Spanò. Lascia il calcio per lo studio: una scelta intelligente (più che etica)

In questi tempi folli in cui imperversa l’estetica a dispetto dell’etica, la scelta di Alessandro Spanò, che appena promosso in B con la Reggiana ha detto addio al calcio, ai riflettori e ai soldi per studiare, è incoraggiante e dimostra che si può andare controcorrente. Spanò ha deciso di inseguire il suo sogno che nulla ha a che fare con la popolarità del calcio. Un messaggio forte per tanti giovani.

Gabriele Salini

 

La prima cosa da dire, uscendo dal cliché dello stupore per una scelta insolita e apparentemente autolesionista (il calciatore che lascia fama e soldi per i libri), è che Alessandro Spanò, nato a Giussano, Milano, il 19.06.94, è un ragazzo intelligente che ha semplicemente compiuto la scelta migliore, e più conveniente, per la sua vita. Spanò ha 26 anni e ha appena raggiunto il picco della sua carriera, la Serie B con la Reggiana, dopo una carriera trascorsa in D e C tra Vercelli, Busto Arsizio e Reggio Emilia (il suo valore di mercato, secondo il sito Transfermarkt, era di 450mila euro). Ebbene, a 26 anni i margini di crescita per un calciatore non ci sono più. Ci sono invece, eccome, per un giovane uomo che ha continuato a vivere nel mondo anche dando calci a un pallone (per dire, invece di fare vacanze a Ibiza, Spanò le faceva in Africa dando una mano a costruire ospedali) e che dopo la laurea in Economia, ottenuta all’indomani della promozione, ha conseguito una borsa di studio per frequentare la Hult Business School, che ha sedi a Cambridge, Londra, New York e Dubai (costo d’iscrizione annua: 60mila euro) ove studiare marketing, management, metodi quantitativi. Ebbene, sapete come ha fatto Alessandro a ottenere la preziosa borsa di studio? Ha sfruttato l’esperienza fatta nel calcio “che si è rivelata determinante: nelle fasi di ammissione – ha raccontato – gli altri ragazzi avevano percorsi molto diversi dal mio; ma l’esperienza di gestione della pressione anche in pubblico e quella di essere stato punto di riferimento di una collettività, anzi di un’intera città, com’è stato per me da capitano della Reggiana, sono state l’atout che ha fatto la differenza”. Insomma: c’era uno Spanò di 26 anni che avrebbe potuto continuare a giocare a pallone altri 6-7 anni sapendo di non poter più scorgere alcun orizzonte di gloria e c’era uno Spanò con una laurea e una borsa di studio in tasca e il mondo e la vita che gli si spalancavano davanti. Alessandro ha aperto la busta 2. Forse ci troverà dentro la sua vita vera e, perché no, anche più fama e più soldi. È sveglio. Lui sa quel che fa.

Paolo Ziliani

D’Azeglio, Leopardi e l’italico vizio di autodenigrarsi

La Gallinara, splendida isola a forma di tartaruga che sorge nel tratto di mare di fronte ad Albenga e Alassio, è stata acquistata per 10 milioni di euro da un magnate ucraino, Olexandr Boguslayev, figlio di un produttore di motori per missili. La vendita della nostra Gallinara è stata perfezionata attraverso una società collegata al paperone, guarda caso residente a Montecarlo. Aldo Cazzullo sul Corriere, che per primo ha dato la notizia, riflette sulla questione (“L’Italia è riuscita a perdere anche l’Isola che non c’è”) sottolineando che “la Costituzione italiana riconosce la proprietà privata, ma la legge ne determina i modi di acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti”. E quindi? Il magnate quante tasse pagherà allo Stato italiano? E saranno tollerati i gommoni nelle vicinanze delle coste? Ora lo Stato sta esaminando le carte e gli eventuali diritti di prelazione: vedremo come finirà.

Questa storia ci ha colpito non tanto per il fatto in sé (l’isola era già privata, di proprietà di alcuni imprenditori lombardi e piemontesi), ma perché dietro all’ineludibile interrogativo di fondo (come affrontare le contraddizioni del capitalismo e della globalizzazione, che si fanno sempre più violente e invasive) c’è anche una questione che riguarda la nostra identità nazionale. Un concetto svilito dai sovranisti on the beach e ugualmente ridicolizzato da un pensiero unico che ormai quasi nega la legittimità dello Stato nazione. Ma lo Stato è ancora la forma più importante di organizzazione politica e giuridica di un popolo su un territorio. Il popolo esercita su un territorio la sovranità: questo è uno Stato. Per questo è sacrosanto farsi domande e tenere alta la guardia quando porzioni di territorio (o di sovranità!) vengono cedute. Per non dire delle infrastrutture strategiche.

Demonizzare il senso di appartenenza della comunità allo Stato, poi, è un’operazione suicida. Eppure l’autosvalutazione è un tratto che ci accompagna fin dalla nascita: “I più pericolosi nemici d’Italia non sono gli austriaci, sono gl’italiani. Per la ragione che gl’italiani hanno voluto far un’Italia nuova, e loro rimanere gl’italiani vecchi di prima, colle dappocaggini e le miserie morali che furono ab antico il loro retaggio” (I miei ricordi, Massimo D’Azeglio). Quel “poco o niuno amor nazionale che vive tra noi, e certo minore che non è negli altri paesi” – così scrive Giacomo Leopardi nel Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’italiani – non è cresciuto. La scusa della giovane età dello Stato unitario e della conseguente fragilità delle sue strutture non vale più. Stesso discorso per il richiamo al fondamento fratricida della nostra cultura, alle faide di campanile, alle guerre civili. Dobbiamo chiederci perché fatichiamo, a differenza dei nostri vicini europei, a riconoscerci in un sentimento di appartenenza nazionale. Perché se, come è accaduto in queste settimane, il Nyt loda l’Italia per la gestione del virus, la notizia fa meno scalpore di critiche e censure? C’è un compiacimento infantile nel sottolineare le nostre supposte mancanze come popolo, e un provincialismo non più scusabile nel guardare sempre altrove in cerca di esempi virtuosi da emulare. Gli Usa grande faro della civilità? Basta pensare che è un Paese dove il diritto alla salute è garantito solo a chi può pagare e che il principio di solidarietà che informa tutta la nostra Costituzione (almeno sulla carta) è un miraggio. Perché ci piace tanto screditare l’Italietta? Diceva Francesco Cossiga (chi ci tocca citare!) che “italiani sono sempre gli altri”, per sottolineare il vizietto dell’autodenigrazione che nega l’identità nazionale. Guai se dovessimo accorgerci troppo tardi che – ed è già accaduto a due passi da noi, in Grecia – l’Italia è di qualcun altro.

 

Per i liberal-chic, i licenziamenti sono l’igiene del mondo: il loro

C’è un’invasione. Su Repubblica, il giornale dei progressisti, Tito Boeri boccia il blocco dei licenziamenti disposto dal governo per la crisi post-Covid, prodromo a suo dire di un “licenziamento dei licenziamenti” che ci renderà uguali alla Corea del Nord. Le aziende, dice Boeri, congelano le assunzioni, non rinnovano i contratti a tempo determinato e soprattutto “vivono una grande stagione di incertezza sul loro futuro”. Vero; mentre è noto che il lavoratore licenziato vive una grande stagione di certezza sul futuro, quella di morire di stenti; ma che sono quei musi lunghi? Su con la vita! Bisogna sapersi rinnovare, rimettersi sul mercato, reinventarsi, da tornitori diventare copywriter, da sarte rider delle pizze (è una nostra inferenza: i lavoratori Boeri nemmeno li nomina). Anche perché, parliamoci chiaro: il Reddito di cittadinanza e quello di emergenza “per chi viene per legge tenuto fuori dal mercato del lavoro dal divieto di licenziamento” (sic) sono il vero flagello d’Italia. Volete che la gente lavori e sopravviva? Licenziatela e toglietele i mezzi di sussistenza. Il licenziamento per i liberali del terzo millennio è ciò che era la guerra per i futuristi del Novecento: l’igiene del mondo.

Lo conferma Federico Rampini a Stasera Italia, dove già Cottarelli aveva decretato di cacciare il presidente dell’Inps per improduttività. Dal suo studio climatizzato con vista Central Park, presumibilmente nella posizione del loto (l’inquadratura è a mezzobusto), Rampini sputa veleno: “Bisogna fa-re pu-li-zi-a in un mondo di sa-bo-ta-to-ri della rinascita italiana (li deportiamo? ndr), si sono fatti il lockdown a casa! Questi già non facevano un lavoro intelligente prima, hanno lavorato ancora peggio… un alibi per un esercito di lazzaroni, a loro lo stipendio non glielo nega mai nessuno!”. Non si sa di quali dati si avvalga il prestigioso studio di Rampini: bisogna fare a fidarsi. E sentiste come pronuncia “improduttività”: ogni consonante è una frustata meritocratica.

La vibrata invettiva ha scatenato i meglio darwinisti sociali e competitivisti di Twitter, quelli per i quali la povertà è colpa dei poveri e se i ricchi diventano più ricchi ne beneficiamo tutti, come del resto la Storia ha ampiamente dimostrato. Intanto il sindaco Sala, quello del grido “Milano non si ferma” in simultanea con Confindustria e col non fermarsi dei focolai letali, ha autorevolmente spiegato che “l’effetto grotta per cui siamo a casa e prendiamo lo stipendio ha i suoi pericoli”. Naturalmente i pericoli sono per i ristoratori e i commercianti del centro, privati della clientela della pausa pranzo (lavora, consuma, crepa), gli stessi che commissionarono il video epilettico che lui gaiamente diffuse per invogliare la gente alla promiscuità. Prevedibilmente, da tutti costoro e dai giornali che li ospitano nemmeno una parola sui ladri padroni delle imprese private che hanno finto la cassa integrazione continuando a far lavorare i dipendenti e razziando soldi pubblici: quelli sono eroi della ripresa.

Ricapitolando: se proprio i lavoratori non vogliono essere licenziati, o se godono di uno stipendio in (finta) cassa integrazione, che almeno si rechino al lavoro (invece di pagarsi da soli corrente, connessione, pc, cancelleria etc.), e magari, se ci tengono tanto alla Patria, che si contagino (gravando sui conti pubblici per circa 3.000 euro al giorno in terapia intensiva, ma queste sono sottigliezze per perditempo). Col loro sacrificio, vero collante della solidarietà nazionale, potremmo ammortizzare il lato emotivo e retributivo della crisi facendone degli eroi. Aveva ragione Warren Buffett, uno degli uomini più ricchi del pianeta: “La lotta di classe esiste e l’abbiamo vinta noi” (ma non è detta l’ultima parola, aggiungiamo noi, quindi occhio).

 

Da noi il federalismo non può funzionare

Essere o non essere uno Stato federale? Il virus che devasta le nostre vite dà nuovo senso anche a domande come questa. Stiamo assistendo in Europa a uno strano spettacolo: uno Stato per eccellenza federale, che riesce a comportarsi come se non lo fosse (la Germania) e uno Stato che non è federale, ma tende a comportarsi come se lo fosse: l’Italia. Per “federale” s’intende uno Stato nato dall’aggregazione di entità statali pre-esistenti, e non per disgregazione di uno Stato unitario. La differenza fra Italia e Germania è il miglior esempio.

Dopo il Congresso di Vienna, l’Italia risultò divisa in 10 Stati, la Germania ne aveva ben 38. I due processi di unificazione giunsero a maturazione entrambi nel 1870, ma mentre gli Stati italiani confluirono in un Regno unitario, il Reich tedesco lasciò in piedi le entità pre-esistenti: mentre a Berlino il re di Prussia diventava Kaiser, la Baviera conservò il proprio re, il Baden il proprio granduca, e così via. Con la Repubblica di Weimar (1918) questo carattere federale fu conservato, e i Länder di oggi ne sono gli eredi. L’Italia unita del 1870 non serbò traccia degli antichi Stati, nessuno dei quali corrisponde alle attuali Regioni (istituite nel 1948). La Lombardia apparteneva all’Austria come parte del Regno Lombardo-Veneto, l’Emilia-Romagna era divisa fra gli Stati pontifici e i ducati di Modena e di Parma, la Toscana non era solo il Granducato ma anche i ducati di Lucca e di Massa, e la Sicilia era parte del Regno delle Due Sicilie. Se mai l’Italia dovesse darsi un ordinamento federale, potrà solo essere un “federalismo dissociativo”, come in Cecoslovacchia, divenuta federale e poi prontamente divisa in due Stati distinti nel 1992. Il federalismo dissociativo, infatti, è il fratello bugiardo della secessione.

Le regioni previste dalla Costituzione italiana del 1948 non avevano nulla di federale, e nemmeno la stolta riforma del Titolo V della Costituzione voluta dalla “sinistra” nel 2001, anche se pensata con l’intento di arginare la Lega (complimenti per il successo!), si spinse a tanto. Sul fronte della sanità, la nostra Costituzione fu la prima in Europa a fissare il diritto alla salute come “fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività” (art. 32), e in questo senso andavano l’istituzione del ministero della Sanità (1958) e del Servizio sanitario nazionale (1978), ma la riforma costituzionale del 2001 comportò, contro lo spirito e la lettera della Costituzione, la devoluzione del sistema sanitario alle Regioni. Con le conseguenze a cui oggi stiamo assistendo: contrasti fra governo nazionale e amministrazioni regionali, una cacofonia di decisioni incoerenti, polemiche fra Regioni più efficienti nel combattere la pandemia (come il Veneto) e altre che difendono con le chiacchiere la loro gestione fallimentare (la Lombardia). Insomma, il diritto costituzionale alla salute (che implica la piena uguaglianza di tutti, dalle Alpi a Lampedusa) non viene rispettato, eppure pochi ammettono che la riforma costituzionale del 2001 fu un drammatico errore.

Le sgangherate devoluzioni del 2001 furono pensate avendo di mira la lottizzazione del potere e dei finanziamenti, non il bene pubblico, e meno che mai i diritti dei cittadini, a cominciare dalla salute. L’emergenza virus dovrebbe aprirci gli occhi, ma sarà così? Non dovremmo ripensare il Sistema sanitario nazionale e anzi lo stesso perimetro delle autonomie regionali? Qualche tempestivo Warning! non guasta.

Per esempio: va bene apprezzare Zaia per come il Veneto ha saputo governare l’emergenza, ma prima di elevarlo a campione di una destra efficiente che ci salverà dai Salvini e dai Fontana, ricordiamoci della sua ostinata campagna per un’autonomia regionale spinta (sanità, scuola, ambiente, infrastrutture), che sarebbe l’anticamera di un acceso federalismo dissociativo.

Altro esempio: non dovremmo ripulire il linguaggio evitando la parola “governatore”, figura istituzionale inesistente nell’ordinamento italiano, e scopiazzata da quello Usa? È una parola, questa, che sembra dare per fatta la federalizzazione dell’Italia, che fatta non fu mai. O non sarà invece l’ennesimo segnale di un disperante provincialismo, un tu vuo’ fa’ l’americano come in una vecchia canzone di Renato Carosone? Chiamare le cose con il nome giusto è la prima regola per arginare pericolosi deragliamenti mentali. E siamo proprio sicuri di voler imitare la traballante America di Trump?

 

Quel lapsus di Formigoni sulla Sanità: “Ai privati non abbiamo tolto soldi”

Lo stile panoramico, utile per i riassunti, ha un difetto: tralascia dettagli che possono essere importanti. Il 20 maggio scorso, Formigoni, ospite di Telelombardia, dice: “Io ho governato 17 anni, ma sono scaduti nel 2012. Io ho costruito una sanità di assoluta eccellenza sia nel campo ospedaliero sia nel campo della medicina di territorio. Dopo di me è arrivato qualcuno che nessuno cita mai, che ha governato 5 anni e ha cambiato profondamente e in peggio la sanità di Formigoni”. I giornali adesso riportano spesso questa sua ricostruzione, dandola per buona. Lo è? Lascio la replica a Maria Elisa Sartor, professoressa di Organizzazione sanitaria all’Università degli Studi di Milano: “Nel 1997, la Lombardia dà una sterzata decisa verso un modello pensato per facilitare il più possibile l’entrata dei privati nel Servizio sanitario regionale (Ssr)… L’ospedale diventa il fulcro intorno al quale si immagina di costruire il nuovo sistema. In questo modo si perde il bilanciamento tra ospedale e territorio presente nel modello precedente… una scelta obbligata, data la strategia di privatizzazione del sistema… Il grosso della struttura pubblica territoriale viene in parte riattribuita agli ospedali e in parte eliminata… Maroni intende cambiare… ma la riforma del 2015 resta incompiuta proprio per quanto riguarda le articolazioni territoriali delle nuove strutture… con questo modello, al privato è consentito di non rispondere subito. È la Regione a dover espressamente richiedere la partecipazione del privato all’emergenza verificando il grado della sua disponibilità a offrire servizi extra-contratto… con il corollario del protrarsi dei tempi di intervento… e con costi maggiorati a carico del Servizio sanitario regionale”. (Per fortuna, a dicembre scadono i 5 anni di prova, e il ministero della Salute dovrà giudicare se è il caso di abrogare la legge Maroni e riscriverla).

Una settimana dopo l’intervista a Telelombardia, Formigoni aggiunge al Corriere della Sera che fu lo Stato, dal 1992, a ridurre “i posti letto pubblici fino a scendere a 3,7 ogni mille abitanti. Sono state tagliate anche le terapie intensive. Il taglio dei fondi statali… ci impediva di investire di più sul pubblico”. Due omissioni: 1) le terapie intensive calano perché il privato ne ha di meno rispetto al pubblico (30 per cento contro 70); 2) nonostante la riforma statale del 1992 (aziendalizzazione, apertura ai privati, responsabilità alle Regioni: con la scusa del deficit da contenere, fu distrutto il Ssn del 1978, uno dei più efficaci in Europa, in cambio di disuguaglianze, inefficienze e corruzione), altre Regioni implementarono riorganizzazioni meno squilibrate di quella lombarda, e infatti hanno retto meglio l’onda d’urto (parte della quale, però, nessuno lo dice, si è abbattuta sulle farmacie, nell’assenza per malattia dei medici di base).

Curioso che, oggi, Formigoni accusi la riforma del 1992: ispirata al modello sanitario thatcheriano, non solo concepiva la sanità come un mercato, con soggetti privati che entravano con orientamento profit, ma permise a Formigoni di varare il modello lombardo (inadeguato alle pandemie, anche perché affida la gestione della medicina territoriale ai grandi ospedali) di cui continua a vantarsi. La chiusa spetta al suo notevole lapsus freudiano durante l’intervista a Telelombardia (a 14’15”): “In sostanza non abbiamo tolto una lira alla sanità privata perché la sanità pubblica non ha avuto da noi nessun vantaggio”.

 

Quel pasticciaccio dei sierologici

Resto sempre più basita davanti alla questione “test sierologici”. Siamo prima stati dissuasi dal loro utilizzo, persino dall’Oms. Noncuranti di tutto ciò, in questa sanità frantumata in regioni, alcune, come il Veneto (31 marzo), l’Emilia-Romagna, la Toscana hanno fatto partire le campagne sierologiche già a marzo-aprile. Tutti o quasi si guardavano bene dal parlare di “diagnosi”. Spesso sono state definite “sperimentazioni” (consenso informato?). La Lombardia si è mostrata più cauta (forse temporeggiante).

I test sierologici sono partiti con circa un mese di ritardo rispetto alle altre regioni, dopo aver assistito a un forte pressing da parte della gente che si riteneva svantaggiata rispetto agli altri italiani. Ingiustamente denigrati i test rapidi pungidito (ce ne sono alcuni non affidabili, ma altri molto più sensibili di alcuni da prelievo venoso). Privati si, privati no. Il 5 maggio veniva dichiarato che ancora non erano state prese decisioni in merito. In questo limbo, alcuni laboratori privati hanno offerto il test persino a 100 euro. Ogni regione è andata per conto proprio. Ma ecco che il 25 aprile veniva aggiudicata una gara nazionale che avrebbe scatenato non poche discussioni. Siamo stati improvvisamente investiti dal sacro fuoco del test, con una confusione di dati e di deduzioni ascientifiche mai viste. Continuando a disconoscere se e per quanto tempo gli anticorpi protettivi vengano prodotti, pur sapendo (da più di 100 anni!) che le IgG non ci dicono se un’infezione è in atto, con un errore imperdonabile si sono spesso interpretati i risultati positivi al test sierologico (presumibile infezione in passato) come casi positivi di Covid e i negativi che potrebbero invece essere infezioni in atto, negativi ed abilitati ai luoghi di lavoro. Ci mancava solo il documento delI’Istat che deduce dalla positività ottenute con i test sierologici, le percentuali degli italiani che sono stati contagiati, disconoscendo che molti soggetti che hanno avuto (malati o no) contatto con SarsCoV2 potrebbero non aver sviluppato anticorpi. La sagra delle confusioni continua!

 

Trump rompe il tabù taiwanese

A Donald Trump piace infrangere tabù e destare sorpresa, specie in politica estera e in Asia. Dopo averlo fatto, pur senza ricavarne nulla, con la Corea del Nord e il suo dittatore Kim Yong-un, ci riprova con Taiwan.

Trump è stato il primo e unico presidente Usa a incontrare un leader nordcoreano e a mettere piede sul territorio nordcoreano. Con Taiwan, l’approccio è meno spettacolare: il magnate non intende andarci di persona – almeno non ora –, ma vi invia una delegazione ufficiale. La Cina, va bene stuzzicarla e punzecchiarla, ma ci vuole pur sempre una certa misura: Pechino non è Pyongyang, anche se Xi Jinping è meno imprevedibile di Kim; e Taipei non vale una guerra commerciale, economica, diplomatica su larga scala. Così Trump si limita a inviare a Taiwan una delegazione ufficiale: è la prima volta in 6 anni; ed è la missione di più alto livello mai mandata da Washington a Taipei dal 1979, da quando gli Usa ruppero le relazioni diplomatiche con l’isola Stato non più riconosciuta come Cina all’Onu e le allacciarono con la Cina comunista. Lo sottolinea l’American Institute a Taipei che, di fatto, funge da ambasciata. Attualmente, solo una quindicina di Paesi, fra cui la Santa Sede, riconoscono Taiwan.

L’ufficio Usa responsabile delle relazioni commerciali con Taiwan ha confermato che il segretario alla Salute, Alex Azar, guiderà la delegazione. La missione di rischia di aggravare le tensioni tra Cina e Usa, già “avvelenate” su più fronti: economico e commerciale, ma anche militare, specie nel Pacifico meridionale, e diplomatico, con le chiusure in sequenza dei consolati di Houston e Canton. Senza contare le accuse di spionaggio e cyber-interferenze, i casi Huawei e TikTok, l’insistenza sulle responsabilità di Pechino per la diffusione del coronavirus, le sanzioni e le parole al vetriolo. All’annuncio della visita a Taiwan di Azar, la Cina ha formalmente protestato, sollecitando con forza l’Amministrazione statunitense a “non inviare segnali sbagliati ai secessionisti” dell’isola. Il portavoce del ministero degli Esteri Wang Wenbin ha esplicitamente detto che la visita di Azar “mette a repentaglio la pace”.

Opposte le reazioni a Taipei. La presidente Tsai Ing-wen scrive su Twitter: “Non vedo l’ora di dare il benvenuto” ad Azar e “illustrargli come il modello Taiwan abbia funzionato contro il Covid-19… La visita è una riprova della forte partnership basata su un’amicizia di lunga data e su valori condivisi”. Secondo la Johns Hopkins University, Taiwan – 23 milioni di abitanti -, ha finora registrato 475 contagi da coronavirus e 7 vittime.

“Quaranta nuove atomiche Usa entro tre anni in Italia”

È il bombardamento che ha cambiato per sempre la Storia. Settantacinque anni fa, la città giapponese di Hiroshima veniva distrutta dalla prima bomba atomica. Uccise istantaneamente 70mila persone – appena 4 mesi dopo erano 140mila – e aprì una nuova era: l’era nucleare, in cui l’uomo acquisì la capacità di sterminare l’intera specie umana in un colpo solo. Tre giorni dopo Hiroshima, toccò a Nagasaki: nei due bombardamenti furono uccise circa 300mila persone e da allora si affermò “il tabù nucleare”. A oggi non sono mai state più usate in combattimento. Ma ne sono state costruite decine di migliaia: nel pieno della Guerra fredda, ce ne erano almeno 70.300. Secondo l’esperto americano Stephen Schwartz, si stima che, dagli anni 40 al 1996, gli Usa da soli abbiano speso 5.800 miliardi di dollari in valuta del 1996 per queste armi. Quanti sono 5.800 miliardi? Se prendiamo banconote da un dollaro e le mettiamo una sopra l’altra arriviamo fino alla Luna e torniamo indietro. E oggi? Il Fatto Quotidiano ha intervistato l’autorità in materia di questi armamenti: Hans Kristensen della Federation of American Scientists.

Settantacinque anni dopo Hiroshima e Nagasaki, quante armi nucleari ci sono nel mondo?

Dalle nostre stime, ne risultano circa 13.400.

Nel novembre scorso, lei ha pubblicato una ricerca secondo cui gli Usa hanno 150, forse 100, ordigni nucleari stoccati in Europa e l’Italia rimane il paese europeo col più alto numero di bombe e l’unico con due basi nucleari: Aviano e Ghedi. Lei ha stimato che ci siano 20 armi nucleari ad Aviano e 20 a Ghedi. Queste cifre sono ancora attuali?

Sì, sono le mie stime aggiornate.

Le vecchie bombe stoccate ad Aviano e Ghedi sono le B61-3 e B61-4, ma verranno presto rimpiazzate dalle nuove: le B61-12. Quante ne arriveranno e cosa avranno di diverso?

A meno che la Casa Bianca non dia nuove disposizioni, il numero rimarrà lo stesso di quelle già oggi presenti e la potenza sarà la stessa delle B61-4: la nuova bomba B61-12 usa la stessa struttura in termini di testata nucleare. Il potenziamento, dal punto di vista militare, non è da ricercare nella testata, ma nel kit di coda che triplicherà la precisione della bomba.

Che cosa sappiamo dell’accordo Usa-Italia che consente agli americani di stoccare le loro armi nucleari nel nostro Paese?

L’accordo bilaterale è segreto, ma è noto da anni col nome in codice Stone Ax. A meno che non siano intervenuti, rimane quello. Contiene le regole che Usa e Italia hanno concordato per lo stoccaggio, la custodia e, potenzialmente, l’uso. L’accordo disciplina in particolare come vengono custodite le bombe nelle basi di Aviano e Ghedi.

L’Italia aderisce al più importante strumento per limitare le Atomiche: il Trattato di Non Proliferazione Nucleare (Tnp). La loro presenza sul territorio italiano è legalmente compatibile con esso?

Sì, il Tnp non limita in alcun modo né regola il dispiegamento delle armi nucleari. Tuttavia, proibisce il trasferimento diretto o indiretto di questi ordigni da una potenza nucleare a una non nucleare. Poiché, però, il trasferimento delle bombe Usa all’Italia e le intese di condivisione di queste armi risalgono a un periodo precedente alla data in cui il Tnp fu firmato, né lo stoccaggio né le intese violano il Trattato dal punto di vista legale. Detto questo, però, poiché questi ordigni sono stati consegnati per essere usati dall’Italia in caso di guerra e poiché l’Aeronautica militare italiana è stata dotata di essi ed è stata addestrata al loro uso, a mio avviso, non c’è dubbio che le intese violino eccome lo spirito del Trattato, nonostante da un punto di vista strettamente legale non sia così.

Quando arriveranno le nuove bombe in Italia?

Probabilmente tra il 2022 e il 2023.

Chi le sta costruendo?

Tutte le armi nucleari vengono prodotte negli Usa: la testata nucleare viene costruita e gestita dal Los Alamos National Laboratory, le componenti non nucleari sono sviluppate dal Sandia National Laboratories e assemblate al Kansas City Plant, e il kit di coda verrà prodotto dalla Boeing. Una volta pronte tutte le componenti, le bombe vengono assemblate al Pantex Plant in Texas.

Se le truppe americane e gli F-16 verranno spostati dalla Germania, la decisione avrà impatto sulle armi nucleari americane stoccate in Italia?

No. Lo squadrone di F-16 che verrebbe spostato dalla base di Spangdahlem ad Aviano non è assegnato a missioni nucleari. Quel ruolo è assegnato a due squadroni di F-16 che si trovano già ad Aviano.

Sami Nader: “Il colpevole è comunque Hezbollah”

Il salnitro, il nome comune del materiale chimico che avrebbe provocato la devastante esplosione al porto di Beirut, quando si decompone può creare gas tra cui ossidi di azoto e vapore acqueo. Il rilascio di questi gas può innescare un’esplosione anche di enormi proporzioni. Il presidente libanese Michel Aoun, ha assicurato che i colpevoli verranno puniti. Ma chi possono essere? Alcuni ritengono si sia trattato di un attentato israeliano. Altri che sia dovuto all’incuria e della corruzione della classe politica. Secondo Sami Nader, il politologo più autorevole del Libano gli scenari sono due. Il primo: “un incidente per via del nitrato di ammonio che ha preso fuoco. Ma come abbia preso fuoco non si sa. Difficile credere che si sia infiammato da solo perchè non è un materiale che si decompone facilmente. L’esplosione potrebbe essere anche dovuta alle scintille create dall’uso di strumenti per le riparazioni delle infrastrutture all’interno del porto. Tenere tonnellate di materiale noto per essere altamente esplosivo dentro un magazzino senza alcun accorgimento è di per sè criminale”. Il secondo: “Il magazzino potrebbe avere preso fuoco a causa di un missile lanciato da Israele. Non è la prima volta che il premier israeliano Netanyahu accusa il partito armato sciita libanese di immagazzinare le armi che l’Iran gli trasferisce via mare nel porto di Beirut. Poco tempo fa mostrò in una delle sue conferenze stampa la mappa del porto, accusando Hezbollah di volerle usare contro Israele. In entrambi i casi, il porto di Beirut è da anni interamente controllato dai paramilitari di Hezbollah. Per questo, a mio avviso, va comunque accusato Hezbollah di non aver garantito la sicurezza né delle infrastrutture né dei lavoratori del porto, e tanto meno dei cittadini libanesi che dice di voler proteggere. Hezbollah da mesi si trova in ambasce a causa delle proteste di massa che per la prima volta hanno puntano l’indice anche contro il movimento, longa manus di Teheran, guidato da Nasrallah, denunciandone la condotta corrotta tanto quanto gli altri partiti”, conclude Nader. Hezbollah, in gravi problemi finanziari, potrebbe aver diminuito i controlli alla zona del porto.

La politica gioca allo scaricabarile sull’hangar saltato

Mai, in nessuna delle guerre che l’avevano già sfregiata, Beirut aveva subito una devastazione come quella che è adesso sotto gli occhi di tutti. Il primo ministro Hassan Diab è andato in tv per ribadire la sua promessa che i responsabili dell’esplosione che ha sventrato mezza città pagheranno per le loro negligenze. Così come il presidente Michel Aoun ha chiesto una punizione “esemplare” per i colpevoli. Per il momento tutti i responsabili del complesso portuale di Beirut sono stati messi agli arresti domiciliari finché le indagini non saranno completate.

Prova a mandare un segnale di presenza il trasparente governo libanese, cercando una soluzione che incolpi i funzionari di livello medio per salvare i politici dalla rabbia cieca che sta montando contro di loro. Eppure i colpevoli della più grave catastrofe che a colpito il Paese dei Cedri sono lì, nelle file del governo, sugli scranni del Parlamento. Quelle 2.750 tonnellate di nitrato di ammonio erano immagazzinate nell’hangar numero 12 da sei anni, quando vennero sequestrate a bordo di un mercantile moldavo – il Rhosus – di una compagnia navale poi fallita. Il direttore generale del porto, Hassan Koraytem, e quello delle dogane, Badri Daher, hanno in mano le lettere che ogni anno, dal 2014 al 2019, hanno inviato alla magistratura libanese (responsabile del materiale sequestrato) perché disponesse il trasporto o la vendita di quel “materiale sensibile” e garantire così una “maggiore sicurezza del porto”. Missive ufficiali, a cui è quasi inutile dire, nessuno ha mai risposto. Politici e membri del governo erano troppo occupati a farsi la guerra fra loro e spolpare quel poco che era rimasto della Svizzera del Medio Oriente. L’ex premier Saad Hariri ha chiesto ieri un’indagine internazionale sulla esplosione “che ha nuovamente ucciso il cuore di Beirut”. È nel giusto, visto che l’unica indagine conclusa con l’identificazione dei colpevoli in Libano è quella che dopo 15 anni ha portato alla sbarra (anche sono latitanti) 4 degli ideatori dell’assassinio del padre Rafiq nel 2005 ed è stata condotta dal Tribunale speciale dell’Aja che ha rinviato – per il lutto nazionale in Libano – il suo verdetto previsto per l’8 al 18 agosto. Ma Hariri jr dimentica però che negli anni in cui la “bomba” è stata lì nel porto, lui era il primo ministro.

Quando, lo scorso 3 luglio, il ministro degli Esteri, Nasser Hitti, si è dimesso, ha fatto la dichiarazione più veritiera del suo brevissimo mandato: “Il Libano sta per diventare uno Stato fallito”. Numeri alla mano ha ragione. Nel Paese delle mille banche oggi la disoccupazione è al 30%, metà della popolazione è sotto la soglia di povertà, un altro 30% in condizioni disumane. L’inflazione al 56% mette il Libano sullo stesso piano di Venezuela e Zimbabwe. Il Paese ha cominciato a precipitare lo scorso anno, quando gli Hezbollah – tornati da vincitori dalla guerra civile siriana – hanno allargato la loro presa su governo e Parlamento, stringendo un’alleanza con il presidente Michel Aoun.

I legami economici un tempo forti con i ricchi sceicchi del petrolio sunniti si sono affievoliti, l’economia è collassata, il malcontento popolare è esploso. A ciò va sommato la corruzione e l’inettitudine dei governi, il disastroso spin-off della guerra siriana con 1,5 milioni di profughi, lo scoppio della pandemia. L’accresciuta influenza di Hezbollah ha anche rovesciato i termini del fragile accordo sulla condivisione del potere tra i tre principali gruppi: un presidente cristiano, un premier musulmano sunnita, un presidente del Parlamento musulmano sciita. È l’élite che manovra instancabilmente sulle alture di Beirut solo per favorire se stessa. Quando le restrizioni per la pandemia sono state revocate i libanesi hanno scoperto che i prezzi erano raddoppiati. Carne, frutta e verdura sono diventati lussi irraggiungibili per la maggior parte della gente, in tanti non possono nemmeno comprare più il pane. Solo un massiccio aiuto internazionale a fondo perduto può salvare il Libano dalla catastrofe umanitaria, ma la mancanza di volontà di riforme della sua élite politica-finanziaria può affondarlo definitivamente.