Troppe verità sono ancora senza giustizia

In aeroporto, una gentile signora mi dona un braccialetto giallo dove c’è scritto: “Verità e Giustizia per Giulio Regeni”. A Bologna, quarant’anni dopo le stragi della stazione e di Ustica, il capo dello Stato promette: “Verità e Giustizia”. A Genova, i familiari delle vittime del Morandi non partecipano all’inaugurazione del ponte San Giorgio, e invocano: “Verità e Giustizia”. Verità e Giustizia sono parole da scrivere con caratteri maiuscoli per non confonderle nel chiacchiericcio che tutto usa, svuota e getta. Per restituire loro il significato e il valore profondo di un impegno non occasionale, non rituale. Parliamo della gigantesca macelleria che in mezzo secolo ha ucciso centinaia, forse migliaia di persone a opera di mani assassine. Che di volta in volta abbiamo chiamato terrorismo rosso, trame nere, stragismo mafioso. Oppure: incuria e avidità da parte di poteri economici abituati all’impunità. Oppure: incapacità di inchiodare alle loro responsabilità regimi oppressivi e violenti. “Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi”: scriveva Pier Paolo Pasolini, nel 1974 sul Corriere della Sera, a proposito delle stragi di Milano e di Brescia. Se il poeta fosse ancora vivo avrebbe aggiornato il suo celebre articolo con un interminabile elenco di lutti e di orrori, ma forse avrebbe posseduto molte più certezze sulle “prove” e sugli “indizi”.

Infatti, la ricerca dei responsabili ha fatto grandi progressi (anche grazie al lavoro della libera informazione) e oggi su tante tragedie possiamo dire: noi sappiamo e in molti casi abbiamo le prove (oltre che gli indizi) per stabilire la verità dei fatti, e per conoscere chi ne porta il peso. È una verità pubblica di fronte alla quale non si può più mettere la testa sotto la sabbia, come per troppo tempo hanno fatto governi e istituzioni. Altro discorso quello sulla giustizia. Pur se cancellata, impantanata, manipolata, negata da una incessante attività di depistaggio e di complicità ben strutturate (Stato-mafia, Stato-P2, Stato-stragi fasciste), la macchina giudiziaria non ha mai smesso di cercare i colpevoli, per merito soprattutto della tenacia e del coraggio di tanti magistrati. Riuscendo spesso a condannare gli esecutori. Ma non i mandanti. A incastrare i pesci piccoli. Ma non gli squali. Per una Verità conclamata una Giustizia tardiva e dimezzata è davvero troppo poco.

La foga anti-Stato di Panebianco (che dimentica i predatori privati)

Caro direttore, ieri il prof. Panebianco sul Corriere della Sera ha preso di punta i “neo-statalisti” italiani definiti, con consueta supponenza intellettuale, “keynesiani de’ noantri”. Per qualche dato relativo ai casi da lui citati, propongo all’illustre editorialista, non richiesta, una lista di letture estive. Dai documenti ufficiali di Alitalia, scoprirebbe che, nel decennio pre-amministrazione straordinaria (dal 2008-2017), la compagnia è stata al 100% di privati, italiani e arabi, e da essi spolpata. Sull’Ilva, constaterebbe che sono stati i Riva a portarla al fallimento e ad aggravare il disastro ambientale a Taranto per anemia di investimenti e trasferimenti di profitti all’estero. Poi, su Autostrade, potrebbe leggere il Rapporto della Corte dei Conti del 18 dicembre 2019 e verificare le mega rendite regalate per un paio di decenni ad Atlantia, maturate senza rischio di mercato, dato che l’asset è un monopolio naturale. Ancora, a proposito di acqua pubblica, nei bilanci di Acea ammirerebbe la straordinaria efficienza di privati che, nella gestione di un’azienda pur al 51% del Comune di Roma, mietono profitti grazie allo scarto tra tariffe idriche e investimenti su una rete colabrodo (perde il 40% dell’acqua). Infine, suggerisco a Panebianco altri “casi” interessanti. Ad esempio, nelle recenti cronache finanziarie su Fca, noterebbe che la dinastia Agnelli-Elkann con patrimoni regali nei paradisi fiscali ha preteso garanzie miliardarie dallo Stato sotto il ricatto dell’occupazione. Dall’ultima audizione alla Camera dell’Ufficio parlamentare di Bilancio conoscerebbe che, dal marzo scorso, quasi il 30% delle ore di cassa integrazione (per un valore di circa 7-8 miliardi), è stata ottenuta da aziende private che non hanno avuto perdita di fatturato nel lockdown. Chiudo. Purtroppo, i lavoratori hanno perso da tempo i loro “intellettuali organici”. Invece, gli interessi più forti continuano, naturaliter, a essere ben supportati.

Revisionismi. Botte, olio di ricino, SS: benvenuti al (fu) Museo del fascismo

Ha fatto bene, benissimo, Virginia Raggi, sindaca di Roma, a bloccare sul nascere l’ipotesi di un museo del fascismo. Ha fatto bene chi aveva presentato la mozione (tre consiglieri dei 5 Stelle) a ritirarla. Con l’aria che tira, coi i neofascisti che occupano palazzi (CasaPound), che difendono gli stragisti della stazione di Bologna (il senatore Ruspandini, di Fratelli d’Italia), che si vestono da nazisti (Gabrio Vaccarin, eletto a Nimis, Udine, con Fratelli d’Italia), che vanno a cene in ricordo del duce (il candidato governatore delle Marche Acquaroli, sempre Fratelli d’Italia), si rischia l’effetto celebrazione. O una pagliacciata tipo Predappio. O un’oscenità tipo il mausoleo del criminale Graziani ad Affile. Insomma: no, grazie. Ma come sarebbe veramente un museo del fascismo? Ecco, in esclusiva, il percorso della visita.

Stanza uno. Il visitatore entra in un grande salone dove viene bastonato da alcuni arditi che dicono di farlo per la Patria. Uno speciale software riconosce gli intellettuali che devono bere, per continuare la visita, due bottiglie di olio di ricino. Entusiasmo in Fratelli d’Italia. Stanza due. Un po’ contuso, il visitatore entra nella seconda stanza, dove gli viene sottoposto un questionario: ti piace il museo? Chi risponde “no” perde il lavoro, viene licenziato o arrestato sul posto. C’è anche una domanda specifica: “Ti chiami Matteotti?”. Nessuno ha il coraggio di rispondere “sì”. Addetti di Fratelli d’Italia controllano i documenti per scovare chi ha mentito.

Stanza tre. I fasti dell’Impero. Il visitatore viene costretto a donare al museo la sua fede nuziale e tutti gli oggetti d’oro che indossa per finanziare l’allestimento sulla presa di Addis Abeba. Si tratta di una donazione spontanea, chi non aderisce viene riaccompagnato alla stanza uno. Stanza quattro. Nuovo questionario, con una sola domanda: “Sei ebreo?”. Chi risponde “no” può continuare la visita, chi risponde “sì” viene accompagnato alla stazione per un viaggio in Germania, o direttamente alle Fosse Ardeatine. Stanza cinque. Stanza “esperienziale”. I visitatori sono invitati a spezzare le reni alla Grecia. Dopo ingenti perdite e una considerevole figura di merda, gli addetti di Fratelli d’Italia telefonano ai tedeschi chiedendo aiuto. Stanza sei. Siamo a metà del percorso, i visitatori cominciano a capire cosa fu il fascismo. Vengono equipaggiati con scarpe di cartone e fucili del secolo prima e mandati in Russia a fare 14.000 chilometri a piedi nella neve. Stanza sette. Stanza interattiva, gioco di ruolo. I visitatori devono guidare interi reparti di SS a sterminare la popolazione inerme di villaggi e paesi. Marzabotto, Sant’Anna di Stazzema, e altre decine e decine di posti. Chi aiuta a uccidere donne e bambini ha uno sconto al bookshop.

Stanza otto. Il visitatore, ormai un po’ provato e con i nervi a fior di pelle, non ne può più, vuole farla finita in fretta. Viene invitato dagli addetti di Fratelli d’Italia a vestirsi da tedesco e scappare verso la Svizzera. Auguri! Stanza nove. Sezione “visitare l’Italia”, piazza Fontana, Milano. Stanza dieci. Sezione “visitare l’Italia”, piazza della Loggia, Brescia. Stanza undici. Sezione “visitare l’Italia”, stazione di Bologna.

A questo punto i visitatori sopravvissuti hanno capito cosa fu il fascismo, e cos’è ancora oggi, escono dalla visita guidata decisamente scossi. Alcuni intellettuali vicini a Fratelli d’Italia spiegano che però, dalla biglietteria al guardaroba, il museo del fascismo ha fatto anche cose buone.

 

Cara von der Leyen, i migranti deve gestirli l’Ue. Non noi

Quello che sta accadendo in questi giorni sulle coste meridionali dell’Italia, in Sicilia in particolare, non può non allarmare l’Europa e portarla a un cambiamento radicale e quanto più rapido possibile nella gestione complessiva dei flussi migratori in entrata. In un’Italia che – come riconosciuto da tutte le democrazie del mondo – con coraggio e capacità ha affrontato il Covid, e sta ripartendo nonostante la bruciante ferita nel tessuto sociale, economico e lavorativo, arrivano come una bomba deflagrante le nuove ondate di sbarchi, le migliaia di esseri umani in fuga dal dolore, la brutale violenza degli scafisti, la difficoltà drammatica che vive un unico Paese membro nell’affrontare un fenomeno che riguarda invece tutta l’Ue.

Da europarlamentare siciliano vorrei ribadire una verità banale eppure sottilmente ignorata da decenni: i migranti che arrivano sulle coste della Sicilia non arrivano in Italia, arrivano in Europa. Buona parte di loro aspira ad arrivare in Germania, Francia, Belgio, Svezia o altri Stati membri, ed è fuori da ogni logica – oltre che opposto allo spirito dei padri fondatori – lasciare un singolo Stato a fronteggiare in solitudine questo fenomeno epocale. Una scelta già completamente sbagliata ab origine, che diventa però inaccettabile oggi, nei giorni in cui il mondo fa i conti con la più grave crisi dai tempi della seconda guerra mondiale. Non gestire tutti insieme questa situazione, voltarsi dall’altra parte e lasciare all’Italia un’incombenza che non è solo italiana, significa fornire un pessimo servizio a tutti i cittadini europei e a tutti i migranti con diritto d’asilo, ma significa anche alimentare diffidenza e razzismo in parti della popolazione già esasperata dalle difficoltà cui ha costretto il Covid e incapace di tollerare ulteriori pressioni. Significa infine regalare benzina illimitata alle forze politiche che fanno leva sul razzismo e la paura dell’altro, benzina con la quale alimenteranno ancora questo fuoco distruttivo che non porta alcun progresso sociale ma solo ulteriore rabbia, violenza, ignoranza e povertà.

Presidente von Der Leyen, quando abbiamo scelto di darle fiducia, uno dei punti su cui abbiamo concordato era una totale revisione della condotta dell’Unione rispetto al fenomeno immigrazione. Nel suo primo discorso al Parlamento, ci ha detto senza mezzi termini: “Dobbiamo riformare Dublino: è una questione che riguarda la solidarietà, la quale per definizione non può dipendere da una posizione geografica. La posizione geografica non è la base sulla quale un Paese deve assumersi maggiori responsabilità rispetto all’arrivo dei migranti. Dublino deve essere riformato e ne parleremo con molto impegno. Ciò è uno dei punti fondamentali del nostro programma”. Quelle parole ci hanno fatto ben sperare, ma a distanza di quasi un anno non possiamo più né accontentarci delle intenzioni, per quanto buone, né aspettare ulteriormente. Gli sbarchi avvengono ora, adesso, ogni giorno, ogni minuto, e i cittadini di Lampedusa, Porto Empedocle, Ragusa e dell’Italia intera hanno gli stessi diritti e doveri dei cittadini di ogni angolo d’Europa.

Le chiediamo un cambio di passo netto rispetto alle gravi carenze finora dimostrate dalla Ue in materia. Le chiediamo azioni concrete e immediate perché l’Italia non venga più lasciata da sola a sorreggere un peso che va invece portato da tutti i Paesi membri, senza distinzione. Le chiediamo una revisione immediata dell’inefficiente Convenzione di Dublino e una azione di supporto concreta e altrettanto immediata all’Italia, con mezzi e uomini di ogni Stato membro pronti a dividere l’onere che la storia ci sta obbligando a tener conto senza ambiguità. Bisogna agire adesso, e far sì che l’Europa unita sia pronta a gestire efficientemente il fenomeno immigrazione.

* Eurodeputato Movimento 5 Stelle

 

Piango la mia Beirut, perennemente violata

Povera Beirut, dolce e feroce, città che perennemente si distrugge e rigenera dalle sue stesse macerie, pronta anche a danzare sui morti pur di strappare al lutto la sua energia vitale. Questa volta l’onda d’urto l’ha investita per intero come un’apocalisse, dal porto alla nuova piattaforma commerciale di Biel, dal centro storico al quartiere della movida Gemmayzeh, fin sulla collina elegante di Achrafieh. Non solo ha seminato morti a decine e feriti a migliaia, ma è penetrato in ogni casa, frantumato finestre, divelto i portoni a chilometri di distanza.

Ridotta alla fame dalla bancarotta finanziaria e poi dal Covid, paralizzata dalla protesta popolare contro una classe politica corrotta, con l’energia elettrica che andava e veniva, la capitale del Libano confidava ancora di rimanere fuori dalla guerra che insanguina la vicina Siria, del cui protettorato era riuscita a liberarsi da una quindicina d’anni. Aveva conosciuto la prima lunga guerra civile etno-religiosa del Medio Oriente, dal 1975 al 1990, con più di centomila morti. Numerose stragi nei campi palestinesi, la più tristemente famosa nel 1982 a Sabra e Chatila. Le invasioni e i bombardamenti israeliani, l’ultima nel 2006 dopo che già vi si erano immolati i primi terroristi suicidi di matrice islamica sciita. Poi ancora gli attentati contro politici e intellettuali laici, culminati nell’esplosione davanti all’hotel Saint George in cui perse la vita, il 14 febbraio 2005, il primo ministro filo-saudita Rafiq Hariri insieme ad altre 21 persone.

Mai però si era giunti a tanto. Anzi, fra le nuove generazioni, proprio le carneficine provocate dai signori della guerra cristiani maroniti, musulmani sunniti, drusi, e da ultimo Hezbollah sciiti, avevano diffuso fra i giovani l’impegno a scongiurare uniti il ripetersi di tali atrocità. Beirut si era ricostruita, grazie anche agli investimenti dei petrodollari. La sua vita mondana era rifiorita, come le esperienze artistiche e cinematografiche più significative del Medio Oriente. Aveva sopportato con stoicismo anche l’arrivo di un milione e mezzo di profughi dalla Siria, divenuti un abitante su quattro del Paese. Ora però, come una bomba atomica, la misteriosa esplosione di Beirut trascina di nuovo questa capitale a epicentro della destabilizzazione del Levante mediterraneo.

Il Libano è un Paese-mosaico, incrocio di confessioni religiose e culture che l’avvicinavano all’Europa fin da epoche lontane. Questa è stata la sua forza creativa ma anche l’origine della sua perenne vulnerabilità.

Il terrore senza volto che è penetrato in ogni casa coglie il Paese nel momento della sua massima debolezza. Stava negoziando un prestito col Fondo monetario internazionale trovandosi di fatto senza governo dopo il ritiro dalla scena politica dell’ex premier Saad Hariri, figlio di Rafic. Con gli Hezbollah filo-iraniani indeboliti dall’impegno militare al fianco di Assad in Siria, e proprio per questo divenuti più aggressivi. Le loro roccaforti, nel quartiere meridionale di Beirut, Dahiyeh, e nel sud che confina con Israele, continuano a essere uno Stato nello Stato che Teheran cerca di utilizzare per estendere la sua egemonia fino al bacino mediterraneo.

La televisione degli Hezbollah, Al Mayadeen, ieri sera ovviamente smentiva che le milizie sciite abbiano avuto un ruolo in quello che pare impossibile considerare solo un attentato sfuggito di mano. Altrettanto netta è stata la dichiarazione di estraneità israeliana. Nei giorni scorsi era cresciuta la tensione sia al confine israelo-libanese che sul Golan siriano: un simile evento apocalittico va oltre l’immaginazione degli strateghi della deterrenza reciproca. Ma mette in ginocchio l’intera regione che la viltà degli europei e degli americani aveva abbandonata a se stessa lasciando che in Siria si arrivassero a contare i morti a centinaia di migliaia e i profughi a milioni.

L’onda lunga dell’esplosione di Beirut, udita fino a Cipro, non potrà che attraversare il Mare Nostrum. Ci riguarda da vicino, e non solo perché in Libano opera fruttuosamente dal 2006 il contingente Unifil delle Nazioni Unite a guida italiana. Rende palese che la politica del tenersi alla larga, o di affidarsi a sultani, faraoni, califfi, zar per dominare con la forza le tensioni di nazioni delle quali – volenti o nolenti – condividiamo il destino, è peggio che miope: è autolesionista.

Piango Beirut, mia città natale, precipitata di nuovo nell’incubo da cui sperava di essersi liberata. I suoi abitanti erano ignari ostaggi di un arsenale bellico di cui gli stessi custodi hanno perso il controllo. La fame e la povertà l’avevano già aggredita da mesi, e ora con i palazzi spalancati dall’esplosione, si temono saccheggi e ulteriori violenze. Il Cigno Nero di Nassim Taleb stavolta ha colpito nella città da cui anch’egli, come tanti altri, era emigrato. Le armi di distruzione di massa sono fra noi. Disinneschiamole, finché siamo in tempo.

 

Il fiuto di zia per i grossi affari, dal cambio di sesso agli immobili

Durante il lockdown, nel condominio di zia alla Balduina, la situazione si era fatta insostenibile per colpa di tre famiglie (i Pirzio-Biroli, i Tracchia e i Facta) che facevano i loro porci comodi. A maggioranza passò la proposta di zia: ipotecare gli appartamenti di tutti gli altri, e coi 10 milioni accantonati comprare una nuova palazzina altrove, delegando alle gemelle Mastrocinque (due fragili zitelle con chignon di cui si vocifera un passato burrascoso nei Nar) il compito della rappresaglia, una volta completato l’esodo.

La vicina di zia, dopo il suo voto contrario (è in buoni rapporti con la zia, ma sono acerrime nemiche sul piano geopolitico e finanziario), ha preso la palla al balzo: perché non approfittare della maxi cartolarizzazione 2004 di immobili pubblici realizzata dal governo Berlusconi, e comprare a sconto un edificio di pregio dal Fondo immobili pubblici (Fip)? La dritta gliel’ha data un ex-dirigente del Fip stesso, un suo trombamico, e la scelta è caduta su un palazzo di 22mila metri quadrati nel cuore di Roma, in piazza Augusto Imperatore. Già che c’erano, hanno comprato anche i 15mila metri quadrati dell’altro palazzo nella piazza, pure quello progettato dall’architetto Morpurgo negli anni 30. Gli appartamenti in più si potranno rivendere o riaffittare a valori di mercato, cosa che permetterà di ammortizzare in breve tempo i 400 milioni di euro necessari all’acquisto (li ha anticipati la banca di cui zia è fra gli azionisti, i 10 milioni dell’ipoteca come garanzia). “Senza contare che, con la riqualificazione della piazza e del mausoleo pagata con 8 milioni da Fondazione Tim, tutta l’area sarà valorizzata”, dice zia, raggiante, mentre le lecco la figa. Zia si diverte un mondo a fare queste cose. L’unico suo vero rimpianto? L’operazione con cui cambiò sesso negli anni 80. “Il cazzo mi manca così tanto!” dice sempre. Per questo è una ninfomane.

Completato l’affare, però, gli affittuari dei due palazzi acquistati non hanno accettato lo sfratto, e hanno fatto causa perché non è stato riconosciuto il loro diritto di prelazione. Così, adesso, zia, la vicina e gli altri condomini esodati sono in causa con i ristoranti Gusto e Alfredo l’originale; con quaranta giornalisti che dal 2014 lavorano nella Sala stampa italiana, ristrutturata a spese loro con un affitto che scade tra due anni; e con Jas Gawronski, l’ex giornalista Rai, senatore berlusconiano ed eurodeputato, che da 18 anni vive nell’attico con terrazzo da dove si ammira il mausoleo di Augusto. La vicina di zia ha già contattato Franco Coppi e Giulia Bongiorno, preparate i lupini. Nel frattempo, le gemelle Mastrocinque non sono restate con le mani in mano: il palazzo alla Balduina, seriamente danneggiato da un’esplosione notturna, è stato dichiarato pericolante. I Pirzio-Biroli, i Tracchia e i Facta, costretti a ricoveri di fortuna, sono imbufaliti, ma i loro sospetti possono poco: le gemelle Mastrocinque hanno fatto visita a una vecchia conoscenza dei servizi, ed è partito un depistaggio in grande stile, gestito da un gruppo d’intervento composto da un ex-generale piduista, un ex-militante di Avanguardia Nazionale/Terza posizione, due ex della Banda della Magliana e un latitante di Cosa Nostra. Pare che la strategia stia funzionando: si comincia a parlare di attentato, e Bruno Vespa l’ha già attribuito a Pietro Valpreda.

 

Calenda e Costa rifanno il Pli del 2%

La notizia, e qui ce la caviamo con poche righe, è che l’onorevole Enrico Costa è passato da Forza Italia ad Azione, il partito di Carlo Calenda. La stringatezza è dovuta alla mancanza di stupore, vista la smania con cui il nostro si diletta nel cambio di casacca (Forza Italia, Ncd, Noi con l’Italia, di nuovo FI e ora Azione). Più interessante ci appare il risvolto storico-familiare della novità, perché adesso Costa potrà finalmente calcare le orme del padre Raffaele, vicesegretario del Partito Liberale nei tempi che furono. D’altra parte Azione non è forse la riedizione del mitico Pli, il partito che fu emanazione di Confindustria e che si batteva per “l’obiettivo 2%”? I tempi non sono poi molto cambiati. Calenda rappresenta soprattutto il mondo degli imprenditori (che peraltro foraggiano il suo movimento con generosità), sognando di poter capitalizzare quell’1,9/2 per cento alle urne fungendo da ago della bilancia di un qualsiasi governo, prima o dopo. Per farlo potrà adesso contare anche sull’esperienza di Costa, uno cresciuto a pane e pentapartito. Mica male come biglietto da visita.

Ecco chi salva la norma sugli 007

Nel decreto che allunga lo stato d’emergenza fino al 15 ottobre è stata inserita una norma che consente al presidente del Consiglio di prorogare “con successivi provvedimenti per la durata massima di ulteriori quattro anni” i vertici degli 007, ovvero di Dis, Aise e Aisi. La legge 124 del 2007 stabiliva che gli incarichi avevano la durata massima di quattro anni ed erano rinnovabili per una sola volta.

Giuseppe Conte è andato in Parlamento a chiedere un voto sulla proroga dello stato di emergenza. Ma non ha fatto parola della norma che cambia le modalità di nomina dei vertici dei Servizi. Così come Palazzo Chigi non lo ha annunciato nel comunicato stampa che dava notizia del decreto. La questione è diventata nota solo quando il provvedimento è apparso in Gazzetta Ufficiale. Ieri la Presidenza del Consiglio – dopo un pezzo apparso sul Corriere della Sera – si è affrettata a precisare che la norma non modifica la durata degli incarichi, che rimane di quattro anni per il primo più un massimo di quattro anni successivi, ma si limita a introdurre la possibilità che vi siano più provvedimenti successivi di rinnovo dell’incarico, anziché uno solo. Denuncia però Adolfo Urso (Fdi), membro del Copasir: “La norma stravolge e distorce la legge 124 del 2007 perché crea un rapporto eccessivamente discrezionale e, quindi, di marcata subordinazione dei vertici dei servizi all’autorità politica al punto tale che credo che questo possa violare il dettato costituzionale. In teoria, nei secondi quattro anni, il direttore potrebbe essere rinnovato anche ogni tre mesi e questo rischia di trasformarlo in un attendente”. Poi Urso ricorda come in questo tipo di materie si procede da sempre in accordo con l’opposizione.

Dentro la maggioranza, la ratio del provvedimento viene spiegata con la necessità di avere una maggior flessibilità nel rinnovo dei Servizi, soprattutto in un momento di emergenza. Il primo beneficiario, come denunciano in Forza Italia, sarebbe Mario Parente, nominato alla guida dell’Aise nell’aprile 2016 da Matteo Renzi, scaduto il 16 giugno scorso e rinnovato fino al giugno 2021, tramite un Dpcm, con un anno di proroga tecnica. Ma così si trova ulteriormente blindato. E mentre Giovanni Caravelli (a capo dell’Aisi) è stato nominato da due mesi, a dicembre scade Gennaro Vecchione, fedelissimo di Conte, da lui nominato alla guida del Dis per 2 anni (come da prassi per i vertici degli 007, nei governi Renzi e Gentiloni). Anche per lui una eventuale proroga diventerebbe più semplice. Perché una cosa è scegliere per due o quattro anni, un’altra stabilire un tempo più breve. La materia è di quelle che al premier interessano di più: non ha mai voluto assegnare la delega ai Servizi, tenendola per sé. Ma evidentemente anche il Pd ha i suoi motivi per appoggiare la scelta. Enrico Borghi (membro del Copasir in quota Dem) si limita a dichiarare una “disponibilità al confronto in Parlamento”.

“Basta segreti sulle stragi”: Conte scrive al Parlamento

Chissà se questa sarà la volta buona. Il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, ha scritto alla Camera e al Senato per dare il via libera alla declassificazione degli atti conservati nei loro archivi, ma non divulgabili perché ancora ritenuti top secret dalle amministrazioni dello Stato, servizi segreti compresi, che li hanno prodotti. Un vincolo che fin qui ha condizionato la ricerca della piena verità sulle stragi avvenute in Italia tra il 1969 e il 1984 e che ancora restano avvolte nel mistero. Con buona pace della direttiva Renzi, che sei anni fa aveva acceso le speranze imponendo di riversare all’Archivio di Stato i documenti rimasti chiusi negli armadi per oltre 40 anni. E che, per dirla con le parole usate tre giorni fa dal presidente dell’associazione dei familiari delle vittime della strage di Bologna, Paolo Bolognesi, “è stata solo uno specchietto per le allodole”.

Le procedure indispensabili per rendere fruibili quelle carte sono complesse, come lascia intendere il premier Conte che ha la delega ai servizi. E che il 30 luglio ha scritto ai presidenti di Camera e Senato, Roberto Fico e Maria Elisabetta Alberti Casellati per dare “un segno tangibile” dell’impegno per giungere a una compiuta ricostruzione di quei tragici eventi. “Nel quarantennale del disastro di Ustica e della strage alla stazione di Bologna, il doveroso contributo alla ricostruzione di tali gravissimi fatti impone uno sforzo corale e coordinato delle Istituzioni per fare luce su alcune tra le pagine più buie del nostro recente passato”, ha scritto Conte riferendo delle limitazioni esistenti al regime di pubblicità derivanti dai vincoli imposti degli enti che li hanno prodotti e che vanno interpellati. Procedure nè semplici né veloci: “In anni recenti è stata compiuta una complessa istruttoria che si è rivelata onerosa con riferimento ai tempi di realizzazione”.

Per la verità, i familiari delle vittime delle stragi di Piazza Fontana (1969), Gioia Tauro (1970), Peteano (1972) , della Questura di Milano (1973) e Piazza della Loggia (1974), ma anche dell’Italicus (1974) , Ustica (1980), del 2 agosto a Bologna (1980) o del rapido 904 (1984) hanno dato fin qui un giudizio severo. Almeno sugli effetti avuti dalla direttiva Renzi, che ha attribuito a una commissione composta da membri dei servizi di sicurezza il compito di decidere cosa declassificare e cosa no: nell’Archivio di Stato è stato riversato poco o nulla. E quello che è stato messo a disposizione (il copyright è di Paolo Bolognesi) è “carta straccia”: documenti dal contenuto già noto oppure atti su cui è stato fatto abbondante uso di omissis e bianchetto.

Mentre il sospetto è che la ciccia resti sotto chiave nelle mani di chi non ha interesse a cambiare spartito. E che può mettere il veto anche sulla divulgazione degli atti acquisiti nel tempo dalle commissioni di inchiesta istituite in Parlamento: la lettera di Giuseppe Conte dà via libera alla declassificazione di quella documentazione acquisita “presso amministrazioni dello Stato, ivi inclusi gli organismi di informazione per la sicurezza”. Ma non solo: “Ho dato indicazioni affinché il direttore del Dipartimento informazioni per la sicurezza concordi con l’Archivio storico del Senato e gli altri uffici della Camera interessati, le procedure più sollecite e idonee per individuare criteri e modalità per la protezione delle informazioni tuttora sensibili”. Insomma, a decidere non saranno i soliti (ig)noti e soprattutto il Parlamento potrà contribuire a fissare i paletti per scongiurare qualunque forma di discrezionalità.

Ma quale “legge bavaglio”: tanto rumore per poco

Arriva, dopo lungo penare, nell’aula della Camera (ma se ne discuterà a settembre) il disegno di legge “Misure di prevenzione e contrasto della discriminazione e della violenza per motivi legati al sesso, al genere, all’orientamento sessuale e all’identità di genere”, per gli amici ddl Zan, essendo il deputato Pd Alessandro Zan uno dei promotori e il relatore della proposta. Una norma che, ancor prima di uscire dalla commissione, ha fatto molto rumore: allarmi dei vescovi e dei giornali cattolici, critiche dalle femministe, attacchi dalla destra parlamentare e non. Cerchiamo qui, allora, di spiegare di cosa si parla davvero e perché si sta facendo così tanto rumore per poco.

Cos’è il ddl Zan? In sostanza è una modifica alla legge Mancino del 1993 che punisce la propaganda razzista e gli atti discriminatori. Lo fa in due modi: punisce “chi propaganda idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico” (l’opinione stessa è punita) e chi “istiga a commettere o commette atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi” (qui si agisce invece su un comportamento). Il ddl Zan intende aggiungere a quest’ultimo paragrafo la definizione “oppure fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale o sull’identità di genere”. In sostanza, dunque verrà punito chi “istiga a commettere o commette atti di discriminazione” legati alla sfera sessuale (oltre ovviamente a chi “istiga a commettere o commette violenza per motivi razziali…” eccetera).

Paiono timori eccessivi, insomma, quelli di un pezzo (non piccolo) del mondo cattolico: “Il no alla violenza diventa un no alla libertà di pensiero”, ha detto ad esempio alla Camera Paola Binetti dell’Udc. Tanto più che l’articolo 3 della legge, anche per rassicurare i critici, ribadisce che “sono consentite la libera espressione di convincimenti od opinioni nonché le condotte legittime riconducibili al pluralismo delle idee e alla libertà delle scelte”. Insomma si potrà – volendo – criticare l’omosessualità da un punto di vista religioso o culturale o schierarsi contro il matrimonio o l’adozione da parte di coppie dello stesso sesso.

Serviva una legge? È un punto dibattuto (restiamo alle opinioni ragionevoli): per i fautori in Italia c’è un elevato numero di episodi di violenza omotransfobica, testimoniato dai dati delle associazioni che si occupano dei diritti Lgbt; i critici sostengono che non esistono numeri certi sul fenomeno e che la discriminazione è già punita dalle leggi esistenti. I dati sono effettivamente poco accurati e non “ufficiali”, come pure è vero che discriminazione e violenza sono già punite dal codice, si tratta qui di concedere una speciale tutela alle vittime di omotransfobia in un contesto penale adeguato, quello che punisce i crimini d’odio.

Definizioni vaghe. Qui c’è un problema possibile. Un pezzo del mondo femminista non ama l’espressione “identità di genere” (vale a dire il genere come auto-rappresentazione) e lo stesso vale per molti giuristi, che la ritengono vaga e soggetta a interpretazioni non univoche: se si prevedono sei anni di carcere come pena massima, e dunque anche l’uso di strumenti di indagine invasivi come le intercettazioni, l’alea interpretativa deve essere ridotta al minimo, è il parere – per non citarne che uno – del Centro studi Rosario Livatino.

Il resto del ddl. Gli articoli dal 6 al 10 del ddl Zan non riguardano più il profilo penale dell’intervento: il 17 maggio viene istituita la “Giornata nazionale contro l’omofobia, la lesbofobia, la bifobia e la transfobia” (il 17 maggio 1990 l’Oms tolse l’omosessualità dalla lista delle malattie mentali); l’Ufficio per il contrasto delle discriminazioni avrà il compito di stilare un piano triennale contro l’omotransfobia; vengono stanziati 4 milioni di euro per istituire centri anti-violenza che aiutino le vittime; l’Istat dovrà produrre almeno ogni triennio statistiche che rilevino “le opinioni, le discriminazioni e la violenza subìte e le caratteristiche dei soggetti più esposti al rischio”.