Il nome dovrebbe dire tutto: decreto legge Semplificazioni. Il contenuto pure: una norma scritta apposta per sbloccare le opere pubbliche con gare di appalto semplificate, eliminare lacci e lacciuoli della burocrazia e velocizzare i tempi delle autorizzazioni della Pubblica amministrazione. Una norma approvata il 7 luglio ed esaltata da tutte le forze di maggioranza, da Matteo Renzi (“Adesso apriamo i cantieri”) al Pd (“Può risolvere la malattia endemica della burocrazia”, Andrea Marcucci) fino al M5S. Con un obiettivo: fare da “trampolino di lancio per la ripartenza del Paese” (Giuseppe Conte). Peccato che i giallorosa di semplificare non hanno alcuna voglia, nonostante il nome del decreto. Ieri nelle Commissioni Affari costituzionali e Lavori pubblici del Senato sono stati depositati gli emendamenti in vista della conversione in legge: in tutto sono 2.750, di cui la metà delle forze di maggioranza. Ben 397 sono targati M5S, 360 del Pd, mentre Italia Viva e LeU si spartiscono 288 e 242 emendamenti a testa. I restanti 1.300 sono firmati dall’opposizione che però, va detto, fa il suo mestiere. Ai limiti del tafazziano, invece, la scelta della maggioranza. L’unica speranza, per il governo, è che il 23 agosto molti emendamenti vengano dichiarati inammissibili. In caso contrario, dal 24 agosto sarà Vietnam parlamentare. E un decreto approvato per semplificare potrebbe finire sepolto sotto una montagna di complicazioni.
Forza Italia “processa” la Gelmini
È un processo a Mariastella Gelmini quello andato in scena in Forza Italia, con tanto di vertice, ieri a villa Certosa in sardegna, alla presenza di Silvio Berlusconi, Antonio Tajani, Licia Ronzulli, Anna Maria Bernini, Nicolò Ghedini e Gianni Letta e la stessa capogruppo alla Camera. Secondo l’accusa, Gelmini stava lavorando a un’alleanza con Azione di Carlo Calenda, con cui – dicono – si sia sentita più volte negli ultimi giorni, che avrebbe avuto come conseguenza il cambio di nome del gruppo a Montecitorio in Forza Italia-Azione.
Un repentino blitz politico-parlamentare di cui sarebbe stato messo al corrente anche Berlusconi, che prima ha lasciato fare e poi, di fronte alla rivolta di un pezzo del partito, è tornato sui propri passi stoppando l’operazione. Che, nelle intenzioni di Gelmini, consisteva nell’agganciare l’ala calendiana che alla Camera inizia a fare proseliti, nel tentativo di stoppare altre uscite da Fi verso il movimento dell’ex ministro dello Sviluppo, segno che l’addio di Enrico Costa è stato molto mal digerito dal vertice azzurro. “Balle spaziali”, ha smentito ieri Gelmini. Ma diverse fonti confermano che il tentativo era in atto.
Numerosi, del resto, sono gli esponenti che hanno lasciato Fi nelle ultime settimane. In Senato se ne sono andati Quagliariello, Romani, Berruti e Carbone. Alla Camera sono usciti i totiani. E poi gli ultimi divorzi: la deputata Benedetta Fiorini (alla Lega) e il sindaco di Sesto San Giovanni, Roberto Di Stefano, che ha seguito le orme della moglie Silvia Sardone, passando con Salvini. Approdo, quello leghista, che potrebbe accomunare presto anche tre consiglieri in Regione Lombardia: Alessandro Fermi, Simona Tironi e Mauro Piazza. Segno che, nonostante continui a calare nei sondaggi, la Lega resta attrattiva per molti forzisti. Ma non tutti, visto che poi c’è chi guarda a Renzi e pure a Calenda.
Lega: a Mantova prove di scissione dell’ala nordista
Ventilata più volte negli ultimi mesi, paventata con tanto di dito medio da Umberto Bossi in persona all’ultimo congresso, la scissione della minoranza nordista all’interno della Lega prende forma: Viadana, Mantova, Imola e Faenza. Pretesto: l’utilizzo del simbolo storico del Carroccio, Alberto da Giussano, alle prossime elezioni comunali.
Ieri gli ex deputati del Carroccio, Gianni Fava e Gianluca Pini, lo hanno detto per la prima volta a chiaramente. “Da più parti mi è giunta la richiesta di poter correre sotto l’egida della Lega Nord per l’indipendenza della Padania”, ha dichiarato Fava, ex sfidante di Salvini al congresso del 2017. L’intenzione dell’ala nordista, da sempre contraria al nazionalismo introdotto dall’ex vicepremier, è dunque quella di presentarsi alle amministrative del 20-21 settembre con candidati alternativi. Per questo Fava ha inviato una richiesta al commissario federale della Lega Nord, il salviniano Igor Iezzi, per poter usare il simbolo di Alberto da Giussano. Lo stesso ha fatto Pini, in passato considerato vicino a Roberto Maroni e da sempre legato a Giancarlo Giorgetti, scrivendo ad Andrea Liverani, commissario del partito in Emilia-Romagna. La richiesta è identica: ottenere una “delega per l’utilizzo del simbolo della Lega Nord per l’indipendenza della Padania e presentare una propria lista autonoma alle imminenti elezioni amministrative”. I due ex deputati hanno fatto sapere di voler sostenere candidati concorrenti rispetto a quelli appoggiati da Salvini. D’altra parte era stato lo stesso Bossi a dichiarare apertamente la sua contrarietà al funerale della Lega Nord organizzato lo scorso dicembre durante l’ultimo congresso federale: “Col cazzo che chiudiamo il partito, possiamo concedere il doppio tesseramento, ma senza imposizioni”, erano state le parole del Fondatore al vertice di Milano.
Nelle ultime settimane Salvini ha chiuso la campagna di tesseramento al nuovo partito: pagando 10 euro i militanti hanno potuto ottenere la tessera di Lega Salvini Premier, garantendosi al contempo il rinnovo gratuito di quella della vecchia Lega Nord. La questione è legata al debito milionario rimasto in pancia alla Lega Nord dopo la truffa dei 49 milioni di euro, ma soprattutto ai voti che Salvini teme di perdere in caso di spin-off dell’ala nordista. La corrente per ora non ha ottenuto il sostegno esplicito dei big leghisti, solo qualche sorriso sornione del governatore veneto Luca Zaia. Nelle competizioni elettorali Lega Salvini Premier usa il simbolo di Alberto da Giussano su concessione del consiglio federale della “vecchia” Lega. Ciò che chiedono ora Fava e Pini è sostanzialmente lo stesso trattamento. Una prova generale in vista di una possibile scissione, un test per misurare l’attrattività del vecchio Carroccio.
I comuni dove potrebbe materializzarsi per la prima volta lo scontro tra le due anime della Lega dovrebbero essere quelli di Mantova, Viadana, Imola e Faenza: questi sono i nomi che circolano per ora tra i militanti stanchi della gestione dell’ex ministro dell’Interno. “A Viadana per esempio sosterremmo la candidata sindaca di area civica Alessia Minotti, contro l’esponente di Fratelli d’Italia Nicola Cavatorta”, ha detto Fava all’Agi. A Mantova i nordisti potrebbero invece proporre Marco Prandini, ex segretario provinciale Lega Nord, invece che appoggiare il candidato sostenuto da Lega Salvini Premier e Fratelli d’Italia, Stefano Rossi.
De Luca fa l’orgia del potere: per lui 14 liste in Campania
Se prima eravamo in 17 a ballare l’hully gully con Vincenzo De Luca, adesso siamo in 14. Che è comunque una sorta di record mondiale: 14 liste a sostegno del presidente uscente della Campania, un centrosinistra allargato a Ciriaco De Mita, Clemente Mastella, Paolo Cirino Pomicino, ai renziani e ad alcuni ex berlusconiani folgorati sulla via del Torrione di Salerno, non si erano viste nemmeno con Antonio Bassolino. L’ex sindaco di Napoli, governatore dal 2000 al 2010, si fermò (si fa per dire) a 12 liste, ed erano i tempi in cui il Pd non esisteva e Bassolino doveva tenere insieme Mastella e De Mita (sì, sempre loro) con Rifondazione Comunista e i Verdi di Alfonso Pecoraro Scanio.
La piccola sforbiciata da 17 a 14 liste è stata decisa nei giorni scorsi da un apposito summit nel comitato elettorale di via Generale Orsini a Napoli. Lo ha coordinato l’ufficiale di collegamento tra De Luca e l’esercito di liste in composizione, Nello Mastursi, ex capo della segreteria istituzionale del governatore, dimissionato nel 2015 per il coinvolgimento in un’inchiesta sulle presunte interferenze intorno alle ordinanze della magistratura amministrativa che consentirono a De Luca di insediarsi in carica da condannato in primo grado (poi assolto successivamente), nonostante la legge Severino. Per quella torbida vicenda Mastursi è stato condannato a 18 mesi per induzione indebita ed ora attende l’appello che potrebbe assolverlo. Questo incidente di percorso gli è costato il ruolo di capo-staff a Palazzo Santa Lucia, ma non quello di fiduciario di De Luca, che gli ha affidato, chiavi in mano, la costruzione della coalizione.
Ed eccola, la coalizione. La grande ammucchiata. Partito Democratico, Campania Libera, De Luca presidente, Davvero Ecologia e Diritti- Animalisti -Bene Comune, Più Campania, Noi campani con De Luca, Centro Democratico, Fare democratico, Moderati-Liberaldemocratici, I Popolari, Democratici e progressisti, Italia Viva, Europa Verde-Demos, Psi, Per-persone e comunità.
Sono quindici. Ma si lavora per un ultimissimo, ulteriore accorpamento, dopo quelli già stabiliti nei Verdi di Angelo Bonelli (con Demos di Nello Formisano) e in Italia Bene Comune di Federico Pizzarotti (che stanno con gli ex verdi di Davvero), tra i Democratici e Progressisti dell’esponente di Articolo1 Michele Gravano con i Repubblicani Democratici di Giuseppe Ossorio, e tra i Moderati di Enzo Varriale coi Liberaldemocratici di Enzo Marrazzo.
Questi nomi di micropartiti e di politici, alcuni solo locali, non vi dicono nulla? Siete in errore a sottovalutarli. In ogni lista è presente un pezzetto di potere locale costruito e consolidato da politici di professione, sulla scena da decenni. Alcuni famosi solo a Napoli e in Campania. Altri celeberrimi ovunque. Come Pomicino, ’o ministro della Prima Repubblica, presidente della Tangenziale di Napoli (l’unica a pagamento in tutto il paese), che piazzerà i suoi candidati e i suoi voti in Centro Democratico. Mentre il 92enne De Mita è uno degli ispiratori della lista “I Popolari”. Mastella, per non lasciare spazio a dubbi, ha messo il suo nome nel simbolo “Noi Campani con De Luca”. Si trova in alto, sopra la punta di un Campanile molto simile a quello che campeggiava nel simbolo dell’Udeur. È in atto anche un’operazione nostalgia. Così è rientrata nel centrosinistra per appoggiare De Luca pure Sandra Lonardo Mastella, presidente del consiglio regionale campano dell’ultima èra Bassolino, eletta in Senato nel 2018 con Forza Italia, abbandonata pochi giorni fa: “Clemente e io siamo una coppia inossidabile, sentimentale e politica. Stiamo insieme da 45 anni. E gli attacchi di Salvini a mio marito (sindaco di Benevento, nel mirino della Lega, ndr) sono anche a me”.
Un’altra lady ex berlusconiana, imputata di voto di scambio coi Cesaros di Forza Italia, è passata armi e bagagli con De Luca: l’uscente Flora Beneduce si candiderà con Campania Libera, la civica inventata un decennio fa dal governatore. “Campania Libera” e “De Luca presidente” sono i contenitori dove si collocheranno ex candidati e sostenitori nel 2015 del candidato del centrodestra, l’azzurro Stefano Caldoro. Qualche altro nome che risponde al profilo: Carmine Mocerino, Paola Raia, Sommese. Quest’ultimo non è Pasquale, il recordman di preferenze già vicesegretario del Pd di Napoli e poi rieletto in Ncd. È il figlio, Giuseppe.
Mancata zona rossa Alzano e Nembro: la Lega continua a spostare il problema
Sui cinque verbali del Comitato tecnico-scientifico desecretati dal governo, la Lega trova modo di alzare il fumo della polemica definendo scandaloso che i documenti relativi alla mancata zona rossa tra Alzano e Nembro restino ancora segreti. Certo il governo farebbe bene a desecretare anche quelli, ma non è detto che anche rendendoli pubblici si arrivi a una verità sulla mancata istituzione della zona rossa. Quello sollevato ieri dalla Lega sembra, però, piuttosto un falso problema, o meglio una fake news. Prima di tutto perché la richiesta della Fondazione Einaudi riguardava specifici documenti, dove si parla di zona rossa in relazione a Lodi e a un doppio livello di sicurezza rispetto all’andamento epidemiologico nelle varie regioni. C’è poi una scansione cronologica che pare sfuggire ai politici del Carroccio e che riporta la questione della mancata zona rossa al 23 febbraio e ai giorni subito successivi, spostando le responsabilità dal governo alla Regione. Solo il 3 marzo infatti l’Istituto superiore di sanità allerta il governo. In quel momento chiudere solo i due comuni della Val Seriana è ormai del tutto inutile. Così la pensa il presidente del Consiglio. E proprio per questo Giuseppe Conte tra il 4 e il 5 marzo chiede al Cts un supplemento d’indagine. E sceglie – nonostante, come si legge in uno dei verbali, il 7 marzo il Comitato proponga “due livelli di misure di contenimento”, zone rosse e zone gialle – di chiudere tutta la Lombardia. Cosa che avviene tra il 7 e l’8 marzo.
In quel momento il problema non è più solo Nembro e Alzano. Per capire questo i rappresentanti della Lega dovrebbero tornare al 22 febbraio, e cioé 24 ore dopo la scoperta del paziente 1 all’ospedale di Codogno. È in quelle ore che tutto doveva essere deciso. L’unica scelta invece fu solo quella di cinturare i 10 comuni del Basso lodigiano. Mentre, esattamente in quei minuti, all’ospedale “Pesenti Fenaroli” di Alzano già si stanno analizzando i tamponi dei primi due casi della Bergamasca. E ancora, sfugge alla Lega: quei due pazienti erano ricoverati da almeno una settimana, e senza controlli specifici. Il che ha reso la struttura sanitaria un vero e proprio volano del virus che in pochi giorni ha trasformato la Bergamasca nel più grande focolaio d’Europa. Tenendo conto, come dimostrato da diversi studi scientifici, che in quel momento il tasso di trasmissione (il famoso R con zero) galoppava ben oltre il 3. E che nei giorni subito seguenti lo stesso assessore al Welfare Giulio Gallera escludeva nuove zone rosse.
Va poi ricordato che fu la Regione Lombardia, e nello specifico il suo ex direttore generale della Sanità Luigi Cajazzo, a intervenire sulla Asst Bergamo Est perché l’ospedale non venisse chiuso. Così, purtroppo avvenne e la struttura, senza alcun triage dedicato, ha proseguito a lavorare come nulla fosse successo. Appare chiaro, quindi, che la polemica sui documenti ancora segreti è solo strumentalmente politica.
Cade il segreto sul Cts, per ora smentito Salvini
Ormai è un caso politico. Quello dei verbali del Comitato tecnico scientifico che Palazzo Chigi ha cominciato adesso a rilasciare, dopo aver a lungo resistito, rischia però di trasformarsi in un boomerang. Prima di tutto per i quanti, Salvini in testa, hanno urlato al “complotto di Stato”. Il governo ha infatti deciso di trasmettere quanto richiesto dalla Fondazione Einaudi, costretta a rivolgersi al Tar dopo essersi vista negare l’accesso agli atti. Ne è seguito un controricorso della presidenza del Consiglio per opporsi alla decisione del giudice amministrativo di primo grado che ha riconosciuto il diritto alla conoscibilità di tutti gli atti presupposti all’adozione di provvedimenti del governo contro il Covid: compresi i verbali del Cts da cui sono scaturite decisioni di particolare impatto sociale sui territori e sulla collettività. Ma ormai la polemica si era già innescata e, adesso, è deflagrata. Un pasticciaccio, insomma.
Il centrodestra accusa il governo di aver costretto il Paese al lockdown totale, anche se i tecnici non lo avevano inizialmente consigliato. E pure di volersi tenere nei cassetti tutti gli altri verbali ancora non pubblici. Compresi quelli su Alzano e Nembro su cui Matteo Salvini ha cominciato a suonare la carica pur di salvare Regione Lombardia dalle sue responsabilità rispetto alla mancata chiusura. E che dire degli altri sospetti attorno ai documenti ormai noti? Sul verbale del 7 marzo c’è scritto, nella trasmissione dal Cts al ministero della Salute, “riservato”, cioè “classificato”, ed è firmato dal generale Francesco Bonfiglio, capo del Punto di controllo Nato – Ue, uno degli organi preposti alla tutela delle informazioni Ue “classificate”. Ed è scattato il giallo.
La Protezione civile ha sempre sostenuto che i verbali non fossero stati “classificati”. “A via Vitorchiano, dove si riunisce il Cts, esiste una sala i cui operatori hanno delle qualificazione di sicurezza particolari e che viene usata per inviare o ricevere comunicazioni quando viene attivato il Meccanismo di protezione civile europeo. Abbiamo usato quel canale ancorché i verbali in questione non siano mai stati segreti”, minimizzano dal Dipartimento della Protezione civile. Insomma non si tratterebbe di informazioni classificate, nonostante la stampigliatura “riservato” desti qualche sospetto.
In tutto, sono oltre 100 i verbali del Cts. Da quando ai primi di febbraio è stato istituito come organo di consulenza del Capo Dipartimento della Protezione civile (che il governo ha nominato coordinatore dell’emergenza coronavirus), si è riunito a ripetizione. Per dare pareri sulle questioni più varie: dalle norme di comportamento da usare nelle Università, al tipo di ventilatori più idonei per il Covid, passando per le prescrizioni per tornare a celebrare le funzioni religiose garantendo la massima sicurezza sanitaria. Nei 5 verbali vergati tra il 28 febbraio e il 9 aprile, oggetto delle richieste della Fondazione Einaudi non c’è nulla però di inedito. Si va dal suggerimento al governo di “due livelli di misure di contenimento da applicarsi” per le tre Regioni dove il Coronavirus si stava maggiormente diffondendo allo stop a baci e abbracci e all’obbligo di mascherina per chi si trovava ad assistere persone malate.
E allora perché la Presidenza del Consiglio si è opposta all’accesso agli atti innescando il ricorso al Tar, oltre che le polemiche? Quando a inizio marzo sono cominciate ad arrivare le prime richieste di accesso agli atti, Palazzo Chigi ha ritenuto che tali documenti dovessero ricadere tra quelli di cui non è consentito l’accesso, in applicazione di una norma del 2011. Un decreto del Presidente del Consiglio, all’epoca Silvio Berlusconi, che presumibilmente doveva servire a scongiurare un altro caso L’Aquila: quando i membri della Commissione “Grandi rischi”, a causa delle loro dichiarazioni messe a verbale, divennero oggetto della richiesta di risarcimento del danno da parte dei parenti delle vittime del sisma del 2009. Il Dpcm 143 del 2011 sottrae quindi all’accesso gli atti e i documenti “concernenti il lavoro di commissioni, organi collegiali, comitati, gruppi di studio e di lavoro, qualora finalizzati all’adozione di atti normativi, di atti amministrativi generali e di atti di pianificazione e di programmazione”.
Per Palazzo Chigi quella norma doveva applicarsi anche per il Cts. Tesi che però è stata respinta dal Tar e ora pare superata dai fatti. Come fa notare Vittorio Alvino, presidente della Fondazione Openpolis che da sempre è impegnata nella difficile battaglia sulla trasparenza come valore fondante della partecipazione democratica: “Se ora hanno potuto superare le norme del 2011, vuol dire che è possibile rendere pubblici tutti i verbali, senza bisogno si aspettare un altro accesso agli atti”.
“La censura su Uan e questa mia testa un po’ impicciata”
Quella volta che Linus gli ha tolto dalla copertina una battuta su Matteo Renzi. Quella volta in cui l’Atac gli ha cestinato un disegno dove la gente sulla metro di Roma appariva troppo accalcata. Quella volta che ha fatto arrabbiare i detentori dei diritti del pupazzo Uan – quello della vecchia trasmissione per bambini di Italia Uno che lanciò un giovanissimo Paolo Bonolis – definito in un suo fumetto massone, mafioso e omosessuale (la smentita toccò solo quest’ultimo aspetto). Michele Rech, in arte Zerocalcare, si racconta in un’intervista di dieci pagine sul mensile FQ Millennium, diretto da Peter Gomez, in edicola da domani con una copertina disegnata dal fumettista romano per un numero dedicato alle storie di chi ha resistito al Covid con buone idee e buone pratiche. “Linus mi aveva commissionato una copertina sulle previsioni per il 2017, subito dopo il referendum costituzionale. Dicevo una cosa tipo ‘le previsioni le sbaglio tutte: ero sicuro che Trump non avrebbe mai vinto… e che Renzi non si sarebbe mai dimesso’. Questo è scomparso. Mi sono incazzato come una biscia, mi hanno detto che era soltanto una questione di spazio”.
Zerocalcare parla a ruota libera, senza filtri, dopo un milione di copie vendute in dieci anni con una dozzina di libri (l’ultimo è la riedizione aggiornata di Kobane Calling, sempre con Bao Publishing) e l’exploit in tv e sui social con Rebibbia Quarantine, la serie di strisce animate sul lockdown ideate per Propaganda live su La7. A 37 anni, Zerocalcare è diventato un punto di riferimento ben al di là della sua generazione, come dimostrano i tanti giovanissimi – e i non pochi incanutiti – che si mettono in coda per ore ai suoi leggendari firmacopie, per strappargli l’agognato “disegnetto”. Eppure i suoi fumetti narrano di una minuscola nicchia: gli amici di una vita, il quartiere Rebibbia, il giro dei centri sociali romani, per quanto conditi da una miscela irresistibile di rimandi pop universali, da Guerre Stellari (in salotto Zerocalcare tiene un alberello di Natale con l’elmo di Lord Fener come puntale e una bandiera antifascista come ghirlanda) al Signore degli Anelli, da Ken il Guerriero a Peppa Pig… Come si spiega il diretto interessato un successo così ampio? “Fino a un paio d’anni fa la risposta che mi davo è che attingevo a elementi della cultura pop trasversali, che parlavano tanto alla ‘zecca’ quanto al pariolino”, spiega Zerocalcare. “Poi quando mi sono accorto che alle presentazioni c’erano persone molto più giovani o molto più grandi di me, ho capito che il minimo comun denominatore non è tanto l’anagrafe, quanto l’essere un po’ impicciati con la testa. Io racconto le mie fragilità, paranoie, insicurezze, cose con cui una persona nasce e si porta appresso per sempre”. Nella fase 2 del suo successo, quella post-televisiva, il fumettista cresciuto nei centri sociali confessa a Fq Millennium la sostanziale impossibilità di coniugare fama e antagonismo, apparizioni in tv (di recente anche a Unomattina) e militanza politica dura e pura. “Non ho trovato una quadra e me la vivo male, spesso mi sembra di fare degli scivoloni. Mi do l’obiettivo di poter continuare ad andare a un concerto punk senza vergognarmi o essere visto come un corpo estraneo”. Certo il dover “rendere conto” a un pubblico sempre più ampio non gli impedisce di affrontare temi spinosi come la violenza delle forze dell’ordine: sull’onda delle proteste di Black Lives Matter “negli Stati Uniti discutono di temi superfghi come il definanziamento della polizia responsabile delle violenze. In Italia è un tabù, non puoi fare un discorso sulla polizia che non cominci con un ‘ringraziamento ai nostri eroi’, anche quando devi denunciare un grave abuso”. Qualche tempo dopo la chiacchierata con Fq Millennium, gran parte dei commenti della stampa e della politica sulle violenze alla caserma dei carabinieri Levante di Piacenza gli hanno dato ragione.
Piazza con Almirante, i figli di Berlinguer contro: “Così si azzerano storia e memoria”
“Non condividiamo la scelta di intitolare una piazza del Comune di Terracina a Enrico Berlinguer e Giorgio Almirante”. Alla fine, i figli dello storico leader del Pci, Bianca, Maria, Marco e Laura Berlinguer, hanno deciso di dire la loro. E di opporsi fermamente all’equiparazione tra due figure tra loro molto diverse. “È sicuramente un’importante acquisizione della nostra civiltà e del pensiero democratico, il rispetto per l’avversario, così spesso oggi dimenticato”, chiariscono. Però, “perché mai confondere due personalità così diverse che si sono combattute su fronti che sono e restano antagonisti? Si rischierebbe di contribuire a un processo, che riteniamo nefasto, di azzeramento della storia e della memoria”.
La vicenda è iniziata alla fine di luglio, quando il consiglio comunale di Terracina ha approvato una mozione (presentata dal consigliere di Fratelli d’Italia, Giuseppe Talone) in cui si proponeva di intitolare una piazza a Berlinguer e Almirante. La mozione era motivata con l’idea di celebrare idee contrapposte che si rispettano e il ruolo avuto da entrambi negli anni di piombo. E ha avuto un solo voto contrario: quello del presidente del Consiglio, che riteneva svantaggioso per Almirante l’accostamento a Berlinguer. Hanno votato sì anche alcuni ex Pd: ma va detto che a Terracina sono scomparsi sia i dem sia i 5S. Il Comune è governato da FdI e all’opposizione c’è il resto del centrodestra (Lega e Forza Italia). Una situazione che la dice lunga sul trasformismo politico e sulla scomparsa di idealità politiche. Una volta approvata la mozione è partita la battaglia dell’Anpi e del Pd per fermare l’operazione. E ha superato le 10mila firme la petizione al prefetto di Latina, Maurizio Falco, per bloccare l’intitolazione, lanciata dal sito enricoberlinguer.it. “Una provocazione”, l’hanno definita.
I promotori dell’iniziativa si sono rifatti anche al libro di Antonio Padellaro, Il gesto di Almirante, in cui il fondatore del Fatto racconta la presenza di Almirante a Botteghe Oscure, nella camera ardente di Berlinguer (gesto ricambiato con la presenza di Giancarlo Pajetta e Nilde Iotti ai funerali di Almirante) e ricordava l’impegno di entrambi contro il terrorismo negli anni di piombo. Ma lui si dissocia: “Quando pure fosse ispirata a un apprezzabile tentativo di pacificazione retrospettiva, appare tuttavia come un atto improvvisato che ha il difetto di fornire, nell’accostamento tra il fascista repubblichino e lo storico leader del Pci, una motivazione troppo generica. E dunque facilmente sospettabile di essere usata per finalità politiche di stampo locale”.
Il virus corre ancora. Nelle ultime 24 ore più di 400 positivi
“Il numero dei casi tende ad aumentare rispetto alla scorsa settimana, l’indice Rt resta intorno a 1, ma supera l’unità in diverse Regioni, si abbassa l’età delle persone colpite da Covid e diversi focolai sono presenti sul territorio nazionale, molti dei quali innescati da casi importati”. Gianni Rezza, direttore della Prevenzione del ministero della Salute, commentando in un videomessaggio il report settimanale Iss-ministero Salute, mette in guardia sui possibili scenari futuri. Nelle ultime 24 ore infatti in Italia i nuovi positivi hanno nuovamente superato quota 400: un dato preoccupante, in parte dovuto all’intensa attività di screening e monitoraggio e in parte causato dai focolai attribuibili alla re-importazione dell’infezione e ad alcune piccole catene (nazionali) di trasmissione di cui rimane ancora ignota l’origine. “Una situazione epidemiologica estremamente fluida” avverte il monitoraggio che dimostra “come l’epidemia in Italia di Covid-19 non sia conclusa”.
Le stime del tasso di contagiosità delle ultime due settimane tendono a fluttuare in molte Regioni portando l’indice Rt a superare il valore 1, quello considerato di guardia. Per il momento, come sottolinea il ministero della Salute, non si è verificato nessun sovraccarico dei servizi assistenziali, complice il fatto che l’età media dei più recenti casi diagnosticati sia intorno ai 40 anni. Il monitoraggio indipendente della Fondazione Gimbe di Bologna ha rilevato che nella settimana dal 29 luglio al 4 agosto c’è stato un incremento del 11,2% dei nuovi casi (1.931 contro 1.736), a fronte di una lieve diminuzione del numero di tamponi diagnostici. Relativamente ai dati ospedalieri, se i pazienti in terapia intensiva restano sostanzialmente stabili (41 contro 40), si assiste a un ulteriore lieve aumento (761 contro 749) di quelli ricoverati con sintomi. Se in sette Regioni si rileva una riduzione complessiva di 281 nuovi casi rispetto alla settimana precedente, con un range che varia dai -62 dell’Emilia-Romagna ai -7 della Valle D’Aosta, le restanti 14 Regioni registrano un aumento: svetta quello del Veneto (+226), mentre altrove gli incrementi oscillano dai +41 della Provincia Autonoma di Bolzano a +6 di Liguria e Umbria.
“Alla vigilia del nuovo Dpcm il governo non può non tenere conto di questi dati nel dettare le regole per le prossime settimane (o mesi), mentre le autorità sanitarie devono potenziare la sorveglianza epidemiologica, sia per identificare e circoscrivere i focolai, sia per individuare tempestivamente i casi di importazione dall’estero potenziando il testing rapido nei principali hub di ingresso nel Paese” avverte Nino Cartabellotta, presidente della Fondazione Gimbe.
Mentre l’Italia rimane in allerta, preoccupa la situazione europea. In un solo giorno la Germania ha riportato il maggior numero di infezioni degli ultimi tre mesi. Secondo il Robert Koch Institute, nelle ultime 24 ore i casi registrati sono stati 1.045. Era dal 7 maggio che non si contavano più di 1.000 casi in un giorno. La Spagna ha invece registrato 33.965 nuovi casi di virus solo nelle ultime due settimane, 1.772 dei quali solo tra martedì e mercoledì. Tre le città riportate in isolamento totale nella regione spagnola settentrionale di Castilla y León in pochi giorni. La crescita percentuale su base settimanale dei contagi totali è stata particolarmente sostenuta nell’ultima settimana in Kosovo, Bosnia-Erzegovina e Romania.
“Questo non è autoritarismo, il resto solo opinioni private”
L’ultima volta che abbiamo parlato dello stato d’emergenza, il professor Zagrebelsky ha iniziato così: “Quando scendono in campo i giuristi vuol dire che non siamo molto ben messi. Ci si rivolge a loro per avere una parola chiara e normalmente se ne ottengono molte e oscure, spesso contraddittorie. Una delle più frequenti prestazioni dei giuristi, nel loro insieme, è di rendere ‘meravigliosamente oscure’ (Rabelais) persino le questioni chiare”. “Mi sono permesso una battuta, perché anch’io appartengo alla categoria”, spiega l’interessato.
Anticipando su Repubblica un testo che uscirà in autunno per Laterza, il professore ha sostenuto che bisogna distinguere tra emergenza ed eccezione. La prima è interna al sistema, e lo difende da una minaccia; la seconda lo frantuma per travolgerlo e superarlo. Lo stato di emergenza, nel nostro caso, ha un fine: la tutela della salute pubblica. È strumento di garanzia di un diritto fondamentale.
La sua posizione ha innescato diverse repliche: proviamo a sottoporle le principali. Protrarre lo stato di emergenza costituisce una “forzatura illegittima e inopportuna”: illegittima, perché non essendoci emergenza, non c’è il presupposto per prorogarla; inopportuna, perché produce le note conseguenze sul piano economico.
Lo stato di emergenza come condizione generale che giustifica qualunque misura ad arbitrio del governo è non solo in-costituzionale, ma anche anti-costituzionale. Parlo, per intenderci, dei “pieni poteri”. È invece previsto che, nella normalità della vita del diritto, possano “emergere” casi straordinari (cioè non previsti) di necessità e urgenza. Quando ciò accade, il governo può adottare decreti con forza di legge che entrano in vigore immediatamente ma sono “provvisori”, cioè decadono se non sono convertiti in legge dal Parlamento entro sessanta giorni. In più, il governo agisce “sotto la sua responsabilità”: la conversione in legge, oltre a riportare l’eccezione nei binari della legalità, convalida il giudizio del governo circa l’esistenza delle condizioni straordinarie ecc. e lo esonera dalle sue responsabilità. Chi giudica sull’esistenza delle suddette condizioni? Ciascuno di noi può avere la sua visione delle cose: chi ha avuto l’infezione vicina a sé, chi ha operato e opera nelle strutture sanitarie e “ha visto”, avrà una convinzione; chi è lontano e filosofeggia nobilmente, ne avrà un’altra. Ma si tratta, in entrambi i casi, di opinioni private. Dal punto di vista costituzionale, ciò che conta sono le valutazioni del governo convalidate dal Parlamento, salvi i controlli che esistono presso il presidente della Repubblica e, alla fine, presso la Corte costituzionale.
Obiezione: dei decreti legge si è fatto larghissimo utilizzo, quasi mai nella ricorrenza di situazioni di necessità e urgenza…
E con ciò? Nei decenni passati s’è fatto abuso. Ma ciò significa forse che il decreto-legge non può più essere usato quando è lecito usarlo? L’abuso avrebbe abrogato l’uso?
L’osservatorio che porta il nome del professor Rodotà definisce la proroga una “rottura costituzionale”, annunciando ricorsi alla Consulta. Le libertà individuali, dicono, sono state limitate illegittimamente dai Dpcm che hanno alterato il sistema delle fonti del diritto, tanto che il governo ha goffamente cercato di porre riparo coi decreti legge. Che ne pensa?
Innanzitutto, sarebbe saggio non sfruttare l’autorità d’una persona che non c’è più. I ricorsi ci saranno, vedremo che esiti avranno. Sulla legittimità dei provvedimenti, è prevista dalla Carta la possibilità di limitare la libertà di circolazione per motivi di sanità e incolumità pubblica. Se si parte dal presupposto che tali motivi esistono, la conseguenza ovvia è la legittimità delle restrizioni alla libertà di circolazione. Si dice che queste restrizioni incidono su altri diritti: di riunione, di studio e socializzazione scolastica, di attività lavorativa, perfino di esercizio comunitario della libertà di culto. Ma queste sono conseguenze, di cui non è lecito sminuire la gravità, che tuttavia derivano dall’esigenza precauzionale relativa alla tutela della salute. È una questione logica: la circolazione può far circolare anche il virus. Del resto, che sarebbe di tali altri diritti se la pandemia dilagasse al punto che, nel panico, si dovessero rimpiangere le cautele e le restrizioni omesse in tempo utile. Col passare del tempo e la diminuzione dell’allarme, la ragionevolezza delle misure deve essere, però, bilanciata al sacrificio degli altri beni costituzionali.
Invece sulla questione dei Dpcm?
I famigerati Dpcm hanno o non hanno base legale nei decreti legge e nelle leggi di conversione e sono proporzionati alla gravità dell’infezione? La questione è tutta qui.
I giuristi hanno messo sul tavolo la vecchia legge sulle calamità naturali.
Ma non c’è bisogno di appellarsi a questa norma. La situazione attuale è regolata dalle leggi del Parlamento, dai decreti del governo e dai Dpcm.
Il premier Conte sostiene che negli ultimi 4 anni lo stato d’emergenza è stato dichiarato 84 volte e rinnovato 154 volte. Gli è stato però obiettato che si tratta di casi circoscritti, legati a terremoti, alluvioni… È la prima volta, poi, che lo stato di emergenza riguarda tutta l’Italia. Questa è una anomalia?
È una caratteristica della situazione! La dimensione spaziale (e temporale) della legislazione d’emergenza dipende dalla dimensione dell’emergenza. Mi pare ovvio. Che finora non si sia verificato un allarme così vasto da investire potenzialmente l’intero territorio nazionale significa solo che siamo stati fortunati. Purtroppo, ci può essere sempre una prima volta.
Il timore che l’emergenza venga normalizzata è fondato?
Su questo veglieranno il presidente della Repubblica, i giudici e la Corte costituzionale e, alla fine, l’opinione pubblica che è la vera garanzia. L’assuefazione è un pericolo e, tanto più in situazioni come l’attuale, l’attenzione di coloro che amano la democrazia deve essere vigile. Ci sono contromisure istituzionali e ci siamo noi che stiamo all’erta responsabilmente.
Qualcuno pensa che queste misure siano comunque autoritarie.
Sì, ci sono alcuni che, per il gusto del beau geste libertario assomigliante al “menefreghismo” estetizzante dei futuristi d’altri tempi, non esitano a mettere in pericolo la salute altrui. Ma, qui non c’è il diritto di fare della propria salute quello che si vuole, ma c’è il dovere di non giocare con la salute degli altri. Sono degli irresponsabili che hanno della loro libertà un concetto totalmente egoistico.
Un giudice di pace ha annullato la multa di 400 euro comminata a padre e figlia, trovati fuori dalla loro abitazione durante il lockdown, sostenendo anche che la misura di permanenza domiciliare può essere stabilita solo dall’autorità giudiziaria. Neppure una legge potrebbe prevedere nel nostro ordinamento un simile obbligo.
Si invoca l’art. 13 e la garanzia della libertà personale. Ma questa norma ha a che vedere con la libertà della persona rispetto a misure personali. Non c’entra nulla con la pandemia. Mi stupisco che non si trovi nulla di assurdo nel postulare che, per stabilire limiti che valgono per tanti e, al limite, per tutti, sia ragionevole ipotizzare per ciascuno di essi un provvedimento (quanti milioni, nell’insieme?) dell’autorità giudiziaria, naturalmente in altrettanti procedimenti, con le garanzie del contraddittorio, la presenza di avvocati, impugnazioni, ecc. Quanto ai poteri del giudice, certamente egli può, anzi deve disapplicare gli atti amministrativi illegittimi. Ma bisognerebbe dimostrare che essi “non stanno” nella legge. Se invece stanno nella legge ma questa è costituzionalmente illegittima, allora non si dà disapplicazione, ma ricorso alla Consulta contro la legge che si suppone incostituzionale. C’è una logica nel sistema.
Quindi torniamo all’inizio: quando entrano in campo i giuristi…
Siamo abituati a partire dall’astrattezza delle leggi e delle nostre costruzioni teoriche per planare sulla contingente realtà. Nell’emergenza, bisogna ragionare al contrario, cioè partire dalla realtà e cercare nelle leggi il modo per gestirla. Sennò si fa fare una brutta figura al diritto.