Conte media tra i litigi giallorosa, il provvedimento passa “salvo intese”

Convivono per forza, e non hanno imparato a piacersi. Così i giallorosa lo rifanno. Dopo una serie di rinvii, ieri sera il Consiglio dei ministri approva il decreto Agosto da 25 miliardi, ma con la formula del liberi tutti, “salvo intese”. E l’aggettivo con cui provano a edulcorare tutto, “tecniche”, non cancella l’immagine della fatica della maggioranza. Ma al presidente del Consiglio Giuseppe Conte va bene anche così. “Continuiamo a sostenere cittadini e imprese con uno sforzo che sale a 100 miliardi, e infatti a giugno c’è stata la ripresa dei consumi” rivendica il premier qualche attimo dopo le 22. E un filo di abbronzatura cela la stanchezza. “L’intervento per il Sud è di portata storica, serve per far crescere tutto il Paese” celebra il pugliese Conte.

Per molti è il cuore del dl Agosto, che ormai ha preso forma. Ma serviranno accordi tecnici per chiuderlo definitivamente, nero su bianco. “Però i nodi politici sono stati sciolti” respira un ministro dei Cinque Stelle. Vero. Ma comunque lo si voglia leggere i giallorosa vivono rinviando, fino all’ultimo momento utile. Così dopo il nulla di fatto di giovedì, ieri il Cdm slitta ancora. E dalle 13 precipita alle 19 passate, perché c’è ancora molto da litigare.

Non a caso la bozza del decreto si dilata a 109 articoli. Mentre già in mattinata agenzie e voci dalla maggioranza evocano l’approvazione del decreto salvo intese, l’espediente a norma di legge già adoperato da questa maggioranza. Lo specchio delle distanze rimaste, con i 5Stelle che insistono per il bonus consumi (voluto dal viceministro al Mise Stefano Buffagni ma anche dalla sottosegretaria dem Alessia Morani), mentre i renziani e il ministro competente, il capodelegazione del Pd Dario Franceschini, chiedono altri soldi per il settore del turismo. E ovviamente si discute, forte, di cassa integrazione. Numeri e norme cambiano, come gli umori. Abbastanza per spingere la capodelegazione di Italia Viva, Teresa Bellanova, a lasciare la clinica dove era ricoverata per accertamenti e correre a Palazzo Chigi a difendere il suo bonus Filiera Italia per i ristoranti, 900 milioni a fondo perduto che prima del Cdm vengono tagliati a 400. “Una grande combattente” celebra da fuori Matteo Renzi, che come suo costume punge gli alleati: “Forse non se ne sono accorti, ma nel decreto hanno messo una norma del Jobs act, quella sulla decontribuzione, per cui ci hanno insultato per anni”. Renzi se la ride, ma la viceministra all’Economia, la grillina Laura Castelli più tardi rivendicherà ugualmente “la decontribuzione al 100 per cento per le imprese che fanno rientrare al lavoro i propri dipendenti, per chi assume nuove unità e per gli stagionali del turismo”.

Nel frattempo però è sparito il bonus consumi caro al M5S. Mentre si fanno concreti gli incentivi ai pagamenti cashless, cioè con carta elettronica, molto cari al presidente del Consiglio. “Insistiamo su quello” spiega il premier in giornata ai grillini che lo compulsano. E in conferenza stampa spiega: “Il cashback (la restituzione di parte dei soldi a chi paga con carta elettronica, ndr) parte dal 1° dicembre, con bonus fino a 2mila euro e così combatteremo l’evasione”.

Ma lì fuori c’è ancora il coronavirus. “Stiamo facendo bene, meglio di altri Paesi” tiene a ricordare Conte. Però i contagi mordono, e allora ecco un nuovo Dpcm: “Niente nuove restrizioni, ma con il nuovo testo proroghiamo fino al 7 settembre le misure precauzionali minime, come le mascherine e il distanziamento di un metro”. Dai ministri piovono cifre. Ma nel decreto c’è anche la riforma del Csm. Tema che richiederà altre intese, assolutamente politiche.

Ecco perché vanno vietati i licenziamenti nel 2020

Malgrado la folta corrente di pensiero secondo la quale il blocco dei licenziamenti starebbe fungendo da tappo alle nuove assunzioni di chi è pronto a ripartire, uno studio pubblicato da Anpal e Unioncamere ha contribuito a riportare tutti alla realtà: quel divieto (ora fino al 15 novembre) è persino troppo breve, meglio sarebbe stato prolungarlo fino a fine anno.

Cosa dice, infatti, quello studio? Mostra semplicemente come la stragrande maggioranza delle aziende italiane – l’81,4% per la precisione – sia convinta che non potrà recuperare risultati accettabili entro ottobre e, soprattutto, la fetta più consistente (49,1%) pensa di tornare a vedere un po’ di luce direttamente nel primo semestre del 2021. Insomma, se mai ci fosse bisogno di nuove conferme, è uno scenario che difficilmente lascia presagire un imminente investimento in capitale umano da parte dei nostri imprenditori. Ben più probabile, dunque, che con queste aspettative – rimuovendo il divieto di licenziamento economico imposto a partire dal 17 marzo – si assista quasi esclusivamente a ristrutturazioni lacrime e sangue.

L’indagine di Anpal e Unioncamere ha coinvolto un milione e 380 mila aziende italiane con almeno un dipendente. Non ha indagato le intenzioni su assunzioni e licenziamenti, ma ha sondato il sentimento che prevale tra gli imprenditori. Scoprendo che regna ancora molta sfiducia sulla ripartenza. Il 13,1% ha detto di non aver subito gravi contraccolpi dal lockdown. È noto, infatti, che una parte del nostro tessuto produttivo non ha ridotto il fatturato, sebbene alcuni non abbiano disdegnato la generosa cassa integrazione offerta dal governo. Tutte le altre imprese hanno invece sostenuto di essere ancora in sofferenza.

Quello che più conta, però, è il pronostico a tinte fosche per il prossimo futuro. Solo il 10% ha già recuperato risultati operativi, mentre appena un altro 8,5% è fiducioso nel farlo entro ottobre 2020. Altre 432 mila imprese sperano di riuscirci almeno nell’ultimo bimestre del 2020. Ben 580 mila stanno invece affidando le proprie preghiere a giugno 2021. Il settore più pessimista è il turismo, col 63,1% degli operatori pronti a scommettere – complice il crollo dei viaggi – di non riuscire a rimettersi in sesto prima di un anno. Nel commercio, il 49,8% pensa di recuperare entro l’inizio della prossima estate. Anche l’industria non fa grandi previsioni: il 33,9% aspetta di tornare a sorridere entro dicembre, il 47,7% entro giugno 2021.

Il dibattito che ha spaccato la politica negli ultimi giorni potrebbe trarre spunto da questi numeri. Chi ha sostenuto la proroga del blocco dei licenziamenti fino a fine anno vuole tenere i lavoratori aggrappati alle proprie aziende per dar loro il tempo di riprendersi ed evitare un’ecatombe occupazionale. Chi invece vorrebbe che il divieto fosse rimosso subito fa leva su una convinzione: le imprese non starebbero assumendo perché temono di non poter mandare a casa i propri addetti se le cose dovessero andare male. Il report dice che le aziende già con buone aspettative sono molto poche. L’impressione è che, se autorizzate a licenziare, banalmente le aziende lo farebbero.

Arriva il dl Agosto: Cig, sussidi, sgravi e il regalo ai balneari

Lavoro, fisco, sanità e qualche condono sono i punti cardine del decreto Agosto, la terza manovra per fronteggiare la crisi da Covid (dopo il Cura Italia e il dl Rilancio), che vale 25 miliardi di euro di maggior deficit: 109 articoli, 18 in più della prima bozza. Il Consiglio dei ministri ha approvato poco prima delle ore 22 il testo “salvo intese”. Certi i 5 miliardi per gli enti locali e il miliardo per la Scuola, non c’è invece il bonus sui consumi. Ecco una sintesi incompleta delle misure.

Lavoro. Il pacchetto vale 12 miliardi. Il blocco dei licenziamenti scadrà il 15 novembre. La logica è legare il blocco alla possibilità di usare la Cassa integrazione “Covid-19”, prorogata di altre 18 settimane dal 13 luglio (fino a metà novembre quindi) e agli sgravi di 6 mesi per chi riporta gente al lavoro. Le aziende dovranno dimostrare lo stato di crisi e la perdita di fatturato. Poi, in base a questi dati, la Cig verrà rimodulata per evitare che tutte le imprese esauriscano insieme l’aiuto statale. Con accordi sindacali, il lavoratore potrà decidere di licenziarsi e, in questo caso, richiedere la Naspi. Rimossi fino a fine anno i vincoli ai contratti a termine del decreto Dignità. Ci sono poi 1.000 euro una tantum per gli stagionali del settore turismo, degli stabilimenti termali e per i lavoratori dello spettacolo.

Fisco. Tasse, contributi e ritenute sospesi nei mesi del lockdown possono essere pagati per il 50% del dovuto in un’unica soluzione entro il 16 settembre o rateizzati in 4 rate. Il resto va saldato in massimo 24 rate a partire dal 16 gennaio 2021. Mentre per le partite Iva che hanno registrato perdite di almeno il 33% nel primo semestre di quest’anno, gli acconti delle tasse previsti a novembre slitteranno ad aprile. C’è anche lo stop della riscossione delle cartelle fino al 15 ottobre e quello della seconda rata per Imu, alberghi, cinema, fiere, discoteche e night-club.

Imprese del Sud. In arrivo un’agevolazione del 30% dei contributi previdenziali per tutte le aziende del Mezzogiorno valida dal 1° ottobre al 31 dicembre 2020. Negli anni successivi, la decontribuzione sarà del 30% fino al 2025, del 20% fino al 2027, del 10% fino al 2029. La misura vale 1,13 miliardi.

Reddito di emergenza. C’è la terza tranche di aiuti per le famiglie più in difficoltà. Previsto un assegno da 400 a 800 euro a seconda del nucleo da richiedere entro il 15 ottobre.

Trasporti. Arriva a 20 milioni il capitale iniziale della Newco Alitalia, mentre salta il vincolo che avrebbe messo in liquidazione la società in caso di una bocciatura del piano industriale da parte di Bruxelles. Sbloccata anche la cassa integrazione per i lavoratori di Air Italy, la compagnia sardo-qatariota in liquidazione da febbraio. Alla filiera dell’automotive andranno 490 milioni di euro.

Stabilimenti. Uscita dal dl Rilancio, ritorna la norma che proroga le concessioni per 15 anni anche ai gestori delle attività in prossimità di laghi o fiumi, equiparandoli ai balneari. La Ragioneria generale aveva già espresso una “fortissima perplessità” sul rinnovo fino al 2033 delle concessioni senza gara. Passa anche il condono per i canoni delle spiagge: i gestori pagheranno solo il 30% del dovuto. Poi dal 2021, il canone minimo per le concessioni passerà a 369 a 2.500 euro.

Casalinghe. Arriva un Fondo da 3 milioni l’anno a partire dal 2020 per la formazione e l’inclusione sociale.

Welfare aziende. Raddoppia a 516,46 euro la quota esentasse per beni e servizi concessi ai dipendenti che non concorrono alla formazione del reddito.

Ristoranti. La ristorazione potrà contare su un fondo da 400 milioni. Vi accedono solo le aziende che registrano cali di fatturato e che acquistano prodotti da filiere al 100% made in Italy. È, invece, saltato il bonus ristoranti che prevedeva il rimborso del 20% del conto al cliente che pagava con carte e bancomat. Per incentivare i consumi ci sarà dal 1° dicembre 2020 il piano cashback per premiare chi paga con carta di credito. Mentre per aiutare i commercianti dei centri storici arriva il contributo a fondo perduto per 29 città d’arte.

Medici e non solo. Triplicati i fondi (a 236,6 milioni) del bonus baby sitter e colf per gli operatori sanitari che richiedono il primo aiuto grazie al travaso di risorse non utilizzate per il secondo. Stanziato oltre mezzo miliardo per gli straordinari del personale medico per smaltire le liste d’attesa.

Il Comitato tecnico-cazzaro

Non capivo perché il governo avesse secretato i verbali del Comitato Tecnico Scientifico sul Covid. Chi non ha nulla da nascondere non ha motivo di imporre il top secret. Poi ho letto i giornali sui primi cinque verbali (più gli stralci di un sesto) desecretati, che confermano solo fatti stranoti ma vengono spacciati per inediti clamorosi e scandalosi, e ho capito: essendo gran parte dell’“informazione” una comunità di recupero per ignoranti, disinformati, venduti, voltagabbana e smemorati, si voleva risparmiare la pubblica gogna a chi in quei mesi tragici si assunse l’onere e la responsabilità di decidere al buio, senza precedenti nella storia. Qui non si tratta di reati, scorrettezze, abusi di potere, scandali, che mai devono essere coperti dal segreto. Ma di scelte politiche adottate e annunciate alla luce del sole su consiglio di un comitato consultivo di scienziati: i tecnici discutevano e poi suggerivano (spesso in disaccordo fra loro e con altri colleghi), il governo discrezionalmente decideva (seguendo i consigli ora in tutto, ora in parte, ora per nulla). Naturalmente nessuno ha la verità in tasca, specie quando deve adottare misure precauzionali su eventi imprevedibili e in divenire: dunque i consigli tecnici e le decisioni politiche possono essere criticati. Purché si indichino le alternative e ci si cali nel contesto in cui i fatti avvenivano, ricordando ciò che si diceva allora. Invece avviene l’opposto.

I giornali e molti politici si concentrano sul verbale del 7 marzo, in cui il Cts chiede “due livelli di misure di contenimento: uno nei territori in cui è maggiore la diffusione del virus (zone gialle nelle aree più colpite del Nord-Ovest-Centro, ndr), l’altro sull’intero territorio nazionale”. E tutti a dire: perché invece il governo chiuse tutta l’Italia? Non conoscono nemmeno la cronologia degli eventi. La stessa notte del 7 Conte firma il Dpcm per la zona rossa in Lombardia e altre 14 province. Ma ormai il contagio dilaga e si teme il peggio al Sud dopo la fuga di massa seguita alle anticipazioni e all’annuncio del Dpcm. E due giorni dopo, il 9, si passa al lockdown di tutta Italia. Ergo, fermo restando che a decidere è il governo, mentre il Cts consiglia, Conte seguì le indicazioni del Cts, ma con più severità: non zone gialle, ma rosse nelle zone più colpite; poi tutta l’Italia arancione, anche per fermare la fuga dalle aree più ristrette a quelle più libere, con esportazione del virus e guai di ordine pubblico. Il Messaggero non era mai contento: a marzo chiedeva chiusure sempre più severe, chiavistelli e lucchetti, dipingeva il lockdown come un “Blocco a metà” e un “compromesso al ribasso che lascia esposto il Paese” (firmato Carlo Nordio).

Ora invece intima al governo di “spiegare in Parlamento le chiusure” e i “danni al Paese” che – secondo i calcoli del suo pappagallo al pallottoliere – ammontano a “100 miliardi” al Centro-Sud (firmato Carlo Nordio). Prima attaccava Conte perché chiudeva troppo poco, ora perché ha chiuso troppo. Il Corriere.it spaccia per novità sconvolgente ciò che disse Conte ai pm di Bergamo: la richiesta del Cts sulle zone rosse ad Alzano e Nembro datata 3 marzo gli giunse il giorno 5. Embè? La cosa non ebbe alcun effetto sulle sue scelte: il premier chiese un approfondimento, che gli arrivò già in serata, quando ormai si preparava a cinturare l’intera Lombardia. Tutti fatti raccontati in varie interviste (la prima al Fatto), ora gabellate da scoop per raccattare qualche clic. Il meglio però lo dà la Lega, che si oppose alla zona rossa in val Seriana. Ancora il 28.2 Salvini strillava: “Aprire, aprire, aprire! Si torni a produrre, a comprare, al sorriso!”. Poi il 9 marzo, avvertito dell’imminente lockdown, s’allineò a Conte fingendo di anticiparlo: “Zona rossa in tutt’Italia, chiudere tutto”. Ora sentite il vice-cazzaro Garavaglia: “Il lockdown voluto dal governo era illegittimo, non c’erano i presupposti per chiudere l’Italia” (come chiedeva pure Salvini).

La stampa cazzara va a rimorchio, con effetti irresistibili. Il Giornale era contro le chiusure, parziali e totali: “Isolato Conte. Il Nord riparte. Riaprono musei e duomo”, “Bisogna velocemente tornare alla piena normalità, unica ricetta per sconfiggere paure irrazionali e falsi allarmismi” (Sallusti, 28.2); “Fate presto. L’ira degli imprenditori”, “Pensare di salvare lo Stato e lasciar morire l’economia è pura utopia. Semmai è vero l’inverso. Salviamo a ogni costo commercio e impresa e lo Stato si salverà” (Sallusti, 2.3); “Sanno solo chiudere” (5.3). Ora farfuglia di “Virus, bugie e silenzi” e mena scandalo per la mancata zona rossa ad Alzano, che il Giornale non voleva. Poi c’è Libero, che è l’inserto umoristico del Giornale. Allora titolava: “Virus, ora si esagera. Diamoci tutti una calmata. I pochi deceduti erano soggetti debilitati, gli altri contagiati guariscono in fretta. Non ha senso penalizzare ogni attività” (27.2); “La normalità è vicina”, “Il virus ci ha stufati: si torni a vivere”, “È un pirla di virus qualsiasi” (Farina, 28.2). “Reclusione continua. Il virus è una condanna”, “Ma quale crisi? Facciamo finta che sia Ferragosto” (Feltri, 1.3). “Lasciateci lavorare. Dopo i veneti, i lombardi scendono in piazza per essere liberati da alcune restrizioni. Confindustria e sindacati chiedono a Conte di riprendere l’attività” (2.3). Oggi titola: “Sul Covid il governo non ci ha capito nulla”. Il governo. Come no.

“Rubo da tutti: Phoenix marziano e Fellini maestro. Con le donne”

Da Baarìa a Fellini, con un’indicazione geografica tipica: la Sicilia. Francesco Scianna domani porterà sul palco delle Orestiadi di Gibellina un omaggio al maestro riminese, Lì dove nascono i sogni… Le donne, il circo, la musica. “Cercherò di non imitare Marcello Mastroianni ma di avvicinarmi esistenzialmente a Federico. La sua guida nella vita fu Ingmar Bergman, io ho avuto lui”.

Scianna, come l’ha influenzata Fellini?

Le donne. Ho imparato a conoscerle attraverso il suo sguardo, ne ho intuito il mistero e la complessità, ho scoperto il mio lato femminile: Fellini è stato la mia educazione sentimentale.

Regia del direttore artistico di Orestiadi Alfio Scuderi, musiche di Roy Paci e Angelo Siculella, lo spettacolo è in un luogo non neutro: il Cretto di Alberto Burri.

Trasuda sofferenza, sprizza carne e sangue, ma la sobrietà e la delicatezza di Fellini consentono un dialogo con la natura.

Celebriamo il centenario della nascita, ma l’attualità di Fellini qual è?

Senza essere classico, affronta come solo i grandissimi quel che è dentro l’uomo. Oggi è fondamentale nella capacità di accettare pienamente l’altro, riuscire ad amarlo nelle differenze, senza violenza.

Il successo è arrivato nel 2009 con Baarìa di Tornatore. Eredità?

Una lezione di resistenza: mi sono serviti sedici provini per incarnare Peppino Torrenuova, dai venticinque ai settant’anni. Tornatore è un grandissimo, sul set un bambino alle prese con il gioco più eccitante, attento a ogni singolo dettaglio. Ottimo attore anche, quando non ci arrivavo mi mostrava quel che voleva. Come un padre.

Modelli ne ha?

Rubo molto, colgo segreti, ma non copio: patirei l’emulazione. Però ho avuto la fortuna di conoscere due attori straordinari: Philip Seymour Hoffman e Joaquin Phoenix. Il primo a Londra, alla festa per un suo spettacolo, passai la serata a fissarlo, me ne chiese ragione, lo supplicai: “Voglio lavorare con te!”.

Joaquin Phoenix?

Ho fatto con lui Mary Magadalene, è un attore molto particolare: la sua animalità è più forte della tecnica, che pure ha. Sul set ho faticato, perché volevo uscire dalla scena per ammirarlo: forza, energia, professionalità e precisione. Un altro pianeta, lasciamo perdere!

Per Liz diventavo “Faccia di gomma” e le portavo i prosciutti

Liz Taylor per anni è stata la numero uno, era un assoluto: quando chiamavo il proprietario di National Enquirer per segnalargli la sua presenza, la risposta era sempre la stessa: “Umberto vai, con la Taylor il budget è illimitato”.

E io partivo.

Londra, Parigi, Stati Uniti per me era uguale: gli scatti con lei protagonista, in particolare in coppia con Richard Burton, giravano ovunque, anche su dieci testate contemporaneamente.

Non sempre era felice di vedermi, mi aveva soprannominato Rubber face, “Faccia di gomma”, perché secondo lei mi trasformavo da persona cortese e amabile a spietato cacciatore di immagini. Un killer. Non aveva tutti i torti. Ma lei era una fonte inesauribile, una diva secondo tutti gli stereotipi possibili. Bella, capricciosa, volubile, controversa. Quando arrivava a Roma, affittava l’intero piano del Grand Hotel: dentro quelle stanze accadeva l’impossibile, da festini, a urla equivoche, tanto da diventare un mito per i portieri di notte, che mi raccontavano le sue bravate, anche sessuali.

Però il nostro rapporto era particolare. Una sera la vedo dentro un ristorante, mi apposto, e all’improvviso pianta una grana perché non trovava più il suo orecchino di brillanti. Lo cerco e lo trovo: come premio la stessa Taylor mi ha invitato a ballare un lento al centro della sala.

Sempre a Roma, era molto amica di Lino Cavicchia, storico ristoratore; un giorno Lino mi chiama: “Vai a Montecarlo da Liz?”. “Sì”. “Le puoi portare una cosa?”.

Era un prosciutto intero, la fissazione della Taylor: tutto il viaggio con la mia Fiat 500 invasa dal profumo di quei dieci chili di prelibatezza.

Arrivo all’Hotel de Paris, entro con in braccio il dono, e il personale mi guarda con un misto di disprezzo e sconcerto. “È per la signora Taylor”. La chiamano in stanza, capiscono che non sono un mitomane, mutano atteggiamento, io lascio il regalo sul bancone e con il sorriso me ne vado.

Cintura nera d’editoria: Johnson, il re delle riviste afro

“Quando mi trovo davanti un muro, urlo e lo maledico. Poi prendo una scala e ci passo sopra”. Così John H. Johnson ha riassunto il suo atteggiamento verso la vita. Nipote di schiavi, cresciuto in Arkansas, l’editore e imprenditore è stato il primo afroamericano a entrare nella classifica di Forbes. Non è solo una questione di soldi. Con le sue riviste, Johnson ha dato agli afroamericani un volto e una voce, in anni in cui i neri erano praticamente invisibili per la cultura dominante.

A quindici anni dalla morte, avvenuta l’8 agosto 2005 (era nato nel gennaio 1918), la Fondazione Giangiacomo Feltrinelli dedica a Johnson una data del suo “calendario civile”. L’occasione è la presenza nel patrimonio della Fondazione dell’archivio donato da Bruno Cartosio: 66 “buste” che testimoniano decenni di lavoro di uno dei grandi americanisti italiani. Nel “fondo Cartosio” ci sono documenti, interviste, copie delle riviste di Johnson – in particolare la più celebre, Ebony – che diventano l’occasione per un ricordo e una riflessione su movimenti e battaglie antirazziste di oggi.

“Johnson ha offerto alla classe media afroamericana un modello”, racconta Cartosio. Non era scontato, per un uomo segnato da un’infanzia poverissima ma che, parole ancora di Cartosio, “ha mostrato un’ansia incredibile di crescita e conoscenza”. Il padre era morto in un’incidente sul lavoro. Ad Arkansas City, centro di poche migliaia di anime perso tra i campi di cotone, non esisteva una scuola superiore per neri e il giovane John, pur di non mollare gli studi, frequentò per due volte l’ultimo anno di scuola media. Intanto lavorava. “Ho imparato a lavorare prima di imparare a giocare”, ha detto una volta.

È la madre di Johnson a immaginare un futuro diverso. Per due anni fa la cuoca; mette via qualche soldo e con il figlio parte per Chicago, a quel tempo mecca per i neri in fuga da povertà e pregiudizio del Sud. A Chicago, il ragazzo trova una high school da frequentare. Ma è il 1933. La Grande Depressione colpisce duro e Johnson e la madre vivono per due anni a carico dell’assistenza pubblica. “Sapevamo che non sarebbe stato per sempre. Abbiamo sempre lavorato per avere una vita migliore”, scriverà poi nella sua autobiografia, intitolata proprio Succeding Against the Odds.

A Chicago, John scopre qualcosa che non conosceva: la classe media nera. Tra i suoi compagni di scuola ci sono due futuri grandi artisti: Nat King Cole e Redd Foxx. I voti di John sono eccellenti ma, ancora una volta, mancano i soldi per entrare all’università. È l’incontro con Harry Pace, presidente di una grande compagnia di assicurazioni, a cambiare il corso delle cose. Impressionato dalle doti del ragazzo, Pace gli offre un lavoro part-time per pagarsi la retta universitaria. Tra le sue mansioni, preparare una newsletter che raccogliesse articoli e news sui neri d’America. È lì che scatta l’idea. Dare alla classe media nera uno strumento di informazione e di identità. Offerti come garanzia i mobili della madre, Johnson raccoglie 500 dollari, fonda la Johnson Publishing e pubblica Negro Digest. “Il modello era il Reader’s Digest – racconta ancora Cartosio –, una rivista di taglio popolare, che condensasse libri e articoli per una comunità di lettori che cercava cultura”. Il primo numero esce nel novembre 1942. Johnson manda i suoi dipendenti a comprare la rivista nel South Side di Chicago; vuole mostrare agli edicolanti che i lettori non mancano. Di lì a poco, Negro Digest vende 50mila copie.

L’avventura successiva è quella di Ebony. Modellato sul fotogiornalismo di Life, Ebony voleva, a detta del suo editore, “mostrare non soltanto ai neri ma anche ai bianchi che i neri si sposano, fanno gli imprenditori e le cose normali della vita”. Tra copertine di Diana Ross e pubblicità di creme per i neri, Ebony si apre ai temi della segregazione razziale e dei diritti civili, grazie anche a uno staff di storici che racconta il contributo dei neri all’America. Un’altra creazione di Johnson, Jet, parte nel 1951, con l’intenzione di offrire un’informazione più veloce e legata alla cronaca. Nel settembre 1955 Jet pubblica le foto della bara aperta di Emmet Till, il ragazzo nero linciato, mutilato, ammazzato dai bianchi in Mississippi. “Uno dei grandi momenti del giornalismo dell’ultimo mezzo secolo”, dirà un deputato del Michigan.

“Johnson è stato un realista. Si è mosso sull’esistente, sapendo che le cose cambiano”, spiega ancora Cartosio. Accompagnando il movimento dei diritti civili, puntando sul connubio di informazione e consumo – tra l’altro, metterà in piedi società di creme e abbigliamento –, Johnson ha avuto l’ambizione di dare ai neri la loro fetta di “sogno americano”. Al suo funerale, c’erano Bill Clinton, Jessie Jackson e Barack Obama: l’America democratica, quella del movimento dei diritti civili, quella di un possibile futuro. Lui, proprio in Ebony, aveva scritto: “Nessun uomo e nessuna donna nera potranno essere liberi, sino a quando tutti gli uomini e le donne nere saranno davvero liberi”.

L’armatore e quel nitrato destinato al Mozambico

Libano, Russia, Ucraina, Cipro, Georgia, Moldavia, Turchia, Mozambico. Sono i Paesi da cerchiare sulla mappa dalle rotte fatali della Rhosus, la nave che non arriverà mai alla sua finale destinazione africana. Battendo bandiera moldava, il cargo partito nel 2013 da Batumi, in Georgia, è pieno del nitrato prodotto dalla Rustavi Azot nel Paese dell’ex blocco sovietico. La nave, che non raggiungerà mai il porto di Beira in Mozambico, conteneva il materiale esplosivo per il cui trasporto era stato pagato un milione di dollari dalla Banca internazionale del Paese africano, per contro della Fabrica Explosivos de Mocambique, un imprenditore russo.

L’ombra dell’armatore slavo che ha fatto finire al largo delle coste del Libano il carico mortale che ha distrutto il cuore di Beirut è quella di Igor Grechyshkin.

Nato nel villaggio di Vanino, Estremo Oriente russo, nel 1977, si trasferisce a Cipro negli anni 90, dove abita con una moglie bionda e un figlio, Artem, 20 anni, che studia informatica in Gran Bretagna. A Limassol fonda la Teto Shipping, di cui dichiarerà bancarotta e fallimento, dopo aver acquistato la Rhosus dall’imprenditore cipriota Charalambos Manolis nel maggio 2012. Costruita in Giappone nel 1986 e registrata alle isole Marshall, la nave inizia il suo ultimo viaggio nel 2013. Rintracciato sul Mar Nero da una radio russa, l’ex capitano della Rhosus, Boris Nikolaevich Prokoshev, 70 anni ed ora a Sochi, ha raccontato di essersi imbarcato in Turchia e di aver scoperto solo una volta salpato che i precedenti equipaggi del vascello sfortunato, già fermato in precedenza al porto di Siviglia, avevano smesso di stare a bordo perché non ricevevano stipendio. Ammutinamenti registrati in grivne, dollari, euro, rubli: il proprietario non pagava in alcuna valuta. E non ha retribuito nemmeno i marinai ucraini sotto il comando di Prokoshev, quando la nave è stata requisita dalle autorità libanesi nel 2013.

Secondo alcune fonti la Rhosus si ferma in Libano solo per un problema tecnico. Invece secondo il capitano, Grechyshkin, incapace di sostenere economicamente la traversata verso l’Africa, voleva ottenere un altro pagamento per il trasporto di macchinari stanziati nella Capitale libanese, senza specificare però ulteriori, nuove destinazioni.

Dopo il fermo delle autorità di Beirut, il capitano rimane a bordo per mesi senza soldi, nè cibo né acqua e con tre degli otto marinai dell’equipaggio, abbandonati dall’armatore intanto sparito nel nulla. Prokoshev ha inviato in quei mesi del 2014 lettere al suo presidente: “almeno i prigionieri sanno per quale motivo sono in carcere e per quanto ci rimarranno, noi no”. Putin non ha mai risposto, l’ambasciata russa invece si, e con ironico disprezzo: nessuna squadra delle forze speciali della Federazione verrà a salvarvi. Davanti alle immagini della devastazione libanese il veterano del mare, poi tornato a casa un anno dopo, oggi si chiede perché il nitrato, che può essere usato come fertilizzante, è rimasto nell’Hangar 12 del porto libanese e non è semplicemente finito sotto terra.

Quest’Odissea triste è per il momento cronaca di inettitudine e coincidenze funeste che hanno tolto la vita a 137 persone e hanno lasciato senza casa almeno 300mila libanesi, ma non è ancora storia di un traffico poco chiaro, di un armatore che lo è ancora meno.

La nave, affondata nel 2015, è in fondo al mare. L’unico uomo che ne conosceva la vera storia è stato interrogato oggi, su richiesta dei libanesi, dalla polizia di Cipro, che però non lo ha arrestato. Il ministero dell’Interno dell’isola ha ribadito che Grechyshkin non possiede passaporto cipriota. Ciò che ha detto l’imprenditore russo nessuno ancora lo sa, tranne le autorità della città andata in cenere.

“Prima Israele minaccia poi piange: è ipocrisia”

Gideon Levy, editorialista del quotidiano progressista di Tel Aviv, Haaretz, è noto per la sua indefessa e coraggiosa denuncia della violenta occupazione israeliana dei territori palestinesi e della risposta sproporzionata dell’esercito agli attacchi provenienti da Gaza, Siria e Libano. Dopo aver assistito alle reazioni “scioccate” del governo e delle forze di difesa israeliane alla devastazione di Beirut, ha subito messo a nudo Re Bibi (il premier Netanyahu) e il co-reggente Benny Gantz, attuale ministro della Difesa nonché prossimo premier, sulla carta, ed ex capo di Stato Maggiore. Levy taccia Israele di ipocrisia.

Perché pensa che il governo israeliano sia ipocrita?

Perché non più tardi di una settimana fa, il ministro della Difesa israeliano aveva minacciato di colpire le infrastrutture libanesi qualora fossero arrivati nuovi attacchi da parte del partito armato sciita libanese Hezbollah. L’ex portavoce dell’esercito israeliano Avi Benayahu, subito dopo le esplosioni nel porto di Beirut, ha detto che lo Stato e l’esercito ebraico non hanno mai causato simili disastri, non hanno mai attaccato i centri abitati e quando i nostri nemici cadono non si è mai rallegrati, neanche quando attaccarono il Libano. Il nostro, del resto, si considera l’esercito più morale del mondo mentre non è così e l’uso sproporzionato della forza, come abbiamo visto per Gaza e il Libano, è una prassi consolidata. Inoltre le forze aeree israeliane hanno sempre violato la sovranità del Libano entrando nel loro spazio aereo. Israele ha devastato il Libano due volte facendogli la guerra, ma oggi tutti qui fanno finta di non ricordarlo per tentare di spacciarsi da buoni vicini. Il presidente israeliano ha inviato le condoglianze al popolo libanese, il primo ministro e i ministri degli affari esteri e della difesa hanno dichiarato di aver dato istruzioni per offrire assistenza umanitaria e medica al Libano, come se ciò li mettesse al riparo dalle critiche di aver contribuito con due guerre recenti a distruggere quel che rimaneva del Libano e quindi mantenerlo sotto scacco per provare a estirpare Hezbollah e tenere l’Iran lontano dai nostri confini. Allora i civili libanesi uccisi dai nostri bombardamenti ‘moralmente accettabili’ nel sud e non solo di Beirut non facevano pietà a nessuno dei nostri politici e ufficiali militari.

Però il sindaco di Tel Aviv ha fatto un gesto simbolico dal valore storico due giorni fa, quando ha voluto proiettare sulla facciata di un palazzo di piazza Rabin, dove venne ucciso il primo ministro premio Nobel, la bandiera libanese…

Riconosco la buona fede e la sincerità del sindaco, ma si tratta di un altro gesto dettato dal tentativo di ripulirci la coscienza per tutte le sofferenze che abbiamo inflitto nel corso del tempo alla popolazione libanese. È un comportamento, ribadisco ipocrita.

Crede che sia stato Israele a bombardare il magazzino dell’area portuale della Capitale del Libano ritenendo che ci fossero parte delle armi che l’Iran invia a Hezbollah?

Nessuno ha accusato ufficialmente Israele di questo, nemmeno Hezbollah che, se potesse, accuserebbe Israele di qualsiasi nefandezza che avviene in Libano. Neanche il presidente Aoun ci ha accusati. Neanch’io credo che Israele abbia provocato questo disastro. Quando devo accusare il mio Paese lo faccio, ma questa volta non lo farò perché non ne ho le prove.

Beirut distrutta, monta la rabbia contro i politici

Proseguono senza sosta i tentativi di estrarre dalle macerie i superstiti dell’esplosione devastante che ha distrutto la capitale libanese. Ma ormai a uscire dalle montagne di calcinacci sono solo morti, spesso talmente malridotti da non poter essere identificati. È stata invece riconosciuta una cittadina italiana di 92 anni che nell’esplosione del porto ha perso la vita, mentre altri dieci italiani sono rimasti feriti.

I libanesi, seppur traumatizzati da questo evento tragico che ha lasciato attonito il mondo intero, ancora una volta si sono rimboccati le maniche almeno per evitare di essere sopraffatti dalla disperazione. Hanno cercato di spazzare alcune strade dello storico quartiere cristiano di Gemmayze – uno dei più colpiti assieme ad Ashrafieh, sempre nella zona cristiana di Beirut – dove in tarda mattinata sarebbe andato in visita il presidente francese Emmanuel Macron. Lo hanno fatto anche per accoglierlo al meglio dimostrando con fatti e parole la fiducia che ripongono in lui. Anziché contestarlo per aver bloccato il trasferimento della tranche di 11 miliardi di euro stanziata nel 2018 a Parigi al termine di un incontro con l’allora premier libanese Saad Hariri, lo hanno ringraziato e chiesto di gestire personalmente gli aiuti.

“Macron tu porti aiuti e tu li gestisci. Non dare un euro al governo libanese” recitano in francese gli striscioni issati sui pochi muri del quartiere rimasti in piedi. Intanto decine di soccorritori francesi si univano ai cittadini per togliere vetri e parti delle case crollate. E Macron li ha rassicurati promettendo che “gli aiuti francesi non verranno messi nelle mani dei corrotti”. Già in mattinata, poco dopo il suo arrivo, Macron aveva indirettamente fatto riferimento alle proteste che hanno scosso il Libano negli ultimi mesi, quando ha detto che al momento “la priorità è organizzare gli aiuti” ma che “l’esigenza che la Francia evidenzia da mesi, da anni è quella di fare riforme indispensabili in certi settori” e “se queste riforme non verranno fatte il Libano continuerà ad affondare”. Il presidente francese non aveva infatti voluto provvedere allo stanziamento del pacchetto di aiuti proprio perché non vedeva alcuna volontà da parte dell’esecutivo, compreso quello attuale, di combattere la corruzione capillare che ha portato il Libano alla bancarotta e trascinato la popolazione nel baratro della miseria oltre ad aver lasciato che le poche infrastrutture si deteriorassero al punto da garantire l’elettricità e l’acqua corrente solo poche ore al giorno. L’ex Svizzera del Medio Oriente è da un anno un paese del Terzo mondo con gli anziani costretti al suicidio per mancanza di cibo. L’unica fonte di reddito per molte famiglie proviene dalle rimesse dei tanti milioni di libanesi della diaspora – circa 14 milioni a fronte dei 4 milioni rimasti in patria più 1 milione e mezzo di profughi dalla Siria – che ogni anno inviano circa 9 miliardi di dollari ai parenti costituendo il 18% dell’economia del paese. “Io invio ogni anno metà dei miei introiti a mia madre e ai miei fratelli”, dice Sarah Charbel, moglie di un proprietario di miniere del piccolo Honduras dove c’è una grande comunità libanese, tanto che il candidato battuto alle ultime presidenziali si chiama Salvador Nasrallah, come il leader di Hezbollah, Hassan Nasrallah. La maggior parte dei libanesi della diaspora, cristiani, ha fatto fortuna: sono proprietari di miniere, latifondisti e grandi distributori, come Fadi Anas, console onorario dell’Ecuador a Parigi. Anche l’imprenditore contribuisce al mantenimento dei familiari rimasti in Libano. Ma un paese non può vivere solo di rimesse. E, cinicamente, il disastro epocale di Beirut può far risalire il Libano dal fondo dove è stato fatto precipitare dall’avidità della sua classe politica. “Questa esplosione è l’inizio di una nuova era”, ha auspicato Macron, annunciando che lancerà una nuova iniziativa politica, che includerà riforme e cambiamento: “Il Libano ha bisogno di cambiamento e di un nuovo contratto politico”, ha dichiarato sottolineando di non essere lì “per sostenere lo Stato o il governo” ma “per il popolo che soffre”. A soffrire non sono solo i feriti ma anche i tanti sfollati che non hanno più una casa. Save the Children ha reso noto che 100mila bimbi rimasti non hanno più un tetto. “Ancora non sappiamo quanti minori sono stati uccisi, ma migliaia sono feriti e molti hanno perso le famiglie nel caos” ha scritto in un tweet l’organizzazione umanitaria. A proposito del nostro paese, che intanto ha inviato aiuti e una unità dei vigili del fuoco, nella telefonata il premier Giuseppe Conte ha fatto sapere all’omologo libanese Diab che andrà a Beirut alla fine del mese.