Pechino 2022, l’Italia parte bene: 2 argenti Medaglie nel pattinaggio a “Lollo” e staffetta

L’Italia conquista due medaglie d’argento nella prima giornata delle Olimpiadi invernali di Pechino 2022, grazie ai secondi posti della pattinatrice Francesca Lollobrigida e della squadra della staffetta mista nel pattinaggio short track. La prima medaglia è stata quella di Lollobrigida, una delle atlete italiane su cui sono riposte le maggiori aspettative: la 30enne, alla sua terza Olimpiade e pronipote dell’attrice Gina Lollobrigida, si è posizionata seconda alle spalle dell’olandese Irene Schouten nella gara di velocità sui 3mila metri. Lollobrigida gareggerà anche in altre tre specialità, e avrà quindi la possibilità di ingrossare il suo medagliere personale.

L’altro argento è arrivato in chiusura di giornata con la staffetta mista sulla pista corta, grazie al sestetto azzurro formato da Arianna Fontana, Martina Valcepina, Arianna Valcepina, Pietro Sighel, Andrea Cassinelli e Yuri Confortola, battuto in volata dalla Cina; preceduto di tre secondi il team ungherese, terzo. Bene anche il curling, con Amos Mosaner e Stefania Constantini che si sono qualificati alle semifinali nel doppio misto.

Che giochi verbo-visivi tra Apollinaire e il tennis

 

 

Calligrammi

Fra i metagrafi (metaplasmi grafici, Qc #17), i calligrammi sono giochi verbo-visivi in cui l’aspetto di una parola rimanda al suo significato, oppure la forma di una poesia raffigura il proprio tema. In altri termini, nei calligrammi il significante, oltre a indicare un significato, lo rappresenta graficamente. Gli antichi greci già componevano calligrammi, e agli inizi del ’900 Guillaume Apollinaire li rese popolari. Qualche anno prima, Lewis Carroll pubblicava Alice nel Paese delle meraviglie, dove la storia del topo, al capitolo 3, traduce in immagine il pun omofono tale/tail (storia/coda). Al poeta Roger McGough si deve invece 40-Love, un calligramma delizioso su una coppia di mezza età che gioca a tennis. Graficamente, uno spazio bianco separa i due blocchi di testo: raffigura la rete che, come dice la poesia, continua a dividere i due anche dopo la partita. Il titolo 40-Love è un pun omofono che sta per “l’amore a 40 anni” e per “40 a zero” (nel tennis inglese, il punteggio zero si dice love). Leggere il componimento dà al lettore l’impressione divertente di seguire la pallina da tennis mentre viene giocata dalla coppia. Calligrammi buffi erano le parole auto-descrittive con cui negli anni 60 l’umorista Robert Carola allietava le pagine di Playboy (come se ce ne fosse stato bisogno): un divertimento buono e pulito per tutta la famiglia. E anche le parole auto-descrittive lo erano. Have fun!

(92. Continua)

Pence a Trump: “Non potevo ribaltare il voto 2020”

Nel Partito repubblicano gli anti-trumpiani escono allo scoperto e i fedelissimi dell’ex presidente cercano di sbarazzarsene. L’orizzonte sono le elezioni di midterm dell’8 novembre, ma il pensiero corre alle presidenziali 2024. Cui punta Mike Pence, l’ex vice del magnate, ormai sulla lista nera del suo ex boss. Parlando a un raduno di conservatori vicino a Orlando in Florida, Pence ha detto per la prima volta in modo chiaro che il partito deve accettare la sconfitta nel voto del 2020 e guardare avanti. “Trump sbaglia – ha aggiunto – non avevo né il diritto né il potere di ribaltare l’esito delle elezioni”. Dopo quattro anni di assoluta subordinazione a Trump, il 6 gennaio 2021 Pence non ne assecondò il disegno di impedire al Congresso di ratificare il risultato delle presidenziali, sobillando migliaia di facinorosi a dare l’assalto al Campidoglio. La sortita di Pence, potenziale candidato alla nomination 2024, forse in contrapposizione a Trump, coincide con la decisione del comitato nazionale del Partito repubblicano, riunito a Salt Lake City, di comminare “una censura formale” ai deputati Liz Cheney del Wyoming e Adam Kinzinger dell’Illinois per aver accettato di sedere nella commissione parlamentare che indaga su quanto accaduto il 6 gennaio. Un anno fa, la Cheney e Kinzinger votarono per l’impeachment di Trump. Il rimbrotto pubblico ai propri deputati è fatto molto raro. Ma Trump vuole che il Partito vada oltre ed espella i due. Il magnate ce l’ha soprattutto con Liz, figlia dell’ex vice di George W. Bush Dick. Il comitato nazionale ha affermato che, collaborando all’indagine del Congresso, i due deputati contribuiscono alla “persecuzione di cittadini comuni impegnati in un legittimo dibattito politico”: sarebbero gli energumeni del 6 gennaio. E dire che, subito dopo la devastazione del Congresso, esponenti del partito avevano pubblicamente condannato l’accaduto, prima di rientrare nei ranghi e riallinearsi a Trump.

Pazzo per le torture: “Lo liberiamo”

Prima lo hanno fatto impazzire infliggendogli quotidianamente per ben vent’anni torture di ogni genere, e ora che il quarantaduenne Mohammed al-Qahtani è ridotto a una larva, le autorità statunitensi aprono le porte della prigione di Guantanamo per rispedirlo nel suo paese d’origine, l’Arabia Saudita. Secondo il comitato di revisione periodica – un organismo composto da diverse agenzie di sicurezza nazionale – il presunto terrorista di Al Qaeda, membro del commando che ha organizzato gli attacchi dell’11 settembre 2001 alle Torri Gemelle, “non costituisce più un pericolo per la sicurezza nazionale”, e può quindi essere rispedito a casa. La storia di al-Qahtani, uno dei primi uomini a entrare nel centro di detenzione americano sull’isola di Cuba creato 20 anni fa per ospitare i terroristi islamici, è un altro esempio del metodo disumano utilizzato dagli Stati Uniti per fiaccare la resistenza tanto delle menti quanto dei manovali di al-Qaeda allo scopo di farli confessare a qualsiasi costo. Al Qahtani era sospettato di essere il ventesimo dirottatore preparato per entrare in azione se qualche membro del commando principale non fosse riuscito a prendere parte all’azione terroristica più nota di tutti i tempi. Ma già nel 2008, sei anni dopo la sua cattura, il governo americano aveva archiviato la causa contro di lui proprio per gli abusi subiti durante la prigionia.

Nella sua decisione finale, il consiglio ha affermato che al-Qahtani ha “una salute mentale significativamente compromessa” ed è pertanto “idoneo al trasferimento”, per poi raccomandare che venga rimpatriato in Arabia Saudita dove può ricevere una totale assistenza sanitaria ed essere inserito in un centro di riabilitazione per musulmani radicalizzati. Sono state inoltre raccomandate misure di sicurezza, tra cui sorveglianza e restrizioni di viaggio. Al-Qahtani è stato uno dei primi prigionieri inviati a Guantanamo nel gennaio 2002 dopo la cattura in Afghanistan nel dicembre 2001. Le torture sono state ampiamente documentate: isolamento prolungato, privazione del sonno, sodomizzazione e altri abusi fisici e psicologici. “Abbiamo torturato Qahtani”, ammise candidamente Susan Crawford, un alto funzionario dell’amministrazione Bush, nel 2009, secondo un articolo del Washington Post. Il mese scorso erano già stati rilasciati cinque dei restanti 39 detenuti ancora a Guantanamo. Tra questi, dieci – tra cui il presunto ideatore degli attentati dell’11 settembre, Khalid Sheikh Mohammed, noto come “KSM” – sono in attesa di processo da parte di una commissione militare.

Ucciso in casa dagli agenti ma era il “nero” sbagliato

Vista con gli occhi di un europeo, la sequenza dell’uccisione di Amir Locke, afroamericano di 22 anni, è drammatica e paradossale: ripresa dalla body-cam di servizio d’un agente, mostra la polizia che apre senza fare rumore, con una chiave falsa, la porta ed entra nell’alloggio del giovane senza preavviso; Locke dorme avvolto nelle coperte sul divano davanti al televisore acceso; quando i poliziotti gridando si palesano e gli intimano di alzare le mani, spunta da sotto le coperte con una pistola – la si vede in un fotogramma isolato: nella sequenza normale non la si nota –; basta perché un agente spari tre colpi e lo ammazzi.

È successo a Minneapolis, la città da cui partì l’ultima grande stagione della protesta nera negli Stati Uniti dopo l’uccisione, nel maggio del 2020, di George Floyd, tenuto per oltre nove minuti a terra con un ginocchio premuto sul collo dal poliziotto Derek Chauvin, poi condannato. Gli altri agenti della pattuglia sono sotto processo. Stavolta, la fine di Locke indigna pure la lobby delle armi, che protesta perché la polizia ha sparato a un cittadino che esercitava il suo diritto costituzionale al possesso e al porto di un’arma – legittimamente detenuta –. In un comunicato, il Minnesota Gun Owners Caucus afferma che “Amir ha fatto quello che molti di noi avrebbero fatto nelle stesse circostanze: cercare un mezzo legale d’autodifesa, tentando di capire cosa stesse accadendo”. La perquisizione dell’appartamento del giovane era stata decisa in un’indagine per omicidio con cui – s’è poi appurato – Locke non aveva nulla a che vedere: gli agenti cercavano un’altra persona. Non è la prima volta che una perquisizione che negli Usa è identificata come no-knock warrant, cioè senza preavviso, provoca una tragedia: nel 2020, a Louisville, nel Kentucky, Breonna Taylor, un’infermiera, fu ammazzata durante un’irruzione della polizia nella sua abitazione durante un intervento antidrogra, e lei non era l’indagata.

All’operazione nell’alloggio di Locke a Minneapolis hanno partecipato almeno quattro agenti: le immagini, rese di pubblico dominio dalla Cnn e da tutti i media Usa, mostrano gli agenti infilare una chiave passe-partout nella porta e fare irruzione urlando, una volta entrati, “Polizia! Perquisizione!”. “Su le mani”, grida a ripetizione uno, mentre altri intimano “Stenditi su questo fottuto pavimento”. Un poliziotto dà un calcio al divano e il giovane afroamericano spunta da sotto le coperte, tenendo in mano una pistola. Si sentono gli spari: tre colpi, tutti esplosi da un poliziotto identificato come Mark Hanneman, subito sospeso – come vuole la prassi –, in attesa dell’esito degli accertamenti. Il dramma rilancia le polemiche sui no-knock warrants, rianima la campagna ‘Defund the Police’, rinfocola le perplessità su un dipartimento di polizia già sotto tiro per l’uccisione di Floyd nel 2020 e per quella di Daunte Wright, un ventenne ammazzato lo scorso anno a Brooklyn Center, alle porte della metropoli, da una poliziotta che – disse – aveva scambiato la pistola per il taser. E ripartono le proteste di Black Lives Matter. La Procura garantisce un’inchiesta “giusta e completa”. Il governatore democratico Tim Walz dice che bisogna fare di più per evitare abusi e incidenti da parte della polizia. Tempo fa, i no-knock warrant erano stati modificati: gli agenti devono annunciare il motivo della perquisizione, prima d’entrare; ma, con Locke non l’hanno fatto. L’avvocato della famiglia, Ben Crump, che rappresentava anche i Floyd, ha precisato che Amir “non aveva alcun precedente”. La madre, Karen Wales, chiede giustizia. I parenti lo descrivono come un giovane rispettoso della legge: sognava di entrare nel mondo della musica.

“I russi hanno invaso”: ma è stato un errore di “Bloomberg”

Costretto a scusarsi per aver annunciato per errore l’invasione russa in Ucraina, al media americano Bloomberg ha risposto direttamente il portavoce di Putin, Dmitry Peskov: “Non è stata una provocazione, ma un errore che dimostra quanto siano pericolose le tensioni innescate da dichiarazioni aggressive di Washington, capitali europee e Londra”. I cacciabombardieri a lungo raggio del Cremlino hanno sorvolato ieri il territorio bielorusso nell’ambito di esercitazioni militari congiunte dei due Paesi. Proseguono colloqui e negoziati tra i leader europei per la de-escalation del conflitto. Il presidente francese Emmanuel Macron ha telefonato ieri al premier britannico Boris Johnson e al segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg, prima di raggiungere, nei prossimi giorni, Mosca e Kiev. L’Ue e la Nato sono impegnate a coordinarsi per rispondere “al potenziamento militare della Russia e alle sue azioni destabilizzanti” ha riferito la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen. Il presidente del Consiglio europeo, Charles Michel, con il presidente ucraino, Volodimir Zelenski, ha riferito ieri di pianificare “nuovi sforzi diplomatici per ridurre le tensioni”.

Buenos Aires si vendica di Washington: meglio aprire le porte a Mosca

Putin , laggiù a Buenos Aires, “ha salvato vite” nel periodo più buio della pandemia e per questo il Paese è profondamente “agradecido”, grato. Inviando il vaccino russo, proprio “nel periodo in cui le dosi scarseggiavano”, il presidente di Mosca ha risollevato le sorti sudamericane. Un paio di giorni fa il presidente argentino Alberto Fernandez, ex avvocato dai baffi bianchi e un’indole non incline alle mosse sottotraccia, è arrivato al Cremlino per ringraziare il leader russo. Prima di volare a Pechino per assistere alle Olimpiadi e sedersi tra i capi di Stato che hanno deciso di non boicottarle come quelli di Washington e Londra, Fernandez ha incontrato Putin per proporgli di usare il suo Stato “come una porta d’entrata” in America Latina. I due Paesi vantano un’amicizia lunga almeno 150 anni, i buoni rapporti li mantengono per il rispetto dei reciproci interessi, ha ricordato il leader russo. Per questo Mosca, ha ribattuto Fernandez, può essere l’amica giusta per “ridurre la dipendenza dagli Stati Uniti e dal Fmi, Fondo monetario internazionale”, a cui Buenos Aires deve 44 miliardi di dollari.

Questa somma colossale Fernandez l’ha ereditata dal suo predecessore, il destrorso Mauricio Macri: “Nel 2015 il governo argentino ha rivolto lo sguardo agli Usa, generando l’enorme debito che abbiamo”. La morsa di Washington è “una camicia di forza” da cui i Kirchner, la coppia presidenziale di Nestor e Cristina, già provarono a liberarsi. Accompagnato dal ministro degli Esteri Santiago Cafiero ma soprattutto dal capo del suo dicastero economico, Martin Guzmàn, fondamentale per l’avvio di potenziali collaborazioni commerciali, Fernandez ha assicurato al vertice del Cremlino che questo è “il momento favorevole in cui si può avanzare insieme in molti campi”. Una stretta di avambracci e sorrisi, occhi negli occhi, ha blindato un nuovo patto d’amicizia stretto in un momento delicatissimo davanti alle telecamere. Le dichiarazioni dei due, raccolte in un comunicato congiunto “hanno inquietato” i maggiori creditori dell’Fmi, ovvero gli americani. La Casa Bianca è preoccupata, ma non meravigliata. Già quando il presidente venne eletto nel 2019, Mauricio Claver, il consigliere per l’America Latina dell’amministrazione Trump, chiese ad alta voce: “Vogliamo sapere se Fernandez sarà un avvocato per la democrazia o un apologeta delle dittature e dei signori della guerra come Maduro, Correa o Morales”. Anche in patria Fernandez ha ispirato stupore e malcontento. “Una mala idea”. Per l’opposizione del leader di Frente de Todos, Fronte di tutti, coalizione peronista nata per eleggerlo nel 2018, è stata “una cattiva idea” stringere la mano a Putin proprio nel pieno della crisi militare al confine di Kiev. Jorge Faurie, ex ministro degli Esteri argentino, ha detto che si tratta di un gesto “incomprensibile e ingiustificato” e la “porta verso il Sud America” potrebbe solo rendere l’Argentina un nuovo varco di confronto su scala globale. Dal binocolo di Mosca, invece, l’Argentina è stata il primo Paese dell’emisfero occidentale ad approvare lo Sputnik, il siero di Putin che transitò poi verso Perù, Ecuador e Paraguay. Nello scacchiere sudamericano, per l’esercito e l’industria bellica russa, l’Argentina potrebbe trasformarsi nel terzo potenziale avamposto dopo quelli storici di Cuba e Venezuela. Partito da Mosca, Fernandez ha raggiunto Pechino dove si stanno celebrando i grandi Giochi degli accordi politici più che quelli delle Olimpiadi invernali fatti di di podi e medaglie. I rapporti di forza tra le nazioni si evidenziano più nelle tribune che sulle piste delle gare e l’elenco delle delegazioni straniere assenti finisce nei titoli dei giornali più dei record degli atleti.

La Cina non si fa distrarre e ha già un piede in Argentina dove investe e avanza. Lo fa a Buenos Aires, specialmente nel settore delle infrastrutture, sviluppando centrali idroelettriche e progetti per le energie rinnovabili. Quattro giorni fa – dopo anni di stallo iniziati durante l’amministrazione dell’ex presidente e ora vice presidente Cristina Kirchner – la Cnnc, agenzia nucleare statale del Dragone, ha apposto la firma al contratto per la costruzione dell’Atucha III.

Si tratta di una centrale nucleare da 8 miliardi di dollari che Pechino tirerà su in pochi anni nelle lande argentine. Ci sono le radiazioni, ma anche soia e carne di manzo: quelle che Pechino importa in quintali lasciando allo Stato sudamericano valuta estera, che spesso scarseggia nei depositi come le riserve di grano di cui il Paese è produttore.

Rayan estratto dal pozzo, ma poi muore gioia e dolore nella quinta notte di tentativi

“Tieni duro, piccolo Rayan!”. Si sparge la voce che sia ancora vivo, “adesso è in corso un intervento medico urgente”. Sono le cinque di sabato pomeriggio: e dopo lunghe ore il bambino viene estratto vivo, ma muore subito dopo il salvataggio. La folla che circonda l’area transennata dalla polizia per impedire alla gente di intralciare il lavoro dei soccorritori prima ringrazia Allah il Misericordioso poi urla di dolore. Il bimbo di 5 anni caduto martedì pomeriggio in un pozzo disseccato profondo 32 metri, stava per tornare sano e salvo alla sua casa di Ighrane, che è lì a due passi dal maledetto pozzo. C’erano tutti gli abitanti del villaggio di Bad Berred, località a settecento metri d’altitudine della povera provincia di Chefchaouen. Erano arrivati anche dai villaggi e dalle valli attorno, giorni e giorni a sfidare il gelo del Rif, le scoscese montagne a sud di Tangeri e Ceuta. La sorte di Rayan ha suscitato commozione e solidarietà sui social network, “salvate il soldato Rayan” è divenuto un tam tam della Rete, dal Maghreb all’Iraq, dall’Europa agli Usa. E anche in Italia.
Perché Rayan era l’Alfredino del Marocco. Con la sostanziale differenza che 40 anni fa il bambino di 6 anni precipitato per oltre 60 metri in un pozzo artesiano a Vermicino, dopo quasi tre giorni di inutili tentativi di salvataggio tanto generosi quanto caotici, non ce la fece. Fu una tragedia nazionale, in diretta tv. Improvvisazione, mancanza di coordinamento, la disperazione ma anche l’ira di Sandro Pertini gettarnono le basi per organizzare una nuova struttura in grado di affrontare le situazioni di emergenza senza dilettantismi: pochi anni dopo nacque il dipartimento della Protezione Civile. E tuttavia, il ricordo di quel fallimento è rimasto nel nostro immaginario collettivo. Una tragedia nazionalpopolare. Stavolta, però, i soccorritori hanno seguito protocolli ormai collaudati in tutto il mondo, sfidando difficoltà tecniche complesse, determinate dalla natura del suolo di Ighrane, dove il terreno in certe zone è roccioso, in altre è sabbioso. I tecnici hanno dovuto affrontare una grossa roccia che li separava dal pozzo, e hanno scavato una galleria centimetro dopo centimetro per evitare fessure letali e smottamenti, e raggiungere senza rischi Rayan. E così, finalmente, sono entrati alle 15 e 30 di ieri nella galleria di collegamento e lo hanno raggiunto. Dopo la lotta contro la roccia, quella contro il tempo: le due ore per riportare in superficie il bimbo. Lunghe, strazianti ore. Insopportabili. Il diametro del pozzo (appena 45 centimetri), impediva l’operazione diretta e più rapida di salvataggio. Si è dovuto optare per la soluzione più lunga. Garantire sicurezza e assistenza medica. L’unico modo per tentare di salvare Rayan.
Leonardo Coen

Genetica che hai, virus che prendi

È noto che nontutte le malattie (infettive o non infettive) colpiscono tutti i viventi. Alcune sono specifiche del genere umano. È ormai dimostrato che la malattia infettiva non è esclusivamente dovuta alla presenza di un agente patogeno, ma è necessario che ci siano anche nell’ospite elementi che la permettano. Ciò accade anche per il Covid. Abbiamo assistito a casi di soggetti che convivendo con positivi non si siano infettati, altri che lo diventano dopo due giorni dal contatto. Questo fenomeno è stato studiato in una vasta popolazione mondiale nell’ambito del progetto “Covid-19 Host Genomics Initiative”, che ha coinvolto 3500 scienziati da 25 Paesi diversi. È stato ideato nel marzo 2020 da Andrea Ganna, group leader presso l’Institute for Molecular Medicine Finland (Fimm) dell’Università di Helsinki e da Mark Daly, direttore di Fimm e membro del Broad Institute del Mit e di Harvard di Boston, Massachusetts. Anche l’Italia ha partecipato, con ricercatori dell’Humanitas e dell’Università Statale di Milano. Da marzo 2020 a fine 2021 sono stati raccolti dati clinici e genetici da quasi 50.000 pazienti positivi al virus e 2 milioni di controlli provenienti da numerose biobanche, studi clinici e società private. I risultati sono stati pubblicati sulla prestigiosa rivista Nature. L’ampia ricerca ha individuato 13 loci genici presenti nella popolazione affetta da Covid, due di questi avevano frequenze più elevate tra i pazienti dell’Asia orientale o dell’Asia meridionale rispetto a quelli di origine europea. Una precedente ricerca era stata condotta dall’Istituto Humanitas sulla popolazione italiana e ha indagato sulla diversa suscettibilità dei due sessi alla malattia, oltre che la sensibilità individuale alla severità del decorso clinico.

Conoscere preventivamente la propria sensibilità genica al Covid potrebbe suggerire cicli di vaccinazione e terapie preventive, nonché misure di contenimento appropriate e precoci. Non è da escludere che, qualora l’endemia dovesse perdurare con conseguenze gravi, questi studi potrebbero fornirci la possibilità di terapie geniche. Ma ciò è ancora fantascienza

Le corna, il segreto che dura meno di uno spot: quindi perché dirlo?

Alcune pubblicità televisive sono interessanti perché riescono a sdoganare regole che dovrebbero fare parte di una sorta di codice morale o a fare spettacolo di certi momenti della vita di ognuno che invece si vorrebbero protetti dalla più rigorosa intimità. Nel caso testé citato si prenda ad esempio quella in cui si vede una donna che esce dal luogo comodo ballando, invero scoordinatamente, per il sol fatto di aver lasciato nel posto deputato a ciò il problema che la affliggeva. Sono felice per lei e ancor di più per il fatto che non mi spieghi a chiare lettere il motivo di tanta baldanza. Riguardo alle regole di cui sopra, mi riferisco ai segreti, cioè a fatti che, se uno li conosce, dovrebbe tenere per sé. Ripenso a tutto ciò dopo l’incontro con un soggetto che, schiacciandomi l’occhio, mi comunica che deve appunto confidarmi un segreto. Conosco il suddetto, posso mettere la mano sul fuoco che si tratta di corna. Chi è andato con chi, come ha fatto a scoprirlo, eccetera. Non che non sia curioso, ma non è giornata, non ho tempo di ascoltare le varie tappe della sua indagine fino alla clamorosa scoperta. Così gli rispondo che se mi rivela un segreto quello smette di essere tale. In che senso?, chiede. Nel senso che finché lo sai solo tu, spiego, resta un segreto, se lo dici a me diventa un’altra cosa perché già lo sappiamo in due. Al che si mette a ridere. Ma se anche in tivù i segreti non sono più tali, osserva. Le vedo o no le pubblicità? Certo, difficile evitarle. E allora non posso non sapere che, nonostante la raccomandazione di non dirlo a nessuno, tutti ormai sanno che esiste una fibra forte come Ibra. Poi ride. Capito o no il senso della metafora? Sì, l’ho capita. Ma nonostante tutto, benché lui insista, ribadisco che non ho nessuna voglia di essere messo a parte del suo segreto. Peccato, fa lui, avresti forse potuto tirarne fuori una delle tue storielle. Non mi preoccupo. Tanto, se va come la pubblicità insegna, tempo due giorni e almeno mezzo paese ne parlerà.