“Questa è una città senza più porte, finestre, muri”. Risponde da uno degli ospedali saturi della città Assaadd Thebian, 32 anni e molti più punti di sutura a braccia e torace dopo le fiamme che hanno sfigurato Beirut. “All’inizio ho sentito quella che sembrava una prima esplosione e l’ho detto ai miei colleghi su Zoom. Ne ho sentita una seconda e ho guardato verso la finestra. La terza l’ho vista per un secondo. Quando ho riaperto gli occhi ero sul pavimento molto lontano dalla sedia, volevo ripararmi da qualche parte in casa mia: mi sono guardato intorno e ho visto che era distrutta”. Racconta che la sua è una città senza più porto: “Questa è una catastrofe senza precedenti per il mio Paese”. Non ha ancora smesso di tremare per quella che chiama “Apocalisse”: almeno 135 i morti, oltre 5mila feriti, centinaia i dispersi, 300mila senza più una casa, miliardi di danni.
La città rasa al suolo, annientata e nera come pece dopo gli incendi. C’è chi racconta che nemmeno durante la guerra, durata fino ai ‘90, si fosse mai sentito un boato così forte. Nell’aria ancora polvere e forse tossine per le 2.760 tonnellate di nitrato d’ammonio che hanno preso fuoco per divorare in pochi secondi il posto più fecondo della città: il suo centro economico. La potenza della deflagrazione si è propagata fino a nove chilometri di distanza, ha fatto esplodere le vetrate lontane dell’aeroporto internazionale. Assaadd ha passeggiato in quello che chiama già “il Ground Zero di Beirut”. Poche divise in giro, insieme risuonano silenzio e caos: “sembra che siamo un “non- Stato”: in queste ore i libanesi sanno che possono contare solo sui libanesi, gente sta arrivando da tutto il Paese per aiutare chi ha perso tutto, c’è la sensazione che dobbiamo cavarcela da soli”.
Un padre che fa scudo con il suo corpo al figlio mentre le finestre diventano schegge di vetro mortale. Una croce illuminata che di colpo si spegne prima che la chiesa crolli sul prete in fuga: l’archivio immagini del disastro sui social mostra cos’era la vita prima che l’onda d’urto la cambiasse a tutti.
Il fungo dell’esplosione sulla costa libanese riporta alla memoria immagini funeste della catastrofe nipponica proprio all’alba del suo anniversario: “Sembra il Giappone di Hiroshima o Nagasaki”, ha detto il governatore Marwan Abboud, informando della morte di dieci pompieri e dei danni che si aggirano tra “tre e cinque miliardi di dollari, o forse di più”.
“Tutti i tipi di sangue”: sfrecciano cercandolo da un lato all’altro le ambulanze delle oltre trenta squadre della Croce rossa che trasportano i feriti negli ospedali travolti da due maree consecutive. La prima: quella dell’esplosione che ha danneggiato le strutture, la seconda: quella dei cittadini in arrivo a flusso continuo in barella.
Chi ha ancora un’abitazione la mette a disposizione per i migliaia che l’hanno persa. Stato d’emergenza dichiarato dal presidente Michel Aoun che dovrà trovare una subitanea soluzione per i 300mila cittadini rimasti senza tetto. Dopo aver assicurato che “i responsabili pagheranno” e aver posto le autorità portuali ai domiciliari, il capo di Stato si è rivolto ai “Paesi amici” per supportare il Libano che attraversa la sua crisi peggiore di sempre. L’esplosione libanese è una bomba che esplode in un’altra bomba: “il Libano era già alle prese con povertà endemica ed ulteriore impoverimento per il Covid-19. Beirut era già arrabbiata”, dice Assad. Con la stessa magnitudine di un fortissimo terremoto, l’esplosione l’hanno sentita fino a Cipro. I grattacieli sventrati rimasti in piedi sembrano tristi, enormi fiammiferi. È come se un ciclone avesse attraversato le case, è quello che resta dopo un tornado di fuoco: per i libanesi la dimensione dell’esplosione è quella di una catastrofe naturale. Ma non lo è stata: responsabile è l’incuria condivisa da governo e autorità.
“Chi ha visto le immagini sa che queste sono scene di guerra”. Nato 48 anni fa nel Libano che vede la sua amata Beirut bruciare, Wadih al Asnmar trasale. “Nei primi minuti dopo l’esplosione è stato detto tutto: un attentato suicida, un bombardamento israeliano. Credo che nessun’organizzazione si prenderebbe la responsabilità di tanta devastazione”. L’attivista per i diritti umani diffonde in queste ore non ipotesi ma pezzi di carta: quelli delle autorizzazioni richieste dalla dogana portuale per spostare il carico di 2.760 tonnellate di nitrato di ammonio sequestrato a una nave russa nel lontano 2014, materiale utile in agricoltura, ma anche per la costruzione di esplosivi, che era stato stipato proprio accanto ai silos di grano. Nella tragedia tonnellate del cereali sono state vaporizzate in pochi minuti: “quella era la riserva di tutto il Libano, un Paese di sei milioni di persone, non solo di Beirut”. Le autorità, temendo proteste e scioperi del pane, hanno però assicurato che hanno scorte intatte per almeno un mese.
La città di polvere. “Dopo la crisi economica e il Covid-19, e ora questa tragedia senza precedenti, solo un miracolo potrà salvarci. Al momento non ci interessa capire cosa è successo, se è andato a fuoco nitrato o un deposito di armi. A prescindere dalle cause, una cosa è chiara per noi tutti: qualcuno non stava facendo il suo lavoro”. Delle sue stanze all’ottavo piano di un edificio sito a 200 metri dal mare rimane polvere, come degli uffici delle redazioni di tre quotidiani.
“Il Libano è un Paese dove nessuno si assume le sue responsabilità, le autorità sapevano che c’era una potenziale bomba nel cuore del centro abitato, le istituzioni competenti non replicavano alla dogana portuale che chiedeva ogni anno di eliminare, spostare o vendere il nitrato. Ora nessuno protesta perché non abbiamo forze se non per la solidarietà: i miei amici, invece di svuotare dalle macerie le loro case, soccorrono i feriti”. Ma dopo il fuoco e il fumo, dopo la lunga ora buia del suo lutto, “Beirut vorrà trovare il colpevole di quanto è successo e la pressione per trovarlo sarà enorme”. Rimangono ancora centinaia i dispersi, per cui si scava a mani nude da due notti, ma “è difficile al buio, perché non c’è elettricità” ha asserito il ministro della Salute Hamad Hasan. Wadih ha fiducia nella sua città audace, che dopo una guerra durata quasi 20 anni, ha saputo rimettersi in piedi per diventare una delle più importanti capitali finanziarie e commerciali alla latitudine mediorientale. Proprio come dopo il conflitto, succederà ancora: “Ne sono sicuro, Beirut guarirà, ma la mia domanda è: chi saremo dopo tutto questo?”.