Beirut ground zero: in cenere anche il pane

“Questa è una città senza più porte, finestre, muri”. Risponde da uno degli ospedali saturi della città Assaadd Thebian, 32 anni e molti più punti di sutura a braccia e torace dopo le fiamme che hanno sfigurato Beirut. “All’inizio ho sentito quella che sembrava una prima esplosione e l’ho detto ai miei colleghi su Zoom. Ne ho sentita una seconda e ho guardato verso la finestra. La terza l’ho vista per un secondo. Quando ho riaperto gli occhi ero sul pavimento molto lontano dalla sedia, volevo ripararmi da qualche parte in casa mia: mi sono guardato intorno e ho visto che era distrutta”. Racconta che la sua è una città senza più porto: “Questa è una catastrofe senza precedenti per il mio Paese”. Non ha ancora smesso di tremare per quella che chiama “Apocalisse”: almeno 135 i morti, oltre 5mila feriti, centinaia i dispersi, 300mila senza più una casa, miliardi di danni.

La città rasa al suolo, annientata e nera come pece dopo gli incendi. C’è chi racconta che nemmeno durante la guerra, durata fino ai ‘90, si fosse mai sentito un boato così forte. Nell’aria ancora polvere e forse tossine per le 2.760 tonnellate di nitrato d’ammonio che hanno preso fuoco per divorare in pochi secondi il posto più fecondo della città: il suo centro economico. La potenza della deflagrazione si è propagata fino a nove chilometri di distanza, ha fatto esplodere le vetrate lontane dell’aeroporto internazionale. Assaadd ha passeggiato in quello che chiama già “il Ground Zero di Beirut”. Poche divise in giro, insieme risuonano silenzio e caos: “sembra che siamo un “non- Stato”: in queste ore i libanesi sanno che possono contare solo sui libanesi, gente sta arrivando da tutto il Paese per aiutare chi ha perso tutto, c’è la sensazione che dobbiamo cavarcela da soli”.

Un padre che fa scudo con il suo corpo al figlio mentre le finestre diventano schegge di vetro mortale. Una croce illuminata che di colpo si spegne prima che la chiesa crolli sul prete in fuga: l’archivio immagini del disastro sui social mostra cos’era la vita prima che l’onda d’urto la cambiasse a tutti.

Il fungo dell’esplosione sulla costa libanese riporta alla memoria immagini funeste della catastrofe nipponica proprio all’alba del suo anniversario: “Sembra il Giappone di Hiroshima o Nagasaki”, ha detto il governatore Marwan Abboud, informando della morte di dieci pompieri e dei danni che si aggirano tra “tre e cinque miliardi di dollari, o forse di più”.

“Tutti i tipi di sangue”: sfrecciano cercandolo da un lato all’altro le ambulanze delle oltre trenta squadre della Croce rossa che trasportano i feriti negli ospedali travolti da due maree consecutive. La prima: quella dell’esplosione che ha danneggiato le strutture, la seconda: quella dei cittadini in arrivo a flusso continuo in barella.

Chi ha ancora un’abitazione la mette a disposizione per i migliaia che l’hanno persa. Stato d’emergenza dichiarato dal presidente Michel Aoun che dovrà trovare una subitanea soluzione per i 300mila cittadini rimasti senza tetto. Dopo aver assicurato che “i responsabili pagheranno” e aver posto le autorità portuali ai domiciliari, il capo di Stato si è rivolto ai “Paesi amici” per supportare il Libano che attraversa la sua crisi peggiore di sempre. L’esplosione libanese è una bomba che esplode in un’altra bomba: “il Libano era già alle prese con povertà endemica ed ulteriore impoverimento per il Covid-19. Beirut era già arrabbiata”, dice Assad. Con la stessa magnitudine di un fortissimo terremoto, l’esplosione l’hanno sentita fino a Cipro. I grattacieli sventrati rimasti in piedi sembrano tristi, enormi fiammiferi. È come se un ciclone avesse attraversato le case, è quello che resta dopo un tornado di fuoco: per i libanesi la dimensione dell’esplosione è quella di una catastrofe naturale. Ma non lo è stata: responsabile è l’incuria condivisa da governo e autorità.

“Chi ha visto le immagini sa che queste sono scene di guerra”. Nato 48 anni fa nel Libano che vede la sua amata Beirut bruciare, Wadih al Asnmar trasale. “Nei primi minuti dopo l’esplosione è stato detto tutto: un attentato suicida, un bombardamento israeliano. Credo che nessun’organizzazione si prenderebbe la responsabilità di tanta devastazione”. L’attivista per i diritti umani diffonde in queste ore non ipotesi ma pezzi di carta: quelli delle autorizzazioni richieste dalla dogana portuale per spostare il carico di 2.760 tonnellate di nitrato di ammonio sequestrato a una nave russa nel lontano 2014, materiale utile in agricoltura, ma anche per la costruzione di esplosivi, che era stato stipato proprio accanto ai silos di grano. Nella tragedia tonnellate del cereali sono state vaporizzate in pochi minuti: “quella era la riserva di tutto il Libano, un Paese di sei milioni di persone, non solo di Beirut”. Le autorità, temendo proteste e scioperi del pane, hanno però assicurato che hanno scorte intatte per almeno un mese.

La città di polvere. “Dopo la crisi economica e il Covid-19, e ora questa tragedia senza precedenti, solo un miracolo potrà salvarci. Al momento non ci interessa capire cosa è successo, se è andato a fuoco nitrato o un deposito di armi. A prescindere dalle cause, una cosa è chiara per noi tutti: qualcuno non stava facendo il suo lavoro”. Delle sue stanze all’ottavo piano di un edificio sito a 200 metri dal mare rimane polvere, come degli uffici delle redazioni di tre quotidiani.

“Il Libano è un Paese dove nessuno si assume le sue responsabilità, le autorità sapevano che c’era una potenziale bomba nel cuore del centro abitato, le istituzioni competenti non replicavano alla dogana portuale che chiedeva ogni anno di eliminare, spostare o vendere il nitrato. Ora nessuno protesta perché non abbiamo forze se non per la solidarietà: i miei amici, invece di svuotare dalle macerie le loro case, soccorrono i feriti”. Ma dopo il fuoco e il fumo, dopo la lunga ora buia del suo lutto, “Beirut vorrà trovare il colpevole di quanto è successo e la pressione per trovarlo sarà enorme”. Rimangono ancora centinaia i dispersi, per cui si scava a mani nude da due notti, ma “è difficile al buio, perché non c’è elettricità” ha asserito il ministro della Salute Hamad Hasan. Wadih ha fiducia nella sua città audace, che dopo una guerra durata quasi 20 anni, ha saputo rimettersi in piedi per diventare una delle più importanti capitali finanziarie e commerciali alla latitudine mediorientale. Proprio come dopo il conflitto, succederà ancora: “Ne sono sicuro, Beirut guarirà, ma la mia domanda è: chi saremo dopo tutto questo?”.

Il pentito: “Così la ’ndrangheta avvertì e salvò l’agente di Moro”

“Rocco Musolino (boss di Sant’Eufemia dell’Aspromonte ndr) mi disse che aveva salvato un compaesano a lui legato che era il personaggio chiave della scorta di Aldo Moro, facendogli sapere che quel giorno egli non doveva andare a lavorare. Fu proprio quello il giorno dell’eccidio”. Sono le parole del pentito Filippo Barreca trascritte in un verbale dell’8 settembre 2016. L’uomo scampato alla strage di via Fani del 16 marzo 1978 è il vicebrigadiere Rocco Gentiluomo di Sant’Eufemia d’Aspromonte, deceduto tre anni fa. Gentiluomo era il capo-scorta degli agenti che seguivano Aldo Moro.

Il vero angelo custode di Moro, però, era il maresciallo Oreste Leonardi, che decideva insieme a Moro stesso, ogni giorno, l’itinerario da fare. Fatto che si evince anche dai due unici interrogatori a cui viene sottoposto Gentiluomo, sia dal giudice Imposimato nel 1978 sia durante un’audizione della prima Commissione Moro nel 1981 dove, insieme ad altri non di turno il 16 marzo, dichiarerà anche che Moro faceva tutte le volte lo stesso percorso. Dichiarazioni queste subito smentite dalla moglie del presidente Dc, Eleonora.

Quelle parole Filippo Barreca, tra i più rilevanti collaboratori di giustizia di ’ndrangheta, le ha pronunciate davanti al magistrato Guido Salvini e al tenente colonnello Massimo Giraudo. La testimonianza veniva raccolta ai fini delle indagini che l’ultima Commissione parlamentare sul sequestro e l’omicidio dell’onorevole Moro, stava conducendo. Ma di queste dichiarazioni non c’è traccia in alcuna delle relazioni pubblicate dal 2015 fino alla fine legislatura nel dicembre 2017. Ne fa debole cenno l’ex presidente della Commissione, Giuseppe Fioroni, quando pone una domanda al procuratore aggiunto di Reggio Calabria il 27 settembre 2017. Lombardo, che con il suo ufficio ha concluso da pochi giorni l’importante processo ’Ndrangheta Stragista culminato in una sentenza di condanna, spiega come proprio l’area indicata dell’Aspromonte sia di riferimento alle famiglie di vertice (Nirta, Piromalli, De Stefano, Musolino, Serraino) che già prima del 1970 avevano creato la struttura riservata, parte di quella specie di massoneria che interviene in molti dei cosiddetti “misteri” italiani.

Questo verbale si va ad aggiungere ad altri elementi, come la presenza del boss Antonio Nirta (classe 1947) in via Fani, la cui immagine immortalata quel giorno sul luogo della strage è stata riconosciuta dal Ris come aderente al 99% a quella del boss, e i sospetti, mai confermati, sulla presenza del legionario Giustino De Vuono utilizzato (questo è certo) dalla famiglia Nirta di San Luca in quegli anni. E, infine, a quanto dichiarato da Antonio Fiume, l’armiere dei Di Stefano, (ritenuto attendibile dalla procura di Reggio Calabria) che ha parlato di due mitragliette Skorpion da lui in precedenza custodite insieme ad altre armi, come presumibilmente utilizzate quel giorno in via Fani.

La componente ai vertici della ’ndrangheta, insomma, aveva anche deciso la vita di chi doveva restare vivo e chi no quel 16 marzo del 1978, quando alle 9.02 del mattino all’angolo fra via Fani e via Stresa a nord della Capitale, moriranno i 5 agenti della scorta di Moro.

Il vicebrigadiere Francesco Zizzi, che sostituì Gentiluomo, è l’unico a non morire sul colpo, perderà la vita due ore dopo in ospedale. Le indagini svolte dalla Commissione nel corso del tempo su quest’anomala sostituzione (che non è l’unica, anche l’appuntato dei carabinieri Domenico Ricci morirà al posto dell’autista Otello Riccioni) indicano documenti poco chiari sui turni svolti dal Gentiluomo e strane assenze del suo nome nel cosiddetto ruolino del personale. Nulla di più se non una dichiarazione di un suo collega, Adelmo Saba, che aveva raccolto la confidenza del Gentiluomo affermando di “essere stato salvato”. Ma nessuno gli ha mai creduto.

Il collaboratore di giustizia Barreca è ormai senza protezione dal 2017, così come i suoi familiari, nonostante le sue dichiarazioni sin dal 1992 siano ancora ritenute rilevanti per i diversi processi che sono stati istruiti nel corso degli anni fino a oggi, e nonostante sia ancora chiamato a testimoniare: così almeno è avvenuto fino al giugno 2020 per la strage della nave Moby Prince (10 aprile 1991) data ultima indicata dal suo avvocato nelle carte della causa che Barreca ha intentato contro il ministero dell’Interno.

Il collaboratore non si sottrae comunque al suo ruolo, per quanto sin dal 2009 la sua vera identità nel luogo dove risiede sia stata esposta pubblicamente e la sua attività legalmente impostata come concordato con lo Stato abbia subìto un grave tracollo. Tanti i fatti da lui riferiti e via via riscontrati che riguardano anche quelle indicibili commistioni fra mafie, massoneria e servizi segreti. Ma c’è un altro documento di cui vale la pena scrivere e da noi consultato: è presente presso l’Archivio Centrale dello Stato in Roma e proviene dalla Marina Militare. Il documento riferisce dell’operazione dei Comsubin (Comando subacqueo e incursori) pronti a intervenire “durante la crisi Moro”. Il ruolo dell’unità speciale è rimasto segreto fino al 1991 quando lo rivelò Cossiga. Il documento nr. 13/255/5 del 5 ottobre 1991 nell’indicare però la cronologia precisa d’intervento di quei 55 giorni pone al 15 marzo il giorno del rapimento di Moro e all’8 maggio il giorno del ritrovamento del corpo: i commenti riferiti ai due giorni rispettivamente sono di “stato di allerta” autonomo e di “prosieguo del corso fino al suo completamento” nel giorno del “rinvenimento del cadavere di Moro”. Le date ufficiali della storia sono invece quelle che tutti conosciamo: 16 marzo e 9 maggio 1978. Difficile pensare a un errore di battitura, le attività trascritte sono parte di una serie cronologica fitta comprendente l’arco dei giorni del sequestro e sigillata da timbri e contro timbri. Il 15 marzo 1978 al vicebrigadiere Gentiluomo viene detto di prendersi delle ferie. Un giorno fortunato il suo, mentre i Comsubin si pongono già in stato di allerta autonoma per intervenire nel caso Moro che deve ancora iniziare.

 

Roma, in nome di Marincola c’è una fermata fantasma

Leggo che a Roma sul nome della fermata della “Metro C” di via Amba Aradam, da intitolare al martire della Resistenza, Giorgio Marincola, i 5Stelle si sono divisi (ma tu guarda). Però il sindaco Virginia Raggi ci ha messo la faccia e il Campidoglio ha approvato. Bene, penso in cuor mio, per l’omaggio della città a un patriota e a un eroe. Bene, perché con la metro a due passi dalla sede del Fatto Quotidiano i nostri spostamenti, e dunque il nostro lavoro, saranno di molto agevolati. Difatti subito attraverso la strada per verificare i preparativi della imminente inaugurazione. Se c’è un nome, ci sarà anche un battesimo per qualcosa che è stato partorito, che viene al mondo (alla luce no, trattandosi di una sotterranea), gongolo lieto e giocondo. Mi appropinquo al cantiere dove all’apparenza tutto sembra esattamente come era ieri, l’altroieri, due anni fa, o in un’era Spqr imprecisata. Le pareti metalliche del fortilizio, di un colore che un tempo doveva essere giallorosso come il vessillo dell’Urbe, sono addobbate da allegri graffiti, e da robusti caratteri runici inneggianti al quartiere di “San Giovanni fascista”, e al “camerata Alibrandi” che “vive” (in linea con le annunciate celebrazioni antifasciste).

L’apposito cartello indica con precisione l’inizio dei lavori: “Marzo 2016”. E il termine: “Dicembre 2018”. Non ne traggo affrettate conclusioni e mi convinco che malgrado ciò che ingannevolmente si osserva in superficie, là sotto sicuramente manca poco, ragazzi ci siamo. Immagino efficienti scale mobili (Barberini docet), banchine scintillanti e modernissimi convogli. Nel Sahara agostano chiedo all’ultimo negoziante mentre tira giù l’ultima serranda se sa dirmi cortesemente quando la fermata Marincola entrerà in funzione. La risposta che ricevo riassume in sé la millenaria saggezza del popolo romano, la leggendaria pazienza intrisa di eternità, lo spirito che permea gli eredi dei quiriti, gli orgogliosi custodi delle vestigia di papi e imperatori: “Boh”.

Arrestato Leonardo Badalamenti, il figlio (ricercato) di don Tano tradito dalla “roba”

Aveva rotto il lucchetto, incurante della diffida del sindaco Giangiacomo Palazzolo, e venerdi scorso aveva tentato di riappropriarsi di un casolare a Cinisi che il Tribunale gli aveva restituito (ma non ancora notificato la riconsegna) dopo una confisca: la passione verghiana per la “roba’’ è probabilmente costata di nuovo il carcere a Leonardo Badalamenti, 60 anni, figlio minore di don Tano, il capo della Commissione mafiosa che gli americani, per il suo potere criminale su Cosa Nostra siciliana, avevano chiamato il ‘’capo dei capi’’, condannato all’ergastolo negli ultimi anni della sua vita per l’omicidio di Peppino Impastato. Dopo quel tentativo, interrotto dai carabinieri che lo hanno denunciato per esercizio arbitrario delle proprie ragioni, nei suoi confronti si sono accesi i riflettori investigativi e si è scoperto che dal 2017 pendeva sul suo capo un mandato di cattura internazionale delle autorità brasiliane: il figlio di don Tano era finito in carcere nell’operazione Centopassi condotta dai Ros dei carabinieri, che lo avevano catturato insieme ad altre 22 persone con l’accusa di associazione mafiosa corruzione e truffa il 22 maggio 2009 a San Paolo. In Brasile, terra in cui suo padre, dopo l’espulsione dalla Cupola, trovò rifugio per sottrarsi alla carneficina avviata da Riina nei confronti delle famiglie “perdenti”, era stato accusato di avere tentato di truffare alcune banche d’affari internazionali, tra cui Lehman Brothers e l’HSBC, cercando di piazzare titoli di credito falsificati. Dopo un primo annullamento del Tribunale del riesame di Palermo, nel febbraio 2010 l’ordine di custodia era stato confermato dalla Cassazione e sul suo capo era pendente un mandato di cattura internazionale. Da allora era riuscito a sottrarsi alla giustizia, restando probabilmente oltreoceano fino al 2017, data del suo rientro in Italia a casa della madre, Teresa Vitale, a Castellammare del Golfo.

Coinvolto con il fratello maggiore Vito, arrestato con don Tano in Spagna, nelle indagini dell’Fbi sulla Pizza Connection, Leonardo era stato accusato negli anni 80 da alcuni pentiti di avere trafficato in droga assieme al padre, ma nei suoi confronti non si arrivò ad una condanna. E anche suo fratello Vito, al termine di un iter processuale complesso, è stato assolto da ogni accusa. E in un’intervista del 2018, Maria Badalamenti, figlia di un cugino di Leonardo, Silvio, direttore dell’esattoria di Marsala, estraneo ad ambienti mafiosi e ucciso nel 1988 solo per il cognome che portava, ha sottolineato l’influenza della famiglia sul territorio: don Tano è morto, ha detto, “ma i suoi due figli sono liberi, nessuno ne parla, nessuno dice nulla e oggi c’è un appoggio sociale che fino a 5 anni fa non c’era”.

Gubitosi (Tim): “Possibile a breve l’intesa sulla rete”

All’indomani dell’irrituale consiglio d’amministrazione durante il quale – via lettera e con una telefonata – il governo ha chiesto a Tim di rinviare di un mese ogni decisione sull’offerta degli americani di Kkr in attesa delle sue mosse sulla rete unica, l’ad dell’ex monopolista telefonico, Luigi Gubitosi, si ritrova in conference call con gli analisti: “Siamo stati felici di ricevere l’invito del governo – ha minimizzato – È una buona notizia per il Paese”.

In sostanza, l’esecutivo dovrebbe partorire un modo per creare finalmente una società unica della rete, un vecchio progetto mai andato in porto da ultimo per le resistenze di Enel, che supervaluta OpenFiber, di cui è proprietaria insieme alla pubblica Cassa depositi e prestiti, a sua volta azionista di Tim. Un nodo difficile da sciogliere, ma ineludibile e Gubitosi, nonostante le molte delusioni di questi anni, è convinto che si scioglierà in un modo che soddisfi la sua azienda.

Entro il 31 agosto – ha in sostanza detto agli analisti – sarà difficile avere un accordo sulla rete unica, ma si va verso un MoU (memorandum d’intesa): “Ci sono voluti 8 mesi per trasformare un’idea con Kkr in un progetto, realisticamente non ci si può aspettare un deal sulla rete in poche settimane, tuttavia si può fare molto, anche arrivare a una finalizzazione” ora che il governo è intervenuto. Palazzo Chigi “ha deciso che vuole provarci ed è lui l’azionista ultimo di due su tre delle parti (Enel e Cdp, ndr): quello che si può provare a fare è fissare principi e una linea temporale” prendendo come base il progetto Fibercop (la società di Tim che gestisce la rete secondaria). Un accenno non secondario, visto che significa che “restare sopra al 50%” del nuovo soggetto per Gubitosi & C. è una conditio sine qua non: mantenere il controllo della società della rete serve anche e soprattutto a rendere sostenibili i conti (i debiti) di Tim. L’unico problema, insomma, è convincere Enel a cedere: finora non è andata benissimo.

Ora il Senato pensa di graziare Siri. Va peggio a Boniardi

L’ennesimo colpo di scena. Dopo mesi e mesi di melina si mette benissimo per il senatore leghista Armando Siri: si fa largo l’idea di fare carta straccia della autorizzazione al sequestro dei suoi due pc chiesta già da un anno al Senato dai magistrati di Milano. Che accusano l’ex sottosegretario di stretta osservanza salviniana di autoriciclaggio aggravato nell’indagine sui mutui sospetti che gli sono stati accordati nel 2018 dalla Banca agricola di San Marino. Danari erogati a condizioni di così particolare favore da far scattare un’ispezione della Banca centrale del Titano. Siri è indagato insieme al suo collaboratore Luca Perini che ha fatto ricorso al Tribunale del riesame contro il sequestro della corrispondenza con il suo capo ordinata dagli inquirenti e oggetto anch’esso di richiesta di autorizzazione inoltrata a Palazzo Madama. Ora che il riesame ha accolto la sua istanza, c’è chi ha preso a dire che entrambe le richieste di autorizzazioni al sequestro devono finire nel cestino. Perché, almeno a sentire il presidente della Giunta per le autorizzazioni Maurizio Gasparri, ormai “dovrebbe considerarsi cessata la materia del contendere”. In buona sostanza se la presidente del Senato Maria Elisabetta Casellati dovesse sposare la tesi del suo collega di FI, l’aula non sarà mai chiamata a pronunciarsi sulla questione. Con l’effetto di lasciar cadere nel vuoto le istanze del Tribunale di Milano che a quel punto non potrebbe utilizzare i documenti riguardanti i mutui sanmarinesi contenuti nei pc di Siri o oggetto delle conversazioni con il suo fedelissimo. Un vero colpaccio per il leghista, più fortunato del suo collega di partito Massimo Boniardi: l’aula della Camera ha dato semaforo verde ai magistrati di Genova che intendono perquisire la sua azienda nell’ambito dell’inchiesta sulla sparizione dei 49 milioni del Carroccio. Azienda che Boniardi ha eletto come domicilio, inviolabile, almeno fino a ieri, in virtù del suo status di parlamentare.

Lotito è a un passo dal seggio di Forza Italia grazie all’aiutino della Giunta per elezioni

Non sarà uno scudetto, ma poco ci manca: Claudio Lotito rischia davvero di diventare senatore, grazie all’aiutino della Giunta per le elezioni del Senato presieduta dal forzista Maurizio Gasparri che ha deciso la scorsa notte di contestare l’elezione di Vincenzo Carbone. Eletto a Palazzo Madama con Berlusconi, si è poi trasferito tra i banchi di Italia Viva nella speranza che la maggioranza gli salvasse il seggio. Ora il fatto è che il patron della Lazio ha amici più efficaci: dopo che il riconteggio delle schede ha dato ragione a Peppe De Cristofaro di LeU (pure lui aveva reclamato il seggio di Carbone), la Giunta ha fatto finta che non fosse mai avvenuto. E ha sposato gli argomenti del patron della Lazio sebbene al prezzo di smentire il criterio adottato solo pochi giorni per l’assegnazione di un altro seggio: a suo favore hanno votato Lega, FdI, FI e Autonomie, mentre la maggioranza che era contraria alla sua elezione ha raggranellato solo 5 voti. Ora sul seggio della discordia dovrà tenersi una camera di consiglio. Poi la parola spetterà all’aula.

Le mail di Ats contro il “sindaco ribelle”

Telefonate, chat, email. La Procura di Pavia non si ferma. Sul tavolo, l’accordo tra l’ospedale San Matteo e DiaSorin per la commercializzazione di test sierologici, poi acquistati per 2 milioni di euro dalla Regione. Otto indagati, tra i vertici di ospedale e multinazionale, due le notizie di reato: peculato e turbata libertà nella scelta del contraente. Soldi, affari e un fronte di fuoco alzato per evitare che i test venissero eseguiti fuori dall’accordo sotto inchiesta, e a cui ora si aggiunge un nuovo pezzo. Email dell’Ats di Milano – una delle agenzie di tutela della salute di Regione Lombardia – inviate al sindaco di Robbio, Roberto Francese, già il 29 marzo, nove giorni dopo la firma dell’accordo.

Il Fatto aveva già raccontato degli sms del fedelissimo di Salvini Paolo Grimoldi, commissario regionale del partito in Lombardia, a Francese, uno dei sindaci “ribelli” che aveva deciso di eseguire in autonomia l’indagine sierologica.

Ora si aggiungono anche gli scambi che Francese ebbe col presidente del San Matteo, Alessandro Venturi, oggi indagato. È il 2 maggio, i test DiaSorin sono utilizzati da due settimane, il primo cittadino scrive a Venturi: “Ciao, abbiamo 400 persone positive agli IgG con valori altissimi, molti dei quali hanno sierologici marchiati CE e alcuni validati anche in Emilia. Perché non li facciamo donare a Pavia? Si possono salvare tante vite. Non potete rimanere indifferenti”. Francese si riferisce ai test cosiddetti pungidito. Venturi pare possibilista: “Devono contattare il policlinico singolarmente”. Il sindaco poi chiede: “Ma possono donare? Dicono che non possono perché il protocollo non lo consente”. A quel punto la risposta del presidente del San Matteo è netta: “E allora niente”. Francese però insiste: “Ma perché non si può trovare una soluzione? La gente muore e abbiamo 400 donatori pronti subito, minimo 400 vite salvate”. Venturi ribadisce il no e spiega: “Perché la salute e la scienza non sono materie da trattare con leggerezza”. Eppure sui test rapidi più volte si sono espressi positivamente diversi scienziati, tra cui il virologo Massimo Galli del Sacco di Milano. Il no di Venturi non sorprende Francese, che già tra il 28 e il 29 marzo, epoca in cui le terapie intensive in Italia corrono verso il picco di 4.000 letti, riceve una email da Santino Silva, direttore sanitario dell’Ats Pavia. Si legge: “Egregio sindaco (…) le riporto il parere del dottor Cassani, referente regionale dell’unità di crisi per quanto riguarda i problemi di laboratorio da cui emerge chiaramente l’inopportunità di procedere con queste determinazioni. La pregherei quindi di soprassedere agli accertamenti programmati”. Lo stesso Cassani scrive: “Ritengo che ricerche del tipo in oggetto non debbano essere eseguite”. Sempre l’Ats Pavia, dopo un articolo della Provincia Pavese che dava notizia dei test a Robbio: “Se lei vuole proseguire è libero di farlo, ma non con l’avallo di Ats. (…) Ci atteniamo alle indicazioni della Regione”. A fine aprile, poi, si chiarirà, come già raccontato, il muro politico della Lega. Ne parla Grimoldi in chat con un ex parlamentare leghista: “Sentito anche Salvini, il primo che fa sponda con il miserabile di Robbio è fuori dal movimento”.

Il 19 maggio una lettera di Ats Milano diffida anche il sindaco di Cisliano a fare test “alternativi”. Un muro per fa rientrare tutto nel protocollo regionale che utilizza i test DiaSorin.

Di Rubba, l’indagato leghista distribuisce i Fondi europei

Sotto i suoi occhi passano ogni anno circa 5 miliardi di euro. È lui a distribuire i fondi europei destinati ad agricoltori e allevatori, a ricevere le domande delle aziende e a decidere chi merita i cosiddetti fondi Pac. Un ruolo strategico, quello di presidente del Sin (Sistema informativo nazionale per lo sviluppo dell’agricoltura). E anche molto delicato, visto che per la truffa delle quote-latte l’Italia è già bacchettata dall’Ue. Per questo colpisce che a smistare tutti questi denari sia un uomo sospettato di aver sottratto 800 mila di euro ai contribuenti. Sì, perché a presiedere il Sin, società controllata dal ministero dell’Agricoltura, c’è da oltre un anno e mezzo Alberto Di Rubba. Proprio lui: il commercialista della Lega indagato dalla Procura di Milano per la vicenda della Lombardia Film Commission, l’ente regionale che sotto la sua guida ha comprato per 800 mila euro un immobile che un anno prima ne valeva appena 400 mila. Il caso Di Rubba, nominato al Sin dal salviniano Gian Marco Centinaio, è stato sollevato in un’interrogazione indirizzata all’attuale ministro dell’Agricoltura, Teresa Bellanova di Italia Viva. “Avere in una posizione del genere una persona con un profilo pieno di opacità non è un buon biglietto da visita per un ministero che già rischia una procedura d’infrazione da parte dell’Ue”, dice al Fatto Alberto Zolezzi, deputato M5S che ha presentato l’interrogazione. Va detto che la legge non impedisce di affidare l’incarico a un indagato. Certo però è che il nome di Di Rubba compare in tutte le vicende che riguardano le trame finanziarie leghiste. C’è ad esempio il caso della Più Voci, l’associazione che secondo due procure (Milano e Roma) è stata usata dalla Lega per incamerare finanziamenti illeciti dal costruttore Luca Parnasi e da Esselunga. A creare la Più Voci è stato proprio Di Rubba, insieme al collega Andrea Manzoni e al tesoriere della Lega, Giulio Centemero. Al di là degli esiti giudiziari, il nome di Di Rubba ricorre spesso nelle segnalazioni di operazioni sospette della Uif di Banca d’Italia. Nel suo studio privato, a Bergamo Bassa, è stato spostato il baricentro finanziario leghista dopo lo scoppio del caso sui 49 milioni.

Lì sono state domiciliate sette società usate, secondo la procura di Genova, per riciclare parte dei 49 milioni. Non solo. Nelle casse di aziende private riconducibili a Di Rubba, negli ultimi anni, la Lega ha accreditato oltre 3 milioni di euro. Con il risultato che, quando la Guardia di finanza ha cercato di recuperare i 49 milioni, si è dovuta accontentare degli spiccioli rimasti sui conti del partito.

Quarantuno anni, ex dipendente di Ubi Banca, Di Rubba è stato catapultato al centro delle strategie finanziarie del Carroccio subito dopo la nomina di Salvini a segretario federale. Era il 2014 e già incombeva il pericolo del sequestro dei 49 milioni. In pochi anni il contabile della Val Seriana ha accumulato poltrone: consigliere di Radio Padania, presidente di Pontida Fin e Lombardia Film Commission, direttore amministrativo del gruppo Lega al Senato e – appunto – numero uno del Sin. Una poltrona cruciale per qualunque partito interessato ai voti di agricoltori e allevatori. Perchè è lì che si decide chi può ottenere i fondi: tutto basato sulle autocertificazioni delle aziende. I controlli in teoria ci sono e il Sin ne è parte integrante. Ma, come dimostra la vicenda delle quote-latte, i controllori possono distrarsi facilmente. Lo dice una sentenza di archiviazione firmata nel giugno 2019 dal gip Paola Di Nicola, che quantifica in 1,1 miliardi di euro la truffa pagata con soldi europei: “Un sistema criminoso che operava sotto gli occhi di tutti, e che non è stato contrastato o quantomeno controllato dalle autorità preposte”. Prima fra tutte il Sin, oggi presieduto da un indagato per peculato.

Enac a Ryanair: “Così stop ai voli”

La curva dei contagi schizza in alto, con un raddoppio dei casi di Covid in 24 ore: da 190 a 384. Le vittime passano da 5 a 10. La spinta dei positivi viene dalla Lombardia (138 casi e 5 vittime). Numeri più alti anche in Puglia e Abruzzo

Nel giorno in cui il Comitato tecnico scientifico (Cts) e il ministro della Salute, Roberto Speranza, ribadiscono che gli aerei possono volare con il 100% della loro capienza a condizione che l’aria a bordo sia rinnovata ogni tre minuti (oltre a tutte le altre condizioni previste dagli allegati tecnici del Dpcm in vigore), Ryanair rischia di restare a terra per aver ripetutamente violato proprio queste norme. La compagnia low cost non ha fatto rispettare le disposizioni anti-contagio come l’uso della mascherina, i divisori o la distribuzione di disinfettante per le mani. “O Ryanair si adegua, oppure la capienza a bordo degli aerei sarà dimezzata”, ha così minacciato l’Autorità nazione per l’aviazione civile (Enac). Insomma, non solo il vettore irlandese – primo in Italia per passeggeri trasportati – non fa osservare l’obbligo del distanziamento tra i passeggeri, ma fa disattendere anche le condizioni che ne consentono la deroga. Ora alla compagnia di Michael O’Leary non resta che adeguarsi per non rischiare di far salire soltanto la metà dei viaggiatori a bordo o addirittura di vedersi sospendere ogni attività negli scali italiani.

Intanto, la capienza al 100% sugli aerei resta un’eccezione nei trasporti. Dopo che l’altro ieri il governo è tempo tornato sui suoi passi, specificando che i treni ad Alta velocità devono ancora viaggiare a capienza ridotta per mantenere il distanziamento sociale, anche dagli esperti del Cts – riuniti in videoconferenza con la ministra dei Trasporti Paola De Micheli – emerge un orientamento prudente per i treni locali e i bus la cui capienza massima va tenuta al 50%. L’ordinanza del ministero della Salute, che ha vietato che sui Freccia Rossa si possano occupare tutti i posti, dovrebbe quindi essere estesa anche ai convogli locali. Le indicazioni finiranno nel nuovo Dpcm per contenere il contagio da coronavirus che il premier Conte firmerà entro questa settimana.

Dello stesso parere anche il ministro Speranza che, durante il question time di ieri, ha detto che in tema dei trasporti “ogni scelta restrittiva è evidente che comporti dei costi e dei disagi, ma vanno rispettati i tre principi fondamentali: uso mascherine, distanza e lavaggio delle mani”, con le dovute eccezioni come è avvenuto per le compagnie aeree. “Credo che dobbiamo insistere su questa regola, insieme alle Regioni, con le quali in queste ore c’è un confronto in corso. Il Ssn ha retto, il nostro obiettivo è continuare su questa battaglia, perché siamo fuori dalla tempesta, ma la battaglia non è ancora vinta”, ha spiegato Speranza.

Intanto la curva dei contagi è schizzata di nuovo in alto, con un raddoppio dei casi di Covid-19 in 24 ore: da 190 a 384, il terzo giorno di salita consecutivo.