“La mia intenzione è di rinunciare ai 200mila euro previsti per l’incarico”. Lo diceva a ottobre 2018 il sindaco di Genova Marco Bucci, all’indomani della nomina a commissario straordinario per la ricostruzione del ponte Morandi. E invece per il primo anno da commissario Bucci ha ricevuto 100mila euro, di cui una metà di compenso fisso e un’altra “strettamente correlata al raggiungimento degli obiettivi e al rispetto dei tempi di realizzazione”. Gli altri 100mila arriveranno a ottobre, alla scadenza del secondo mandato. La spiegazione, arrivata al Fatto dalla sua portavoce, è che “la rinuncia si è rivelata impossibile”. Non risulta, in ogni caso, che il sindaco abbia ceduto in beneficenza o devoluto in altro modo l’emolumento. Di più: per incassare la quota variabile, il commissario ha “autocertificato” con un resoconto al ministero dei Trasporti il raggiungimento degli obiettivi e il rispetto dei tempi, nonostante a novembre 2019 (data del resoconto) i lavori fossero in forte ritardo sulla tabella di marcia esposta pubblicamente dallo stesso Bucci.
La scuola digitale va a regime. Ore obbligatorie se si chiude
Sono diversi i tasselli che pian piano stanno componendo la scuola di settembre, di fatto ridisegnandola e dotandola di nuovi vincoli. Non sarà più solo in presenza, non avrà entrate alla stessa ora e in caso di un alunno malato si vivranno momenti di attesa e cambiamenti.
Didattica a distanza
Si parte da qui: ieri il ministero dell’Istruzione ha pubblicato le linee guida per questa attività che ha tanto animato i dibattiti dei mesi scorsi. Alle superiori sarà oda subito “in modalità complementare alla didattica in presenza” mentre tutte le altre scuole dovranno essere pronte “qualora emergessero necessità di contenimento del contagio, nonché a causa delle condizioni epidemiologiche contingenti”. Insomma, se non si riusciranno a trovare spazi adatti al rispetto del distanziamento o se si dovessero interrompere le lezioni, la cosiddetta DAD dovrà essere l’alternativa. Ogni scuola dovrà redigere un piano specifico che verrà comunicato alle famiglie e agli studenti. Poi si dovrà attivare una rilevazione del fabbisogno di tablet, pc e connessioni sia tra le famiglie che per i supplenti che non hanno accesso alla carta docente. In tempi normali, le lezioni complementari a quelle in presenza dovranno essere svolte nello stesso orario di quelle della classe mentre in caso di nuove chiusure arriva un orario minimo garantito: “Almeno dieci ore settimanali per le classi prime della primaria, almeno 15 per le scuole del primo ciclo (primarie, tranne le classi prime, e secondarie di primo grado), almeno 20 per il secondo grado”.
Trasporti
Inizia a farsi sentire anche il problema dei trasporti. Ieri la Conferenza dei governatori ha approvato un documento in cui si prospetta la necessità, con la riapertura delle scuole, di aumentare le linee di almeno il 30 per cento. È una stima delle Regioni, che lunedì dovranno confrontarsi con il ministro degli Affari Regionali Francesco Boccia, quello dei Trasporti Paola De Micheli e della Salute Roberto Speranza. La loro stima, ha spiegato Fulvio Bonavitacola (coordinatore della Commissione Trasporti nella Conferenza) è basata sul fatto che la capienza dei mezzi è al 50 per cento e richiederà un aumento di personale. “Con un aumento di linee serviranno più conducenti e, al di là dell’aumento di straordinari e delle assunzioni, un’ipotesi potrebbe essere l’utilizzo di conducenti che già lavorano nell’ambito di servizi diversi dal Trasporto pubblico locale, penso ad esempio agli autisti di pullman turistici”. Intanto, il Comitato tecnico scientifico e il ministero dei Trasporti stanno studiando un sistema efficace di organizzazione che, per dire, potrebbe essere rappresentato dagli scaglionamenti degli studenti per orari e in base al grado (elementari, medie e superiori).
Presidi sanitari
Si inizia anche a delineare ciò che accadrà nelle scuole in caso di casi positivi al Coronavirus: se i protocolli di sicurezza sono già stati più volte identificati, a mancare per il momento è la gestione del caso emergenziale (su cui in queste ore si esprimerà il Comitato Tecnico Scientifico sulla base di indicazioni che arrivano dall’Istituto Superiore di Sanità e del ministero della Salute). Una prima bozza del documento prevede che, in caso di contagio di un alunno, tutta la classe affronti la quarantena dei canonici 14 giorni. Poi, se l’Asl lo riterrà opportuno, gli alunni saranno sottoposti al tampone, anche gli studenti di classi diverse da quella del positivo. Non è escluso che l’azienda sanitaria locale possa predisporre la chiusura della scuola in presenza di più casi. La gestione sarebbe molto più semplice per le scuole elementari e materne, dove il docente si muove meno di classe in classe. Per le secondarie, invece, se un docente dovesse risultare positivo potrebbero essere analizzati tutti i contatti con gli studenti e gli altri docenti nelle 48 ore precedenti al test.
Resta il dubbio su cosa accada qualora un professore abbia avuto contatti a rischio: lezioni a distanza con gli studenti in aula? E se la scuola non fosse dotata di strumentazione adeguata? Sono dettagli non di poco conto su cui bisognerà decidere. Di sicuro, il punto di riferimento territoriale delle scuole sarà il dipartimento di prevenzione della Asl, che assegnerà un suo medico a ogni istituto e ogni scuola dovrà avere un suo referente Covid.
C’è chi va al mare e chi studia la peste: le vacanze da vip dei virologi italiani
Ospitate in tv, studi scientifici sventolati a favore di telecamera e una guerra tra ottimisti e catastrofisti cronici. Il virologo, in tempi di pandemia, è assurto a più di una star. Ormai è una categoria dello spirito. Ma con l’allentamento del virus anche le luci dei riflettori si sono spente. Così gli scienziati possono appendere il camice al chiodo e godersi le meritate ferie. Spiaggia, montagna o lago? Vediamo dove vanno in vacanza. Con un’unica certezza: evitare gli affollamenti e portare sempre la mascherina.
Massimo Galli
Lago Maggiore
“Se le dico cosa faccio in ferie mi prende per matto…”. No, macché, prego professor Galli: “Le passerò lavorando su un mio studio sui morti a Milano nel 1629, l’anno prima della peste: un database con nome, cognome e malattia. Ne vado orgoglioso”. Ma allora è un’ossessione: “E pensi che l’avevo fatto prima del Covid…”. Massimo Galli, direttore di Malattie Infettive al Sacco, si rallegra al pensiero di passare così le sue vacanze sul lago Maggiore, precisamente a Cannero Riviera. Ma sempre lontano dalle folle, precisa: “Faccio lunghe passeggiate, leggo e studio: non andavo a ballare da giovane, figuriamoci adesso…”, ride sornione. La scelta della location non è casuale perché l’occhio cade sempre sull’emergenza: “Sono a un’ora da Milano, in ogni momento posso tornare”.
Roberto Burioni
Pesaro
Per qualche giorno, Roberto Burioni abbandonerà le folle twittarole per dedicarsi alla sua passione: la musica. Sì, perché il fondatore di Medical Facts non si occupa solo di vaccini e ricerche immunologiche. Il suo vero obiettivo è un altro: riprendere a suonare il pianoforte. “Da giovane facevo jazz, ora non so se sono capace”, dice modesto. Tutto questo nella sua casa sulle colline poco fuori Pesaro, terra dov’è nato: “Mi godrò il festival dedicato a Rossini”. Con la mascherina, ovviamente.
Pier Luigi Lopalco
Lecce
Niente ferie per Pier Luigi Lopalco, a capo della task force della Regione Puglia contro il Covid: “Il virus non va in vacanza e quindi nemmeno noi – dice mesto – ma non mi pesa, io mi diverto a lavorare”. Se lo dice lei. “Ci sono scadenze da rispettare: bollettini, relazioni e poi…”. Lo dica: “A fine agosto farò la campagna elettorale per le Regionali in Puglia”. Alla fine della telefonata però spunta una location dove andrà a rilassarsi: la sua casa a Lecce.
Maria Rita Gismondo
Porto Cervo
Chi invece è già in vacanza è la Professoressa Gismondo, virologa del Sacco. Lei ha scelto la meta più “in” – ha un mini appartamento nella piazzetta centrale di Porto Cervo – ma guai ad accostarla alla mondanità della Gallura: “Sono schiva, mi vanto di non essere mai stata al Billionaire – dice – faccio una vacanza semplice: mi sono portata solo due magliette e un paio di jeans e cucino da sola la pasta alla norma e la parmigiana. Niente vita mondana. Ma le racconto una cosa…”. Prego: “Quando mi sono imbarcata a Genova, sul traghetto mi hanno riconosciuta e mi hanno dato un imbarco prioritario: che imbarazzo… io non lo volevo, non è nel mio carattere”. Ci crediamo. E il tampone l’ha fatto o è un’untrice lombarda? “L’ho fatto e la mascherina me la porto sempre dietro. Siamo personaggi pubblici, dobbiamo dare il buon esempio”.
Francesco la Foche
Sabaudia
Il Professor La Foche freme per l’abbronzatura ferragostana: “Sono bianchissimo – dice amareggiato – ma tra dieci giorni vado a Sabaudia. È un posto meraviglioso. C’è un ecosistema rarissimo: ci sono uccelli che vengono apposta qui a nidificare”. Va bene, ma a Sabaudia hanno chiuso due stabilimenti per il Covid. Preoccupato? “No, l’importante è stare accorti”. Mi raccomando, la mascherina: “Be’… nei luoghi chiusi sì, ma in spiaggia al massimo mi metto la maschera da sub”. Clic.
Fontana, appalto-bis dei camici del cognato per il Pio Trivulzio
Dopo la centrale acquisiti della Regione, ora spunta anche il Pio Albergo Trivulzio (Pat) come acquirente di camici venduti dal cognato del governatore Attilio Fontana. Il documento dell’affidamento in regime di urgenza a Dama è firmato dal dottor Ugo Ammannati Responsabile dell’Area Alberghiero-Economale e Provveditorato e porta la data del 30 aprile, esattamente due settimane dopo che Andrea Dini titolare della Dama spa firmasse il contratto con la centrale acquisti della Regione (Aria) per la fornitura mancata di 75mila camici e per la quale risultano indagati a vario titolo per turbata libertà del contraente e per frode in pubbliche forniture lo stesso Dini, il presidente Fontana e l’ex dg di Aria, Filippo Bongiovanni.
La vicenda che riguarda il Pat, già travolto dall’inchiesta della Procura di Milano sui decessi nelle sue Rsa e che fa emergere ancora un’altra commessa da parte di Dini, al momento è staccata dall’inchiesta penale. Di certo anche qui si evidenzia un possibile conflitto d’interessi visto che le nomine dei vertici del Pat sono condivise tra Comune e Regione. Il Fatto ieri ha chiesto spiegazioni al Pio Albergo non ancora arrivate complici il venerdì e le ferie. Si legge nel documento inviato a Dama: “Facendo seguito alla vostra offerta del 30 aprile 2020 si provvede ad affidarvi, in regime di urgenza, la fornitura di 6.600 camici al prezzo unitario di 6 euro”. Per un totale di 48.312 euro. L’affidamento così descritto si è reso necessario per anticipare “l’espletamento” di una procedura negoziata la cui scadenza sarebbe stata il 12 maggio. Troppo in là col tempo, visto che il Pat aveva bisogna di mille camici al giorno. La procedura con scadenza alla metà di maggio nasce con un atto firmato il 27 aprile sempre dal dottor Ammannati. Nel documento si legge della necessità del Pat di reperire fino a 224mila camici. A questa gara si presentano prima 21 operatori. Successivamente se ne presentano altri cinque “che hanno manifestato interesse”. Tra questi c’è anche Dama. Ma se i primi 21 sono stati scelti “sulla base di informazioni riguardanti la qualificazione economica, tecnica e professionale”, la società del cognato di Fontana si presenta “attraverso i contatti con l’Area Alberghiero Economale e Provveditorato”. Il 12 maggio saranno solo quattro gli operatori a fornire le offerte. Tra questi c’è anche Dama che però nel frattempo si è già aggiudicata una fornitura per quasi 50mila euro. Il 3 giugno una seconda determina sempre dello stesso responsabile revoca la procedura avviata il 27 aprile perché “la Protezione civile garantisce il fabbisogno di camici”. La data del 3 giugno lascia qualche dubbio, perché è il periodo in cui i giornalisti di Report intervistano Dini chiedendogli della fornitura dei 75mila camici al centro dell’indagine.
3 ospedali, 48 ore: chiusero Codogno, non Alzano e Lodi
Sono tre gli ospedali diventati, loro malgrado, simbolo dell’emergenza Covid in Lombardia. Tutti hanno storie differenti a dimostrazione di come la Regione, anche attraverso le Aziende socio-sanitarie territoriali (Asst) e le Agenzie per la tutela della salute (Ats), abbiano gestito l’epidemia in modo assai poco coerente. Sulla cartina le bandierine corrispondono così all’Ospedale civico di Codogno, all’Ospedale Maggiore di Lodi e al “Pesenti Fenaroli” di Alzano Lombardo, in provincia di Bergamo.
CODOGNO. Giovedì 20 febbraio, alle nove di sera, l’ospedale di Codogno scopre il paziente 1, Mattia Maestri. Il giorno dopo il Pronto soccorso è blindato. E verrà subito sottoposto a una doppia sanificazione. Resterà chiuso per mesi, fino alla riapertura del 5 giugno scorso. In quelle prime ore di contagio il virus ha già colpito degenti e personale medico. Il paziente 1, prima di diventare tale, aveva fatto accesso in ospedale. Tosse, difficoltà respiratoria. Sintomi che in quei giorni non erano collegati al Covid. Lo saranno da lì a poco. Quando l’anestesista Annalisa Malara, violando i protocolli ministeriali, chiederà al paziente 1 di contatti con persone rientrate dalla Cina. E la moglie incinta risponderà: sì. Scatta così l’allarme. Il paziente viene identificato, ma il virus sta già correndo in queste zone, come si saprà poi, almeno dal 26 gennaio. Cinque giorni dopo la chiusura dell’ospedale, la procura di Lodi apre un fascicolo per epidemia colposa contro ignoti. Obiettivo, per ora rimasto sulla carta, è accertare eventuali responsabilità nella gestione del paziente 1.
LODI. Chiuso il presidio ospedaliero di Codogno e quello di Casalpusterlengo, tutta l’emergenza si riverserà sull’ospedale Maggiore di Lodi. Qui la struttura non sarà mai chiusa, nemmeno temporaneamente per approntare triage separati. Il capoluogo non rientrerà mai nella zona rossa e resterà incredibilmente città aperta fino all’8 marzo. Eppure, per testimonianza diretta di diversi medici, già la sera del 21 febbraio all’ospedale Maggiore sono ricoverati almeno due persone positive al Covid. La Regione però non chiude nemmeno temporaneamente. In pochi giorni al Pronto soccorso si riversano centinaia di persone, molte in condizioni gravissime. Il collasso della struttura arriva nel tempo di qualche ora. Eppure si prosegue. E questo, nonostante gli appelli in Regione di molti medici che chiedono, inascoltati, di chiudere la città di Lodi. Uno dei motivi della mancata chiusura, hanno sempre sostenuto in ambienti della Regione, è che in quel momento l’ospedale Maggiore fosse rimasto l’unico punto di riferimento per tutta l’area del Lodigiano. Alla fine il tasso di mortalità nelle terapie intensive a Lodi schizzerà a un incredibile 54%.
ALZANO. L’impossibilità a chiudere per non sfornire il territorio di un accesso ospedaliero è la spiegazione che viene data anche per l’ospedale di Alzano Lombardo. Su questo però indaga la procura di Bergamo. Assieme alla mancata zona rossa tra Nembro e Alzano. Come per Codogno, anche il Fenaroli in poche ore si trasforma in un perfetto volano per il virus. La sera del 23 febbraio sono già due i casi positivi in ospedale. E già ricoverati, si scoprirà poi, da almeno una settimana. L’ospedale resterà chiuso poche ore quella domenica, salvo poi riprendere le normali attività. Per l’assessore Gallera, con una sanificazione effettuata. Ma smentita invece dal personale medico. In una lettera inviata all’Asst Bergamo Est, che gestisce l’ospedale di Alzano, da Giuseppe Marzulli, direttore medico della struttura, si chiede la chiusura immediata. L’ex direttore generale della Sanità lombarda Luigi Cajazzo però manda l’ordine di “riaprire tutto”. È il caos. Per giorni l’ospedale di Alzano prosegue la sua attività come nulla fosse, senza percorsi separati né tracciamento dei contatti tra i pazienti e i parenti degli stessi. E in pochissimo tempo il virus si allarga, fino alla città di Bergamo.
Zone rosse: il documento che inguaia fontana
La comunicazione del Comitato tecnico scientifico al governo sulla necessità di istituire zone rosse nella Bergamasca arrivò il 3 marzo. Già fuori tempo massimo. In quelle ore, il virus era ormai tracimato. Ma, per fare chiarezza, ancora una volta bisogna riavvolgere il nastro degli eventi. E tornare al 23 febbraio, due giorni dopo la scoperta del “caso Mattia”.
È una giornata gelida anche se piena di sole. È domenica, ma nessuno va in chiesa per la messa. Anche le cerimonie religiose sono state sospese. L’emergenza sanitaria sta per esplodere. Solo 48 ore prima, all’ospedale di Codogno il tampone ha dato il suo verdetto: primo caso Covid in Italia, è un 38enne senza alcun contatto diretto e recente con la Cina. Il 21 febbraio, quando i quotidiani chiudono le edizioni, i casi sono oltre 15. Il Basso lodigiano è ufficialmente il primo focolaio europeo. Qualche centinaia di chilometri di distanza, in Val Seriana, nella Bergamasca, all’ospedale “Pesenti Fenaroli” di Alzano Lombardo sono accertati due casi. In poche ore, anche l’area nord di Bergamo diventa focolaio, il secondo, il più terribile.
Quel 23 febbraio autorità nazionali e regionali sono però concentrate sul Lodigiano. Lunedì 24 scatta ufficialmente la zona rossa attorno a dieci Comuni. I check point chiudono i paesi di Bertonico, Casalpusterlengo, Castelgerundo, Castiglione d’Adda, Codogno, Fombio, Madeo, San Fiorano, Somaglia e Terranova dei Passerini. Ma il virus continua la sua corsa: R0 è a 3.6. La zona rossa va allargata. Da dieci a venti Comuni, sempre nel Lodigiano, come testimonia quanto emerso in una riunione avvenuta quello stesso giorno tra Fontana, il prefetto di Lodi e il capo della Protezione civile. L’allargamento della zona rossa, però, non avverrà mai. La Regione Lombardia spiega di aver avvertito formalmente il governo di questa necessità. Fonti qualificate di Palazzo Chigi, Viminale e Protezione Civile invece smentiscono. Ora però c’è un documento che indirizza la responsabilità verso i vertici della Regione.
Un’ordinanza datata 23 febbraio. È un documento di due pagine dove vengono elencate tutte le restrizioni, a partire dai check point attorno ai dieci comuni del Basso lodigiano. Al termine si legge: “Il Presidente della Regione Lombardia, sentito il Ministro della Salute, può modificare le disposizioni di cui alla presente ordinanza in ragione dell’evoluzione epidemiologica”. Il documento, oltre che dal ministro Speranza, è firmato dallo stesso Fontana. Il governatore leghista, la sera del 23 febbraio quindi, firmò di suo pugno un atto che gli avrebbe permesso fin da subito di allargare la zona rossa di Lodi e di istituire quella in Valseriana. E questo ben prima di scoprire l’esistenza di una legge vecchia di 42 anni (la 833 del 1978) che dà pieni poteri alle regioni “in materia di igiene e sanità pubblica”.
L’ordinanza, anche grazie al Comitato “Noi denunceremo”, è stata recentemente acquisita agli atti della procura di Bergamo che indaga sulla mancata zona rossa di Alzano e Nembro. Il ragionamento dei magistrati è questo: quello che si poteva fare per Lodi valeva anche per la Bergamasca. E al momento si indaga per epidemia colposa a carico di ignoti.
Oggi, a quasi sei mesi da quei fatti, la giornata cruciale resta quella del 23 febbraio, con questo inedito documento. L’ordinanza del 23 è anche alla base di un’interrogazione al ministero della Salute firmata dall’onorevole del M5S Valentina Barzotti, in cui si chiede se il governo fosse “a conoscenza delle ragioni per cui Regione Lombardia dopo l’emanazione dell’ordinanza del 23 febbraio scelse di non estendere la zona rossa a Lodi”. A livello regionale invece, il consigliere Marco Degli Angeli ha invitato l’assessore Gallera a riferire in commissione e ha fatto richiesta di accesso agli atti “per verificare eventuali responsabilità”, lamentando una certa “inerzia del Governatore Fontana e dell’assessore Gallera nel rispondere a mia legittima richiesta”.
Il documento, firmato da Speranza e da Fontana, oltre a essere di fondamentale importanza per i magistrati, è il risultato di una serie di riunioni istituzionali che si tengono quel 23 febbraio. La prima vede partecipare il prefetto di Lodi Marcello Cardona, il governatore Fontana, funzionari del ministero della Salute e il capo della Protezione civile Angelo Borrelli. Qualcuno registra il colloquio, circa 4 minuti. Il Fatto ne dà conto in esclusiva il 17 giugno scorso. Da quell’incontro emerge chiarissima la necessità di allargare la zona rossa del Lodigiano, aggiungendo altri nove comuni, sei del lodigiano e tre della provincia di Cremona. Fontana li elenca: “Santo Stefano Lodigiano, San Rocco al Porto, Corno Giovine, Cornovecchio, Caselle Landi, Pizzighettone, Formigara, Gombito, Brembio”. La parola passa al Prefetto Cardona: “Sto facendo il calcolo, dobbiamo aggiungere altri venti, ci stiamo muovendo sulle 70mila persone. Adesso appena Attilio mi formalizza questi comuni, ma già lo sapevo perché me lo aveva comunicato Giulio (Gallera, ndr), lavoriamo sui nuovi check perché li dobbiamo mettere su carta, l’ho già comunicato anche al ministro dell’Interno che ci sarà un ulteriore allargamento”.
Comunicazione mai messa “su carta” e mai arrivata al governo. Il 17 giugno, dopo che il Fatto ha pubblicato l’audio, l’agenzia Ansa riporta la replica di Gallera: “La lista veniva comunicata immediatamente al Governo. Poco dopo, la risposta del Governo evidenziava l’impossibilità di accogliere la richiesta perché il blocco di un’area così vasta avrebbe comportato l’impiego di un numero troppo elevato di operatori delle Forze dell’ordine”. Ma, per quanto ricostruito da fonti qualificate di Palazzo Chigi, del Viminale e della Protezione civile, mai da Fontana arrivò un richiesta formale per allargare la zona rossa nel Basso Lodigiano.
Chiuso il primo incontro del 23, ve ne sarà uno più politico presente anche il governatore del Veneto Luca Zaia. In serata poi l’ordinanza con cui si riconosce al presidente di Regione Lombardia il potere di modificare, di concerto col ministero della Salute, le disposizioni. Ma la giunta lombarda non si attiverà mai. Né a Lodi né a Bergamo, dove sempre il 23 febbraio prima si tiene una riunione in Prefettura con i dirigenti dell’Ats locale e il sindaco Giorgio Gori, e poi, in serata, oltre 200 sindaci si collegano con i vertici della Regione. Bisognerà attendere l’8 marzo, quando, con uno dei famosi Dpcm, sarà a quel punto chiusa tutta la Lombardia.
Basta panico, una normale attenzione è sufficiente
Che non abbiamai fatto parte del club dei “coristi pro panico” è a tutti noto. Rischiando di attirarmi addosso altre saette – visto che diventa sempre più comune la sensazione che di questo virus non ci libereremo, ma dovremo abituarci a convivere – desidero invitare a qualche riflessione. Innanzitutto precisiamo alcuni dati che sono stati oggetto di scontro, ma ora sembrano finalmente chiari (anche se mancano ancora le scuse).
Si tratta di un’infezione con alta contagiosità, ma bassa letalità. Anche ammettendo che tutti i decessi siano stati causati da Covid (e non, come anche l’ISS ha dimostrato, dovuti nel 49% dei casi a gravi patologie preesistenti, di cui Covid-19 è stato una complicazione aggravante), in Italia ne sono stati registrati circa 35.000, una letalità del 2% che, come anche detto dall’infettivologo Bassetti, realisticamente scenderà allo 0.7-1%. Dati più che discutibili hanno riferito che il 2,5% della popolazione italiana abbia avuto contatto con il virus. Percentuale, a mio avviso, in forte difetto per i limiti dell’indagine. Oggi la malattia Covid-19 è praticamente scomparsa. Il direttore generale dell’Oms (sperando che non cambi idea) ha dichiarato che non ci sarà una seconda ondata, ma che siamo davanti a un’unica altalenante fase che non si sa quanto possa durare. In questo scenario, come intendiamo condurre la nostra convivenza con il virus SarsCoV2, che un esimio virologo oggi definisce manipolato in laboratorio (si attendono altre scuse)? Continueremo a fare tamponi e test sierologici di scarsa validità? A isolare i positivi e i loro contatti? Adotteremo ancora il distanziamento sociale, lo smartworking? Non esiste infezione per la quale, senza patologia, si proceda così. Attenzione sempre. Ma panico no.
direttore microbiologia clinica
e virologia del “Sacco”
di Milano
“Ci siamo stufati delle regole, così la mia Romania si è riammalata”
La Romania è uno dei Paesi europei che desta maggiori preoccupazioni per l’aumento dei casi di Covid. Il bollettino del 7 agosto 2020 parla di 59.273 casi e 2.616 morti, dati in costante ascesa che preoccupano anche l’Italia, dove vivono circa 1.300.000 romeni, una comunità che ha già registrato al suo interno quasi 2 mila casi e oltre 30 vittime: “In Romania – racconta l’infettivologo Virgil Musta, primario dell’Ospedale “Victor Babes” di Timisoara – l’epidemia è stata all’inizio tenuta sotto controllo grazie a misure molto severe prese dal governo. Non appena si sono allentate le restrizioni i contagi hanno iniziato a salire”.
Che succede ora in Romania?
La gente non ha capito che deve continuare a rispettare le regole, anche se non piacciono. Il sentimento prevalente – avallato dalla nostra Corte costituzionale che ha stabilito l’illegittimità di alcune restrizioni – è che i diritti individuali siano più importanti di quelli collettivi. Ci siamo stufati della mascherina e del distanziamento sociale, abbiamo preferito credere alle teorie cospirazioniste invece che alla realtà. Il virus ringrazia.
Il sistema sanitario romeno ha retto?
Per ora resiste abbastanza bene, ma è bene ricordare che la lotta contro il virus non si fa in ospedale ma fuori. L’educazione sanitaria e le misure della profilassi sono elementi essenziali. Abbiamo lavorato molto bene nel periodo dell’emergenza, ora potrebbero servire nuove chiusure.
Cosa le impedisce?
Tra poco qui si vota. E purtroppo nessuno se la sente di adottare misure largamente impopolari.
Lei fa parte di quello che in Italia si chiama comitato tecnico scientifico. Il governo vi ha ascoltato in questi mesi?
Non sempre. Abbiamo formulato molte proposte, ma la decisione finale è sempre politica. Abbiamo suggerito, per esempio, di monitorare costantemente la situazione negli ospedali e di acquisire una grande quantità di Remdesivir (un farmaco antivirale, ndr) ma in Europa c’è la corsa all’accaparramento. La Romania fino ad oggi ne ha ricevute solo 600 dosi, quantità che basta appena per un giorno.
Cosa consiglia ai cittadini romeni che rientrano in Italia in questi giorni?
Di essere responsabili, come tutti. Il rischio che i romeni siano “untori” è piuttosto basso, chi arriva in Italia viene sottoposto a controlli, ma un numero basso di casi può sempre sfuggire se il virus si sviluppa a 2-3 giorni dal contagio. La sola cosa da fare è tenere il virus sotto controllo in Romania. Che nessuno dica che siamo gli untori d’Europa.
È ottimista?
Ho un po’ paura, ma ho fiducia che riusciremo a tenere sotto controllo e sconfiggere il Covid-19. Responsabilità e solidarietà, queste sono le parole chiave che quotidianamente ripeto ai miei concittadini.
Il virus sale ancora: +552 Record Lombardo-Veneto
Per il terzo giorno consecutivo salgono i contagi da coronavirus in Italia: nelle ultime 24 ore sono stati 552 rispetto ai 402 di ieri, per un totale di 249.756 casi. Superano invece i 19 milioni i casi segnalati in tutto il mondo, di cui un milione in quattro giorni: più del 25% sono negli Stati Uniti e in Brasile, i due Paesi più colpiti a livello mondiale. Nessuna Regione italiana ad oggi è immune, in particolare il Veneto che tocca quota 183 e la Lombardia con 69 nuovi contagiati.
Diverse le risposte dei vari governatori regionali, in bilico tra l’istinto protezionistico e la preoccupazione per il comparto turistico. Il Piemonte sta varando regole più rigide per chi arriva dall’estero mentre in Puglia il presidente Michele Emiliano ha chiesto che vengano intensificati i controlli anti-movida e sulle spiagge libere. A preoccupare adesso sono i giovani: come conferma l’Oms nella fascia di età tra i 5 e i 24 anni i contagi sono aumentati di sei volte.
Emblematico il caso di una diciottenne padovana: partita in vacanza premio post maturità per l’isola croata di Pag, dopo alcuni giorni di feste in discoteca è risultata positiva al coronavirus. Così per tutti i componenti della comitiva (composta da 13 padovani) è scattato l’isolamento.
Il nuovo trend preoccupa anche il ministro della Salute, Roberto Speranza, che in un’intervista a La Stampa ha dichiarato: “Voglio lanciare un appello ai giovani. In questi giorni ne stiamo vedendo di tutti i colori: discoteche, apericene, locali notturni affollati, assembramenti di ogni tipo. State attenti, perché voi siete il veicolo principale del contagio in questo momento”. Appello ripreso anche dal ministro degli esteri Luigi Di Maio: “Sono morte circa 35 mila persone e le immagini di Bergamo, le bare trasportate dall’esercito, i segni del lavoro sul volto dei nostri medici e infermieri che non si sono mai fermati non possono restare solo un ricordo, ma devono essere un esempio. Libertà non significa far ammalare gli altri”. Per i governatori leghisti il pericolo viene invece dagli stranieri. “Il Friuli-Venezia Giulia non può permettersi altri ingressi clandestini. Chiediamo al governo di intervenire subito, perché ci si sta concentrando sugli sbarchi, quando invece la vera emergenza è a Nordest” ha sottolineato Massimiliano Fedriga. Stessa linea di Luca Zaia, presidente del Veneto: “È chiaro che il virus entra da fuori o qualcuno ce lo porta dentro in Veneto. Se non ci fossero stati questi casi non avremo quel numero di positivi”. Il riferimento è ai 200 migranti positivi alloggiati dentro l’ex caserma Serena. “Da lì – ribadisce Zaia – non devono uscire”. Obbligatoria, quindi, la quarantena, anche se la disposizione ha creato, nelle scorse settimane, malumori tra gli ospiti.
A quanto si apprende, dovrebbero scadere il 7 settembre le misure del nuovo Dpcm per contrastare la diffusione del contagio da Coronavirus. Il premier Giuseppe Conte sarebbe orientato a confermare molte delle misure adottate finora, a partire da quelle sul distanziamento sociale. Dal 24 agosto partirà, allo Spallanzani di Roma, la sperimentazione del vaccino “made in Italy”: si cercano 90 volontari, dopo i test (superati) preclinici in vitro e sugli animali.
A luglio i contagi al lavoro salgono anche nei settori ritenuti “sicuri”
Il Covid-19 continua a circolare nei luoghi di lavoro e a crescere soprattutto – da quando sono ripartiti – nei settori diversi dalla sanità. Al 31 luglio, dice l’Inail nel suo ultimo rapporto, i morti a causa del contagio avvenuto durante il lavoro sono arrivati a 276, mentre il totale delle infezioni ha raggiunto quota 51.363.
In questa massa solo lo 0,7% (circa 360 casi) si riferisce a luglio. Il personale degli ospedali e delle case di cura si conferma di gran lunga il più colpito, ma la percentuale sul totale (ora al 71,6%) sta leggermente indietreggiando e contemporaneamente stanno salendo quelle dei malati impegnati nel commercio e nella logistica.
Insomma, a partire da maggio – quando anche chi aveva chiuso ha ripreso a pieno regime l’attività – i numeri di questi comparti in teoria meno esposti hanno segnato un’avanzata da non sottovalutare.
Con ancora più chiarezza questo trend viene fuori dai dati sui decessi. Quelli avvenuti tra chi è impegnato nel trasporto e magazzinaggio erano il 6,7% ad aprile e oggi sono arrivati al 10,9%. I tanti focolai scoppiati in queste settimane nelle aziende della consegna merci sono da questo punto di vista un campanello d’allarme. Identiche percentuali per il commercio all’ingrosso e al dettaglio: 6,7% ad aprile e 10,9% a luglio. Grossomodo stabile quella della manifattura, al 13,4%. Nella sanità, invece, i decessi sono passati dal 42,2% al 23,4%.
La morte di un sanitario – naturalmente – non è meno grave di quella di un operaio, un commesso o un facchino, ma la crescita dei casi nei mestieri considerati – almeno sulla carta – un po’ meno a rischio pone il dubbio sul preciso rispetto dei protocolli di sicurezza. E non mancano in questi giorni gli scontri tra aziende e sindacati proprio sui temi delle norme anti-Covid. Da giorni, per esempio, i lavoratori della catena Eurospin sono in stato di agitazioni perché i sindacati del settore ritengono che l’azienda non stia applicando proprio i protocolli di sicurezza firmati da Cgil, Cisl e Uil con la Confindustria.