compositore, un poeta più è popolare, più è grande e grandissimo.

Direte: è sempre stato così… Sì, ma prima qualche piccolo presidio, qualche forma di resistenza erano ancora percepibili, un critico autorevole, un cattedratico non conformista riuscivano a farsi sentire. Per arrivare all’azzeramento di ogni distinzione tra genere colto e genere popolare c’è stato il notevole contributo – bisogna riconoscerlo – di Umberto Eco che, dopo aver studiato Manzoni e Mike Bongiorno, Joyce e Paperino, alla fine ha dichiarato: “Posso leggere la Bibbia, Omero o Dylan Dog per giorni e giorni senza annoiarmi”. Nel 1986 ho sentito Paolo Volponi dire: “Sono vent’anni che Eco bombarda la letteratura italiana”.

Oggi non c’è antologia poetica, curata da poeti o da cattedratici, che non contenga Mogol e De André accanto a Dante e Petrarca, e non c’è supplemento letterario che non si occupi anche di fumetti. Nel 1990 ho sentito Luigi Baldacci dire: “Una mattina leggeremo sul Corriere che Carolina Invernizio è la più grande scrittrice italiana”. Oggi leggiamo che Camilleri è “l’Omero della Sicilia”.

Di questa confusione tra grande letteratura e letteratura d’intrattenimento (come tra musica e canzonette, tra arte e simil-arte) cerca di trarre profitto l’industria editoriale, che non ha mai saputo creare un pubblico di veri lettori, ma soltanto una massa variabile di “lettori da cesso”, come li chiamava Céline, occasionali e ignoranti.

Milano ha fatto funerali di Stato a Mike Bongiorno e a Alda Merini. Al primo ha intitolato anche una strada; la statua per fortuna gliel’hanno fatta a Sanremo, inaugurata al grido di “Allegria!”…

D’altronde, poteva Milano non seppellire con tutti gli onori un personaggio così fondamentale per la cultura milanese e italiana, Milano – dico – che aveva assegnato l’Ambrogino d’oro a Anna Longari, concorrente del Rischiatutto famosa per essere “caduta sull’uccello” dello stesso Bongiorno? E alla Merini, “Dickinson milanese”, incarnazione di un’idea di poesia che è quasi la negazione della poesia, Milano ha intitolato anche una Casa, sul modello della Casa del Manzoni: due stanzette linde e spoglie a riprodurre la sua vera casa, che invece assomigliava a una discarica (la Merini era disposofobica, cioè non buttava via niente, neanche un mozzicone). Milano ha intitolato una via anche a Giorgio Gaber che, se non mi sbaglio, deve essere studiato a scuola per legge.

Roma non è da meno: ha intitolato l’Auditorium a Ennio Morricone, paragonato a Beethoven e a Mozart. Qualche settimana fa, all’“evento Senato e cultura”, sono stati invitati Milly Carlucci, Al Bano e Ferzan Ozpetec. A proposito, se sono diventati grandi registi i Vanzina, mi aspetto che presto diventino arte i graffiti sconci sui muri delle latrine.

Si amino pure i Camilleri, i Morricone, i Gaber, i Bongiorno; si vada in estasi per le caricature sordide di Sordi, per quelle patetiche di Verdone, per quelle imbarazzanti di Franca Valeri… Si pensi pure che siano grandi: magari lo sono anche, nel loro genere; ma ricordiamoci che il loro genere è piccolo. E ricordiamoci che raramente i grandi hanno successo e gloria, che i beniamini del pubblico, i popolari, i piccoli e i tanti fasulli – che poi non sono che scopiazzatori, volgarizzatori e banalizzatori dei grandi – sono sempre al passo col loro tempo, spaccando il minuto, mentre i grandi non sono mai in sincronia con il loro tempo, sono sempre sfasati, arrivano “prima” e sono riconosciuti “dopo”.

Per questo dico, anzi, prego: in nome di Dio, già hanno avuto poco dai loro contemporanei, lasciamoli in pace Omero, Mozart, Beethoven, la Dickinson e tutti gli altri, non mischiamoli ai loro piccoli parassiti, non nominiamoli neanche. Se non riusciamo ad amare la loro grandezza, che nessuna scuola Holden può insegnare, non usiamola per vendere piccolezze passeggere.

I veri grandi sono “i fari” che di età in età ci illuminano la via della vita, e ci invitano di età in età a dar prova della nostra dignità. “Car c’est vraiment, Seigneur, le meilleur témoignage/ Que nous puissions donner de notre dignité/ Que cet ardent sanglot qui roule d’âge en âge/ Et vient mourir au bord de votre éternité!”. (È Baudelaire, che traduco per voi lettori: Miglior prova non si ha di dignità/ di questo ardente singhiozzo, Signore,/ che va di età in età e approda e muore/ sulla riva della tua eternità).