Che Mann sfortunata: una famiglia di autori, lacrime e sangue

Litigano ferocemente già nel 1900, quando Heinrich dà alle stampe la sua trilogia orgiastica: tutti quei “seni”, quei “polpacci”, quelle “cosce”!, lo rimprovera Thomas in una lettera. E tutto quel “fare l’amore” (in italiano nel testo), laddove l’espressione è da intendersi carica di disprezzo. Heinrich Mann fa lo scrittore e ha in mente di inaugurare una nuova forma letteraria in cui l’eros sia soppiantato dal sesso e l’ironia dalla satira. “L’ironia è erotismo”, non si stancherà di ripetere Thomas nelle Considerazioni di un impolitico (è ciò che apprende da Nietzsche). Il rapporto tra vita e spirito, per lui, è delicato ed eccitante; non ammette “cadute di stile”.

“Sesso? Una cosa terribilmente semplice”, sostiene Heinrich, che di lì a poco scriverà Il professor Unrat (in tedesco, unrat significa “spazzatura”), da cui Joseph von Sternberg trarrà L’Angelo azzurro con Marlene Dietrich. Per Thomas non esiste il sesso: esiste lo sguardo, il gesto, il contatto ritardato che fa fremere le pagine. Ne La morte a Venezia, storia del fatale incanto erotico del professor Aschenbach per l’adolescente Tadzio, lo dice esplicitamente: “Niente è più singolare, più imbarazzante che il rapporto tra due persone che si conoscono solo attraverso gli occhi… costretti dall’educazione o dalla bizzarria a fingere indifferenza e a passarsi accanto come estranei, senza saluto né parola. Fra di loro c’è inquietudine ed esasperata curiosità, l’isteria di un bisogno insoddisfatto e una sorta di ansiosa attenzione”. E che altro è se non eros, ne La montagna incantata, quel febbrile cercarsi con gli occhi e non parlarsi tra Hans Castorp e la russa Madame Chauchat, a cui il giovane riuscirà dopo centinaia di pagine a chiedere (in francese, la lingua del sogno) una matita, sussurrandole la frase più erotica di tutti i tempi (“Lasciami toccare devotamente con la bocca la tua arteria femorale”)?

Nel 1910, nonostante il suicidio della sorella minore Carla, attrice di poco talento, i due litigano di nuovo. Non è solo questione di stile: l’eros è politica. Lo sa bene Thomas, che una notte, dopo aver parlato con Heinrich di Hitler (“Professor Spazzatura” per antonomasia), sogna di lasciar mangiare al fratello un’intera quantità di pasticcini alla crema, rinunciando alla sua parte, e si sveglia in preda all’angoscia. Provano a soggiornare insieme a Palestrina, nella campagna romana, dove Heinrich gode della genuinità bucolica scrivendo fiabe mentre Thomas, scontento, scrive I Buddenbrook. E proprio nella casa di Palestrina, più precisamente nel salotto in cui era solito conversare con Heinrich, Thomas farà comparire il diavolo davanti al protagonista del Doctor Faustus. Nel 1927 anche la sorella Lula muore suicida, impiccata. Sia lei che Carla, trasfigurate in personaggi patetici, finiranno nelle opere dei fratelli.

Intorno ai 25 anni Thomas aveva avuto la sua prima esperienza omoerotica, col violinista Paul Ehrenberg, modello angelico-diabolico di tutti i futuri Tadzio. Ma quando suo figlio Klaus detto Eissy diviene adolescente le cose si complicano. “Trovo molto naturale che io mi innamori di mio figlio… Eissy steso sul letto a leggere, nudo e abbronzato nella parte superiore del corpo, cosa che mi ha turbato… Pare che per me sia proprio finita con le donne”. Questo “incesto mentale” spargerà il suo alone di tragedia sui Mann per gli anni a venire, quelli del nazismo.

Erika e Klaus, “quasi gemelli” dei 6 figli che Thomas ha avuto con la moglie Katia, girano il mondo con una compagnia teatrale anti-nazista. Intrattengono col padre una corrispondenza fitta sebbene fredda per il temperamento di lui, chiamato Mago perché durante una festa si vestì da mago per far ridere i bambini. Erika gli rimprovera di non essersi pronunciato contro il nazismo, di essere legato al suo editore tedesco filonazista, di aver sabotato i progetti letterari di Klaus, “colpito alle spalle in misura ben più grave di quanto non abbia saputo fare un qualsiasi nazista nella sua idiota rozzezza”. Lui si difende così: “Non sono io stesso ad agire, non è una cosa mia, ma è una cosa che proviene da me”.

Nella storia di Klaus c’è una trama di profonda tristezza. Sul suo capo pesa il destino di incarnare ciò che suo padre non ha il coraggio di essere (apertamente omosessuale) e ciò che lui non potrebbe mai essere: uno scrittore più grande di suo padre. Teso tra la rigida, titanica aura borghese di padre e marito e un’eccitabilità raffinata risolta esteticamente, Thomas lascia che il fulmine entri nella sua famiglia. Klaus è insieme figlio da sacrificare e carne da sublimazione. C’è un passo raggelante di una lettera che il Mago scrive a Erika: “Questo Klaus (Klaus Heuser, figlio 17enne del direttore dell’Accademia di Belle Arti di Düsseldorf, ndr), a differenza di ‘quel Klaus’, voglio dire Eissy… Gli do del tu e, al momento del commiato, l’ho stretto forte al mio cuore con il suo espresso consenso. Eissy è intimato a ritirarsi in buon ordine di sua volontà e a non interferire nelle mie sfere. Sono già vecchio e famoso, perché solo a voi dovrebbe essere consentito di peccare?”. Erika riesce ad allontanare dal giovane il fratello, che china la testa sul ceppo per concedere al gelido demiurgo, genio posseduto dal cerebrale, lo svago e la parvenza d’amore che merita.

Klaus morirà suicida a Cannes nel 1949. Thomas e Katia sono in Svezia. La madre scrive a Erika tutto il suo dolore. Thomas si limita a un post scriptum: “Il povero Supermago è anche in condizione di associarsi. È riuscito da bravo a farcela, anche se spesso non sapeva bene se ridere o piangere”.

Salvate il soldato Flaiano

Le colonie si fanno con la Bibbia alla mano, ma non ispirandosi a ciò che vi è scritto.

 

Influenza delle canzonette sull’arruolamento coloniale. Alla base di ogni espansione, il desiderio sessuale.

 

16 novembre

Un soldato scende dal camion, si guarda intorno e mormora: “Porca miseria!”. Egli sognava un’Africa convenzionale, con alti palmizi, banane, donne che danzano, pugnali ricurvi, un miscuglio di Turchia, India, Marocco, quella terra ideale dei films Paramount denominata Oriente, che offre tanti spunti agli autori dei pezzi caratteristici per orchestrina. Invece trova una terra uguale alla sua, più ingrata anzi, priva d’interesse. L’hanno preso in giro.

 

Su una vecchia carcassa d’autocarro che arrancava in salita, ho letto, scritto a grossi caratteri: “Resisti, ostia!”.

 

Passa un’autocolonna di artiglieria. Sul primo pezzo: “Verso la Gloria”. Sul secondo: “Sempre ed Ovunque” e così di seguito: “Ruggo, Rombo, Rompo”, “Difendo la Patria”, “Indomabile”, eccetera. La rettorica si è sfogata. Sull’ultimo pezzo, hanno scritto soltanto: “Ginetta”.

 

La rettorica dei rimasti

Il soldato T*** è un po’ la vittima del conflitto italoetiopico. Richiamato dell’11, ha una moglie avvenente, una buona posizione sociale, un cuore di fanciullo incapace di far male ad alcuno. È grasso, sorridente. Dopo tre marce faticose (disturbi emorroidali acuiti) dorme una notte all’addiaccio. La mattina lo trovo semicongelato, pallido. Ha una lettera di suo fratello in mano. Leggo (carta dell’Hotel Royal di Fiume) queste frasi: “T’invidio! Tu che vivi l’odierna epopea!”.

 

L’Eritrea vive sulla prostituzione

Quasi ogni porta di Adi Caièh è ingresso ad una casa di piacere. Le donne vivono isolate, una ogni tucul, e sono di umore capriccioso, slavo. In Italia le case di tolleranza sono contraddistinte all’esterno. Invece qui son le case per bene che hanno bisogno di una distinzione: infatti sulle porte di queste (invero rare) si legge: “Casa di famiglia, non entrare!”.

 

La civiltà è un’opinione

Sarà molto difficile, forse impossibile, amalgamare questa gente, portarla ai nostri costumi. Dopo quarant’anni di dominio gli eritrei sono ancora pieni di credenze e di usi radicati e ci vorranno almeno altri quarant’anni di cinema americano per guastarli.

Ogni guerra dovrebbe essere preparata melodicamente. Caporetto fu la conseguenza logica delle cattive canzoni del tempo. Il morale di un soldato che cantava: “Come un sogno d’or” non poteva essere che basso. Tutte le canzoni italiane dell’epoca erano piene di pessimismo e di sfiducia… La campagna di Libia sortì buon effetto per via di “Tripoli, bel suol d’amore”, il prototipo delle canzonette di mobilitazione. E in questa guerra? Ho l’impressione che “Faccetta nera” abbia molto contribuito a riempire gli ospedali di “feriti in amore”.

 

Penetrazione culturale

Chiedo a un soldato un pezzo di carta, per un appunto. Mi porge un foglio con qualche riga: poi si accorge dell’errore, vorrebbe ritirarlo, ma non gliene do il tempo. Leggo lo scritto: scilàbot, mitri (gli organi sessuali, in tigrino) e via di questo passo. Il soldato, confuso, afferma che, in fondo, sono le parole che hanno più probabilità delle altre di essere usate. Del resto un ufficiale, partente per la Germania e digiuno di tedesco, affermava di potersela cavare in modo brillante conoscendo il verbo lippen (leccare). Penso a tutti i manuali di conversazione che ancora si stampano a Lipsia.

 

Un mio caporale, ragazzo sereno, intelligente, diceva ai compagni di trovarsi bene in guerra, con un accento di sincerità che mi stupì. “Si sta bene”, disse infine, “si mangia, si beve, si dorme, si lavora e si è pagati. Cosa volete di più? Io sono un tipo pacifico”.

 

Quando la campagna sarà finita non pochi si precipiteranno a scrivere dei libri. Già immagino il contenuto e i titoli: “Fiamme nel Tigrai”, “Africa te teneo”, “Tricolore sull’Amba”! E i giornalisti? Chi ci salverà da questi cuochi della realtà?

 

Tutti i giornalisti sono d’accordo nel trovare che il cielo d’Africa è “azzurrino”, la lontananza “vaga”, i tramonti “fatti di porpora e oro”.

 

Scritto sul casco di un soldato: “Oggi non posso morire”.

 

Segni della civiltà

Adua, 24 maggio 1936. La partita di calcio tra la squadra della Sussistenza e la squadra del Genio è stata vinta da quest’ultima per 2 a 0. Mi reco in un ufficio del Genio per certi prelevamenti e mi viene risposto: “Ormai l’ufficio è chiuso, è mezzogiorno passato”.

Published by arrangement with The Italian Literary Agency

“Salvare Assange per squarciare questo sistema”

È un’icona. Vivienne Westwood non ha mai smesso di sfidare l’establishment che non le piace e di cambiare il mondo attraverso la sua arte e il suo attivismo politico. Stilista che veste top model e insignita dell’Ordine dell’Impero Britannico dalla regina Elisabetta II, Westwood è, allo stesso tempo, un’autentica ribelle, che non teme di supportare idee e personaggi che disturbano il sistema. Come Julian Assange. Sostenitrice della prima ora del fondatore di WikiLeaks, Westwood ha appena fatto notizia in tutto il mondo perché si è chiusa in un’enorme gabbia, nel cuore di Londra, vestita da canarino. Un gesto provocatorio per richiamare l’attenzione sul caso Assange.

Abbiamo visto tutti le immagini di lei vestita da canarino. Non è imbarazzante che sia stata necessaria questa performance per riportare di nuovo il caso sui media?

È stata una buona iniziativa, perfetta per me: adoro travestirmi. Ed è andata dritta al punto: un uomo innocente, chiuso in gabbia, che lotta in condizioni disperate per non finire in una cella di cemento negli Stati Uniti, in isolamento e dimenticato. Salvare Julian Assange è come innescare una scintilla che apre uno squarcio nella corruzione politica ed economica mondiale, basata sullo sfruttamento della terra e del lavoro a favore dei ricchi.

Dal giorno in cui ha rivelato i crimini di guerra e le torture degli Stati Uniti, Assange non ha più conosciuto la libertà. È un prezzo alto per uno che rivela crimini di guerra in società democratiche, eppure se ne parla a malapena. Perché tale silenzio?

È tutta una questione di cambiare il dibattito pubblico. L’economia capitalistica si basa sul debito e sugli sprechi: tutti sono preoccupati per i soldi. E ognuno per sé. L’opinione pubblica è annoiata e confusa dalla valanga di manipolazioni.

Quando lei ha iniziato come stilista, negli anni 70, i ribelli godevano di maggiore popolarità: oggi, invece, viviamo in un mondo di conformismo dilagante, consumismo e distrazione senza fine. Si sente ancora capace di coinvolgere le nuove generazioni nei dibattiti che considera cruciali?

Il capitalismo – il dollaro marcio, come lo chiamo io – è un’economia di guerra destinata a crollare: è all’origine del cambiamento climatico e della povertà. Le guerre vengono combattute per la terra e per il lavoro a basso costo. La povertà è una cosa positiva per il capitalismo, perché è fonte di lavoro a basso costo e di cibo per i Paesi ricchi. Il mio progetto per cambiare il mondo è cambiare l’economia: lo chiamo No Man’s Land, ovvero nessuno deve possedere la terra. Questo ci porterà a una distribuzione equa delle ricchezze. Bisogna salvare le foreste pluviali, l’oceano, fermare le guerre. Funzionerà, perché è popolare.

Lei è molto preoccupata per il cambiamento climatico, crede che, dopo il Covid, assisteremo a trasformazioni radicali nel nostro approccio all’economia e all’ambiente?

Il Covid è un killer e il mondo si è dovuto improvvisamente fermare nella sua corsa a capofitto verso l’estinzione di massa. Ci siamo tutti resi conto che, fermandoci, la Terra può rigenerarsi. E ora ognuno di noi pensa: che vita faccio? C’è un altro modo di vivere? Bisogna scendere da quel tapis roulant che è la rincorsa al denaro. Il mondo al punto di svolta, creato dal Covid, è zeppo di migranti e di gente che protesta contro la povertà e la mancanza di una casa, in un pianeta che non ci può più sostenere. Se proseguiremo oltre il punto di non ritorno, non ce la potremo più fare. No Man’s Land è la risposta, il mio piano per cambiare l’economia.

Oltre al fondatore di WikiLeaks, c’è un’altra figura anti establishment che lei ha supportato: Jeremy Corbyn. Ma l’Inghilterra è finita nelle mani di Boris Johnson. Dove andrà la Gran Bretagna con Johnson e con la Brexit?

Jeremy e io abbiamo tenuto entrambi un discorso durante una marcia per la Campagna per il disarmo nucleare. È un uomo di alti princìpi, ma ha sacrificato i suoi princìpi e la sua popolarità per cercare di tenere insieme il suo partito: estrema sinistra ed estrema destra. Il primo errore che ha fatto è stato quello di appoggiare il deterrente nucleare del Regno Unito, il Trident. Boris non sta da nessuna parte, è un ciarlatano e un demonio le cui azioni sono tutte distruttive. È solo interessato a se stesso, come Trump e tutti gli altri. Noi riusciremo a far prevalere le nostre richieste di salvare il mondo attraverso la nostra credibilità (ci stiamo lavorando con le Ong) e la nostra popolarità. Dopo la Brexit, Boris Johnson è all’angolo: dipende dagli scambi commerciali con gli Usa ed è soggetto alla corruzione legale degli Stati Uniti. Julian Assange è importante perché è contro la guerra e rivela questa corruzione.

Lei è un’eminente artista e attivista, ma è anche una che vive nel mondo degli affari, dove il mercato detta le regole. Quali sono le lezioni più importanti che ha appreso nell’affrontare le tensioni di fondo tra business e attivismo?

Sono un’attivista e una stilista che ha iniziato con il punk: le due identità si potenziano a vicenda. La mia iniziativa più recente è stata una mostra d’arte su Julian Assange alla Serpentine Gallery di Hyde Park. Non ci sono tensioni tra le due cose, semplicemente non sono guidata dal mercato, io creo gli abiti che mi piacciono. Ed è così bello lavorare con Andreas Kronthaler, mio marito. È bravissimo nella moda e di lui penso: ‘Sei meraviglioso!’.

Guardando avanti, ha un progetto specifico per aiutare le persone non privilegiate, usando la sua arte e il suo attivismo?

L’obiettivo è la libertà, l’uguaglianza, la fraternità. Il mio piano è cambiare l’economia. La libertà, per controllare le nostre vite. L’uguaglianza, per avere una distribuzione equa della ricchezza. La fraternità, per costruire una comunità e una cultura, invece di muoversi ognuno per sé sul tapis roulant della rincorsa ai soldi.

Beirut salta in aria: decine di morti, migliaia di feriti

L’ecatombe si è abbattuta con un fragore mai udito in Libano, mentre i ministri litigavano come sempre, incolpandosi l’un l’altro di essere corrotti e di aver portato il Paese alla bancarotta. Diverse decine di morti e migliaia di feriti sono la tragica dimostrazione della morte dello Stato libanese. Proprio ieri il ministro degli Esteri del neo esecutivo si era dato alla fuga “per mancanza di volontà” dei suoi colleghi di salvare il Paese ormai fallito.

Anche gli abitanti di Beirut, sopravvissuti alla devastante esplosione di materiale chimico, o forse a due esplosioni di cui una da una nave, si sono dati alla fuga per paura della nube tossica. Ci sarebbe anche un militare italiano ferito ma non grave e altri in osservazione. I militari italiani che hanno assistito a questo terrificante evento, forse l’esplosione finora più forte in tempo di pace, fanno parte di un’unità del contingente italiano di stanza in Libano. I nostri soldati partecipano alla missione Unifil per assicurare la zona cuscinetto tra Libano e Israele, dopo le numerose guerre che li ha visti combattersi, l’ultima nel 2006.

E Israele si è subito smarcato, mettendo le mani avanti a causa delle accuse incrociate volate sotto forma di missili e droni al di là del confine tra i due Stati perennemente in lotta. Gerusalemme ha anzi offerto aiuto al governo libanese.

Quando ci si domanda cosa succede in un Paese fallito, bisogna guardare a ciò che è accaduto a Beirut. In un Paese fallito può succedere che un deposito zeppo di materiale esplosivo, probabilmente chimico, confiscato anni fa, non venga tuttavia sequestrato, bensì lasciato del tutto incustodito. E che un giorno di un’estate di disperazione per l’imminente carestia, un deposito esploda come una bomba atomica devastando il porto della Capitale, unico cantiere ancora operativo per la crisi economica che ha definitivamente bloccato il Libano. Ma soprattutto succede che ancora una volta ci vadano di mezzo i libanesi, morendo a decine, e non la casta costituita dalle stesse famiglie che li governava ancora prima della guerra civile. Loro, gli Hariri, i Gemayel, gli Aoun, i Berry, più gli sciiti armati di Hezbollah guidati da Hassan Nasrallah hanno dimostrato di non avere la minima remora nell’appropriarsi della cosa pubblica deprivando la società e portandola infine alla fame nel Terzo millennio. E anche dopo questo disastro nessuno pagherà perché anche il governo è nel caos, così come gli ospedali di Beirut e di tutto il paese dove le ambulanze fanno la spola senza sosta. La Croce Rossa non sa più dove portare le centinaia di feriti dall’esplosione di uno, per ora, sconosciuto materiale esplosivo che potrebbe essere estremamente inquinante, specialmente quando brucia. Un materiale esplosivo, “non esplosivi”, nel senso di materiale bellico, ha detto il ministero della Difesa, che però non ha spiegato come mai quel materiale fosse lì, tra i container del porto, tra gli ignari lavoratori che lo animano giorno e notte.

Il ministero della Salute ha ordinato a chi vive nell’area del porto di rimanere in casa, ma molti non potrebbero uscire neanche volessero: decine e decine di persone sono ancora intrappolate sotto le macerie. Gli ospedali già messi in crisi dal Covid ora chiedono alla popolazione di accorrere per donare il sangue necessario per curare i feriti rimasti amputati.

In un paese fallito ed eterodiretto dal regime saudita e dal regime iraniano – che si fanno anche qui guerra per procura – può succedere che l’esercito regolare sia inesistente e non protegga né i cittadini né le proprietà, tantomeno i siti sensibili come quello dove sarebbe stato tenuto il materiale esplosivo. E può succedere che, invece, una milizia cresca al punto da diventare un vero e proprio esercito paramilitare finanziato da un altro paese: l’Iran, per l’appunto.

E a proposito di Iran, inteso come protettore di Hezbollah che controlla de facto l’esecutivo, va notato che l’enorme doppia esplosione avviene ad appena tre giorni dal verdetto del tribunale speciale incaricato dall’Onu di condurre le indagini sul micidiale attentato in cui quindici anni fa, sul lungomare di Beirut, venne assassinato l’ex premier Rafiq Hariri, e 21 altre persone. Sotto processo, in contumacia, ci sono quattro membri di Hezbollah, il potente movimento sciita filo-iraniano alleato di Damasco, e il 7 agosto la Corte, con sede all’Aja, annuncerà se sono innocenti o colpevoli. Si tratta di un verdetto, a lungo atteso, ma anche temuto perché potenzialmente potrebbe scuotere di nuovo, dalle fondamenta, questo infelice Paese.

“Il Re Felipe VI è saldo, anche se la Spagna non è più monarchica”

“La Spagna non è un Paese monarchico. O meglio lo è, ma a tratti, come abbiamo visto già in passato. Direi che il regno di Felipe VI per ora, agosto 2020, è al sicuro, ma il futuro se lo gioca nei prossimi anni e dipenderà molto dalla crisi economica che sta arrivando e dalla risposta che la politica riuscirà a mettere in campo”. Lo storico Jordi Canal, professore della École des Hautes Études en Sciencies Sociales (Ehess) di Parigi, nel suo libro La monarchia spagnola nel secolo XXI ha analizzato il ruolo della corona di Spagna nel nuovo millennio, quella che vede come capo di Stato l’erede di Juan Carlos I, quella uscita dagli anni della crisi economica, quella che con l’abdicazione del “sovrano della transizione” si lasciava alle spalle un’era per aprirsi alle nuove sfide. Ed è sicuro: la monarchia tiene.

Juan Carlos I se n’è andato dal Paese. Che ne pensa?

Penso che la decisione fosse nell’aria, sollecitata anche dal governo Sanchez e già anticipata da diversi media. E credo che sia stata una scelta obbligata e corretta. Le notizie sull’inchiesta a suo carico che arrivavano con il contagocce stavano appannando l’immagine della casa reale e potevano nuocere al figlio, il re Felipe VI. Non c’era altra soluzione.

Si tratta di un esilio o di una fuga dalla giustizia, come pensa qualcuno?

Nessuna delle due. Juan Carlos si è allontanato per un periodo, non resterà fuori per sempre e ha fatto sapere che è a disposizione della Corte dei conti e dei giudici. Ma ora non poteva fare a meno di lasciare il Paese, anche per non macchiare l’immagine dell’Istituzione.

Nel suo libro scrive che – a meno di evento enorme – la monarchia non cadrà. Ci siamo?

No, non credo. La questione per ora sembra finita qui. Mi riferivo a ben altro tipo di eventi, come una crisi economica profonda, un momento di seria difficoltà per il Paese. Poi non credo che con il Covid e tutto quello che sta accadendo il problema sia la monarchia.

Secondo lei la Spagna da juancarlista sta diventando felipista. Cosa intende?

Felipe VI dal 2014 si sta dimostrando un buon capo di Stato, all’altezza del XXI secolo. Suo padre, al di là degli errori che certamente ci sono stati – anche se bisogna aspettare che la giustizia faccia il suo corso per capire – non ha saputo interpretare i valori del XXI secolo, è stato un buon sovrano fino agli anni 2000. L’attuale re ha gestito tutto con trasparenza, come richiedono i tempi.

Eppure lo scandalo ha lambito anche lui: il suo nome è tra i beneficiari della società off shore del padre. Lui ne era a conoscenza dal 2019, ma ha confessato solo quando uscì la notizia.

Sì, è vero. In quella occasione avrebbe potuto essere più trasparente e più chiaro e deciso nella risposta. A ogni modo, gli spagnoli hanno capito che l’errore è di Juan Carlos e non del figlio.

Finora il ruolo svolto da Felipe è più debole di quello del padre.

Sì, non sono paragonabili: il padre ha traghettato la Spagna dalla dittatura alla democrazia e poi l’ha salvata dal colpo di Stato dell’81. Il re attuale l’unica prova che ha dovuto affrontare finora è la crisi degli indipendentisti, ma si è saputo tenere saldo al suo ruolo di unità del Paese come prevede la Costituzione. Direi che con lui la corona si è stabilizzata.

Sanchez ha ribadito il suo sostegno all’Istituzione, anche se non alla persona di Juan Carlos I.

È normale. Non è in ballo la monarchia, anche se nel governo ci sono forze repubblicane, come Podemos, che non perdono occasione per attaccarla, in realtà nessuno ha messo in campo una proposta alternativa concreta. La attaccano perché la legano al “sistema del 78” (la Transizione, ndr). Guardi, la Spagna in fondo non è un Paese monarchico, ma ‘monarchista’. Per ora e visti anche i tempi incerti, è e resta monarchico.

A proposito di “sistema 78”, questo governo vuole chiudere i conti con la storia, come per l’esumazione di Franco dal Valle de los Caidos o la legge sulla Memoria storica. La monarchia è legata alla dittatura.

Questo è un vecchio argomento. In realtà la corona in Spagna è sempre stata dalla parte della democrazia. Popolari, socialisti e Ciudadanos potrebbero trovare un accordo sulla monarchia, ma non sulla memoria storica. Non c’è da mischiare i due piani. Sono equilibri distinti.

Vedremo il regno di Leonor?

Dipende dalle spinte sociali che verranno fuori da questa crisi. In momenti economici difficili, i regimi monarchici non sono ben visti. Lo dimostra la crisi del 2008, lì Juan Carlos I ha vacillato.

Bisognerebbe indire un referendum e cambiare la Costituzione.

E quale sarebbe la nuova forma costituzionale? Nessuno ha un’idea precisa. Poi non sarebbe affatto semplice. Per modificare la Carta del 1978 bisogna avere due terzi della maggioranza parlamentare, poi sciogliere il Parlamento e tornare a ricostituirlo dopo nuove elezioni. Non è il momento per farlo, né ci sarebbero i numeri. Una Costituzione la si può aprire, ma poi bisogna richiuderla.

Truffa dei diamanti, Bpm rimborsa il 60%: “Lo ordina la Bce”. Francoforte: “Mai fatto”

Non sono state né la Bce né Banca d’Italia a “indicare” a Banco Bpm di rimborsare solo il 60% del valore investito ai clienti che tramite la banca hanno comprato a prezzi fuori mercato i diamanti del broker fallito Idb. In un’email inviata il 2 luglio a un giudice di Genova, chiamato a decidere la causa avviata contro il Banco da una cliente dei diamanti, l’avvocato Nicola Scopsi che difende l’istituto scriveva che la transazione “non è in linea con le prescrizioni impartite a Banco Bpm da Banca d’Italia e dalla Bce per la definizione delle vertenze in sede stragiudiziale” e che “le direttive imposte da Banca d’Italia e Bce” sono “vincolanti per Banco Bpm”. L’eurodeputato Brando Benifei ha così chiesto alla Bce quali “prescrizioni” avesse impartito. Il 29 luglio Andrea Enria, capo della vigilanza bancaria, ha risposto che sui diamanti “la strategia di rimborso è stata decisa unicamente da Banco Bpm. La Bce non ha impartito alcuna istruzione formale o informale alla banca, né l’ha incoraggiata ad adottare tale strategia”. Di chi è stata dunque l’idea di trincerarsi dietro Francoforte?

Scopsi spiega che l’email fu “frutto di una mia precisa strategia processuale” che intendeva “fare esclusivo riferimento alle direttive impartite, in base alle proprie linee guida interne, da Banco Bpm, che è soggetto vigilato”. Banco Bpm ribadisce che “le modalità di definizione delle transazioni con i clienti sono state decise dalla banca in autonomia e smentisce il riferimento a prescrizioni impartite dalle autorità. Tali modalità, stabilite da linee guida approvate dal cda della banca e comunicate a tutti i propri legali, incluso l’avvocato Scopsi, prevedono un’analisi caso per caso della posizione dei clienti e, se ci sono gli estremi, che la banca proceda a un congruo ristoro lasciando la proprietà dei diamanti al cliente. Le stesse linee guida valgono anche in caso di transazione in pendenza di causa proprio per assicurare una coerenza di trattamento”. L’avvocato della cliente, Luca Cesareo di Assoutenti, ribatte che “l’associazione interverrà in tutti i processi per censurare l’idea di attribuire alla Vigilanza scelte interne della banca”.

Non c’è però solo il caso di Genova. Per la vicenda diamanti al 31 gennaio scorso erano arrivati a Banco Bpm 22.800 reclami del valore di 640 milioni e sul gruppo pendevano 500 cause per 43 milioni. Nel 2017 l’Antitrust ha irrogato a Banco Bpm una sanzione da 3,35 milioni (la banca ha fatto appello). La Procura di Milano ha notificato al Banco il sequestro preventivo di 84,6 milioni e un’informazione di garanzia insieme a Banca Aletti e contesta ad alcuni ex manager i reati di truffa aggravata, autoriciclaggio, ostacolo alla vigilanza e corruzione tra privati.

“City car con Psa”. Stop a indotto Fiat, fornitori in allarme

Una lettera inviata da Fca Italia e Fca Polonia ai fornitori, rivelata dall’edizione torinese del Corriere, torna ad alimentare le preoccupazioni sulla futuro in Italia del gruppo “Stellantis” che nascerà dalla fusione di Fca e Psa. La missiva informa che “il progetto di piattaforma del segmento B di Fca è stato interrotto a causa di un cambiamento tecnologico” e chiede dunque “di cessare immediatemente ogni attività di ricerca/sviluppo e produzione relativa al progetto del segmento B per evitare ulteriori costi e spese”. Inoltre informa che “nel contesto di una cooperazione autonoma, Fca e Psa hanno raggiunto un accordo sullo sviluppo, la produzione e l’assemblaggio di Fca nello stabilimento Fca di Tichy (Polonia, ndr) di veicoli di segmento B a marchio Fca basati sulla piattaforma Cmp di Psa. Questa cooperazione non è correlata alla prevista operazione tra Fca e Psa annunciata a fine 2019. Fino alla sua realizzazione, Psa e Fca resteranno concorrenti e dovranno essere ritenuti come tali”.

Sebbene negli stabilimenti italiani di Fca non si producano utilitarie del segmento B, secondo alcuni produttori di componentistica questo segnale indica che saranno i fornitori francesi a prevalere. Piattaforme come quelle di Psa o Volkswagen consentono di ridurre i costi ma comportano la presenza vicino all’impianto dei fornitori di pianali, sospensioni, scarichi. Fiat commenta in una nota che “Fca e Psa confermano di aver avviato discussioni per potenziali progetti di cooperazione sul segmento B separatamente da qualsiasi negoziato relativo alla fusione. Per ragioni di riservatezza e ovvi motivi antitrust, in questa fase non forniremo ulteriori dettagli”. Secondo Michele De Palma della Fiom-Cgil, “occorre che il Governo dia risposte di politica industriale prima della fusione, perché poi sarà troppo tardi. Negli stabilimenti italiani c’è il know how che serve ma bisogna evitare di perdere volumi produttivi”.

“Signori, uscite”. Yokohama licenzia con avviso online

Da Tokyo arriva l’ordine e dall’altra parte del pianeta obbediscono, in tempo reale. “Just in time”, parola chiave del toyotismo, oggi riadattata alle logiche brutali della globalizzazione. La Yokohama, storica multinazionale giapponese di pneumatici, annuncia la chiusura immediata del suo stabilimento di Ortona in Abruzzo. A spasso, da un giorno all’altro, 84 lavoratori. Eppure qui, in provincia di Chieti, sorgeva l’unico suo complesso in Europa specializzato in una delle diversificazioni produttive della casa madre: i tubi marini offshore per il petrolio, di cui è leader mondiale. La Yokohama l’aveva rilevato di recente, nel 2014: in principio, mezzo secolo fa, c’era il gruppo Pirelli. “Ci hanno mandato via senza preavviso. Liquidazione istantanea della nostra fabbrica – racconta al Fatto Lucio Piersanti, operaio da 20 anni e Rsu Cgil – Pensate che la decisione ci è stata comunicata con una riunione online, e poche ore dopo è piombato l’invito lapidario al personale ad abbandonare il capannone con tutti gli effetti personali”.

I ricordi, le speranze di una vita cancellate all’improvviso perché “il mercato petrolifero è in crisi, e poi ci sono le conseguenze del coronavirus” hanno fatto trapelare i rappresentanti del colosso orientale. Il sindaco di Ortona, Leo Castiglione, ha respinto queste ragioni al mittente: “Vogliono farci credere che sono bastati due mesi d’emergenza sanitaria per giungere a una decisione così drastica?”. “Le motivazioni mi sembrano risibili” ha commentato l’assessore regionale alle attività produttive Mauro Febbo. Prima del lockdown, lo stabilimento ortonese era considerato strategico per il mercato europeo e nordafricano. Adesso la vertenza sarà portata al ministero dello Sviluppo. Intanto i lavoratori sono in mobilitazione permanente di fronte ai cancelli della loro azienda in fuga. Davanti all’ennesimo dramma industriale, non preannunciato, del nostro Paese.

Mail Box

 

I problemi della scuola non dipendono dal virus

Ho insegnato in tutti gli ordini di scuole, medie inferiori, superiori e università (tranne che alle elementari), dal 1965 al 2010 quando sono andato in pensione. Diciamo che i problemi li conoscevo, poi la scuola è cambiata ma riesco ad afferrarli. Ho letto una difesa su il Fatto della ministra Azzolina, e vi do ragione. I problemi che deve affrontare sono enormi e non solo a causa del Covid, ma per lo stato di abbandono in cui più di vent’anni di cattivi ministri l’hanno lasciata. E i problemi sono: allungare il calendario scolastico e l’orario giornaliero, diminuire il numero degli studenti per classe, far aggiornare gli insegnanti. Problemi grossi ma che vanno affrontati, per non parlare dell’edilizia. Ma segnalo un problema immediato: trovo assurdo che, una settimana dopo l’inizio delle scuole, si debba interrompere l’attività nelle regioni in cui si vota. Questi sono problemi che devono affrontare il ministero della Difesa e quello degli Interni. In accordo coi sindaci si devono trovare sedi diverse dalle scuole in cui mettere i seggi elettorali. È una cosa che si può fare e si deve fare. E aggiungo: in Toscana è anche previsto il ballottaggio se nessun candidato supera il 40%. Quindi altra tornata elettorale e altra chiusura delle scuole. Un’assurdità.

Giovanni Falaschi

 

Il tg de La7 è stato poco chiaro sulla zona rossa

Sbaglio o nel tg condotto da Mentana di giovedì o venerdì (mi pare) uno degli argomenti trattati con tanto di titolone era che ora ci sarebbero le prove a testimonianza del fatto che Gallera avrebbe voluto la zona rossa? Pensavo che servissero atti più concreti per cose così importanti: carte firmate e timbrate o dei documenti in cui si richiede ufficialmente la zona rossa; non pensavo che Mentana pensasse che per richiederla ufficialmente bastasse pensarlo o blaterare parole a vanvera in qualche riunione. Ho cercato di seguire il servizio, ma non capivo… Ora ho in mano il Fatto ed è tutto più chiaro e vi ringrazio: tutto chiaro tranne cosa volesse dire con quelle parole sconclusionate Gallera.

Orlando Murray

 

In Toscana la Galletti pensa solo alla birra

Caro direttore, alle Regionali toscane la candidata 5Stelle è sotto accusa? Fanno bene! Come può essere valida una candidata che con tutte le grane che abbiamo pensa a una legge così importante come i fondi regionali ai produttori di birra toscani? E si ritrova ad avere un compagno produttore di birra che però non avrebbe beneficiato di tali risorse. Una mossa che porterà alla vittoria l’opposizione. Poi si chiedono perché il partito più numeroso è l’assenteismo.

Omero Muzzu

 

Basta rimarcare gli errori di Matteo. Se poi impara?

Egregio direttore Travaglio, sono un lettore del FQ di recente acquisizione e vorrei esprimere tutta la stima e l’apprezzamento per il lavoro che lei e i suoi colleghi svolgete ogni giorno e che si traduce nella presenza, direi indispensabile specialmente per chi vuol seguire il dibattito politico nazionale, di un giornale come il Fatto. Tuttavia, se posso, esprimerei anche una piccola critica ai suoi editoriali nei confronti del senatore Salvini. Consiglierei, sempre se posso, di ridurre la frequenza e l’incisività satirica degli articoli che lo hanno come oggetto. Non vorrei che il senatore, a furia di compulsare nervosamente gli scritti dall’alto valore didattico che lo riguardano, cominciasse a capire i suoi errori e iniziasse, Dio non voglia, a porvi rimedio. Lo lascerei un po’ di più, come suol dirsi, cuocere nel suo brodo, con la certezza che presto, e con questi caldi, gli italiani butteranno tutto, liquido e solido. E allorquando, giunto al tramonto della sua parabola politica, mediterà sugli errori commessi e piangerà se stesso come colui che è stato causa dei suoi mali, le amare lacrime gli bagneranno l’ombelico sempre più prominente di “un fatto a guisa di liuto” (lnferno, canto XXX, VIII cerchio, X bolgia: I Falsari).

Patrizio Innamorati

 

Europa irresponsabile e ingenua su chi sbarca

Quando viaggio ho bisogno di un passaporto, un visto, denaro e devo lasciare un altro paese entro la data specificata o essere arrestato. Perché i migranti dovrebbero poter arrivare e rimanere illegalmente in Italia e in Europa? I nostri confini sono controllati a causa del Covid-19, ma i migranti continuano ad arrivare incontrollati. O viviamo sotto lo stato di diritto o nella giungla. I governi europei sono stati ingenui e irresponsabili. L’unica soluzione è quella di riportare i migranti nei loro paesi senza sosta e portare i minori non accompagnati nelle loro ambasciate per riunire le loro famiglie. Non sono di responsabilità dell’Italia. Ogni migrante clandestino deve tornare a casa prima che l’Europa si trasformi in un ghetto multiculturale.

Peter Fieldman

 

I NOSTRI ERRORI

Ieri, ne Lo dico al Fatto in questa pagina, abbiamo scambiato il signor Mario Rosario Celotto per Maria Rosaria Celotto: ce ne scusiamo con l’interessato e con i lettori.

FQ

Beni culturali. Ripensare la tutela delle opere e la pena per chi le viola

 

Gentile redazione,il triste episodio – avvenuto sabato 1 agosto 2020 – del danneggiamento del già restaurato, e quindi delicatissimo, modello originale della Paolina Borghese come Venere Vincitrice della Gipsoteca canoviana di Possagno (TV) da parte di un improvvido turista, mette ancora una volta tutti noi, cittadini italiani, di fronte a uno dei molteplici aspetti di una situazione drammatica. Negli ultimi anni, diversi sono i momenti in cui il nostro fragile e prezioso patrimonio – istanza primaria della nostra identità plurale e straordinaria risorsa – è stato aggredito o incautamente avvicinato e intaccato. Senza esclusione di colpi. Da dentro e da fuori – difficile dimenticare la violenza perpetrata ai danni della fontana della Barcaccia a Roma del 19 febbraio 2015. Due sono i temi su cui mi auspico nasca presto un dibattito consapevole: la vigilanza/salvaguardia e la pena. Nel primo caso, come sul vostro quotidiano è stato ribadito, è necessario potenziare il personale qualificato ed estendere le azioni che permettono una vera applicazione del concetto di tutela. Nel secondo, oltre a rivedere l’art.733 del Codice penale e, forse, ad alzare consistentemente l’ammenda pecuniaria (attualmente non inferiore a euro 2.065) già prevista dal medesimo, bisogna che la certezza della pena, una volta provate le responsabilità, diventi un punto fermo. Non per punire, ma per educare al rispetto dei nostri tesori, alla cui distruzione non è più tollerabile assistere. Grazie.

Stefano Agresti

 

Caro Agresti, i due punti che solleva sono essenziali. Sul primo, il ministero per i Beni culturali fatica a imporre alle varie fondazioni locali (come questa, saldamente in mano alla politica locale e trasformata in sinecura per il solito circo), religiose o private quei livelli minimi di personale che non riesce a garantire nemmeno nei suoi musei nazionali (colpa di una classe politica ostinatamente sorda alle esigenze della cultura: fondamentalmente perché incoltissima). Sul secondo, la revisione della parte penale del Codice dei Beni culturali è bloccata da anni perché altrimenti bisognerebbe anche incidere sui grandi interessi del mercato dell’arte, che conosce ampie zone di sconfinamento nell’illegalità. Dopodiché, finché pensiamo che sia sensato andare al Museo per guardarsi attraverso l’obiettivo del telefono e non per guardare le opere, nessuna sorveglianza basterà. Più che repressione, servono educazione, formazione, istruzione.

Tomaso Montanari