Caccia all’omo: per violenze e morti l’Italia è seconda in Ue

Quante coltellate servono per morire? Manuela, una donna transessuale di Milano, ne ha ricevute più di 50 tra petto e schiena, la notte del 20 luglio. Era a casa, e stava lavorando: faceva la prostituta. Una, due, tre, quattro… fino a 50. C’è violenza. Odio. Ma c’è anche il delirio di onnipotenza di chi presume di poter spegnere una vita, a suo intendere minore. Non solo Milano. Roma, Piacenza, Vernazza, Pescara: la cronaca nelle ultime due settimane ha raccontato diversi episodi di violenza, molti da branco, contro gay, lesbiche e trans. “Noi di Gay Help Line – spiega, per la linea di sostegno alle persone LGBTQI+, Fabrizio Marrazzo – nel 2019 abbiamo avuto 20mila richieste d’aiuto. Durante il lockdown i numeri sono cresciuti: +9% fino a oggi, e fino al +40% tra gli adolescenti”. Un trend in aumento anche per Arcigay. Siamo uno dei Paesi in Europa col più alto numero di violenze omotransfobiche: secondi solo alla Polonia di Duda. Se si guarda ai diritti, poi, siamo fanalino di coda. Per l’International Lesbian and Gay Association, che analizza l’impegno dei governi contro le discriminazioni e a favore dell’uguaglianza per le persone LGBTQI, ci attestiamo a quota 23%. Molto indietro rispetto al 67% della Spagna e della Norvegia e la media europea, intorno al 40%.

Il problema, come al solito, è lo sguardo. Il filosofo Byung-Chul Chan in Topologia della violenza fotografa senza sconti l’aggressività contemporanea come un inasprimento del rapporto tra l’Ego e l’Alter, non solo nelle manifestazioni esteriori del singolo ma anche a livello psichico, nei pensieri del soggetto. Eppure, c’è chi in Italia, anche tra i politici, nega il problema. Il solito Massimo Gandolfini ha definito il ddl Zan “quanto di più liberticida e antidemocratico si sia prodotto”, aggiungendo poi che “guardando i dati non siamo omofobi”. Ma, come spiega Marrazzo, i numeri restano parziali: “La maggior parte delle violenze avviene in famiglia o a lavoro. E nessuno vuol denunciare un parente o un collega. In più, c’è il senso di vergogna. E poi, non essendoci un reato specifico, il censimento è vago”. Il viaggio analitico nel Paese dell’omofobia lo fa Simone Alliva nel suo Caccia all’omo: “I casi registrati nel 2019 sono stati 212, due i morti; nel 2016 erano 109, la metà”. Sicuri non esista il problema?

Gay? No, Froci. La destra contro il ddl zan

Lobby Lgbt, teoria del gender, “ci tolgono il presepe”, “ho anche amici gay”. Allacciatevi le cinture: la macchina del tempo ci porta indietro di qualche decennio. Lunedì alla Camera si è discusso il ddl Zan, una norma che rafforza la tutela di chi subisce discriminazioni sessuali facendole ricadere nella legge Mancino, quella che dal 1993 punisce i reati legati al razzismo.

Per le opposizioni è una riforma liberticida, da Stato etico, che punisce un reato di opinione: la libertà intellettuale di poter odiare i gay è un diritto inviolabile. Queste sono le argomentazioni della destra in Parlamento.

 

Alessandro Pagano (Lega) La liquefazione

“Il vero obiettivo è quello di applicare la cosiddetta agenda Lgbtq+, dove il ‘più’ sta per le 54 tipologie diverse di generi che evidentemente sono presenti in questo variegato mondo. Una legge finalizzata a piegare la legislazione dei singoli Stati, trasformandone poi la cultura e giungendo di fatto alla liquefazione del concetto stesso di identità delle persone umane”.

 

Annagrazia Calabria (FI) Ci levano il Natale!

“C’è una chiara ideologia, quella che magari vorrebbe cancellare la famiglia e che vede nell’esistenza di un padre, di una madre e di un figlio non il nucleo fondamentale della nostra società, ma addirittura un’offesa, quella che vuole cancellare il Natale, che impedisce canti e presepi nelle scuole, quella che, in una parola, rinnega la nostra cultura, le nostre radici e la nostra identità”.

 

Alessandro Pagano/2 Mille miliardi!

“Nessuno ha parlato delle provocazioni che sono venute dalle lobby Lgbt in moltissime piazze, anche con atteggiamenti prevaricatori e violenti. Il potere è lì, è all’interno di queste lobby (…) La legge è fatta per discriminare, per creare una super categoria, che è quella dei gay, che è quella del mondo Lgbt! Allora, diciamo bene cos’è questa lobby, visto che sono qui e devo dire cose un po’ diverse dagli altri. Allora, cominciamo: il Giornale, il nostro quotidiano nazionale, ci dice che questa lobby vale mille miliardi di euro. Mille miliardi di euro!”.

 

Andrea Orsini (FI) Essere gay è di tendenza

“La società è profondamente cambiata: stili di vita che fino a qualche decennio fa erano oggetto di stigma sociale, oggi, per fortuna, sono pienamente accettati e, anzi, talora sono diventati addirittura di tendenza”.

 

Davide Galantino (Fdi) Ho anche amici gay…

“Agli omosessuali non state facendo un favore, anzi, state rimarcando una diversità rispetto a chi omosessuale non è. Personalmente vanto un’amicizia ultraventennale con una persona omosessuale, ed è una delle migliori persone che conosco. Il problema è quando lo Stato vuole imporre determinati modelli di società. Lo Stato, invece, deve favorire la famiglia naturale, composta dall’uomo, da una donna e dall’eventuale prole, perché solo questa è la formazione sociale, la formazione naturale che può garantire la continuità della nostra nazione e della nostra società. Un papà e una mamma: due parole che, dette insieme, per voi sono considerate reato”.

 

Luca Rodolfo Paolini (Lega) Emergenza parcheggi

“C’è anche la presunta lesione della propria identità di genere, quando invece magari la ragione vera è quella di un banale parcheggio; due litigano per un parcheggio, poi viene fuori che uno dei due contendenti è gay e finisce sui giornali che litigano perché quello è omofobico, perché magari nella discussione gli ha detto una parola in più, ma in realtà hanno litigato per il parcheggio. Quindi, non c’è un’emergenza”.

 

Alessandro Pagano/3 Temi non banali

“Al di là dell’aspetto penale, provate a immaginare il soggetto, nato maschio biologicamente, che si presenta al direttore amministrativo dell’azienda sanitaria locale dove lavora e dice: sai, io sono biologicamente maschio, ma mi sento femmina, quindi io me ne voglio andare in pensione prima. Il tema non è banale!”.

 

Luca Rodolfo Paolini/2 Poteva essere interista

“Uno che picchia un ragazzo e gli rompe la mandibola è un criminale! Lui ha colpito una persona, poi non importa se l’ha fatto perché era gay, perché era dell’Inter o perché era cinese”.

 

Augusta Montaruli (FDI) Disobbedienza civile

“Noi siamo convinti che in casi estremi, estremamente estremi, ci sia la libertà di violare una legge ingiusta e anticostituzionale, come quella che voi volete approvare. E noi lo faremo! Noi continueremo a dire che non siamo disposti a dire che esistono le famiglie arcobaleno e non la famiglia naturale. Non siamo disposti a barattare i nostri valori, per sottoporci al diktat del pensare bene”.

 

Paola Frassinetti (Fdi) Il genderrrr

“Forse l’intento è quello di agevolare l’ingresso nelle scuole delle potenti associazioni Lgbt, per poter incidere direttamente sulla mentalità dei bambini e degli adolescenti, diffondendo nelle classi quella disastrosa colonizzazione ideologica del gender?”.

 

Luca Rodolfo Paolini/3 Problemi di metodo

“L’onorevole Zan ha parlato di omolesbotransfobia ma, invece, per essere più preciso avrebbe dovuto dire: omo-lesbo-bi-trans-queer-intersexual-fobia perché, poi, le categorie oggi non sono più solo quelle, sono anche Lgbtqi+, che ancora non ho capito bene cosa vuol dire quel “più”, ma lo chiarirò”.

 

Alessandro Pagano/4 Harry Potter e il mestruo

“L’autodeterminazione è senza vincoli: autodeterminazione significa che io la mattina mi alzo e dico “io sono donna e desidero avere questo diritto”; poi domani, siccome sono un fluid, ritorno a essere maschio, perché così è rispetto alla logica, anzi all’illogica utopia di cui stiamo parlando. E Joanne Rowling, la famosa autrice di Harry Potter, ha rifiutato la definizione di ‘persona che mestrua’: quindi, capite cosa adesso è diventata la donna”.

Il caso Spadafora: il premier rinvia tutto a settembre

Si può far traballare un governo per una riforma dello sport? Intorno a questa domanda si arrovella il Movimento 5 stelle. Da una parte il ministro Spadafora, che il testo l’ha scritto e minaccia le dimissioni, dall’altra i parlamentari, che chiedono più tempo e dialogo e hanno innescato una lettera del direttivo che suona tanto di sfiducia. In alto i vertici, il capo politico Crimi e il capo delegazione Bonafede, tirati in mezzo loro malgrado, Luigi Di Maio, preoccupato, Alessandro Di Battista, mai tenero con Spadafora e sempre vigile nonostante la gioia della nascita del secondo figlio. Lontano il premier Conte, a Genova per l’inaugurazione del ponte quando è esplosa la crisi, anche ieri preso da altre e più importanti vicende, a cui però entrambe le parti hanno chiesto un intervento chiarificatore. Per ora una risposta alla domanda ancora non c’è, e infatti il testo è rinviato a dopo l’estate.

La riforma dello sport è diventato un caso politico, tutto interno a un Movimento diviso. L’oggetto del contendere è il ruolo del Coni e del suo capo, Giovanni Malagò: l’idea che possa tornare centrale a scapito della partecipata Sport e Salute è dura da digerire per chi la riforma l’aveva concepita insieme alla Lega un anno fa, anche se bisogna fare i conti le richieste degli alleati e del Comitato internazionale. Il sospetto però che il ministro Spadafora lo stia facendo di concerto proprio con Malagò è insopportabile: la miccia della crisi è una bozza rivelata dal Fatto in cui gli appunti del gabinetto del ministro svelano i colloqui col n.1 del Coni. Poco importa che alcuni dei suggerimenti non siano stati recepiti (resta ad esempio l’incompatibilità con gli altri enti che potrebbe creare un problema alle Olimpiadi di Milano-Cortina). Ormai lo strappo c’è.

Spadafora, ricevuto lo stop del direttivo, ha minacciato di rimettere la delega con un messaggio a Palazzo Chigi. Non è la prima volta che succede – sibilano dal Movimento – ma non ci si era mai arrivati così vicini. E non sarebbe un passaggio indolore, per il M5S e per tutto il governo, che lui ha contribuito a far nascere. Spadafora è fedelissimo di Di Maio, che mantiene un ruolo di primo piano nel Movimento e teme nuovi problemi. È anche uno dei pontieri principali col Pd, e ben al di là delle sue deleghe è l’uomo dei dossier più delicati e delle nomine. Il suo addio aprirebbe le porte a un rimpasto che Conte sicuramente non vuole, forse non può permettersi.

Perciò la crisi, appena esplosa, è rimasta in sospeso. Il ministro attende un colloquio chiarificatore col premier, ma non basterà la fiducia di Conte, dovrà esserci anche un faccia a faccia coi parlamentari che lo hanno messo in discussione. Aspetta pure il mondo dello sport, che oggi si riunisce al Coni e fa quadrato intorno a Malagò: per lui questo caos è l’occasione per rivendicare la sua contrarietà alla riforma (e ricordare la minaccia del Cio di sospendere l’Italia). Per ora il testo è fermo: non andrà in Consiglio dei ministri in settimana, se ne riparlerà dopo l’estate, quando però comunque la delega che fu votata con la Lega dovrà essere approvata insieme a Pd e Italia Viva, e quindi con dei compromessi. Per questo il chiarimento dovrà esserci subito. Lo chiedono i parlamentari, pronti a porre una serie di pesanti condizioni anti-Coni, ma lo pretende anche Spadafora, convinto del suo operato. E la riforma resta in bilico.

Casaleggio apre al Raggi bis. Nuova norma per i sindaci

L’erede che sta in guerra immagina il futuro. Pensa a un M5S rinnovato nei volti e nella struttura, con Alessandro Di Battista come perno e capo, e attorno a lui nuovi eletti, quelli da trovare anche con nuove regole per la selezione dei candidati, di fatto una tagliola per liberarsi dell’aristocrazia grillina che sta a Roma. Ma nei piani di Davide Casaleggio è centrale anche il tema che è il vero cuore della battaglia dentro i 5Stelle, cioè il vincolo dei due mandati. Non più intoccabile, per il figlio di Gianroberto, che pensa innanzitutto a una deroga per i sindaci. Possibile tramite l’ampliamento di una regola già in vigore, il cosiddetto mandato zero: la via per permettere la ricandidatura alla sindaca di Roma, Virginia Raggi, non a caso salita a Milano per il Villaggio Rousseau a fine luglio.

Perché Raggi vuole il via libera di Casaleggio dopo quello informale degli altri big, da Luigi Di Maio al reggente Vito Crimi. E sa di poter contare sull’appoggio pubblico ed entusiasta di Di Battista, che lo disse già ad Accordi&Disaccordi nel giugno scorso: “Virginia è una sindaca fantastica, e sui due mandati si può aprire una riflessione per gli amministratori”. E poi a fianco della Raggi come capo staff c’è un altro 5Stelle vicinissimo a Casaleggio, Max Bugani. La certezza è che il capo dell’associazione Rousseau sta già discutendo della deroga con il suo staff. E la strada per arrivarci è la modifica del mandato zero, la regola varata nel luglio del 2019, in base alla quale il primo mandato non viene più conteggiato per consiglieri comunali e municipali. “Così non verrà dispersa l’esperienza maturata”, spiegò Di Maio. Ma i sindaci erano stati tenuti fuori, tanto che venne bollata come una norma anti-Raggi.

Poco più di un anno dopo, l’idea è quella di non conteggiare il primo mandato anche per loro, per i primi cittadini. E allora il nuovo mandato zero potrebbe essere messo al voto degli iscritti su Rousseau. Magari assieme a un’altra regola, riguardante i parlamentari. Nel dettaglio, l’idea è di lasciare il vincolo dei due mandati in Parlamento, concedendo agli eletti però un terzo “giro” a livello locale, nei Comuni o nelle Regioni. Un ritorno sul territorio, insomma. E non è proprio quello che vorrebbe la gran parte dei big di governo e dei maggiorenti che ora siedono nelle Camere. Eppure è per loro che Casaleggio medita una nuova norma che somiglia più a un’elegante trappola. Di certo quello dei due mandati resta il nodo gordiano della partita dentro i 5Stelle, in cui i big e molti parlamentari puntano a togliere la gestione della piattaforma web Rousseau a Casaleggio. E nell’attesa ad “affamarla”, smettendo di versare i 300 euro mensili. O addirittura ripudiandola in favore di un nuovo portale.

Però la rivolta anti-Rousseau, di cui molto si parla nel M5S, non è affare semplice. Basta scorrere lo Statuto varato nel dicembre 2017 su spinta di Di Maio e proprio di Casaleggio junior, che all’articolo 1 stabilisce che “gli strumenti informatici attraverso i quali l’associazione Movimento 5 Stelle” organizza tutto, dalle consultazioni degli iscritti alla diffusione pubblica delle proprie decisioni, “saranno quelli di cui alla piattaforma Rousseau”. E d’altronde nella casa madre non stanno affatto fermi. Così ieri il collegio dei probiviri ha scritto a oltre cento parlamentari, esigendo il completamento delle rendicontazioni entro il 24 agosto, pena sanzioni disciplinari che possono arrivare sino all’espulsione. Ergo, gli eletti devono effettuare le restituzioni, compresi i versamenti a Rousseau.

Una pioggia di email che ha provocato la reazione furibonda dei parlamentari, buona parte dei quali hanno risposto con messaggi di fuoco. Molti sono convinti che il giro di vite dei probiviri sia una ritorsione per l’assemblea contro la piattaforma e Casaleggio di martedì scorso. Ma lo Statuto legittima le email dei probiviri. E conferma che la secessione da Rousseau non potrà essere indolore. Lo sa bene Di Maio, anche lui a Milano per Villaggio Rousseau. Domenica 26 luglio ha cenato con Casaleggio, con cui ha avuto “un colloquio sereno”, dicono.

E dietro ai sorrisi c’è l’obiettivo del manager: riportare Di Maio dalla sua parte, sottraendolo al patto con gli altri maggiorenti del M5S. E allora non sarebbe più un nuovo Movimento con Di Battista unico sole. Ma è tutto da definire, nella nebulosa a 5Stelle. Un partito che è tutto una guerra.

Le “toghe rosse” anti-Davigo. Ma la legge è dalla sua parte

Cacciate Piercamillo Davigo dal Csm. Il 20 ottobre il magistrato compirà 70 anni, dunque sarà collocato a riposo. Potrà restare membro del Consiglio superiore della magistratura anche da pensionato? La questione è stata posta su Questione Giustizia, giornale di Magistratura democratica, dal suo direttore, Nello Rossi. “Chi non appartiene più alla magistratura può continuare a esercitare le funzioni di amministrazione della giurisdizione e quelle di giudice disciplinare?”. La domanda – retorica, sottintesa la risposta: no – apre un articolo pubblicato online il 31 luglio, sotto il titolo “Sta per nascere al Csm un caso Davigo?”.

Non “sta per nascere”: viene fatto nascere da Rossi, che di fatto chiede che Davigo lasci il Csm. Conseguenza immediata: non partecipare alle udienze della sezione disciplinare che a partire dal 15 settembre giudicherà Luca Palamara, il magistrato protagonista dello scandalo che ha fatto letteralmente deflagrare il Consiglio superiore. È appena stata rigettata l’istanza di ricusazione di Davigo come giudice disciplinare nel procedimento nei confronti di Palamara. Ma ecco che ora si sostiene che Davigo non possa giudicare Palamara perché dovrà lasciare il Csm. La questione non si era mai posta prima d’ora. Mai nessun componente del Csm se n’è andato prima della scadenza del suo mandato. Davigo diventa invece “un caso”. Anche se la sua situazione non c’entra nulla con quella (evocata) di Vittorio Borraccetti, di cui il primo dei non eletti al Csm chiese la decadenza con un ricorso al Tar (comunque poi rigettato dal Consiglio di Stato) perché aveva fatto una domanda di proroga in servizio, secondo il ricorrente, in ritardo. Ma che cosa dicono la Costituzione e la legge del 1958 che istituisce il Csm? Dicono che i componenti eletti nel Consiglio restano in carica quattro anni e non possono più essere immediatamente eletti. Non dicono che andare in pensione sia causa di decadenza. Cause di decadenza sono le condanne penali, le sanzioni disciplinari superiori all’ammonimento, le attività incompatibili (successe al leghista Matteo Brigandì, nel 2011: dichiarato decaduto per non essersi dimesso per tempo da amministratore di una società commerciale). La legge istitutiva non fa distinzioni neppure tra “togati” e “laici”. Perché non escludere i professori universitari in pensione, ma i magistrati sì? A un procuratore, già al momento della nomina, è espressamente richiesto che deve garantire quattro anni di servizio. Non ai membri del Csm. Davigo, eletto dai magistrati italiani anche per chiudere con le degenerazioni evidenziate dal caso Palamara, è poi stato nominato dal presidente della Repubblica componente della sezione disciplinare e presidente di altre due commissioni del Csm, quella su titoli e incompatibilità e quella sul regolamento: tutti incarichi della durata di quattro anni. Ora arriva qualcuno a sollevare il “caso Davigo”. E pensare che pareva ci fosse, semmai, un “caso Csm”.

Nuovi carabinieri indagati. Sarà sentito l’ex comandante, ora nello staff di De Micheli

Si allarga l’indagine della Procura di Piacenza e della Guardia di Finanza sulla caserma degli orrori che lo scorso luglio ha portato all’arresto di sei carabinieri accusati di aver messo in piedi un sistema criminale che prevedeva arresti pilotati per sequestrare la droga e poi rivenderla attraverso galoppini ai quali spettava una parte dei guadagni. Il tutto condito da minacce, botte e torture. Nel registro degli indagati sarebbero stati iscritti adesso altri militari che negli ultimi 3 anni avrebbero prestato servizio alla stazione “Levante”. Contro di loro l’accusa riguarderebbe i reati di omissione e falso. A breve dovrebbero essere ascoltati in Procura come persone informate dei fatti il penultimo comandante provinciale dell’Arma, il colonnello Michele Piras, oggi capo della segretaria del ministro delle Infrastrutture Paola De Micheli. Verrà sentito probabilmente anche il maggiore Rocco Papaleo – oggi in servizio a Cremona – che per primo in maniera un po’ inconsueta segnalò il comportamento scorretto della “banda” dell’appuntato Giuseppe Montella.

Guerra sul regionale: “Su quel sedile no!”

“Lascia libero questo posto”. Leave this seat free, la traduzione sotto per gli anglofoni. Il cartellino è ancora lì, appoggiato a scacchiera sui sedili alternati dei treni regionali liguri. Si sa come vanno queste cose: forse nessuno si prende la briga di levarlo e allora il segnale rosso resta al suo posto per chissà quanto, anche se oggi somiglia a un residuato bellico.

Il motivo è semplice, per quanto paradossale. Nonostante il governo sia da tempo tornato sui suoi passi, specificando che i treni devono ancora viaggiare a capienza ridotta per mantenere il distanziamento sociale, la Liguria di Giovanni Toti ha scelto di andare per la sua strada liberalizzando gli ingressi sui regionali (senza però poter intervenire su Intercity e Frecce, di competenza statale e dunque ancora a numero chiuso). Normale che in una situazione del genere i viaggiatori ci capiscano poco. Basta capitare di buon mattino alla stazione di Genova Piazza Principe, crocevia di pendolari diretti ai cantieri navali di Sestri Ponente e di gruppi di vacanzieri – non molti, visto il meteo incerto – che pregustano la riviera.

Il Genova-Ventimiglia delle 7.46 promette male ancor prima di arrivare in stazione, perché il binario è colmo di gente che aspetta mentre il personale di Trenitalia chiede lumi a chi sbuca dalle scale: “Lei dove va?”. “Finale Ligure. Ma devo fare il biglietto a bordo”. “Non so se riuscirà a salire, vada avanti e provi perché se c’è posto è più facile che lo trovi nelle prime carrozze”. Insomma liberi tutti ma non troppo: si può salire ma col controllore che cerca di dissuaderti, novello dispositivo di protezione personale in mancanza d’altro.

La buona volontà è apprezzabile, ma non basta: quando il treno arriva le carrozze si riempiono tutte, comprese quelle in testa e in coda, e qualcuno si fa pure il viaggio in piedi tra un vagone e l’altro. Nel dubbio, una ragazza prima di sedersi disinfetta il sedile e stende un asciugamano. E se durante il lockdown ci eravamo abituati allo stigma sociale e alle occhiatacce dai balconi per chiunque girasse in strada – anche se autorizzato – qui il fenomeno torna sotto altre forme. Un ragazzo occupa uno dei posti marchiati con l’inutile cartello di cui sopra, e una signora si indispone. I due discutono un po’ (“ma c’è l’ordinanza!”; “ma c’è il cartello!”) finché il controllore passa e risolve con la dura voce della legge: ha ragione lui, ma solo perché siamo su un treno lento. Se fossimo su un treno più grande, pulito e veloce, le regole di sicurezza sarebbero più rigorose. Il povero controllore non può dirla così, ma il concetto è stato già ben espresso dalle sigle sindacali Filt Cgil, Uiltrasporti e Orsaferrovie, che due giorni fa hanno scritto alle prefetture delle quattro province liguri, al presidente della Regione e a Trenitalia: “Non accettiamo che esistano tutele di Serie A per le Frecce e tutele di Serie B per i regionali”. Per ora però le regole restano queste, con buone pace di chi litiga e dei controllori costretti a ripetere il copione al pomeriggio, nell’ora di punta del rientro a Genova. Libero assembramento: ci scusiamo per il disagio.

L’allarme dal Nord Europa: “La seconda ondata è qui”

“È chiaro che siamo in una seconda ondata di coronavirus in Europa”, ha dichiarato il virologo belga Van Gucht. Il numero di infezioni è in aumento, ha aggiunto, e non è piccolo. “Il pericolo è vanificare i successi finora raccolti”, ha ribadito la presidente dell’Associazione dei medici tedeschi Susanne Johna. La crescita delle nuove infezioni non è paragonabile ai numeri di marzo e aprile, ma comunque “esiste il pericolo”.

Anche l’Olanda ha visto raddoppiare i contagi nell’ultima settimana: 2.588, ben 1.259 in più della settimana precedente quando erano stati 1.329, con 242 focolai attivi nel paese. L’ultimo rapporto del Centro europeo per il controllo delle malattie (Ecdc) segnala che “al 29 luglio il tasso medio di notifica dei casi per l’Ue/Eaa e il Regno Unito è stato del 18,8 per 100.000 abitanti, tasso in aumento da 12 giorni,” si legge. La tendenza è stata osservata in Austria, Belgio, Cecenia, Francia, Lussemburgo, Paesi Bassi, Polonia, Romania e Spagna. Si parla di seconda ondata, ma è un termine improprio. “Il SarsCov2 non si muove a ondate nel senso della stagionalità ma per focolai – spiega Stefania Salmaso, ex direttrice del Centro nazionale di epidemiologia dell’Iss –. Il punto è che in Europa il virus ha continuato a circolare in alcune aree e dunque continua a contagiare”.

“I tassi più elevati sono ora in Romania – prosegue – ma ci sono anche altre zone”. La Spagna ha un tasso di 68 casi per 100mila abitanti, la Germania 10. L’Italia invece per ora è ferma a 6. “Sarebbe molto più grave se stessimo registrando una circolazione diffusa non concentrata in alcuni focolai, che oggi siamo in grado di controllare e spegnere tempestivamente – aggiunge Salmaso –. In questo caso si riesce a capire subito dove è avvenuto il contagio e a interromperlo. Se avessimo osservato tanti casi in tutta la popolazione non sapremmo identificare subito i focolai”.

“Non abbiamo ancora evidenze scientifiche chiare per queste recrudescenze – spiega Pierluigi Lopalco, epidemiologo dell’Università di Pisa –. In Italia la pandemia è arrivata prima, e il lockdown è arrivato prima. Gli altri paesi sono intervenuti dopo, ma tutti lo hanno revocato nello stesso momento in cui lo ha fatto l’Italia. La mia ipotesi è che la riapertura sia arrivata troppo presto in certi paesi. Per questo, ora sono ripartiti i focolai. In Italia – aggiunge – avendo avuto un lockdown che ha funzionato proteggendo tutto il Sud, la circolazione del virus era molto più spenta al momento in cui le misure sono state revocate”.

La situazione oggi in Italia appare stabile, ma “abbiamo casi di ritorno, di importazione, o di italiani con storie recenti di viaggio” spiega Lopalco. Quindi cosa si dobbiamo aspettare, alla luce dell’attuale situazione europea? “Dopo diverse settimane di zero casi in molte parti d’Italia, da due settimane stiamo anche noi registriamo qualche decina di nuovi casi”. In Puglia, e in particolare nella zona del Gargano e in Salento, da zero casi, negli ultimi 15 giorni si è passati a oltre 40 a settimana”.

C’entra il turismo? “Ritengo di sì, per due ragioni. Circolano turisti stranieri che potrebbero provenire da zone pericolose. E poi, cosa più grave, è passato il messaggio, scientificamente infondato, che ormai il virus non ci sia più, o che il caldo ne abbia arrestato la circolazione, o addirittura che non sia mai esistito. Questo genera comportamenti irresponsabili. Oggi il problema più grande sono i giovani. Molti non adottano comportamenti corretti, cioè la mascherina e il distanziamento, specie in vacanza. Questo ci dice anche che non solo i giovani, ma anche i loro genitori, quindi le fasce di popolazione adulta, non credono più che il virus rappresenti ancora un pericolo. Le spiagge sono strapiene, come i bar e i vicoli delle città turistiche”. Oggi, come concordano gli epidemiologi di tutta Europa, inclusi Salmaso e Lopalco, la responsabilità di cosa accadrà nei prossimi mesi è tutta nelle mani dei cittadini, della loro responsabilità e senso civico.

Virus, valzer degli appalti tra astronavine e mazzette

Dalle mascherine ai camici, dai conti correnti fino alle vecchie mazzette. Lo spettro delle inchieste per fatti avvenuti nei mesi di crisi Covid abbraccia ogni tipologia di (supposto) malaffare. Da Nord a Sud, passando per il Centro.

 

Lombardia 27 fascicoli aperti dalle procure

Le procure a oggi contano 27 fascicoli. Il più scottante per il presidente Attilio Fontana, indagato per frode in pubbliche forniture, è quello per la fornitura di 75mila camici dalla Dama Spa. I pm indagano anche il titolare Andrea Dini cognato di Fontan e l’ex dg di Aria Spa, Filippo Bongiovanni. Il reato contestato è turbata libertà nella scelta del contraente. Altra indagine è quella sugli 8 milioni spesi dal Pirellone per 18 milioni di “mascherine-pannolino” prodotte dalla Fippi e mai utilizzate. Il fascicolo, aperto il 2 maggio dopo l’esposto dell’Adl Cobas, è contro ignoti. Truffa e frode nelle pubbliche forniture i reati ipotizzati. E sempre dalla Adl Cobas è nata l’inchiesta che mira a far luce sui 21,6 milioni spesi per l’Ospedale alla Fiera di Milano. La struttura, concepita da Guido Bertolaso, oggi chiusa, ha ospitato meno di 30 di pazienti.

 

Piemonte Le forniture cinesi difettose

Truffa e frode sono le ipotesi di reato su cui lavorano i pm Elisa Buffa e Giovanni Caspani della procura di Torino, titolari delle indagini sugli appalti del Covid. Sono decine i bandi e gli affidamenti diretti su cui i magistrati hanno avviato accertamenti. Al momento gli indagati sono quattro: tre imprenditori che vendettero all’Unità di crisi della Regione mascherine (prodotte in Cina) diverse da quelle ordinate e una quarta persona coinvolta in un secondo filone d’inchiesta che riguarda una maxi fornitura da 18 milioni di materiali sanitari che la Regione ordinò durante la pandemia.

 

Marche L’“astronavina” di Bertolaso

Al centro delle attenzioni dei pm è un’altra “creatura” di Bertolaso, il Covid Hospital di Macerata, alias “l’Astronavina”. Costato 12 milioni, ha curato tre pazienti. Nell’esposto presentato da sindacati e associazioni, si denuncia chela struttura sarebbe stata costruita aggirando le norme sugli appalti pubblici. In particolare, si punta il dito sul conto corrente intestato al Sovrano Ordine di Malta sul quale sono confluite le donazioni di privati e aziende. La procura di Ancona che ha aperto un fascicolo per abuso d’ufficio, senza indagati.

 

Lazio Il caos delle mascherine

La Regione ha anticipato oltre 14 milioni per l’acquisto di 7,5 milioni di mascherine. Ma i dispositivi non sono mai arrivati e ora c’è un buco di 11,7 milioni di euro. Indaga la Procura di Roma, che ha coinvolto anche quelle di Taranto, Lugano e Londra. L’affidamento diretto è andato una piccola società di Frascati. Le “mascherine fantasma” furono garantite da un certificato falso e da una fideiussione non valida in Italia, emessa da una compagnia off-shore e firmata da un imputato per camorra. La Regione sarebbe parte lesa.

 

Sicilia Il coordinatore e le mazzette

“Ricordati che la sanità è un condominio e io sempre capo condominio rimango”. Così diceva Antonino Candela, ex coordinatore per l’emergenza Covid-19 in Sicilia, finito in manette il 21 maggio nell’operazione “Sorella sanità”. Per i pm di Palermo era a capo di una cricca che pilotava le gare della Regione imponendo una tangente del 5% sul valore delle commesse (60 milioni totali). Al posto di Candela ora c’è il dottor Bertolaso.

Campania come la Fiera. Indagine sul flop Covid

Diciotto milioni di euro usati durante la fase acuta della pandemia per costruire tre Covid-center in Campania sul modello dell’ospedale in Fiera a Milano, con lo scopo di fornire 72 nuovi posti di terapia intensiva. Uno solo dei tre è stato utilizzato, e pochissimo, quello realizzato nel parcheggio dell’ospedale del Mare a Napoli. Gli altri due, a Caserta e Salerno, vuoti. Mai collaudati e mai aperti. Non hanno accolto pazienti. Tanto che i contagiati del focolaio scoppiato a fine giugno nella comunità bulgara di Mondragone (Caserta) furono ricoverati a Maddaloni.

Queste le circostanze sulle quali vuole fare luce un’inchiesta della Procura di Napoli che ruota intorno al cerchio magico del governatore Vincenzo De Luca. Inchiesta che deflagra a meno di due mesi dalle elezioni, una sorta di referendum sulla riconferma di De Luca. Tra i quattro indagati noti, per ipotesi di reato che spaziano dalla turbativa d’asta alla frode in pubbliche forniture, ci sono infatti tre persone molto vicine al presidente della Campania, che gli coprono territorialmente tre capoluoghi di provincia: Ciro Verdoliva, manager dell’Asl Napoli 1 e componente dell’Unità di crisi antivirus regionale (già sotto inchiesta insieme ad Alfredo Romeo, il fulcro del caso Consip, per gli appalti dell’ospedale Cardarelli), il fedelissimo di Napoli; Luca Cascone, consigliere regionale eletto in “De Luca Presidente”, ex assessore ai Trasporti a Salerno del sindaco De Luca e poi presidente della commissione regionale Trasporti, il fedelissimo di Salerno; l’ingegnere Roberta Santaniello, dirigente dell’ufficio di gabinetto del governatore e componente dell’Unità di crisi delegata a seguire passo dopo passo la realizzazione dei tre ospedali modulari, in passato dirigente del Pd in Irpinia, la fedelissima di Avellino. Il quarto indagato noto è Corrado Cuccurullo, presidente di Soresa, la centrale acquisti della sanità campana. Soresa è l’ente appaltante con procedura d’urgenza dei tre Covid Hospital assegnati a una società di Padova, la Med (“Manufactorimg engineering & development srl”), disposta a far arrivare in Campania i moduli. I loro nomi sono emersi dai decreti di perquisizione e sequestro di telefonini, pc, uffici e abitazioni eseguiti nei giorni scorsi.

Riavvolgiamo il nastro degli eventi. A marzo, mentre impazza la conta dei ricoverati in terapia intensiva, De Luca annuncia che in 18 giorni sarebbero stati pronti tre ospedali nuovi e attrezzati per 72 posti in TI. E in molti ricordano gli applausi che il 6 aprile accolsero l’arrivo a Napoli del serpentone di 57 tir coi prefabbricati da montare. Ma anche a Napoli è andata a finire come a Milano: i reparti di terapia intensiva sono rimasti (per fortuna) vuoti. Di qui una polemica montata a metà maggio, quando un blitz dei carabinieri inviati in Soresa dal pm Mariella Di Mauro e dal procuratore aggiunto Giuseppe Lucantonio rese nota l’esistenza di un fascicolo. “Puntiamo ad avere 800 posti di TI ma qualche imbecille ha detto che abbiamo realizzato posti letto ma non sono occupati. Chiediamo scusa al virus se non gli abbiamo fatto compagnia – scrisse in quei giorni De Luca – siamo di fronte all’imbecillità totale. Continueremo a realizzare posti di terapia intensiva per stare tranquilli in autunno per un probabile ritorno del Covid”. Poi, causa contenzioso tra Med e Soresa sui mancati pagamenti di alcune spese extra per una riconversione delle opere chiesta dal committente mentre la curva del contagio calava a livelli meno preoccupanti, gli ospedali modulari di Caserta e Salerno non sono stati collaudati e non sono entrati in funzione.

Le indagini della Procura hanno avuto una brusca accelerazione dopo un paio di video-inchieste di Fanpage.it che hanno disegnato sospetti sulla regolarità dell’aggiudicazione degli appalti e sul ruolo di Cascone, l’uomo che – secondo il lavoro dei cronisti della testata diretta da Francesco Piccinini – avrebbe trattato forniture di mascherine e attrezzature sanitarie in nome e per conto di Soresa e dell’Unità di Crisi (di cui nemmeno faceva parte) senza averne titolo. “Ero solo un volontario che ha dato una mano” ha replicato lui. Le perquisizioni sono scattate pochissimi giorni dopo.