“Hezbollah è solo un peso. Il governo se ne libererà”

Non è un caso che il presidente Michel Aoun abbia deciso di aprire all’ipotesi di un attacco missilistico proprio il giorno dopo la visita a Beirut del suo omologo francese Emmanuel Macron”, dice Saad Kiwan, giornalista e scrittore, già docente di Giornalismo e direttore della fondazione Samir Kassir, il noto intellettuale ucciso da un auto bomba a Beirut nel 2005, l’anno in cui fu fatto saltare in aria con lo stesso metodo il magnate e già premier Rafiq Hariri, padre di Saad, ex primo ministro e oggi a capo dell’opposizione.

Secondo Kiwan, il cristiano Aoun, dopo aver parlato con Macron, ha compreso che l’unico modo a sua disposizione per salvarsi politicamente è prendere le distanze dall’alleato Hezbollah scaricando la responsabilità di quanto accaduto su un attore straniero, tra parentesi Israele, per accusare indirettamente il partito armato sciita creato e sostenuto dall’Iran, da sempre in guerra per l’appunto con Tel Aviv, di quanto accaduto.

Alludere a un attacco missilistico significa infatti ammettere che nel porto di Beirut erano immagazzinate anche armi e munizioni del partito armato sciita che guida di fatto il neo esecutivo ed è stato determinante per la nomina di Aoun alla presidenza del Libano. “Far saltare il porto di Beirut è anche l’unica maniera efficace per bloccare il trasferimento di armi dall’Iran a Hezbollah e impedire il controllo dello scalo da parte degli uomini di Hassan Nasrallah. Ma tra Israele, Hezbollah e l’Iran fino a poche settimane fa era in corso una sorta di tacito accordo per evitare una nuova guerra in Libano. Il problema è che l’esercito paramilitare di Hezbollah nelle ultime settimane ha provocato continuamente Tel Aviv mandando i suoi miliziani oltre confine, in territorio israeliano. E proprio una settimana fa il ministro della Difesa israeliano aveva minacciato di far saltare le infrastrutture libanesi”, sottolinea Kiwan.

Lo sciismo politico ha come strategia la conquista del ruolo di unico attore politico nell’arena libanese. In seguito agli accordi di Taif – sottoscritti nel 1989 sotto l’egida dell’Arabia Saudita e degli Usa – Hezbollah, nato all’inizio degli anni 80, avrebbe dovuto sciogliere le milizie che costituiscono il suo braccio armato. Avviene invece il contrario e, grazie ai soldi e alle armi provenienti da Teheran, oltre ai proventi dell’hashish prodotto nella valle della Be’eka, Hezbollah si ritrova con un vero e proprio esercito. Due anni fa il sito americano investigativo Politico e in seguito anche quello francese Mediapart avevano documentato non solo il traffico di droga gestito da Hezbollah dal Libano, ma anche i legami con i cartelli dei narcos sudamericani attraverso la dispora libanese in Centro e Sudamerica. Persino l’attuale ministro venezuelano del Petrolio, Tareq el- Aissami che fu vicepresidente di Hugo Chavez è ricercato dalla magistratura statunitense per i suoi rapporti con i narcos colombiani e messicani.

Secondo la magistratura americana buona parte dei libanesi che hanno fatto fortuna in Sudamerica sono agenti di Hezbollah nonchè narcotrafficanti. Gli accordi di Taif avevano inoltre sancito “rapporti speciali” con la Siria che avrebbe esteso la propria autorità su tutto il Libano, disarmando le milizie e provvedendo alla sicurezza in attesa della ricostituzione dell’esercito nazionale. Hezbollah e l’Iran hanno sempre rifiutato le condizioni poste dall’accordo, ma anche la Siria del clan Assad di religione alawita (derivazione dello sciismo) ha sempre evitato di fare pressioni per lo smantellamento dell’esercito e degli arsenali di Hezbollah che ha contraccambiato il favore combattendo al fianco del presidente-dittatore siriano Bashar al-Assad oggi ancora al potere dopo nove anni di guerra civile.

Il giornale fantasma registrato in Illinois, che fa scoop veri sugli oligarchi a Kiev

L’Illinois è lontano da Kiev, ma è stato il Chicago Morning Star a diffondere per primo il report dell’agenzia investigativa Kroll: l’indagine accerta che, con un complicato e fraudolento schema bancario, il miliardario Igor Kolomoisky e due suoi soci in affari, Ihor e Hryhoriy Surkis, hanno sottratto illegalmente 361 milioni di dollari alla Privat Bank nel 2016, durante il periodo della sua nazionalizzazione. Il report, propagato in cirillico dalla stampa ucraina, è finito su tutti i giornali del Paese. I reporter del Kyiv Post hanno deciso di risalire la montagna delle fonti fino a quella primaria per scoprire quale redazione si era dimostrata più pronta di loro nel compiere lo scoop e hanno scoperto che il Chicago Morning Star non esiste.

Sul sito del media si legge che “informa lettori di Chicago e Illinois”. Immacolati e avvenenti, i volti di Shawn Genzone e Adyson Sipes appaiono accanto alle loro biografie da penne di punta della redazione fantasma. A denti bianchi, i giornalisti mostrano sorrisi da pubblicità e, infatti, li possiedono: le foto dei redattori sono in realtà tra le più scaricate immagini di un’agenzia di foto. Se si verifica l’indirizzo della sede del giornale su Google maps, appare una desolata traversa sotterranea di Chicago. L’articolo di poche battute che accompagna il documento Kroll porta la firma di Brody Englebrecht, che non ha lasciato altre impronte della sua esistenza, né su social network né su altri giornali. Ogni mattina in Illinois, alcuni, forse molti, ma certamente qualcuno, dal 2018 gestisce un sito di notizie riguardo Covid-19, Banca europea, report dell’intelligence. Quando nel 2019 il presidente Zelensky pensa di nominare Hennady Nadolenko come ambasciatore in Israele, lassù, alla latitudine del lago del Michigan, i reporter statunitensi ribattevano l’informazione aggiungendo dettagli: “Le nostre fonti dicono che il diplomatico è stato presentato al presidente dall’oligarca Kolomoisky”. Altri articoli tinteggiano le diatribe di Yuri Vitrenko, a capo della Naftogaz, o quelle del diplomatico Sergiy Korsunsky. Il Chicago Star è un fake che ha ingannato i controlli dei reporter di Kiev, ma è anche un’eccezione, perché il documento vero che il giornale finto ha pubblicato dimostra che i “no, no, no” rilasciati in una dichiarazione dopo l’altra alla stampa dai miliardari per negare il loro coinvolgimento nella frode, erano tutti fasulli.

Del tycoon Kholomoisky, presunto burattinaio e finanziatore del presidente Zelensky, si è scritto molto più che dei fratelli cresciuti fra palle e palloni: Ihor è presidente della Dinamo Kiev e della Federazione calcistica ucraina, Hryhory è stato uno dei cinque vicepresidenti della Uefa. La loro scia criminosa è rimasta impressa anche tra i fili d’erba dei campi verdi, dove sono rimasti coinvolti in altri scandali finanziari a catena. I due hanno sempre negato di avere legami con Kholomolsky e hanno richiesto al loro Stato che i beni a loro confiscati – in milioni di dollari: 245 requisiti alla filiale della Privat Bank a Cipro, 259 in Ucraina – venissero restituiti.

Né la Kroll, né la Privat Bank o l’oligarca hanno commentato. Nemmeno lo hanno fatto i giornalisti finti a quelli reali che li hanno cercati per sapere come hanno fatto a ottenere l’indagine della Kroll. Adesso però le informazioni vere del giornale finto sono nei faldoni delle Corti ucraine che riguardano i molti casi aperti sui Sarkis e sul tycoon, che hanno giurato più volte di non aver rubato o ingannato. Se a Kiev tutti rischiavano di crederci, nella distante Chicago qualcuno non lo ha fatto.

La notte “francese” di Beirut. E al mattino si parla di un missile

Nella notte di Beirut alle esalazioni pericolose di nitrato d’ammonio che ancora si levano dalla zona del porto, alla polvere delle centinaia di palazzi svaniti nella gigantesca esplosione di martedì, all’odore pungente delle plastiche bruciate, si sono sommate quelle dei gas lacrimogeni sparati dalla polizia per tenere il più lontano possibile la rabbia della gente dai palazzi del potere. La folla non risparmia nessuno nelle sue grida disperate, il presidente Michel Aoun, il capo del governo Hassan Diab, ministri e deputati giudicati i veri responsabili del più grande disastro civile della storia del Paese. Sputando il suo disgusto per la classe politica che ha distrutto vite umane e deturpato la città di Beirut immagazzinando materiali altamente esplosivi in ​​una zona residenziale, gridando la sua sofferenza e disperazione, la gente per strada non ha esitato a insultare il Presidente della Repubblica Michel Aoun e di chiedere le sue dimissioni.

Il capo dello Stato, blindato del palazzo presidenziale di Baabda, in un breve incontro con i giornalisti ha rilanciato l’ipotesi di un “fattore esterno, un missile, una bomba”, come l’elemento scatenante della deflagrazione invece dell’incompetenza e negligenza delle autorità locali.

Restano agli arresti i 16 funzionari del porto e delle dogane a cui adesso si vorrebbero addossare la responsabilità dell’accaduto, ma nelle mani dei loro avvocati ci sono le decine di lettere e mail inviate dal 2013 alla magistratura perché quelle migliaia di tonnellate d’ammonio venissero rimosse dall’hangar 12. Ci vuole vedere chiaro anche l’Onu, che chiede un’indagine indipendente ma l’ipotesi è stata subito respinta da Aoun. Sulla stessa linea i suoi alleati di governo di Hezbollah. Ieri il suo leader Hassan Nasrallah in tv ha negato anche ogni possibile coinvolgimento nella strage: “Non abbiamo depositi di armi nel porto”. L’immane esplosione ha ucciso finora 157 persone, mentre oltre 100 sono ancora i dispersi, cinquemila i feriti, centinaia dei quali in condizioni gravissime; gli ospedali – tre su 5 danneggiati – sono vicini al collasso. Al “Saint George” è stata montata una tendopoli nel parcheggio per curare i pazienti meno gravi, che vengono poi rapidamente dimessi.

Ma non sanno dove andare, 300mila sono senza casa mentre il governo ancora non ha varato nessuna misura per assisterli. Iniziano ad arrivare i primi aiuti dalla Francia, dall’Italia, da Cipro, dalla Danimarca e da diverse altre nazioni europee, ma il timore della gente è che ancora una volta questo flusso di materiali – e poi di denaro – finisca nelle solite tasche. Una classe politica screditata non può gestire una ricostruzione tanto imponente. “Dimissioni”, “Rivoluzione”, “A casa tutti”, urlava infatti la gente nella notte mentre cercava di avvicinarsi al Gran Serraglio, il Parlamento libanese, ben protetto dalla Polizia. Quello che è accaduto giovedì durante la visita di Emmanuel Macron ha reso chiaro quale sia il rapporto fra la classe politica libanese e la gente.

Visitando Gemmayzé, un quartiere devastato dalla gigantesca esplosione, il presidente ha guardato negli occhi gli abitanti, ha promesso di inviare cibo e sostenere una nuova iniziativa politica, ha espresso dolore per le vite perse e ha addirittura spostato una guardia del corpo per abbracciare una donna in lacrime. Macron ha fatto ciò che nessun politico libanese ha fatto finora: è andato a vedere di persona le sofferenze. Loro, i politici libanesi, non si fanno vedere in giro, chiusi nelle lussuose residenze sulle colline, protetti da esercito e nugoli di bodyguard privati.

Lo sforzo di ripresa è per ora sostenuto dai semplici cittadini. Da tutto il Libano sono arrivati in città migliaia di giovani che armati di pale stanno cercando di togliere detriti e vetri dalle strade per renderle percorribili. Una mobilitazione spontanea che rende ancor più evidente l’assenza dello Stato, l’inanità dei suoi politici.

Ieri le Nazioni Unite hanno annunciato l’invio di 9 milioni di dollari in aiuti sanitari. Altri Paesi hanno promesso il loro sostegno economico ma non è chiaro quanto questi aiuti possano affrontare i tremendi bisogni lasciati da questa devastazione, arrivata sulla scia di una crisi economica che ha fatto scivolare molti libanesi verso la povertà ben prima dell’esplosione. Per oggi è stata annunciata una grande marcia di protesta, domani – organizzata dalla Francia – si terrà una conferenza dei Paesi donatori.

“Piantedosi voleva l’Aisi e lo chiese a noi renziani”

Matteo Piantedosi da ieri è il nuovo prefetto di Roma. 57 anni, prefetto di Bologna nel 2017, dal giugno del 2018 è stato capo di gabinetto per i ministri Matteo Salvini e Luciana Lamorgese. Una professionalità riconosciuta a qualsiasi latitudine politica. Piantedosi ha avuto un ruolo di grande rilievo nella stesura dei decreti del governo gialloverde sull’immigrazione, agendo in intensa sintonia con Salvini, con il quale è stato indagato e poi prosciolto (l’accusa era concorso in sequestro di persona) nell’inchiesta sul pattugliatore Diciotti per la quale il Parlamento ha negato l’autorizzazione a procedere per Salvini.

Di Piantedosi parla, in un verbale d’interrogatorio Andrea Bacci, il 22 luglio 2019, quando viene sentito come persona informata sui fatti dal pm di Milano Paolo Storari e dal procuratore aggiunto Laura Pedio, che stanno indagando su l’ex avvocato esterno dell’Eni, Piero Amara. Bacci conosce Amara, del quale è stato anche socio nella Teletouch srl, che però non sarà mai attiva. Amara è invischiato in più di un’inchiesta e ha ammesso di aver tentato di depistare, favorendo la nascita di un’inchiesta farlocca a Siracusa, le indagini milanesi sulla presunta maxi tangente Eni in Nigeria. I pm gli trovano questo appunto nel computer: “Matteo Piantedosi attualmente vicecapo della Polizia. Punterebbe a diventare capo della Polizia oppure direttore dell’Aisi (Agenzia informazioni e sicurezza interna, ndr)”. Ne chiedono conto a Bacci, imprenditore fiorentino, un tempo molto legato a Matteo Renzi (nel 2014 gli presta l’Audi con la quale va a prestare giuramento, gli ristruttura dietro compenso la casa di Pontassieve, nel 2011 presta a suo padre Tiziano 30mila euro che riavrà integralmente).

Sull’appunto, Bacci ai pm risponde: “Ricordo un pranzo a Roma, in un ristorante vicino a Palazzo Barberini, a cui partecipammo io, Piantedosi e Filippo Paradiso. Il pranzo fu organizzato da Paradiso e, nell’occasione, Piantedosi mi disse che aspirava a un ruolo importante all’interno della Polizia o dell’Aisi, e mi chiedeva sostanzialmente cosa avesse intenzione di fare il governo. Io risposi che nulla sapevo. Chiaramente, l’incontro era funzionale a che io parlassi o con Renzi o con Lotti di cui, come era noto a tutti, io ero amico”.

Al Fatto Piantedosi smentisce: “La circostanza non corrisponde a verità. Ho conosciuto episodicamente Bacci in tutt’altre circostanze, in modo fuggevole e occasionale. Non avrei mai affidato la mia carriera a Bacci. Non c’è bisogno che le spieghi che in questo mondo si fanno molte millanterie. Escludo categoricamente un pranzo vicino a Palazzo Barberini. Paradiso lavorava nella mia segreteria quando ero vicecapo della Polizia. Ha lavorato in molte segreterie”.

Paradiso – che in effetti è poi passato alla segreteria di Carlo Sibilia (M5S), sottosegretario al Viminale – è indagato a Roma per traffico di influenze: i pm sospettano che possa essere stato utile ad Amara per i suoi rapporti con il mondo della politica e della magistratura. Già nel 2019 Paradiso ha commentato: “Ho massima fiducia nella giustizia. Confido che le indagini dimostreranno la mia assoluta estraneità”. Il suo legale, GianlucaTognozzi, ha aggiunto: “Paradiso ha manifestato la sua disponibilità a chiarire la propria posizione dinanzi agli inquirenti. Come rappresentante delle Istituzioni da 30 anni, è assolutamente fiducioso nell’operato della magistratura. Nel frattempo continua a lavorare godendo della stima del proprio Ufficio”.

Sulla ricostruzione di Bacci, anche Paradiso al Fatto smentisce: “Escludo categoricamente questo episodio. Se c’è stato un incontro è stato fugace. Non ricordo un pranzo. Parliamo di 6 anni fa. Piantedosi è una persona stimatissima, l’elite delle istituzioni, lavora dalle 8 alle 23, infatti il ministro Lamorgese l’ha confermato nel posto in cui era con Salvini. Lavoro con lui dal 2012. Sono allibito”.

Falcone dimezzatoper zittire i pm

Con l’avvio del dibattito parlamentare, il confronto sulla separazione delle carriere fra pm e giudici si fa sempre più rovente. Chi non è d’accordo è liquidato – senza complimenti – come un troglodita irrecuperabile, un giustizialista nemico giurato dello Stato di diritto. Per taluno, l’argomento tranchant (definibile, se si trattasse di dialettica processuale, “pistola fumante”) è che anche Giovanni Falcone era favorevole alla separazione! Et de hoc satis: basta con le menate sull’indipendenza della magistratura e via cavillando.

Ora, non v’è dubbio che le opinioni di Giovanni Falcone meritano il massimo rispetto. Ma rispetto sempre, in un quadro di coerenza: non semplicemente quando fa comodo. Ora, coloro che osteggiano la separazione delle carriere sono di solito nemici irriducibili anche del “concorso esterno” e del 41-bis. Mentre si dà il caso che su questi temi Falcone (mai citato!) fosse invece schierato su posizioni di indiscusso favore. Anzi, il 41-bis è stato addirittura ideato da lui nonostante sapesse perfettamente che la riforma avrebbe fatto inferocire le belve mafiose (Riina dirà ai suoi che si sarebbe giocato i denti, intendendo quel che di più prezioso aveva). Vediamo allora come stanno le cose.

Quanto al concorso esterno, Falcone e gli altri magistrati del pool, nell’ordinanza-sentenza del “maxi-ter” (17 luglio 1987), hanno sostenuto che le “manifestazioni di connivenza e di collusione […], tanto più pericolose quanto più subdole e striscianti [sono] sussumibili – a titolo concorsuale – nel delitto di associazione mafiosa. Questa ‘convergenza di interessi’ col potere mafioso[…] costituisce una delle cause maggiormente rilevanti della crescita di Cosa Nostra e della sua natura di contropotere, nonché, correlativamente, delle difficoltà incontrate nel reprimerne le manifestazioni criminali”. Parole chiare e univoche, scritte in atti giudiziari ufficiali (quindi in linea col mantra dei giudici che devono parlare solo con le sentenze…), per cui il Falcone ricordato ora sì ora no rischia di essere – parafrasando Calvino – un Falcone “dimezzato”.

Quanto al 41-bis è noto che Falcone, umiliato e cacciato da Palermo, trovò al ministero una specie di asilo politico-giudiziario che utilizzò da par suo elaborando la moderna antimafia, fatta di Procure specializzate (nazionale e distrettuali), Dia e banche dati. In questo “arsenale” rientrava pure il 41-bis – approvato dopo le stragi di Capaci e via D’Amelio – con cui Falcone voleva un “regime differenziato” per i mafiosi che mettesse fine a una situazione di grave illegalità all’interno del sistema carcerario. Prima del 41-bis, infatti, i boss in carcere potevano permettersi di tutto, perfino decidere e organizzare delitti, mentre un collaudato circuito di informazione, assistenza e solidarietà dall’esterno garantiva la continuità e coesione dell’organizzazione. In sostanza, per Cosa Nostra era “naturale” essere più forte dello Stato perfino dietro le sbarre, ma così il discredito dello Stato era devastante. Tutto ciò andava bene a chi la battaglia antimafia la voleva perdere. Falcone invece la voleva vincere anche con il 41-bis, che difatti funzionò alla grande creando una slavina di “pentiti”. Queste verità, oggi, sono tutta una “fuffa” forcaiola per coloro che vedono nel “famigerato” 41-bis solo sistematiche violazioni dei diritti umani equiparabili di fatto a torture. E quasi sempre si tratta dei medesimi soggetti che armano crociate alla conquista della separazione delle carriere.

In verità, se c’è un’operazione che presenta margini amplissimi di azzardo se non di arbitrarietà è proprio evocare i morti. Bisognerebbe chiedersi cosa mai penserebbero oggi, ma è impossibile saperlo. Tuttavia, pur con ogni ragionevole cautela e assumendo il dubbio come chiave di lettura, si possono formulare alcune osservazioni. Vari processi (in particolare Tangentopoli a Milano e Mafiopoli a Palermo) hanno dimostrato che i rapporti di parti consistenti della politica con il malaffare sono una questione di respiro nazionale. Ma la politica non ha saputo bonificarsi essa stessa neutralizzando le spinte malefiche. Purtroppo l’Italia è ancora oggi caratterizzata da una corruzione diffusa, da collusioni con la mafia, da mala-amministrazione nelle più svariate accezioni, vale a dire da vicende oscure che coinvolgono pezzi rilevanti della politica. Conviene che proprio “questa” politica (refrattaria a ogni forma di responsabilità extra-giudiziaria) possa anche ordinare ai pm dove indagare e dove invece far finta di niente, come di fatto avviene ovunque vi sia separazione delle carriere? Per l’Italia che ancora spera nella legge uguale per tutti sarebbe un suicidio. Financo le odiose leggi ad personam diverrebbero inutili se la persona interessata (o qualcuno della sua cordata) potesse pretendere dal pm quel che più le piace. Per l’Italia delle regole sarebbe una forma di “masochismo istituzionale”.

Infine, un accenno alla tesi (propagandata da avvocati e politici) che con la separazione il nostro Paese si allineerebbe alle democrazie più avanzate. In realtà, l’allineamento potrebbe comportare un pesante arretramento. Un riscontro viene da Le Monde del 28/29 giugno, che ha pubblicato un intervento di Katia Dubreuil e Céline Parisot, presidenti di due sindacati della magistratura, intitolandolo “È tempo di garantire l’indipendenza dei magistrati del parquet” (cioè dei pm). Vi si parla di un “cocktail esplosivo” di cui sono ingredienti la nomina dei pm da parte dell’esecutivo e il fatto che ogni decisione in affari “sensibili” è analizzata in base ai possibili interventi del potere; concludendo che soltanto una riforma istituzionale potrebbe mettere fine ai sospetti di interferenze del potere esecutivo sul corso della giustizia. Ne deduco che le anime candide nostrane che propugnano la separazione delle carriere (inesorabilmente destinata a far dipendere il pm dell’esecutivo) vorrebbero costringerci a una situazione che i francesi gelosi dello Stato di diritto stanno disperatamente cercando di cambiare. Quanto basta per convincersi che gli epigoni del teatro dell’assurdo sono fra noi.

 

La “banda larga” per ora suona soltanto al Nord

“Una tristezza così/ non la sentivo da mai/ ma poi la banda arrivò/ e allora tutto passò”

(da La banda di Mina – 1967)

 

Se dovessimo dire qual è l’infrastruttura di cui l’Italia ha più urgente bisogno per innescare la ripresa, bisognerebbe indicare come priorità assoluta la “banda larga”. Che non è, come qualche sindaco di paese potrebbe pensare, quella che accompagna la processione del santo patrono o allieta una delle tante feste popolari in piazza per far socializzare i cittadini e intrattenere la comunità. È la rete a banda larga o ultra-larga in fibra ottica, denominata 5G, per diffondere l’Internet veloce, accelerare la modernizzazione e magari ridurre le distanze fra le “due Italie” nell’interesse dell’intero Paese.

D’accordo. C’è il lavoro che non c’è. Il sistema sanitario da riformare. La scuola da riaprire. E aggiungiamo pure gli stadi calcio. Ma è stata proprio la drammatica esperienza collettiva dell’epidemia a farci apprezzare l’importanza dello smart working, dell’e-learning, dell’home banking e dell’e-commerce. Vale a dire di tutte quelle attività, economiche, commerciali, sociali e formative che oggi viaggiano in tempo reale sulla rete da un capo all’altro del pianeta.

Perché, allora, cinquecento sindaci di altrettanti Comuni italiani si sono ribellati all’installazione delle nuove antenne sui tetti del proprio territorio? E perché il governo è dovuto intervenire d’autorità per impedire loro di bloccare questi impianti, se rispettano i limiti di emissione dei campi elettromagnetici e i rispettivi piani urbanistici? Per il semplice motivo che chissà chi ha cominciato a diffondere, forse proprio sulla rete e sui social, la “notizia” che le antenne del 5G possono nuocere alla salute.

Più che di una notizia – a quanto risulta – si tratta in realtà di una fake news, di una “bufala”. Un’informazione che, almeno per il momento, non è suffragata da nessuno studio tecnico o scientifico. Ma ancora una volta la paura, in questo caso la paura delle onde “non ionizzanti”, ha avuto il sopravvento sulla credulità popolare. E come è avvenuto spesso nella storia dell’umanità – dal treno all’automobile, dalla radio alla televisione – uno strumento o un simbolo della modernizzazione rischia di essere demonizzato come un mostro minaccioso e pericoloso.

Per carità. Non vogliamo mettere la mano e neppure un’unghia sul fuoco, per sostenere l’assoluta innocuità di questo nuovo arnese del diavolo. I controlli ovviamente vanno fatti, i limiti e le soglie di sicurezza vanno rispettati. Ma, al pari dell’impavido Don Chisciotte, non si può fare una guerra contro i mulini a vento senza un minimo di fondamento o di evidenza scientifica. Tanto più nel momento in cui stanno per arrivare i fondi europei che dovrebbero aiutarci a uscire dalla crisi economica e sociale in cui siamo precipitati.

Sappiamo bene che questa è storicamente l’Italia dei Comuni, il Paese dei “mille campanili”. Ed è un motivo di orgoglio nazionale, un supporto d’identità. Ma non si può bloccare, in nome di un malinteso municipalismo, lo sviluppo di una tecnologia che finora ha privilegiato il Nord rispetto al Sud, allargando ulteriormente le distanze fra il Settentrione e il Mezzogiorno. È proprio dalla Bassa Italia, anzi, che dovrebbe partire la rete unica pubblico-privata di Open Fiber e di Tim, per colmare o quantomeno ridurre questo “gap” il più rapidamente possibile. Altrimenti, in attesa della banda larga, non resta che affidarci alla musica “unificante” di Renzo Arbore e della sua “Orchestra Italiana”.

 

Zavoli, un “romagnolaccio” colto. Prima che un maestro

Sergio Zavoli aveva le sue profonde radici a Ravenna dove il nonno gestiva un’osteria nel porto canale, vendendo un vino bianco di origine greca, il Marascone, per cui era soprannominato Gig d’e Marascòn. Come secondo nome a Sergio era stato appioppato quello di Wolmar. Un protagonista del melodramma tanto amato da far gridare all’Alighieri a un portuale “Wagner l’è piò che dio!” ? No, il protagonista della Julie ou la Nouvelle Héloïse di Rousseau. Una premonizione letteraria importante tuttavia. Perché la grandezza successiva di Sergio risiede anche in una cultura letteraria molto solida, raffinata, con punte intimiste che lo contrapponevano ai “romagnolacci” ugualmente colti e però estroversi alla Guido Nozzoli per esempio, grande inviato dell’Unità e poi del Giorno. Al suono di “Romagna mia” di Casadei scorsi Zavoli che mormorava sconfortato: “Chissà quando ce ne libereremo…”

Come tanti giovanissimi nati dopo la grande guerra aveva fatto le prime prove nel giornale del Guf, Testa di ponte, soppresso quasi subito, nel ’43. Ma, dopo il rifugio a San Marino dove c’era mezza Rimini bombardata, Sergio aveva “inventato” una diretta radiofonica delle partite di calcio collegata a certi bar, di grande successo. La compagnia di “vitelloni” – in realtà giovani molto impegnati ma portati a una vita libera e godereccia – riaccoglieva Fellini a ogni rimpatriata. C’era l’avvocato Titta Benzi, sovente raffigurato nei suoi film, l’agente di commercio Albertino Miliani, un tabacàz (termine turco-romagnolo), mediomassimo, il bello della comitiva, che si era giocato le Olimpiadi di Londra perché sorpreso ad amoreggiare con la figlia di un tecnico della boxe, Gino Pagliarani psicologo, allora in politica, come Guido Nozzoli già partigiano con Bulow, Arrigo Boldrini, e altri ancora. Quante battute sentite sul Corso sono entrate dritte nella memoria mostruosa di Federico e da lì in film come Lo sceicco bianco, I Vitelloni, Roma e ovviamente Amarcord.

Zavoli amava molto personaggi visionari: il poeta Dino Campana e lo scrittore-biciclista Alfredo Oriani. E di Campana, uno dei grandi del ’900, è il primo a raccontare dolente come venne praticamente ignorato e deriso alle Giubbe Rosse di Firenze, soprattutto da Papini e da Soffici al quale incautamente consegnò l’unica copia dei Canti Orfici e il pittore-letterato gliela perse senza averla nemmeno letta. Campana, già malato di nervi, risalì disperato nella sua Marradi a ricostruire poesia per poesia quel capolavoro.

Zavoli si afferma presto alla radio. Lo ricordo per la rotta drammatica del Polesine nel 1951, cronista e inchiestista. Poi sempre più raffinato nel gusto e nella voce, splendida, da violoncello. Prix Italia con un documentario tv sulla reggia di Cnosso e uno radiofonico sul convento di clausura del Carmelo, davvero memorabile. È nato lo Zavoli che spariglia il linguaggio televisivo e per anni crea e conduce al Giro d’Italia Il Processo alla tappa. “In Romagna ci sono un milione di biciclette”, diceva sempre. In ogni casa tre o quattro, da donna e per lo più senza freni. Si è già parlato delle sue grandi inchieste sulla nascita del fascismo e sul terrorismo e anche sulla scuola o sulla sanità. Da direttore al Gr1 “insegnò” il mestiere a molti. “Ascoltava il Gr delle 6 del mattino e telefonava subito per fare gentilmente i suoi appunti”, ricorda Vittorio Roidi. Da vero direttore. E come lo ricorda la Rai questo grande? Nel Tg1 e Tg3 di venerdì il servizio sui funerali alla chiesa dei Piceni si è concluso con un solo intervistato: Gianni Letta, il più Mediaset dei Mediaset. Siamo all’impazzimento della Rai, alla confusione delle lingue e delle storie. Ci mancava solo Bruno Vespa.

 

La scienza è disumana ma soffre d’Alzheimer

La Scienza, che tempo fa definimmo “più pericolosa dell’Isis”, ma oggi potremmo anche dire del Covid-19, continua imperterrita, senza che nessuno possa e tantomeno voglia disturbarla, nella sua marcia trionfale verso la propria demenza senile.

Secondo uno studio di un gruppo di giovani ricercatori dell’Università di Bologna, premiati dal ministero della Salute, attraverso “la stimolazione magnetica transcranica (Tms)” si potrebbero rimuovere i ricordi spiacevoli, dolorosi, tormentosi, traumatici e la paura che ne è conseguita. Siamo in linea con la tendenza tutta moderna a eliminare dall’essere umano tutto ciò che è umano, per omologarlo a un normotipo astratto, “politicamente corretto”, diciamo così, dal punto di vista fisico, psichico, emotivo (la legge Mancino, oggi rafforzata dalla subnorma antiomofobia, ha già messo le manette all’odio che è un sentimento e, come tale, non può essere abolito per legge).

Non pensavamo però che i ricercatori di Bologna non capissero quello che anche la casalinga di Voghera sa. Noi non siamo fatti solo di ciò che abbiamo vissuto, ma anche del suo ricordo. Si chiama esperienza. E il dolore, la paura e i ricordi, buoni o cattivi che siano, fanno parte di ogni esperienza umana. Facciamo un esempio molto semplice. Un bambino avvicinandosi troppo a un fornello del gas o al fuoco che crepita allegramente in un camino ci mette la sua candida manina, si scotta e prova dolore. È chiaro che da lì in poi si guarderà bene dal ripetere quella brutta esperienza. E questo vale per ogni aspetto del vivere umano. Soprattutto la paura (e quindi il suo ricordo) è una componente essenziale della specie umana ma anche di animali di livello superiore (se un topo, attirato da un formaggio, resta secco in una trappola, i suoi compagni vedendo un appetitoso cacio lo avvicineranno con giudiziosa prudenza).

Se siamo sopravvissuti a tutto è proprio perché la specie umana è una delle più paurose del Creato. Se continueremo sulla linea dei giovani ricercatori di Bologna, tentando di rimuovere i ricordi, la paura e soprattutto la memoria sulla cui importanza fondamentale sono state scritte intere enciclopedie da parte di studiosi un po’ più accreditati (L’arte della memoria, Frances A. Yates, per tutti), finiremo in trappola. Sopravviveranno solo i topi.

Ma siccome gli scienziati, giovani o meno, sono inesausti, adesso abbiamo l’ultimo grido della medicina preventiva o, per meglio dire, del terrorismo diagnostico. La prestigiosa rivista Journal of American Medical Association ci informa che con un particolare test del sangue focalizzato sulla proteina Tau saremo presto in grado di prevedere l’insorgere dell’Alzheimer in una persona con vent’anni d’anticipo. Ma a che ci serve se contemporaneamente non ci sono, né si prevedono, cure per l’Alzheimer? A far vivere da malato un uomo sano con vent’anni d’anticipo.

La prestigiosa rivista Journal of American Medical Association stima anche che entro il 2050 i malati di Alzheimer saliranno dai 30 milioni attuali a 100 milioni. Su questo sarebbe interessante indagare, sulle cause, evidentemente ambientali e sociali, cioè sull’attuale modello di sviluppo (perché nelle Isole Andamane non c’è nessun aumento di Alzheimer, anzi l’Alzheimer non esiste proprio) a cui si deve il formidabile incremento di questa malattia. Ma di ciò gli scienziati non si occupano. Sono già malati di Alzheimer, sia pur in incubazione.

 

OmotransfobiaIl ddl Zan “cura” con la legalità l’odio per il diverso

Gentile redazione, in ogni democrazia le minoranze hanno una tutela speciale, sebbene esistano già norme generali. È un plus giuridico che compensa un minus reale. Il ddl Zan – che punisce l’odio contro le minoranze sessuali – ubbidisce allo stesso principio. E per questo è sbagliato considerarlo pleonastico. Omosessuali e transgender sono percepiti come minaccia alla “razza” solo da chi vede questo tema in termini di “allevamento”, non considerando che l’orientamento sessuale è innato, cioè naturale, e non una malattia (dichiarazione Oms) o una perversione. Su di loro si abbatte l’odio del modello maschio-centrico in cerca di un capro espiatorio, che da sempre si sfoga sulle minoranze. E sta allo Stato laico il compito di promuovere dignità, ovunque ci sia da bonificare un pregiudizio.

Massimo Marnetto

 

Gentile Marnetto, la chiusa della sua lettera cita una frase attribuita ad Albert Einstein: “È più facile spezzare un atomo che un pregiudizio”, affermazione tristemente esatta. Lei sottolinea il fatto che il ddl Zan, oltre che uno strumento giuridico, è uno strumento socio-culturale deputato a cambiare il giogo di quel modello di vecchio mondo, che lei definisce “maschio-centrico”. Normare è fondamentale in una società civile, in quanto illumina con il faro della legalità la vita dei cittadini, provando a diminuire il più possibile gli spazi d’ombra. Ecco di cosa si nutre quello che lei chiama “l’odio in cerca di capro espiatorio”, l’odio per il diverso: proprio di quell’ombra. Ed è per questo che le frange destrorse e sovraniste del nostro governo si dicono contrarie al ddl, perché è in quell’ombra che si trova il fermento della loro propaganda: la divisione contro la coesione. Come infatti spiega il filosofo francese Michel Foucault in “Sorvegliare e punire”, chi appartiene alla prima delle tre tecnologie del potere da lui postulate – “il potere sovranista o della spada” che si irradia dall’alto verso il basso – si nutre del “simbolismo del sangue”, cioè dello scontro. La proposta di Zan, invece, è manifesto del “potere del codice civile”, un potere che si esprime con necessità ed evidenza, senza costrizioni esterne ma dall’interno e, prosegue Foucault, “sortisce un effetto facendo circolare i segni e le idee”. Ecco le fondamenta di cui ha bisogno il nuovo mondo: nuovi segni e idee.

Angelo Molica Franco

Mail box

Salvini: imbiancato sepolcro della cristianità

Trasecolo nel leggere il dileggio con cui trattate l’intervento dell’ex ministro degli Interni Salvini circa il suo rinvio a giudizio. Come si permette Il Fatto di ridicolizzare il più tenace difensore della cristianità e del valore patrio dell’era repubblicana. Non per nulla, ogni leghista italiano espone con orgoglio la “cimice” all’occhiello della giacca, vantandosi di appartenere all’unico partito di fede e ideali nazional-cristiani. Forse a chieder loro chi è rappresentato sulla cimice (così chiamato il distintivo del Pnf, sparito da tutte le giacche italiane all’indomani del 25 luglio 1943), non sanno rispondere. Perché mettere in dubbio la buona fede di Salvini, che ha difeso i confini dalla Open Arms, colma di feroci pirati travestiti da clandestini pronti a violentare e depredare le donne italiche? Aridatece Bossi.

Paride Tulli

 

Il segreto di Stato è anacronistico

In un paese libero e democratico, almeno fino a oggi, come il nostro, che senso ha mantenere il “segreto di Stato” su stragi e altre misteriose e inquietanti vicende accadute negli ultimi decenni? Un plauso al presidente Conte, che ha chiesto al Parlamento di scoperchiare finalmente lo scottante pentolone.

Giacomo Grosso

 

Un museo del fascismo come luogo di riflessione

Caro direttore, il museo del fascismo di cui si parla tanto è frutto di una mia proposta avanzata al Comune di Roma. Lo studio dei fascismi e del nazismo mi hanno insegnato che il mondo attuale ha idee troppo vaghe su ciò che sono stati quei regimi dittatoriali e sul pericolo che quelle idee rappresentano ancora oggi. L’Italia, in particolare, a differenza della Germania, non ha mai affrontato di petto il tema fascismo, abbiamo preferito che fosse il tempo a rimettere a posto le cose e non la cultura e la consapevolezza. Viaggiando per il mondo mi sono anche reso conto di due cose: per comprendere la Storia bisogna vederne i luoghi o in qualche modo viverli, le nuove tecnologie offrono straordinarie possibilità di potersi immergere in quei fatti, in quei luoghi passati che di solito si leggono sui libri. Per questo è importante andare ad Auschwitz, visitare le Fosse Ardeatine, recarsi a Stalingrado. L’idea di avere un museo del fascismo è frutto di questo ragionamento. Lo scopo è quello di creare un luogo fisso di riflessione nazionale, un luogo di studio, di dibattito e di analisi permanenti. Non sarebbe stato un classico luogo di esibizione di reliquie ma una realtà dinamica, vivente, nella quale il visitatore si sarebbe potuto immergere per qualche ora. Perché senza la conoscenza, la libertà non può definirsi tale.

Franco Fracassi

 

Ricordiamo le vittime della strage dell’Italicus

Quarantasei anni fa una bomba piazzata sotto a una carrozza del treno Italicus, poneva fine alla vita di 12 persone. Questa strage è stata sempre poco ricordata tanto da meritare la nomea di strage dimenticata. Anche questi morti come gli altri più conosciuti non hanno avuto giustizia. L’italia è il paese delle commemorazioni ma non della giustizia. Ma io non dimentico, come non dimentico Raffaella, i suoi capelli ricci neri, gli occhi blu, la vivacità e la gioia per una laurea appena conseguita con 110 e lode con pubblicazione della tesi. Invece la sua vita è stata spezzata 17 giorni dopo a 22 anni. Di lei hanno ritrovato solo il braccialetto e la cerniera dei pantaloni. Nel 2019 il Tg1 e il Tg2 con mia grande sorpresa ricordarono nel telegiornale questa strage dopo anni di silenzio. Addirittura il Cai di Bologna nel 2019, al quale va il mio più sentito ringraziamento, organizzò una commemorazione sul posto. Quest’anno non so se ci sono stati momenti di ricordo. Quindi faccio un appello al ministro di Giustizia Bonafede affinché tenti di far luce su questa orrenda vicenda, facendo cadere i numerosi omissis che i giornali nel tempo hanno riferito esserci. Cambiare significa anche questo.

Anna Maria Ciampolini

 

Brunetta è “un copione”, Corrias l’ha dimenticato

Nello straordinario ritratto di Brunetta, Pino Corrias s’è dimenticato di ricordare che lo stesso Brunetta, docente di Economia, nel 1987 ha pubblicato, assieme ad Alessandra Venturini Microeconomia del lavoro – Teorie e analisi empiriche. E che, in tale pubblicazione, interi brani erano letteralmente tradotti o parafrasati, e numerosi grafici ricopiati pari pari, da un più noto testo americano del 1980 (Labor Economics, prima edizione del 1970, edito da Prentice-Hall, Inc.) dei professori Belton M. Fleisher e Thomas J. Kniesner.

Mario Ferraese

 

I NOSTRI ERRORI

Marina di Bibbona è in provincia di Livorno e non, come ho scritto ieri, di Grosseto. Me ne scuso con i lettori.

m. trav.

 

Ieri a pagina 16, a corredo dell’intervista a Zerocalcare (“La censura su Uan e questa mia testa un po’ impicciata”), abbiamo attribuito le foto all’Ansa anziché alla nostra Giulia Segoni. Ce ne scusiamo con lei e con i lettori.

Fq