L’inutile balletto: Atlantia su Aspi perde solo tempo

La nutrita delegazione di Atlantia e Autostrade per l’Italia si è presentata ieri mattina, e poi ancora nel tardo pomeriggio, nella sede di Cassa depositi e prestiti: era il primo incontro dopo che il cda della holding, che controlla la maggior parte delle corsie italiane, s’era rimangiato l’accordo di metà luglio col governo proponendo, per la separazione da Aspi, due vie per realizzare un’asta internazionale sulla sua quota (l’88,3% delle azioni). Di quelle proposte non s’è discusso e d’altronde non sono praticabili: nessun investitore di peso partecipa a un’asta contro un grande investitore pubblico, tanto più che il valore di Aspi dipenderà anche da come sarà la nuova concessione, cioè tecnicamente il prossimo Piano economico finanziario (Pef), che il ministero dei Trasporti non ha ancora approvato (e non lo farà se la situazione non si sblocca).

Insomma, il management delle aziende controllate dai Benetton sta prendendo (o perdendo) tempo in attesa di non si sa cosa. In tre settimane non una singola discussione di merito è stata portata avanti: un passo avanti, due indietro, questo è lo schema. Ieri, dopo l’ennesimo round sostanzialmente inutile, in Cdp erano assai pessimisti: di questo passo si arriverà all’autunno senza avere niente in mano.

Al di là delle reali intenzioni degli azionisti di Atlantia, lo schema disegnato nel vago accordo del 14 luglio lasciava inesplorate – tra le altre mille – due questioni fondamentali per la chiusura dell’affare: il prezzo di Autostrade e la manleva alla Cassa per il futuro (non proprio un fatto secondario viste le abitudini di Aspi in tema di manutenzioni).

Il prezzo, ad esempio, stabilirà chi avrà vinto e chi perso in questa partita che va avanti da due anni: stabilirlo non è un fatto univoco perché dipende – a non voler considerare la “punizione” per aver lasciato crollare il Ponte Morandi – da quale sarà la redditività di Aspi in futuro (quanto traffico, quanti aumenti tariffari, in cambio di quali investimenti). Atlantia ha a bilancio la sua controllata per 6 miliardi, un prezzo in linea coi valori di quest’anno segnato dal Covid, ma la sua variegata compagine azionaria (a partire dal fondo Tci, forte di un 6%) valuta l’azienda almeno il doppio incorporando un ritorno del traffico alla normalità e un premio per il controllo: il punto è che per Cdp il prezzo a cui entrerà in Aspi deve essere il più basso possibile e di sicuro non quello che fa felici i quotisti di Atlantia.

Anche sulla manleva per il futuro contenzioso siamo nel più classico “comma 22”: Cassa depositi la pretende per sé e per gli investitori che entreranno insieme a lei prima della quotazione in Borsa; i soci di Atlantia – dopo aver incassato utili incredibili dovuti anche al taglio di investimenti e manutenzioni – non vogliono rispondere più di nulla e il cda e i soci non approveranno mai un accordo che la contenga. Però si discute. La rottura non c’è, una soluzione al momento nemmeno.

I licenziamenti fermi fino al 15 novembre, ma non per tutti: c’è la proroga variabile

Il compromesso qualche rara volta è arte, il resto del tempo un arrabattarsi quasi sempre insoddisfacente, molto spesso ridicolo: la Costituzione repubblicana è un esempio del primo caso, l’intesa politica sul blocco dei licenziamenti – raggiunta ieri dalla maggioranza di governo – del secondo. La sostanza è che la proroga della norma che scade tra dieci giorni sarà “variabile”: varrà per tutti fino al 15 novembre, ma per chi usa gli ammortizzatori sociali targati “Covid-19” (anch’essi prorogati) fino a fine anno. Un modo per mettere d’accordo chi non voleva alcuna proroga (i renziani), chi la voleva fino al 15 ottobre (la gran parte del Pd e un pezzettino dei 5 Stelle), chi la voleva fino a fine anno (la gran parte del M5S, LeU e un pezzo di Pd).

Per capire come s’è arrivati fin qui, e di cosa si sta effettivamente parlando, bisogna ripartire dall’inizio. Il blocco dei licenziamenti fu deciso all’inizio del lockdown – insieme alla cassa integrazione con causale “Covid-19” e a un’altra serie di ammortizzatori sociali – per evitare che la chiusura imposta dal governo si trasformasse in una desertificazione occupazionale.

Qual è la ratio della norma? Spostare il problema a quando l’attività economica sarà ripresa a pieno regime, cosa che non accenna ad accadere: le stime, ad esempio quella dell’Ufficio parlamentare di bilancio, prevedono che la “nuova normalità” comincerà col 2021. Tradotto: consentire licenziamenti ora significa condannare lavoratori spesso maturi a una lunga disoccupazione e regalare alle aziende la possibilità di ristrutturarsi (aka liberarsi dei “vecchi” contratti con troppi diritti e troppo salario) lasciando il conto alla fiscalità generale via sussidi.

Ad oggi, e finché il decreto Agosto non sarà in Gazzetta Ufficiale, il divieto di licenziare scadrebbe il 17 agosto. Una proroga era pacifica per chiunque fin da giugno, poi è iniziata una campagna martellante della Confindustria guidata dal neo presidente Carlo Bonomi, arrivata in queste settimane a vette parossistiche tipo “se non si può licenziare, non si può assumere”. Gli alti lai della nuova razza padrona hanno trovato ascolto sui media – e ci mancherebbe – e nel governo portando alle tensioni di questi giorni.

Il via libera a licenziare da agosto era una cosa a cui non credeva davvero nessuno. La proposta di compromesso delle imprese era mantenere il divieto solo per chi usava gli ammortizzatori “Covid-19”. Persino un uomo così sensibile, diciamo, alle ragioni dell’impresa e della realpolitik come il ministro dell’Economia Roberto Gualtieri sapeva che questa impostazione non aveva la maggioranza nel governo e in Parlamento: la sua proposta di mediazione era stata divieto fino al 15 ottobre, data in cui scade l’attuale “stato di emergenza”, e fino a fine anno solo per chi usa gli aiuti pubblici “Covid”. Questa proposta ha causato una minaccia di sciopero generale di Cgil, Cisl e Uil e l’irrigidimento dell’ala sinistra di M5S e Pd. Ecco allora la mediazione della mediazione: il divieto di licenziare viaggerà insieme alla Cassa integrazione e agli sgravi (4 mesi) per chi fa rientrare i dipendenti al lavoro.

Dovrebbe funzionare così: la Cig sarà prorogata di 18 settimane fino a fine anno a partire dal 13 luglio (quando scadevano le prime 18 settimane continuative) e dunque il divieto di licenziamento sarà totale dal 13 luglio per 18 settimane continuative. Poi, essendo teoricamente finita la Cassa integrazione Covid-19 attivabile da un’azienda nel 2020, si torna alle regole normali: la deadline, per così dire, è appunto il 15 novembre.

Non per tutti, però: il divieto di licenziamento sarà ancora in vigore per quelle imprese che a quel punto staranno ancora usando gli aiuti pubblici “Covid-19” (cioè la Cig o gli sgravi fiscali), che sono attivabili fino a fine anno. Il Consiglio dei ministri che ratificherà questo compromesso, nel senso che sappiamo, dovrebbe tenersi oggi, sempre che non vengano fuori altri drammi: ieri sera, per dire, i giallorosa litigavano sui bonus ai consumi.

“Così l’azienda mi ha costretto a lavorare anche durante la Cig”

Durante la crisi, l’assalto dei “furbetti” ad accaparrarsi la Cassa integrazione Covid pur non avendo avuto cali significativi del fatturato è stato un fenomeno trasversale, che ha riguardato molti settori e oltre un terzo delle aziende che ha avuto accesso alla Cig. Un’azione scorretta che, secondo stime Inps, ha trasferito almeno 2,7 miliardi di euro dalla fiscalità generale a imprese che non ne avevano bisogno, mentre i redditi dei lavoratori in cassa calavano in media del 27%. I numeri sono contenuti in due report: uno dell’Ufficio parlamentare di bilancio, l’altro di Inps-Bankitalia. Il punto è che, se non si hanno cali di fatturato, è assai probabile che i lavoratori in Cig in realtà siano rimasti in servizio. Una deduzione confermata dalle molte storie che ci avete raccontato all’indirizzo dilloalfatto@ilfattoquotidiano.it.

 

La minaccia/1. “Questa è la proposta che mi ha fatto il mio datore di lavoro: tu lavori da casa a tempo pieno e io ti do la differenza in nero tra la cassa integrazione e il tuo stipendio. Io ho risposto di no e, forse, ne pagherò le conseguenze, ma purtroppo alcuni miei colleghi hanno accettato”.

F. B.

 

La minaccia/2. “La mia azienda ci fa lavorare in nero le giornate festive al costo delle ordinarie (senza il supplemento del 28%) in regime di cassa integrazione. O ci accontentiamo oppure ci verranno pagate alla fine della cassa integrazione, cioè non si sa ancora quando”.

L.

 

Alla luce del sole. “Un importante resort siciliano ha riaperto a metà maggio. Sono ripartite tutte le attività e tutti i dipendenti hanno ripreso a lavorare. Peccato che siano ancora in Cassa integrazione”.

G. A.

 

Da Nord a Sud. “Io con i miei 100 colleghi, distribuiti su 3 diversi sedi (Lombardia, Toscana e Sicilia), siamo stati messi in cassa integrazione, ma abbiamo sempre tutti lavorato in smart working”.

S.

 

Senza interruzione. “Lavoro in un hotel lombardo e sono un addetto alla reception. Ho lavorato tutto il periodo del lockdown senza ricevere un soldo dai titolari, ma solo dalla Cig. L’hotel non segue le più elementari disposizioni contro il coronavirus”.

R. C.

 

L’inganno sui banchi. “Sono un insegnante dipendente di una scuola paritaria. Nei mesi di lockdown, noi insegnanti (siamo tutti dipendenti a tempo determinato) ci siamo adoperati per fare le lezioni online. L’azienda si è dimostrata totalmente assente ed è sempre stata informata di ogni situazione manifestando il proprio benestare ed esprimendo anche la propria gratitudine per il lavoro svolto. A fine marzo ci comunicano che per tutelare noi dipendenti veniamo messi in cassa integrazione e che l’azienda avrebbe pagato soltanto una percentuale del nostro orario settimanale. In maniera verbale ci viene detto che per noi non sarebbe cambiato nulla: ‘Avrete il vostro stipendio. Non perderete un euro’, lasciando quindi intendere che l’istituto ci avrebbe pagato la differenza tra il normale stipendio e la cassa integrazione. Non è stato così. In tre mesi (marzo, aprile e maggio) ho perso più di 500 euro al mese. Purtroppo lo abbiamo scoperto solo a fine giugno, quando ormai l’anno scolastico era finito e noi avevamo regolarmente continuato a insegnare. Invece le rette imposte dalla scuola alle famiglie (da 3 mila a 5 mila euro annui a studente) è stata interamente versata dai genitori”.

R. C.

 

Evasione fiscale e nero. “Lavoro nel settore dei trasporti. Durante il lockdown ho avuto a che fare con tante imprese che sono rimaste aperte. Io andavo a caricare da loro, ma mi facevano una bolla provvisoria per poter viaggiare. Poi, quando arrivavo a destinazione, strappavano i documenti per dichiarare di essere fermi. Così non hanno mai fatturato”.

M.

 

La truffa dell’Iban. “Nell’azienda artigiana dove lavoro hanno chiesto la Cig per noi dipendenti, ma invece di dare il nostro Iban hanno dato quello dell’azienda. Quando sono arrivati i soldi degli ultimi 20 giorni di marzo, l’azienda si è trattenuta la Cig dei dipendenti per 20/25 giorni prima di darcela”.

P. P.

 

La ritorsione. “Nell’hotel dove lavoro a orario pieno, la titolare ci paga lo stipendio metà lei e metà grazie alla Cassa integrazione. Io ho un contratto per la sostituzione di una dipendente che è in malattia. Un paio di dipendenti si sono lamentati dicendo che se lei paga solo metà stipendio, loro vogliono fare metà orario: li ha lasciati a casa”.

S. C.

 

Surreale. “Ho lavorato e lavoro regolarmente pur essendo in Cig fino al 31 agosto. I soldi mi sono stati anticipati dall’azienda e la differenza tra la quota dell’Inps e il mio stipendio mi è stata data dal datore di lavoro, tranne che per un mese dove da loro non ho preso nulla”.

E Salvini finì spiaggiato

7 agosto 2019. Matteo Salvini, reduce dalle pirotecniche vacanze al Papeete Beach di Milano Marittima, incassa in Senato il secondo successo in tre giorni, dopo l’approvazione del dl Sicurezza-bis: rompe il Contratto di governo coi 5Stelle e vota la mozione Pd pro Tav Torino-Lione con dem, FI e FdI, respingendo quella contraria del M5S. Poi incontra in segreto il premier Giuseppe Conte per 50 minuti a Palazzo Chigi. E gli preannuncia la crisi di governo per andare alle elezioni anticipate. Conte, basito, gli fa più o meno questo discorso: “Ti avevo già detto dopo la tua vittoria alle Europee che, se volevi, si poteva andare al voto anche il giorno dopo. Tra l’altro avevi il pretesto degli attacchi ricevuti dal M5S in campagna elettorale. Ma tu hai detto no. E l’hai ribadito anche pubblicamente, per due mesi. Anche quando il presidente Mattarella ha fatto notare che, per sciogliere le Camere e votare in settembre in tempo per formare un nuovo governo e approvare la legge di Bilancio, non si poteva aprire la crisi oltre il 20 luglio. L’hai lasciato congedare lo staff per le vacanze, hai garantito a Giorgetti che poteva partire tranquillo e ora cambi idea? Mi spieghi perché?”. Salvini farfuglia di “casini interni”, di “successo alle Europee da capitalizzare”, ma si capisce che vuole pure giocare d’anticipo sugli scandali leghisti (Russiagate, voli di Stato, 49 milioni, Siri, Arata & C.). Pesano anche l’imbarazzo per non avere un candidato credibile come commissario Ue e il pressing dei presidenti nordisti Zaia e Fontana su quell’autonomia differenziata che gli farebbe perdere voti al Sud. Aggiunge: “Non tengo più i miei, mi serve una campagna elettorale per compattare la Lega, c’è chi vuole farmi fuori, non posso più rinviare”. E intima a Conte di dimettersi su due piedi per “votare subito, a settembre”.

Il premier gli tiene una piccola lezione di diritto parlamentare e costituzionale, spiegandogli alcuni passaggi che sembrano sfuggirgli: “Matteo, ti fai delle pie illusioni. Io non è che mi dimetto perché tu vieni qui a dirmi che lasci la maggioranza. Devi presentare una mozione di sfiducia in Parlamento, massima trasparenza. La via maestra è tornare dove abbiamo ricevuto la fiducia. In passato le crisi si facevano nei corridoi di palazzo o nelle segreterie dei partiti: io voglio fare tutto alla luce del sole. Tu dovrai esserci, al contrario del dibattito sullo scandalo russo, e spiegare guardandomi negli occhi perché mi levi la fiducia. Poi dovrai passarmi davanti e votarmi contro. E i tempi tecnici per votare a settembre non ci sono”. Il congedo è raggelante: “Pensaci bene stanotte. Parla con i tuoi consiglieri, se ne hai. Poi fammi sapere”.

Salvini promette di pensarci e corre a Sabaudia per un comizio (parlerà del governo al passato: “È stato un anno bello, ma qualcosa si è rotto”, senza però ufficializzare la crisi). Per strada, invia un sms all’altro vicepremier, Luigi Di Maio: “Chiama Conte, che ti deve dire una cosa”. Di Maio invece chiama lui: “Dimmela tu, in faccia”. Salvini ripete: “Non tengo più i miei, il governo è finito, andiamo a votare”. E il capo grillino: “Tu stai tradendo anche l’ultimo impegno, quello di governare cinque anni. La tua parola non vale più niente”. Da allora i due, almeno a voce, non si parleranno più.

8 agosto. Conte compie 55 anni. Sale al Colle e aggiorna riservatamente Mattarella. Poi Salvini torna da lui e conferma la rottura. Insiste sul “governo dei no”, aggiunge che molti dei suoi non vogliono saperne del taglio di un terzo dei parlamentari che dev’essere approvato in quarta e ultima lettura il 9 settembre. Pare si accorga solo ora che la legge costituzionale impone una nuova legge elettorale per ridisegnare i collegi, così non si potrebbe più votare fino a primavera: un rischio troppo grosso, con le inchieste sulla Lega che potrebbero esplodere. Meglio “capitalizzare subito i consensi delle Europee”, prima che inizi la luna calante: “Andiamo a votare in fretta”.

Il premier lo avverte: “Questo non è il governo dei no, stiamo lavorando moltissimo: non provare a screditare il lavoro mio e dei miei ministri, perché io ti smentirò pubblicamente”. Poi prosegue la lezione: le elezioni a settembre se le scorda, la finestra si è chiusa il 20 luglio, ora bisogna richiamare tutti i parlamentari dalle ferie, fissare il dibattito in Senato e poi alla Camera, a cui seguiranno le consultazioni del presidente Sergio Mattarella, la verifica di eventuali maggioranze alternative e, se non ce ne sono, lo scioglimento delle Camere. Il tutto, in un mese circa: dunque si voterebbe a fine ottobre, il nuovo governo partirebbe a novembre e potrebbe al massimo stilare la legge di Bilancio, ma non approvarla entro il 31 dicembre. Dunque – spiega Conte all’attonito Salvini – “il tuo eventuale governo partirebbe sotto i peggiori auspici, trascinando l’Italia, per la prima volta nella storia, all’esercizio provvisorio, con aumento dell’Iva di 23 miliardi, spread alle stelle, speculazione internazionale scatenata contro l’Italia e procedura d’infrazione Ue assicurata (“Non ci sarò più io a sventarla, come a dicembre e a maggio”). Ultimo passaggio: il commissario Ue, che dopo le Europee toccava alla Lega: “Così ti giochi anche quello. Grazie ai buoni rapporti con Ursula von der Leyen, potevo strappare il commissario alla Concorrenza, garantendo per voi. Ma, se fai cadere il governo, avrò le mani libere e indicherò un nome migliore per l’Italia”. Salvini fa spallucce, poi pare quasi scusarsi: “Non pensare che per me sia facile, son due notti che non dormo, non so se faccio bene, ma devo farlo”. “Pensaci molto bene” prova ancora a convincerlo Conte: “Rischi di portare al disastro il Paese, e anche te stesso”. Salvini finge di prendere tempo: “D’accordo, faccio ancora qualche telefonata”. Ma pochi minuti dopo la Lega dirama una nota ufficiale che chiede le elezioni. Poi il vicepremier spara sul “governo dei no e del non fare” e ordina ai parlamentari: “Muovete il culo e tornate dalle vacanze a lavorare come milioni di italiani”. Conte convoca la stampa: “Salvini mi ha detto che vuole capitalizzare il consenso. Ci tratta da scioperanti, mentre lui se ne stava in spiaggia e noi eravamo qui a lavorare. Porto la crisi in Parlamento, sarà la più trasparente della Repubblica”.

9 agosto. La Lega presenta la mozione di sfiducia. Lo spread sale a 238 punti. Salvini: “Chiedo agli italiani di darmi pieni potermi per fare quello che abbiamo promesso senza palle al piede”. Matteo Renzi anticipa al Fatto che proporrà al Pd un governo con i 5Stelle guidato da un tecnico (pensa a Raffaele Cantone) che duri un anno e scongiuri i pieni poteri a Salvini e l’aumento Iva. In realtà teme il voto anticipato che spazzerebbe via la sua corrente, ancora maggioritaria nei gruppi parlamentari ma non più nel nuovo Pd di Nicola Zingaretti.

10 agosto. Beppe Grillo sul blog: “Mi eleverò per salvare l’Italia dai nuovi barbari”. Un sì a un governo col Pd e un no alle elezioni, anche se vuol trattare solo con Zingaretti. Il quale dice no e chiede elezioni subito. Anche Repubblica è sulla linea Salvini-Zingaretti: “Voto subito (ma c’è chi dice no)”.

12 agosto. Sms di Grillo ai suoi: “Le stelle cadenti tornano indietro, ripeto: le stelle cadenti tornano indietro”.

13 agosto. La nave Open Arms con 147 migranti a bordo fa rotta verso l’Italia, i giudici ordinano lo sbarco dei minori, Conte scrive a Salvini di autorizzarlo, ma quello rifiuta.

14 agosto. Conte, Di Maio e Salvini a Genova per ricordare i caduti del ponte Morandi in un clima di gelo totale.

15 agosto. Conte pubblica un’altra lettera a Salvini su Open Arms, accusandolo di “sleale collaborazione” e “strappi istituzionali”. Alla fine Salvini cede. E tenta di bloccare il dialogo M5S-Pd: “Il mio telefono è sempre acceso”. Alcuni suoi emissari, tra cui il sottosegretario Stefano Candiani, offrono a Di Maio di fare il premier. Ma Di Maio: “La frittata è fatta. Salvini si dimetta”.

16 agosto. I 5Stelle, dopo vari abboccamenti con emissari del Pd (oltre a Renzi, i più attivi sono Dario Franceschini e Goffredo Bettini), formano un’unità di crisi in continuo contatto in chat: Di Maio, Casaleggio, Bonafede, Fraccaro, Taverna, Di Battista, i capigruppo Patuanelli e D’Uva, Bugani, Spadafora. Che si incontrano spesso a casa di Pietro Dettori, braccio destro di Casaleggio. E decidono di andare avanti col dialogo, ma solo se il Pd sarà unito intorno a Zingaretti. Anche Dibba è d’accordo: suo padre, fascista, lo sprona al governo col Pd per “fregare il traditore Salvini”.

18 agosto. Grillo invita nella sua casa a Marina di Bibbona (Grosseto) il direttorio M5S, allargato a Roberto Fico. Grillo s’informa sulla serietà delle avance di Salvini, poi lui e gli altri convengono che l’unico tentativo da fare per evitare il voto è quello col Pd. Solo Casaleggio non si esprime. Alla fine, una nota: “Salvini inaffidabile e non più credibile”. Zingaretti cambia idea: non più elezioni, ma “governo a larga base parlamentare”. Prodi lancia la “coalizione Orsola”, nel nome di Ursula von der Leyen eletta un mese prima presidente Ue coi voti di 5S (decisivi), Pd e FI. E chiama Conte per dirgli che ne sarebbe il premier ideale.

20 agosto. Conte in Senato striglia Salvini, seduto accanto a lui, per 48 minuti: “Sei irresponsabile e pericoloso”. Una scena mai vista nella storia repubblicana, che fa il boom di ascolti in tv e sui siti. Alla fine il leghista, travolto dal suo fallimento politico e anche mediatico, ritira in extremis la mozione di sfiducia per restare al governo. Ma il premier annuncia: “Se Salvini non ha il coraggio delle sue scelte, me lo assumo io. Questo governo finisce qui”. E sale al Colle a dimettersi.

21 agosto. Zingaretti al Messaggero: su Conte premier “zero margini”: “Conte non va bene: non si può dire che gli altri, ovvero Salvini, hanno sbagliato, e riprendere a governare come se nulla fosse cambiando solo alleato”. Invece “nessun veto su Di Maio”. Ma Renzi dice al Fatto: “Sì a Conte”.

22 agosto. Zingaretti propone i 5 punti programmatici del Pd, Di Maio i 10 del M5S. Mattarella chiede una soluzione “in tempi brevi” e dà 5 giorni ai partiti, poi scioglierà le Camere. Conte, dopo il brindisi di saluto allo staff di Palazzo Chigi, se ne va nella casa in collina della compagna Olivia Palladino con lei e i rispettivi figli: si sente ormai fuori gioco, stacca i telefoni per non intralciare il dialogo M5S-Pd, ritenendosi divisivo e inviso ai dem, e prepara il G8 di Biarritz dove darà l’addio agli altri capi di governo. Emissari del Pd gli propongono di fare il commissario europeo, ma lui rifiuta: “No, grazie, torno a fare l’avvocato e il professore”.

23 agosto. Salvini chiama Mattarella annunciando che alle consultazioni del 27 proporrà un nuovo governo giallo-verde con Di Maio premier e avverte via sms Di Maio. Che non gli risponde, convinto che sia solo un trucco per divulgare lo scambio, far saltare il tavolo M5S-Pd e andare al voto. Lungo incontro programmatico fra le delegazioni dem (i vicesegretari Andrea Orlando e Paola De Micheli e i capigruppo Marcucci e Delrio) e 5Stelle (Patuanelli, D’Uva, Perilli e Silvestri). La sera, in segreto, Di Maio vede Zingaretti a cena a casa di Spadafora. Nel piatto non c’è ancora il nodo del premier, rinviato a lunedì 26, vigilia delle consultazioni al Colle. Ma Grillo spiazza tutti e lancia Conte sul blog: “Sembra che nessuno voglia perdonare a Conte la sua levatura e il fatto che ci abbia restituito una parte della dignità persa di fronte al mondo intero… Qualsiasi cosa che preveda di scambiarlo come una figurina del circo mediatico-politico sarebbe una disgrazia… Benvenuto tra gli Elevati”. Così Di Maio anticipa a Zingaretti che l’unico premier possibile per il M5S è Conte. La tensione sale subito alle stelle: Zingaretti esce dall’incontro sospettando che Di Maio stia tornando con la Lega e faccia il nome di Conte per bruciarlo; Di Maio invece sospetta che Zingaretti voglia le elezioni per annientare Renzi. E, alla notizia che Di Maio ha fatto il suo nome, Conte va su tutte le furie, non avendolo autorizzato a farlo. La trattativa è sul punto di saltare.

24 agosto. Il Pd fa filtrare sui giornali i suoi premier prediletti, tutti tecnici sgraditi al M5S: Enrico Giovannini, Marta Cartabia, Sabino Cassese, con Di Maio vicepremier unico. Al Nazareno si pensa che Di Maio giochi per sé tentando di bruciare Conte. Invece il capo M5S scrive agli altri in chat: “Io Conte non lo mollo. L’importante è che Conte non molli noi”. Infatti il premier uscente, in partenza per Biarritz, annuncerà al G8 il suo ritiro dalla scena politica per non essere d’inciampo a Di Maio e alla nascente alleanza giallorosa. Ma al suo arrivo i messaggi e le chiamate dai big 5Stelle e il pressing del suo staff lo convincono a rinunciare alla rinuncia. Ai giornalisti dice: “Quella con la Lega è un’esperienza politica che non rinnego, ma è una stagione politica per me chiusa e che non si potrà aprire mai più per nessuna ragione. Il nuovo governo non è questione di persone, ma di programmi. Gli uomini sono secondari”. È quello che il Pd, dopo tanti sospetti sul ritorno di fiamma M5S-Lega, vuole sentirsi dire.

25 agosto. Il Pd “tenta” Fico come premier di “discontinuità”, ma lui si sfila: “Resto presidente della Camera”.

26 agosto. Pressato dai renziani, da Orlando, Prodi e Franceschini e anche da alcune cancellerie europee (si parla di Merkel, Macron e Von der Leyen), Zingaretti chiama Conte e fa cadere il veto del Pd su di lui, anche se non pubblicamente. Di Battista, temendo un governo ostaggio di Renzi, propone di andare a vedere le proposte leghiste, ma resta solo. Vertice fino a tarda notte a Palazzo Chigi tra Conte, Di Maio, Zingaretti e Orlando.

27 agosto. Il gruppo Espresso continua a sparare sul nascente governo. Repubblica titola: “Crisi di un governo mai nato”. Altro vertice-fiume a Chigi sui temi del programma. E lì c’è intesa, anche perché il programma è vago e il tempo concesso dal Colle è poco. Il veto Pd su Conte cade anche ufficialmente. Ma M5S e Pd litigano su Di Maio: Zingaretti vuole un “governo di discontinuità”, senza ministri del Conte-1. Ma Di Maio: “Allora neppure ministri dei governi Renzi e Gentiloni”. Altra lite sul “colore” di Conte: per Di Maio è un premier super partes, per Zingaretti è del M5S e dunque il Pd chiede un vicepremier unico (Orlando o Franceschini), mentre Di Maio ne vuole due (l’altro è per sé). Donald Trump saluta il ritorno di Conte con un tweet: “… Giuseppi Conte ha rappresentato l’Italia in modo energico al G7… Un uomo molto talentuoso che rimarrà, spero, Primo ministro”.

28 agosto. Uscendo dalle consultazioni al Quirinale, Di Maio rivela: “La Lega mi ha proposto come premier e mi ha informato di averlo comunicato anche a livello istituzionale. Li ringrazio, ma penso al bene del Paese e non a me”. Poi annuncia che il governo dovrà passare dal voto degli iscritti su Rousseau: nuova bagarre.

29 agosto. Conte riceve il reincarico da Mattarella. Salvini tuona al “governo Bibbiano” e invoca la piazza.

30 agosto. Veto del Pd su Di Battista ministro degli Affari europei. Di Maio – che vorrebbe fare il vicepremier e il ministro dell’Interno o della Difesa, mentre il Pd vuole lasciarlo al Lavoro – intima al Pd di accettare altri 10 punti oltre a quelli già esposti: “altrimenti si vota”. Conte (che pure vorrebbe i vice) e il Pd sono furibondi: tutto sembra tornare in alto mare.

1° settembre. Conte si collega da Palazzo Chigi con la festa del Fatto alla Versiliana: “Governo pronto in un paio di giorni. Nessun contratto fra partiti diversi, ma un unico programma condiviso”. Grillo si appella al Pd: “È un’occasione unica”. E lancia un messaggio a Di Maio: “Basta parlare di incarichi”.

2 settembre. Zingaretti e Di Maio cedono sui vicepremier: non ce ne sarà nessuno. Il leader Pd non entrerà nel governo, il capo M5S andrà agli Esteri.

3 settembre. Gli iscritti M5S approvano il Conte 2 col 79% dei Sì (su 73mila votanti).

4 settembre. Conte al Quirinale scioglie la riserva leggendo la lista dei ministri del suo secondo governo. E ottiene dalla Von der Leyen per Paolo Gentiloni il dicastero Ue più importante mai ricoperto da un italiano: gli Affari economici. Salvini, in meno di un mese, è passato dai pieni poteri a zero poteri.

L’Italia che ha perso il filo ritorna nel labirinto

Italia, popolo di poeti, santi e navigatori, magari online. E di labirinti. Metaforici: il labirinto della burocrazia, della politica, di un linguaggio privato e pubblico sempre più involuto. Il labirinto interiore dell’homo mediterraneus del terzo millennio.

E anche in senso fisico il nostro territorio ne è costellato. Quasi tutti hanno riaperto i battenti tra maggio e giugno. Posti misteriosi e altamente cinematografici, infiniti benché circoscritti, ammantati di simbolismo. I più suggestivi sono concentrati per lo più al nord. Senza minotauri in agguato, ma al massimo i Subsonica col featuring di Morgan: “Vorrei una discoteca labirinto/bianca senza luci colorate/grande un centinaio di chilometri/dalla quale non si possa uscire”. Risale al Seicento Il Giardino Monumentale di Villa Barbarigo, a Valsanzibio (Padova). Un dedalo quadrato tra i più vistosi dell’epoca. Il percorso, voluto dal cardinale omonimo, raggiunge i 1500 metri e idealmente raffigura l’arduo cammino verso la perfezione e la salvezza. I sette vicoli ciechi incarnano i vizi capitali, e così i visitatori sono costretti a tornare sui loro passi. L’opera venne concepita come voto a Dio per sconfiggere la peste del 1631. La vita è contorta, ma c’è sempre una via d’uscita. Villa Pisani a Stra, in provincia di Venezia, è una delle più famose. Il suo labirinto in siepi di bosso è un piccolo capolavoro. Fu costruito nel Diciottesimo secolo come luogo di divertimento e soprattutto di corteggiamento.

Nella torretta centrale, una dama mascherata era solita attendere seraficamente il cavaliere alle prese col tortuosissimo iter, pronta a disvelarsi una volta raggiunta. Uno dei giochi preferiti dai nobili nelle estati roventi del Settecento: altro che TikTok. “Non c’è bisogno di costruire un labirinto quando l’intero universo è un labirinto” scrisse Jorge Luis Borges. Porta il suo nome un dedalo nell’Isola di San Giorgio, a Venezia. Ha visto la luce nel 2011, in omaggio al suo Il giardino dei sentieri che si biforcano. Il labirinto della Masone a Fontanellato (Parma), aperto nel 2015 è, nel suo genere, il più vasto del pianeta: tre chilometri di rompicapo in mezzo a piante di bambù. Mentre Il labirinto del Castello di Donnafugata, a Ragusa, tutto in pietra e a forma di trapezio, è tornato in auge dopo aver ospitato alcune scene de Il racconto dei racconti di Matteo Garrone. Molti altri andrebbero aggiunti a questa lista, ma abbiamo perso il filo d’Arianna.

A pranzo con Welles. Il genio obeso e il grillo parlante

Oggi siamo a pranzo con Orson Welles. In realtà lui pranza con il suo amico Henry Jaglom, da quando, a partire dal 1978, si ritrovano al “Ma Maison”. Ma noi siamo lì, grazie a Peter Biskind (A pranzo con Orson, Adelphi 2013). Welles chiese a Jaglom di registrare le loro conversazioni, a patto di tenere il registratore nella borsa, nascosto ai suoi occhi. Jaglom iniziò a registrare nel 1983, e continuò fino alla morte di Welles, il 10 ottobre 1985, quando ebbe un infarto nel cuore della notte. Morì con la macchina da scrivere in grembo: stava lavorando a una sceneggiatura.

Oggi, come sempre, si avvicinano al tavolo persone di ogni tipo, nella speranza di ricevere qualche detto memorabile. “BUONGIORNO! COME VA?” tuona la roboante voce orsoniana. A volte è scortese. “Che piacere conoscerla”. E lui: “Il piacere è tutto mio, ma basta così”. Quando Jaglom gliene chiede la ragione, Welles risponde: “In qualche modo devi far capire alla gente che non sei solo un bambolotto. Devi essere il re della foresta. La gente vuole ‘Orson Welles’. Vuole lo spettacolo dell’orso ballerino”. Richard Burton si avvicina al tavolo. “Orson, che piacere vederti, Quanto tempo. Ti trovo bene. C’è Elizabeth con me. Vorrebbe tanto conoscerti. Posso portarla qui?”. “No. Come vedi sto mangiando. Passo da voi quando esco”. Burton esce. HJ: “Orson che stronzo! L’hai trattato malissimo! È scappato come un cane bastonato”. OW: “Non darmi i calci sotto il tavolo, non lo sopporto. Non ho bisogno di te come voce della coscienza, caro il mio grillo parlante ebreo. Burton aveva un grande talento: l’ha buttato alle ortiche. È diventato una barzelletta: l’appendice di una moglie diva. Adesso lavora solo per i soldi e fa una gran merda. Comunque, non l’ho trattato male. Per dirla con Carl Laemmle, ‘gli ho dato una risposta evasiva: fottiti’”.

Cameriere: “Oggi Mr Welles abbiamo dell’arrosto di maiale”. “Oddio! Arrosto di maiale con questo caldo? Non posso mangiare maiale, sono a dieta. Però lo ordino lo stesso, solo per sentire il profumo. ‘Se v’aggradasse cenar con noi’ dice Bassanio a Shylock; e Shylock risponde: ‘Sì, per fiutare il porco, per mangiar la dimora in cui il Nazarita, vostro profeta, ficcò per magia il demonio! Con voi posso comprare, con voi vendere, parlare, passeggiare e via dicendo, ma non mangiare, bere, e nemmeno pregare’. In realtà Gesù mise una schiera di diavoli nei porci di Gadara. Shakespeare invece voleva solo dare a Shylock un motivo per non mangiare con quelli là”.

HJ: “Stavo leggendo il libro di Garson Kanin su Spencer Tracy e Katharine Hepburn. Disse che lei e Tracy vivevano insieme…”. OW: “Ma lo sapevano in molti visto che se la faceva con tutta la città, a ruota libera”. “La Hepburn?”. “Alla faccia! Stavo girando Quarto potere. L’avevo vicino al trucco: si preparava per Febbre di vivere. E con dovizia di parolacce raccontava di come la sbatteva Howard Hughes. Anche Grace Kelly ci dava dentro in camerino, quando nessuno guardava… ma poi non lo andava dire”. “Vorrei capire perché Tracy ce l’ha con te”. “Non sono mai stato un suo ammiratore. Da ragazzo, a teatro, mi alzai e gli feci una piazzata durante Capitani obbrobriosi. Coraggiosi, coraggiosi. Mi alzai e urlai: ‘Si vergogni!’. Poi la maschera mi sbatté fuori perché non la smettevo”. “Non lo trovavi affascinante?”. “Macché. Semmai, odioso. Una volta andai a prenderlo in un bar di Londra: la gente veniva da me a chiedere l’autografo e a lui non badava. Ma io ero il Terzo uomo, diamine, mentre Tracy aveva i capelli bianchi. Cosa pretendeva? Si sedette al tavolo e disse: ‘Guardano solo te. Io sono invisibile’”.

“Non riesco a digerire il tuo giudizio su Marlon Brando”. “È per quel collo. Sembra un salsiccione. Una scarpa fatta di carne”. “Dicono che non sia molto intelligente”. “Be’, come quasi tutti i grandi attori. Larry (Olivier) è un beota – sul serio. L’intelligenza è un handicap, per un attore. Perché se sei intelligente non sei emotivo, ma cerebrale. Fra gli artisti, attori e musicisti hanno più o meno la stessa intelligenza. I cantanti meno. Sono fissati con il loro gargarozzo. Con le dovute eccezioni. Leo Slezak disse la più grande battuta di tutti i tempi a teatro. Era il massimo tenore wagneriano della sua epoca. Cantava il Lohengrin. Se sei un wagneriano sai che Lohengrin entra in scena su un cigno che galleggia sul fiume. Scende, canta, e alla fine dell’ultima aria deve ripartire a bordo del cigno. Non fosse che una sera il cigno se ne andò via da solo, prima che Slezak riuscisse a imbarcarsi. Al che lui non batté ciglio, si girò verso il pubblico e disse: ‘A che ora passa il prossimo cigno?’”.

A pranzo con Orson lui può raccontarti, naturalmente, tutto di Quarto Potere. O di quando il suo grande amore, Rita Hayworth, lo cercò disperata alla vigilia delle nozze con Ali Khan e lui affrontò il viaggio su un cargo, in piedi, in mezzo ai pacchi: “Ma ormai ero pazzo di un cessetto d’italiana che mi tirava scemo, e dovevo tornare da lei a tutti i costi”. Biskind: “Orson è un rompicapo: come far convivere il ragazzo prodigio, il rivoluzionario regista teatrale, il cineasta d’avanguardia al quale quasi tutti riconoscono il merito di aver girato il più grande film di tutti i tempi… con il pagliaccio dei talk show, il reietto obeso e autodistruttivo, notorio per le sue opere incompiute e i progetti abortiti”. A tavola con lui saprete perché.

Quel “Socialista di Dio” che ha rivoluzionato il giornalismo

Inventore del Processo alla tappa, al seguito del Giro d’Italia. Padre dell’inchiesta televisiva. Intellettuale della tv. “Socialista di Dio”.

Sì, era tutte queste figure Sergio Zavoli. Ma era soprattutto l’incarnazione del servizio pubblico radiotelevisivo. Un modello per i giornalisti della radio e della tv. E per tutti noialtri.

Non a caso, nella sua carriera professionale era passato dall’una all’altra con lo stesso stile, compassato e composto, ispirato dall’etica dell’informazione e dell’impegno civile. Ed era riuscito a conservarlo anche da uomo di partito, da presidente della Rai e poi della Commissione parlamentare di Vigilanza, da riformista di sinistra che credeva fermamente nel pluralismo e nel confronto.

Con la sua voce profonda e pastosa, prodiga di immagini e di suggestioni, prima aveva raccontato agli italiani attraverso i microfoni della radio quello che ancora non potevano vedere. E poi, attraverso la documentazione televisiva, aveva spiegato loro quello che non volevano sentire. Ora che la Notte della Repubblica – come s’intitolava la sua celebre inchiesta televisiva sulla storia del terrorismo – è più buia che mai, Zavoli se ne va con la misura e la discrezione che l’hanno contraddistinto per una vita.

“C’è qualcosa nell’informazione di oggi che lascia ogni tanto margini di nostalgia per come, un tempo, fu interpretata e vissuta”, aveva detto e lasciato scritto in uno dei Seminari dedicati alla riforma della Rai che volle organizzare da presidente della Vigilanza nella Biblioteca del Senato. Già, l’informazione: il core business del servizio pubblico radiotelevisivo, la sua stessa ragion d’essere. Spesso tradita e vilipesa. Ma resta la grande “lezione” di Zavoli, come esempio di autonomia professionale e d’indipendenza intellettuale.

La notte della Repubblica in cui si è spento Zavoli

Come molti italiani, ho incontrato la voce prima di incontrare Sergio Zavoli. L’ho incontrato, conosciuto e riconosciuto alla radio: allora era l’unica corda tesa, nel groviglio delle tante non spiegate o non conosciute che ci trovavamo davanti alla fine del liceo. La voce di Zavoli dava una strana fiducia, una comunicazione che non erano parole, ma suono: non era bella o brutta, era la voce di Zavoli e volevi ascoltarla. Allora ti accorgevi che non era uno speaker, ma un autore. E te ne accorgevi per una qualità rara nella comunicazione di massa a quel tempo. Non era banale, non usava stereotipi, non tentava battute. Raccontava. Era uno che “per mestiere” ti faceva attraversare i tanti rigagnoli, fiumiciattoli e torrenti delle cose sconosciute che accadevano.

Che mestiere era? Che mestiere è? Stiamo dicendo tutti che è morto un grande giornalista. Ho letto anche “un gigante del giornalismo” e vorrei chiarire in che senso dico che non è vero. Tanti di noi che sostavano sulla porta delle tre professioni dello scrivere e del parlare (per i giornali, per insegnare, per costruire storie e narrarle) avevano i loro nomi preferiti, scelti anche come modelli. Sergio Zavoli mi è sembrato subito fuori dalla classifica. Era la voce che portava la storia, non il contrario. E quella voce sostava con chi lo ascoltava, in una sorta di solidarietà con cui ti trovavi bene. Qui comincia la magia del suo successo professionale che non è in una categoria ma risiede, credo, in una strana, agile, abile, benevola vocazione di vivere insieme.

Quando ci siamo conosciuti (primi anni 50) è come se fosse un incontro fra tanti, prima e dopo, che poi sono durati per tutta la vita. Io lo conoscevo bene, lui (adesso c’era anche la persona, non solo la voce) era, sulla scena, un personaggio del tutto in linea con la voce: competente, gradevole e partecipe. In quest’ultima parola c’è forse una interpretazione utile. A Zavoli interessava l’altro, amico o incontro casuale. Non era una trovata, un espediente adatto a chi fa questo mestiere. Come sanno tutti quelli che gli hanno scritto lettere vere (cioè non pretesti per alimentare manie), Sergio Zavoli era davvero attratto dalla vita e dai fatti degli altri. La vita gli ha offerto occasioni grandissime, come le vicende del terrorismo. Ma lui, di fronte a queste vicende, è stato forse il solo a cercare il senso umano, non quello politico, di azioni crudeli e insensate.

Due episodi totalmente originali del suo straordinario uso di una capacità unica di comunicare sono il famoso Processo alla tappa (la re-invenzione televisiva del Giro d’Italia) e il documentario radiofonico sulle suore di clausura. Il primo sarebbe il sogno di qualunque bravo giornalista giovane ma, prima o dopo, non lo ha fatto nessuno. Il secondo è la prova di una persona festosamente amante della vita sociale e del cinema (grande amico di Fellini e Antonioni) ma con una sua riservata solitudine che andava a cercare e a esprimere negli altri, come un medico che è sempre in servizio.

Siamo stati in Senato insieme, in tempi difficili, e due cose ho notato: non parlava mai di se stesso e non parlava mai di politica di partito. La Rai continuava a essere “la sua ditta” (ne era stato anche presidente), ma il suo modo di “esercitare” era sempre lo stesso: dare un senso razionale, comprensibile, partecipabile alle cose. Per questo la cura dettagliata e appassionata della biblioteca del Senato, più della presidenza della Commissione di Vigilanza Rai, mostrava la sua vera, ininterrotta vocazione di persona che si cura di altre persone. Al Senato teneva più di tutto all’incarico di bibliotecario. Non c’è traccia che sia mai accaduto nella vita parlamentare, prima o dopo.

Ecco Renatino-Tyson, che mena e smista sul ring del Recovery

Proprio come l’immenso Mike Tyson, anche il nostro Renatino Brunetta, a fine carriera, vuole tornare sul ring e riprendersi quello che è suo, il titolo di miglior pugile della parola, capace di menare, a mani nude, smisurate categorie di avversari, i fannulloni pubblici, i magistrati assenteisti, i poliziotti sovrappeso, gli economisti incompetenti, i giornalisti ficcanaso, i conduttori televisivi strapagati. E, naturalmente, i comunisti che si annidano tra i banchieri europei, che sono ricchi, invidiosi e golpisti.

I soldi sono sempre stati la sua ossessione, per questo è diventato il principe degli economisti da combattimento – “meritavo il Nobel, altro che ministero” – e dunque non vede l’ora di salire in cima alla Commissione che dovrà distribuire consigli, avvertenze, proposte, sulla più grande Lotteria di Capodanno in arrivo della storia italiana, il Recovery Fund, 209 miliardi di euro, che dovranno ridare ossigeno all’economia finita in terapia intensiva causa Covid, oltre che da un trentennio di sgoverni, quasi sempre tolleranti con i più subdoli tra i nemici della Repubblica, i corrotti e gli evasori fiscali, le uniche due categorie professionali con le quali Brunetta non ha mai incrociato i guantini. Anzi: i due migliori della categoria li ha scelti a colpo sicuro, prima Craxi, poi Berlusconi.

Sarebbe lui il campione selezionato per agevolare il nuovo inizio bipartisan della legislatura e cioè una maggioranza giallo-rossa, con un po’ d’azzurro a levigare spigoli e numeri alle Camere. Sarà vero? Si vedrà.

Ma intanto onore al curriculum che in tanti firmamenti di lotta e di governo lo ha visto primeggiare. Specie in quello della baruffe e delle querele, visto l’ego smisurato che indossa su un carattere di ghiaia, ostinato in tutto, anche nell’obbedienza, una volta arruolato nelle quindici riprese. Lo è stato con il suo primo protettore, Gianni De Michelis, fino all’ultimo giro di rumba. E poi con Silvio, surclassando persino la fedeltà di Sandro Bondi, il segretario-poeta, e di Vittorio Mangano, lo stalliere-killer.

Il ghetto in cui nacque Brunetta, 26 maggio 1950, non era la Brooklyn dei riformatori per ragazzini disadattati e neri, ma la penombra della più bella città del mondo, Venezia, sestiere Cannaregio, malfamato assai a quei tempi, dove ancora oggi arriva l’ultimo gomitolo dei binari di terra ferma, e la prima risacca dei turisti da circondare con le bancarelle.

Tra quei piccioni, il babbo di Renatino faceva tutti i giorni dell’anno il venditore ambulante di gondolette di plastica nera e bamboline in vetro di Murano. Il figlio, dopo i compiti, lo aiutava: “Sui marciapiedi di Cannaregio ho imparato tutto, il lavoro e il sacrificio”. Racconta: “Eravamo poveri, vivevamo in nove in novanta metri”. Avendo quasi niente, si convinse di avere diritto a tutto, cominciando dal rispetto dei compagni di scuola, i più cattivi in ogni infanzia, bastava conquistarli: “Finivo il compito in classe in un quarto d’ora e poi lo passavo a tutti”. Studia di notte, si iscrive al Foscarini, “il liceo dei signori”, addirittura all’Università di Padova, facoltà di Scienze politiche. Quando gli studenti fanno le lotte per il 30 garantito, lui scende in battaglia: “Io ho la testa e voi no. Ma se prendiamo tutti 30, voi rimanete ricchi e io rimango povero”.

Lo arruola per primo De Michelis, la testa più fine del circo socialista, nominandolo consulente per l’economia e il lavoro. Passa non visto sotto l’onda di Tangentopoli, riemerge consulente di Giuliano Amato e poi di Carlo Azeglio Ciampi.

Pasticcia un po’ con gli incarichi universitari. Una prima cattedra la conquista a Roma, poi le polemiche per il concorso truccato lo obbligano a rinunciare. Ripiega sull’Università di Teramo. Infine il ritorno nella Capitale che vale una rivincita: “Sono il docente più bravo d’Europa”.

Nuota nella politica. Scrive il programma economico di Forza Italia, vantandosi di fare “due ore al giorno” di lezione al grande capo. Prova due volte a diventare sindaco di Venezia. Fallisce. In compenso conquista un seggio in Europa, dove si guadagna un posto nella classifica degli assenteisti. E l’unica traccia che lascia è una polemica giornalistica perché vola low cost, ma intasca il rimborso del biglietto pieno.

Finalmente al governo durante l’ultima avventura di Silvio B., anni 2008-2011, ministro della Pubblica amministrazione. Stagione per lui e per noi indimenticabile, visto che Renatino ha un talento per spararle grosse, tipo “taglieremo 300mila dipendenti pubblici entro il 2012”. E un’attitudine da crash-show durante i quali attacca i professori, i precari “siete la parte peggiore del Paese”, gli studenti, “andate a scaricare frutta ai mercati”, gli statali privilegiati, i bidelli inutili. Promette pogrom per i fannulloni. Manda “a morire ammazzata” la “sinistra per male”. Insegna a fare la pasta e fagioli in tv e insieme morde i giornalisti che non lo chiamano “onorevole”, assalta i conduttori che non gli dicono “in diretta” quanto guadagnano. Mena Fabio Fazio a prescindere. E Giulio Tremonti per antipatia pregressa.

A forza di insultare consulenti e assenteisti, in molti si sono chiesti se non stesse facendo i conti con il suo passato. Il che rende psichiatricamente interessante anche la sua ossessione contro le agenzie di rating, gli intrighi dei governi francesi e quelli dei banchieri crucchi che avrebbero organizzato il golpe del 2011, contro Berlusconi. Complotto della Spectre ad ampio raggio al quale dedica non uno, ma quattro libri. Che sorprendentemente gli pubblicano.

Come tutti i poveri che si sono fatti ricchi, ha comprato mattoni qui e là, a Venezia, a Roma, a Ravello, li ha moltiplicati con astuzia fino al pomposo casale sull’Ardeatina che con la celebre moglie Titti ha trasformato in un’azienda agricola con 25 ettari di vigne: “Produrrò 250mila bottiglie l’anno, è la mia nuova vita”. Se con la prossima commissione tornerà in quella vecchia, vedremo. Ci sarà da divertirsi. Ma questa volta gli infermieri, a bordo ring, avranno da bere.

Mail box

 

Il leghista è sconcio (soprattutto in mutande)

Egregio direttore Travaglio: ma ha visto lo sconcio di quella foto di Salvini in mutande, che stringe a sé due ragazze sulla pagina 3 di Repubblica ieri? Ma non le sembra uno sconcio? Io gliel’ho già segnalato, ma credo che la cosa meriti l’adeguata attenzione dalla sua penna acuminata. Non le pare?

Pietro Chiaro

 

Caro Pietro, almeno le due ragazze erano incensurate.

M. Trav.

 

Questo ferragosto, niente festa per i Benetton

Caro Marco, vorrei ricordarti quanto accadde il 15 agosto 2018, a 24 ore del crollo del ponte Morandi e quando ci avevano lasciato 43 anime. La famiglia Benetton aprì la sua villa in campagna per un ricevimento di notabili e anime eccellenti a base di pesce, per festeggiare il ferragosto. Gli inviti erano già partiti, fu la scusa, e non si poteva annullare tutto. Quel compleanno ora va ricordato come e più della nascita del nuovo ponte, perché è solo grazie a Conte, ai 5Stelle e a questo governo se quest’anno non hanno molto da festeggiare.

Giuseppe Moscuzza

 

Il ponte Morandi è stato mal gestito per anni

Sull’inaugurazione del ponte a Genova, il Fatto titola: “Mattarella e Conte inchiodano i Benetton”. Grazie! I Benetton, o meglio Aspi, vanno messi con le spalle al muro. Quarantatré morti dovuti all’incuria, che potrebbe a sua volta dipendere da bramosia di guadagno, non consentono perdono o clemenza. Se a questo si aggiunge il danno economico prodotto a Genova e all’Italia intera, il desiderio di una punizione esemplare appare ovvio. E il presidente Mattarella questo ha sostenuto e sono contento che il Fatto lo abbia messo bene in evidenza. Quando si parla di responsabilità e di nomi e cognomi non si possono fare sconti a nessuno ed è per questo che attendo da parte della stampa e della magistratura che venga aperta un’indagine anche a carico del Ministero delle Infrastrutture. Nel 2008 Berlusconi e la Lega concessero ad Aspi l’allungamento della concessione addirittura con l’esclusione dell’obbligo di effettuare le periodiche verifiche. Una scandalosa vergogna che vide il Pd votare contro. Ma nel 2018 il ministro Delrio, pur consapevole delle caratteristiche di quel contratto, ne ha concesso la proroga. Allora, se parliamo di responsabilità, una domanda sorge spontanea: Delrio, proprio perché era consapevole della lacuna contrattuale, si è premurato di far valutare dagli ingegneri ministeriali se Aspi aveva o meno assolto in modo corretto le operazioni di manutenzione? La domanda è legittima in quanto, crollato il ponte, Toninelli ha istituito una commissione ministeriale che ha messo in luce quanto la manutenzione condotta da Aspi fosse stata scadente (anche dell’intera rete autostradale). Il Fatto, e lo ringrazio di questo, ha dato ampio spazio ai resoconti dell’ingegnere ministeriale che ha condotto tale indagine. Non è difficile immaginare che le condizioni del ponte Morandi e l’ammaloramento della rete autostradale non si siano verificati nel corso di un solo anno. Se, dunque, nel 2018 il ministero avesse effettuato le dovute verifiche sull’operato di Aspi, forse quei quarantatré morti oggi sarebbero vivi. Qualcuno, in ambito ministeriale, ha delle responsabilità.

Marcello Scalzo

 

Anche nel pubblico si lavora con difficoltà

Caro direttore, scriviamo per denunciare la situazione insostenibile che si respira nel comparto Agenzie Fiscali. Sono ben cinque mesi che noi lavoratori pubblici siamo in smart working, percependo il solo stipendio, senza riconoscimento di ulteriori diritti quali il buono pasto, gli straordinari, i riposi compensativi ecc., e ci vediamo riconosciute convenzionalmente le 7.12 ore di lavoro al giorno, per 36 ore settimanali. Mi rendo conto come ci sia gente che sta molto peggio di noi. Però, puntualizzo che la maggior parte di noi, al di là dell’opinione comune sui “fannulloni” del pubblico impiego – molto spesso dovuta a una visione generalizzata (poche “mele marce” non possono oscurare chi con abnegazione fa il suo dignitoso lavoro) – hanno messo a disposizione le proprie risorse informatiche, senza percepire un sia pur minimo “rimborso spese”. Proprio leggendo l’altro giorno l’articolo sui “gettoni di assenza” dei candidati alle elezioni regionali mi sono indignato, pensando alla nostra situazione ormai insostenibile.

Un gruppo di funzionari del fisco

 

Un consiglio preciso per un direttore preciso

Gentile direttore, poiché in diverse occasioni nel menzionare la legge che istituì il Ssn scrive 883, mi permetto di segnalare che trattasi della 833. Certo, considerando la sua proverbiale precisione, di far cosa gradita. La saluto cordialmente.

Pier Luigi Scaiola

 

Grazie, ha ragione lei. Mea culpa.

M. Trav.