I test della DiaSorin e quelle strane fatture della società leghista

Il Covid-19 oltreché un’emergenza sanitaria si è rivelato un affare per molti. Soprattutto in Lombardia. Accordi opachi, affidamenti diretti senza gare pubbliche, il tutto grazie alla politica che ha fatto da volano per il giro del denaro. In questo contesto si inserisce la non chiarita vicenda dell’accordo tra la multinazionale DiaSorin e l’ospedale San Matteo di Pavia per la commercializzazione dei test sierologici. Poi acquistati grazie a un affidamento diretto per due milioni dalla giunta del governatore Attilio Fontana. In questa storia, deflagrata dopo le perquisizioni del 22 luglio disposte dalla Procura di Pavia e l’iscrizione nel registro degli indagati dei vertici del San Matteo e di DiaSorin con le accuse di peculato e di turbata libertà nella scelta del contraente, si innesta oggi una novità di rilievo che rischia di terremotare la Lega. Il partito padano, stando agli atti delle indagini coordinate dal procuratore aggiunto Mario Venditti, appare il vero convitato di pietra.

Gli accertamenti della Procura proseguono soprattutto sulla figura di Andrea Gambini (perquisito ma non indagato), leghista della prima ora, già commissario provinciale del partito a Varese e titolare di diversi incarichi, dall’Istituto neurologico Carlo Besta di Milano di cui è presidente alla direzione generale della Fondazione Istituto Insubrico di Gerenzano (Varese) che ha sede all’interno dell’Insubrias Biopark così come anche la Servire srl di cui Gambini è presidente del Cda. Sempre a Gerenzano si trova una seconda sede di DiaSorin. Ed è proprio sui rapporti commerciali tra Servire e DiaSorin che gli inquirenti puntano la lente. L’obiettivo è analizzare le fatture emesse dalla società di Gambini verso DiaSorin per capire quanto siano reali. Secondo i primi accertamenti molte causali allegate alle fatture risultano troppo generiche. Quasi tutte, secondo gli inquirenti, hanno le indicazioni “servizi vari”. Un elemento che se pur ancora da confermare ha messo la procura di Pavia sulla pista investigativa di fatture false per operazioni inesistenti. Al momento però nessun nuovo capo di imputazione è stato aggiunto. Di certo i rapporti tra Servire e DiaSorin sono molto stretti. Con le fatture emesse tra il 2019 e il 2020 si arriva a circa 1,5 milioni di euro. Nel solo 2019 la cifra è stata di 1,2 milioni a fronte di un volume d’affari dichiarato dalla società del leghista di 1,3 milioni. Dai numeri si comprende come DiaSorin sia quasi l’unico cliente di Servire. C’è poi da capire come la società di Gambini, con appena sette addetti dichiarati al 30 marzo, riesca a fornire servizi a DiaSorin per oltre un milione di euro. Giorno dopo giorno si capisce come l’accordo tra la multinazionale e il San Matteo sia stato orchestrato tra la Regione e la Provincia di Varese, vera culla leghista. Non pare un caso se i vertici del San Matteo e in particolare il presidente Alessandro Venturi (indagato) a partire dal 5 febbraio affidino un incarico legale a un penalista che lavora presso lo studio varesino dell’avvocato Andrea Mascetti, nome noto del cerchio magico leghista, vicino all’ex sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Giancarlo Giorgetti e, pur mai indagato, più volte citato negli atti dell’inchiesta “Mensa dei poveri” sul sistema delle tangenti gestito dall’ex coordinatore provinciale di Fi a Varese Nino Caianiello. Fino al 2018 Mascetti è stato vicepresidente della Fondazione Istituto Insubrico, nato nel 2006 grazie all’allora presidente della Provincia di Varese, il leghista Marco Reguzzoni. E così l’avvocato dello studio Mascetti, dopo una riunione con i vertici del San Matteo, lavora alla stesura di un esposto, firmato da Venturi, col quale si chiede alla Procura di indagare eventuali illeciti nel ricorso al Tar fatto dalla società Technogenetics esclusa dopo l’affidamento a DiaSorin.

L’esposto viene depositato un mese dopo la sentenza del Tar e dieci giorni prima che il Consiglio di Stato annulli la sospensiva per DiaSorin. E se i vertici del San Matteo si rivolgono a uno studio legale vicino alla Lega, le intercettazioni fissano i contatti tra alcuni vertici dell’ospedale indagati e Giulia Martinelli (non indagata), capo segreteria di Fontana nonché ex compagna di Matteo Salvini. Si tratta di colloqui sui quali la Procura sta facendo approfondimenti. Sul fronte, invece, dell’accordo San Matteo-DiaSorin la Procura si sta concentrando sui giorni precedenti il 20 marzo, data della firma. Per farlo ha acquisito le mail tra il virologo Fabio Baldanti (indagato) e la multinazionale. Tra le mail interne all’ospedale c’è poi quella di una funzionaria che il 16 marzo scrive al direttore scientifico Giampaolo Merlini (indagato) sollevando dubbi sulla bozza dell’accordo, a suo dire troppo sbilanciato a favore di DiaSorin. La donna è già stata sentita dai pm che vogliono capire da chi arrivò la bozza e chi ne decise il contenuto.

L’ascia o raddoppia

Mi unisco al grido di dolore che si leva dalle spiagge di tutta Italia, raccolto da Antonio Padellaro con giusta trepidazione. Dall’Alpi al Lilibeo è tutto un allarme, uno sgomento, un’insonnia per la nuova legge elettorale che sciaguratamente non c’è e per la tirannide contiana che invece purtroppamente c’è (il premier pretende financo di confermare i capi dei servizi segreti, anziché farli nominare da Amadeus e Milly Carlucci, per dire come siamo messi). Ma c’è di più e di peggio, come mi faceva notare ieri mattina la sora Augusta in ciabatte che dava da mangiare ai piccioni a Trastevere: “Adesso non vorranno mica tagliare il numero dei parlamentari, che sono appena un migliaio? Io ne vorrei almeno diecimila! E la democrazia rappresentativa, dove la mettiamo? E poi a me chi mi rappresenta? La prego, lei che può faccia qualcosa contro la deriva populista, antipolitica e antidemocratica. Basta un niente e ci ritroviamo un Orbán e un Bolsonaro a Palazzo Chigi, che poi sarebbe tanto di guadagnato dopo il führer Giuseppi!”.

Attorno a lei, oltre ai piccioni, si è radunata una piccola folla plaudente. Chi recitava a memoria l’ultima intervista di Goffredo Bettini, da queste parti più popolare del fornaio e del pizzicagnolo (“Senza una nuova legge elettorale, dimezzare il numero dei parlamentari può persino diventare pericoloso per il regime democratico”). Chi sventolava l’editoriale di Stefano Folli su Repubblica: “Il pasticcio del referendum”, “disastro incombente”, “operazione temeraria”, “taglio cervellotico”, “un Parlamento a macchia di leopardo, alcune parti d’Italia sono rappresentate più di altre e qualcuna non lo è per nulla”, “Parlamento scardinato nelle sue funzioni istituzionali”, “amputazione fatta per motivi demagogici, per dare una lezione alla ‘casta’”, “scarsa o nulla considerazione della democrazia rappresentativa”, “nel Pd è troppo tardi per cambiare idea, visto che ci si è consegnati al patto di governo con Conte e i 5S”. Chi sbandierava il Buongiorno di Mattia Feltri su La Stampa: “I partiti più piccoli sparirebbero, i parlamentari sarebbero soldatini agli ordini del capo, il governo schiaccerebbe le Camere e farebbe come gli pare più di quanto faccia ora” e i parlamentari passerebbero per “cialtroni, scaldapanche, mangiapane a ufo e pure ladri”. C’era persino un lettore de Il Dubbio, guardato con comprensibile curiosità dagli altri, che declamava un pezzo di Mario Lavia, l’ex Sallusti di Renzi: “Il No al referendum fa proseliti nell’area del centrosinistra”, “la battaglia dei grillini e della destra sensibile alla gran litania dell’anticasta”, “accarezzano gli umori popolari dalla parte del pelo”.

Fortuna che “il ‘carfagnano’ di FI Cangini è fra i leader del comitato per il No assieme al dem Nannicini”, al grande Gori, ma soprattutto – e qui al passante brillavano gli occhi – “a cattolici democratici come Pierluigi Castagnetti”. Al nome Castagnetti, si levava in piazzetta un grido di giubilo, accompagnato da trombette e tricchetracche. Quando poi si apprendeva, sempre dal discepolo di Lavia, che “il manifesto e il Domani, oltre all’Espresso già in battaglia, faranno campagna per il No”, due fra i più giovani accendevano petardi e fuochi d’artificio per una piccola festa di quartiere che rischiava di arrostire un piccione. E diventava assembramento alla notizia che “si opporranno Sabino Cassese, Paola Severino, Angelo Panebianco e Leonardo Becchetti”, ma solo “probabilmente”. “Senza escludere pronunciamenti di peso e fortemente evocativi: Prodi, Arturo Parisi, Claudio Petruccioli, Claudia Mancina” e altri trascinatori di folle, non so se mi spiego. Gli astanti, incuranti della canicola, costituivano lì su due piedi un comitato del No al referendum di settembre.

Io avrei voluto rammentare alcune cosette: di ridurre gli eletti si parla molto autorevolmente da 40 anni; abbiamo le Camere più pletoriche, costose e improduttive d’Europa; molti attuali alfieri del No erano per il Sì alla controriforma Renzi-Boschi-Verdini del 2016 (che tagliava i parlamentari, ma solo al Senato, abolendone l’elettività e riducendolo a una cameretta-dopolavoro per consiglieri regionali e sindaci a mezzo servizio); la democrazia rappresentativa non dipende dal numero di eletti, che sono una convenzione, non le tavole della legge affidate da Dio a Mosè sul Sinai (sennò sarebbero antidemocratici gli Usa, che hanno 435 deputati e 100 senatori col quintuplo e più di abitanti, e la Germania, che ha 172 parlamentari meno e 20 milioni di abitanti più di noi); col taglio di un terzo (da 315+5 senatori a 200+5 e da 630 deputati a 400) avremmo 0,7 deputati ogni 100mila abitanti, in linea con la media dei grandi Paesi d’Europa (1 nel Regno Unito, 0,9 in Germania e Francia, 0,8 in Spagna); l’antipolitica e l’antiparlamentarismo escono indeboliti da una riforma così popolare; l’asservimento degli eletti ai capi-partito dipende dalle leggi elettorali fatte dalle destre (Porcellum), dal Pd (Italicum) e da Pd, FI e Lega (Rosatellum) che riempiono il Parlamento di nominati anziché di eletti e non impongono dimissioni a chi passa da sinistra a destra o viceversa. Ma l’entusiasmo in piazza mi ha contagiato: così ho lanciato l’idea di raddoppiare i parlamentari dagli appena 945+5 a 1890+10. Così la democrazia raddoppia e i problemi dell’Italia si dimezzano. Mi hanno fatto la ola.

Uau: app anti-omofobi e per il lido. Ma la privacy?

Tutto è davvero iniziato con Immuni, l’assai discussa app creata per aiutarci a combattere l’epidemia (la stessa che utilizza la tecnologia per avvertire gli utenti che hanno avuto un’esposizione a rischio, anche se sono asintomatici)? Ed è divenuto, poi, “endemico” (la definizione è d’uopo) con il cascame di app regionali adesso scaricabili per prenotare il proprio posto al sole nelle nostre spiagge?

In realtà, no. Certo, è vero che sette ragazzi de La Maddalena in Sardegna si sono inventati Uau, per controllare lo stato di affollamento delle spiagge; che nella riviera romagnola per andare al mare devi avere sul tuo cellulare Click to beach; e che più diffusamente la più scaricata è la tautologica iBeach, con cui riservare ombrellone e lettino (Marche, Sicilia, Toscana, Campania).

L’AppFollia, però, non è una reazione al Covid-19, che ne ha indubbiamente ampliato le ramificazioni. Essa fa ormai parte della nostra esistenza. Tanto che, sorvolando la questione privacy o della perdita dell’humanitas, con le app paghi le bollette, prenoti un tavolo, ti dai agli acquisti, conosci persone. Ne sorgono invero ogni giorno delle più curiose, a volte anche utili come telemedicine, che consente di realizzare la visita dal medico tramite smartphone. L’ultima in ordine di tempo è Shinigami Eyes, che nasce come un’estensione di Google Chrome e segnala sul web le persone ritenute transfobiche od omofobe. Funziona a colori: una volta caricato, il nome diventa rosso. Non mancano, ovviamente, i vari Salvini, Meloni, Pillon e anche l’autrice di Harry Potter, J.K. Rowling. E perché privarsi di Priest Advisor, il progetto di app lanciato dal sito “Rete Abuso” per indicare i posti in cui è possibile incontrare religiosi denunciati o indagati per molestie? Lanciando, dunque, l’app non compariranno i più prelibati ristoranti della zona o i più convenienti alberghi. No: dal nero dei sacerdoti indagati all’estero al giallo dei casi ancora in attesa di giudizio, le diocesi sono classificate cromaticamente. Per i più giovani, c’è invece, Sbullit: un gioco a quiz che vuol sensibilizzare i ragazzi a un uso corretto dei social e avversare il bullismo. Si diceva “anche utili”, certo. Spaventosamente. Perché prende sempre più corpo il profilo della profezia Singularity in cui il geniale Stephen Hawking si chiedeva: potranno un giorno le macchine evolversi fino alla messa in scacco delle nostre volontà?

E il partigiano Beppe andò a morire nel “posto delle fragole”

L’ultima volta di Beppe Fenoglio sulle alte colline, le top hills del suo Johnny, fu nel settembre del 1962. Demetrio Veglio, il leggendario albergatore del “Bellavista” di Bossolasco, sull’Alta Langa che sovrasta Alba e guarda alla Liguria, la raccontava ogni volta, commuovendosi, ai giornalisti saliti lassù per parlare del partigiano-scrittore della Malora e de I ventitré giorni della città di Alba. Accarezzava il panno verde del suo antico biliardo, volgeva lo sguardo verso un finestrone aperto sul crinale coperto dai boschi, poi lasciava che le parole si intrecciassero con la malinconia. “L’estate più brutta fu quella del 1962, quando era venuto Beppe: aveva già il cancro ai bronchi e l’aria di Bossolasco gli servì a niente”.

Lo scrittore in quei giorni non aveva ancora capito, sperava sempre di farcela, e continuava a dare nomi meno terribili a quella brutta bestia che gli divorava il respiro: pleurite, asma bronchiale, principio di tubercolosi, anche se il suo sguardo e i suoi pensieri si erano fatti più scuri. Il 15 ottobre, rientrato ad Alba, scrisse quella che forse è la sua ultima lettera. A Italo Calvino, l’intellettuale dell’Einaudi che lo aveva convinto a mettere assieme i suoi racconti, le prove d’autore: “Caro Italo, grazie della tua lettera vecchia ormai di settimane. La vedo, purtroppo, appena ora, rientrando da oltre un mese di confino in alta collina. Mi è infatti sopravvenuta una molto seria affezione polmonare per la cui risoluzione occorreranno un bel po’ di mesi…”.

Il “confino”, parola negativa e volgare del fascismo, si era impadronito di quel “posto delle fragole” che un tempo aveva alimentato la sua voglia e le sue visioni di Langa. Fenoglio morì nella notte tra il 17 e il 18 febbraio 1963 in ospedale: il funerale, “senza fiori, soste né discorsi” come aveva lasciato scritto, fu laico, ma la breve orazione funebre toccò invece a un prete, uno dei suoi amici più cari, il teologo don Natale Bussi che da bambino, a Santo Stefano Belbo, aveva conosciuto e giocato con Cesare Pavese.

Tornare oggi a Bossolasco, nella Langa dell’enogastromia che l’ha fatta sempre più ricca, dei filari del Barolo e del Barbaresco e poi, più in alto, man mano che le colline diventano quasi mezza montagna, degli appezzamenti squadrati e scoscesi dei noccioleti, nuovo oro di queste terre, ha per forza i sentimenti dello struggimento e del passato.

Anche Demetrio non c’è più, scomparso a 101 anni nel 2016: il suo “Belvedere” tira avanti e in altre mani, il paese delle rose e dei pittori è sempre bello, dall’alto dei suoi 800 metri, con le vecchie case di pietra restaurate e le ville che, anche negli anni del boom economico, non hanno conosciuto gli scempi dei geometri impazziti. I capannoni delle fabbriche del fondo valle del Tanaro invece, quelli denunciati da Bartolo Mascarello, il vignaiolo del Barolo che disegnava le sue etichette e ci scriveva sopra “No Barrique, No Berlusconi”, sono nascosti dai bricchi e dai boschi.

Ma la grandezza di quell’andar per Langa, di quel turismo un po’ di élite e un po’ démodé degli Anni 50 e 60, non c’è più. Attorno al miracolo-Demetrio (“eravamo arrivati qui nel 1943 in piena guerra, con mia moglie”, raccontava), il paese diventò meta di personaggi illustri della politica e della cultura. Dalla vicina Dogliani giungeva anche Luigi Einaudi, futuro presidente della Repubblica, e con lui Giuseppe Romita, Giuseppe Di Vittorio, persino Giuseppe Ungaretti. Ma sono i pittori, trascinati dal critico d’arte de La Stampa, Marziano Bernardi, a dare la svolta: qualcuno compra casa, altri diventano habitué del “Bellavista”. Francesco Casorati, Sandro Cherchi, Mauro Chessa, Francesco Menzio, Enrico Paulucci, Eso Peluzzi, Sergio Saroni, Giacomo Soffiantino, Francesco Tabusso: sulla Gazzetta del Popolo, un primo reportage in quella nuova dimensione dellAlta Langa parlò addirittura di “una Saint-Paul-de-Vence in terra cuneese”.

Ai tempi dell’estate del Coronavirus, invece, i turisti sono pochi, meno ancora gli stranieri, salvo gli svizzeri-tedeschi che, alla fine degli Anni 70, hanno riportato la vita su queste creste di noccioleti e di boscaglia che loro chiamano la “piccola Toscana”. Così Bossolasco adesso sembra davvero quella che Demetrio Veglio aveva profetizzato in una lontana intervista dell’agosto 1989: “In tanti hanno ancora la casa qui, ma ora usano molto l’auto. Fanno delle scappate e se ne vanno subito. I loro figli sono contenti di venire fino a quando hanno 13-4 anni, poi cambiano aria. Sono sparite le serate in osteria: pane, salame, una bottiglia di Dolcetto. Dopo cominciavano a parlare i pittori e, verso mezzanotte, da Alba saliva Pinot Gallizio, il farmacista e artista situazionista”.

Ed è probabile che sarà così almeno sino a settembre inoltrato. Quando, pandemia permettendo, la voglia di tartufo e di andar per cantine forse intonerà davvero il “liberi tutti” da mesi di paura e di angoscia. A anche tra queste colline dove i contagi si contano sulle dita di due mani.

E quando la foschia, che per ora pare solo una sfumatura nel fondovalle, diventerà una nebbiolina pronta a salire più in alto. Al riond d’la luna, i cercatori di tartufi e i loro cani, i tabui, inseguiranno i “diamanti grigi”. Le ore del weekend si riempiranno di gente, questa volta, e chissà se qualcuno sarà capace di recitare Pavese a memoria. “Tuo padre l’ha fatto il falò? Ci sarebbe bisogno di pioggia quest’anno. Dappertutto accendono i falò…”.

La Figc e la cupola in Serie A – “Calciopoli: ho fallito”

“Lei ha scritto sul Fatto che nel 2006 io ho contribuito a infangare il calcio italiano tenendo nel cassetto un documento della Procura di Torino: non è vero, sono stato corretto. Ho però commesso errori, uno grande che ha rappresentato una concausa di Calciopoli”. A ottant’anni, Franco Carraro, tre volte presidente della Figc oltre che di Lega calcio e Coni, sembra avere molte cose da dire.

Calciopoli scoppiata per colpa sua?

Nel giugno del 2004 maturo la convinzione che Bergamo e Pairetto debbano essere avvicendati perché la carica di designatore non deve, a mio parere, superare i 5 anni. Senza dire nulla a nessuno, chiamo Collina. Gli propongo di smettere di arbitrare, di fare il designatore unico a partire dal 2004-2005 e gli dico che un giorno potrebbe diventare presidente federale. Collina mi dice di no, ma si rende disponibile per la stagione 2005-2006. Decido di pazientare e commetto l’errore fatale: Bergamo e Pairetto, non so come, vengono a sapere della mia iniziativa e tutto precipita. Consolidano il loro rapporto con Moggi, andando al di là del consentito, con tutto quel che ne consegue. Io avrei dovuto seguire la mia intuizione e, malgrado il no di Collina, cambiare comunque il designatore.

Presidente di Lega dal ’97, poi di Figc dal 2001. Che il calcio italiano in quegli anni abbia problemi seri è evidente, ma l’impressione è che lei, come tutti, faccia finta di non vederli.

In realtà, mai come in quegli anni c’è stata un’alternanza di club a dividersi gli scudetti. Per me il solo scudetto deciso da un grave errore di un arbitro è stato quello del ’97-98, di Juventus-Inter e del rigore non assegnato.

Tuttavia le intercettazioni la sorprendono mentre supplica i designatori di non favorire troppo la Juve: le sembra normale?

Come ho detto, la situazione a un certo punto è peggiorata. Alla vigilia di una partita importante, Roma-Juve, sento che l’arbitro designato (Trefoloni, ndr) si è dato malato e mi preoccupo; anche perché al suo posto ne viene spedito uno non fra i migliori (Racalbuto, ndr). E a Bergamo dico: “Almeno nei casi dubbi, mi raccomando: non si favorisca la Juve”.

Invece Roma-Juventus finisce 1-2 nella bufera… Poi lei chiama Bergamo e dice: “Ma allora io non conto un cazzo”. Posso dirlo? Non ci fa una bella figura.

In realtà quella volta mi infuriai. Non c’era il Var e la prassi, su un fallo al limite dell’area, era dare punizione: non protestava nessuno. In quell’occasione invece l’arbitro diede il rigore e io, che ero alla televisione, mi imbestialii: con Bergamo volarono parole grosse.

Possibile che in Serie A ci fosse un solo arbitro di cui fidarsi: Collina?

No, ce n’erano altri. Ma certo, nel sentire popolare, da Trento ad Agrigento, Collina era visto come l’arbitro “senza retropensieri”.

Non abbiamo parlato del faldone di intercettazioni che la Procura di Torino le fece avere. E che lei tenne chiuso nel cassetto.

È falso. Nel febbraio 2006 mi chiamò Marcello Maddalena chiedendo di incontrarmi: era a Roma, ci vedemmo all’Antimafia. La Procura di Torino, mi disse, aveva fatto una lunga indagine in cui la Juventus era coinvolta: non era stato riscontrato nulla di penalmente rilevante, l’inchiesta era stata chiusa ma il materiale veniva dato alla Figc affinché valutasse se i comportamenti dei tesserati avessero o meno violato la lealtà e la correttezza sportiva. Ebbene, in rispetto al principio della separazione dei poteri io consegnai il giorno stesso la documentazione al procuratore Palazzi. Non era compito mio esaminarla.

Ma la Procura Federale non mosse foglia. E lo scandalo scoppiò sui giornali quasi tre mesi dopo.

La documentazione era molto voluminosa. Questa domanda andrebbe comunque posta a Palazzi.

Un presidente costretto a chiedere lealtà ai designatori, con un vice, Innocenzo Mazzini, che trama con Moggi, un Ufficio Indagini affidato al generale Pappa, sodale di Moggi e un procuratore, Palazzi, che ha una bomba in mano e sta a dormire. Sembra di vedere Antonio Conte quando allenava il Bari e il Siena: i giocatori vendevano le partite, a cominciare dal suo vice Stellini, e lui, dice, non si accorgeva di niente.

Paragone improprio. Quand’ero presidente del Milan, negli anni 60, persino Nereo Rocco, che certo non aveva il carattere di Conte, sapeva tutto dei suoi giocatori, della loro vita e delle loro famiglie. C’è frequentazione quotidiana, non era così per me in Figc.

Insomma, lei si assolve.

La giustizia penale e sportiva e la Corte dei Conti hanno stabilito che il mio comportamento è stato corretto. Ammetto però una sconfitta: Calciopoli minò la credibilità del calcio, che per uno sport è tutto e io ho certamente commesso errori.

A fine anno compirà 81 anni eppure è ancora alla ricerca di cariche nel calcio.

La Federcalcio, le leghe e le società fanno una cosa bellissima promuovendo il calcio paralimpico. Io sono semplicemente onorato di dare una mano.

Banane, anguille e tradimenti. L’Italia di Dante e Artusi

La Romagna, evocata nel V dell’Inferno da Francesca come affacciata sulla “marina dove il Po discende”, sembra quasi alla ricerca di una pace impossibile, negata dal fremere di cieche passioni, dall’arroccarsi di rapaci poteri tirannici, da un intreccio di violenze politiche e di violenze domestiche, mentre nel XIV del Purgatorio si proietta l’ambigua nostalgia per un passato perduto (“le donne e’ cavalier, li affanni e li agi/ che ne ’nvogliava amore e cortesia”). Personaggi e luoghi della Romagna più volte si affacciano nell’Inferno, nel suo buio che si accende alla vista penetrante del viaggiatore, lasciando balenare improvvisi colori, dall’“aura nera” che trascina gli amanti Francesca e Paolo, al corusco brillare del fuoco che avvolge Guido da Montefeltro, alla gola “vermiglia” di sangue dello squarciato Pier da Medicina, al “cristallo” di ghiaccio in cui è immerso il traditore frate Alberigo. Colori anche in quel buio che cancella ogni colore: e ci sono i colori degli stemmi, come le “branche verdi” dell’insegna degli Ordelaffi di Forlì, e tanti altri colori che sempre più si accendono nella luce crepuscolare del Purgatorio e nel tripudio cosmico del Paradiso. E del resto, come mostrano le molteplici trasposizioni pittoriche, siamo tutti portati a percepire il poema sotto il segno del colore, come una delle opere più “colorate” della letteratura mondiale.

Certo minor rilievo ha nella Commedia l’alimentazione, anche se l’autore ne fa un determinante uso metaforico: insiste più volte sulla metafora del libro e della cultura come insegnamento/ nutrimento (e del resto aveva già scritto proprio un Convivio) e non può evitare di ricordare che la cacciata dal Paradiso terrestre è stata determinata proprio dall’aver gustato un frutto proibito. L’albero del Paradiso terrestre mi fa subito evocare l’Artusi, che, nella ricetta del Gelato di banane (766), nota che il banano è volgarmente chiamato Fico di Adamo o Albero del paradiso terrestre. Frutto o gelato, nel poema dantesco non si mangia: ci si nutre del sapere offerto dai vari incontri con le anime e dell’insegnamento di Virgilio e di Beatrice, ma nei sette giorni del viaggio oltramondano non c’è nessuna pausa pranzo né tantomeno cene. Nelle situazioni e nelle vicende di vari personaggi si affacciano però alcuni richiami alla fame, alla voracità, all’atto del mangiare: a tutti è noto il conte Ugolino, con il “fiero pasto” che fa della testa dell’arcivescovo Ruggieri, il nemico traditore a cui è addossato; e, per venire in Romagna, si può ricordare la voracità dei “mastini” Malatesta, che a Rimini, “là dove soglion fan d’i denti succhio”.

Tra vizi e peccati non manca naturalmente la gola, secondo cerchio dell’Inferno e sesto girone del Purgatorio. Lasciamo da parte la pioggia repellente che precipita addosso ai golosi infernali e arriviamo subito ai golosi digiunanti del Purgatorio, e facciamoci accompagnare da un richiamo fatto dall’Artusi, a proposito dell’Anguilla arrosto (ricetta 491): “Potendo, preferite sempre le anguille di Comacchio che sono le migliori d’Italia se non le superano quelle del lago di Bolsena rammentate da Dante”. È il papa francese Martino IV (1281-1285), che nel girone dei golosi “purga per digiuno/ l’anguille di Bolsena e la vernaccia”: papa che preferì soggiornare lontano da Roma e sembra che addirittura sia morto per indigestione di anguille (dice il commentatore Iacopo della Lana: “facea torre l’anguille del lago di Bolsena, e quelle facea annegare e morire nel vino della vernaccia, poi fatte arrosto le mangiava”). Eletto per iniziativa del connazionale Carlo d’Angiò, questo papa ebbe anche a fare con la Romagna, dato che inviò truppe pontificie e francesi contro Forlì, allora in mano al ghibellino Guido da Montefeltro: ma questi respinse l’ultimatum papale e il 1° maggio 1282 fece strage degli assedianti che erano penetrati in città (Dante stesso ricorda come fu fatto “di Franceschi sanguinoso mucchio”). A Forlì riconduce anche un altro goloso purgatoriale, un messer Marchese degli Orgogliosi, che qui ebbe agio di bere senza limiti e senza sentirsi mai sazio. Invece nei pressi di Faenza (vicino alla Pieve di Cesato) ci porta il pranzo con tradimento organizzato dal “peggiore spirto di Romagna”, frate Alberigo Manfredi: all’atto di chiamare in tavola la frutta questi fece uccidere dei parenti che aveva invitato a scopo di pacificazione, dando luogo ad un detto molto noto, frutta di frate Alberigo, che parlando con Dante egli sviluppa in immagine sarcastica della propria condanna infernale: “I’ son frate Alberigo./ i’ son quel da le frutta del mal orto,/ che qui riprendo dattero per figo”.

Alla fine dell’Appendice dedicata alla Cucina per gli stomachi deboli, Pellegrino Artusi dà vari consigli per un buon uso della frutta e invita poi a far uso moderatissimo del vino, raccomandando il “bianco asciutto” di Orvieto e concludendo con un celebre motto dantesco, trasportato dal piano metaforico a quello reale: “Messo t’ho innanzi: omai per te ti ciba” (Paradiso, X 25). Concludo allora appropriandomi di un’altra celebre metafora dantesca, quella dell’opera e della vita come nave/ barca: sono convinto che, come lettori di Dante, siamo tutti “in piccioletta barca” e rischiamo davvero di rimanere “smarriti” (Paradiso, II, 1-6). Ma qui per fortuna possiamo rispondere, con l’inossidabile Orietta Berti, Fin che la barca va…

Ferri, processo sospeso. Nuova incolpazione per Palamara

È un destino bizzarro quello che lega Luca Palamara e Cosimo Ferri dal 9 maggio scorso, quello in cui furono entrambi intercettati nell’hotel Champagne di Roma, mentre discutevano, alla presenza di Luca Lotti e altri 5 consiglieri del Csm, della futura nomina della Procura di Roma. Finiti entrambi sotto processo disciplinare hanno entrambi tentato di ricusare dei giudici. Operazione in parte riuscita per Ferri – sulla sua richiesta, ha stabilito il Csm, dovranno pronunciarsi le Sezioni Unite della Cassazione – e invece fallita per Palamara con Piercamillo Davigo che è rimasto al suo posto.

E se Ferri “rischia” di vedere rimandato a chissà quando il suo processo, Palamara incassa l’ennesima (siamo a quota 5) incolpazione disciplinare. Questa volta è accusato di aver “violato consapevolmente l’obbligo di astensione nel procedimento disciplinare instaurato a carico del magistrato Mara Mattioli”. Palamara era infatti un membro del Collegio della sezione disciplinare che il 21 giugno 2018 si occupò di Mattioli. Tra il 2017 e il 2018, si legge nell’accusa, Palamara ne aveva caldeggiato la nomina per un posto di magistrato segretario presso il Csm chiedendo al suo collega di Unicost Massimo Forciniti, anch’egli membro del Csm, di “tutelarla” durante l’audizione. “Nonostante tale intensità di rapporti”, si legge negli atti, “Palamara partecipava – violando l’obbligo di astensione – alla decisione” in sede disciplinare che “commentava il giorno dopo con Forciniti: “Mattioli è andata male purtroppo”. Per quanto riguarda Ferri, anch’egli accusato di aver interferito nell’attività del Csm, il suo processo è stato sospeso: le Sezioni Unite Civili della Cassazione dovranno pronunciarsi sull’istanza di ricusazione contro due giudici disciplinari (i laici Stefano Cavanna e Michele Cerabona) che il Csm non è in grado di sostituire. Ha così investito la Cassazione anche per “scongiurare il rischio della paralisi del funzionamento di un organo di rilevanza costituzionale”.

I 5 Stelle bocciano la riforma “pro Malagò”. Adesso Spadafora minaccia le dimissioni

Non è più solo una riforma: un po’ pasticciata, per certi versi deludente. Adesso è un caso politico dentro il M5S. Il nuovo testo sullo Sport preparato dal ministro Vincenzo Spadafora viene fermato dal direttivo 5 Stelle, che punta a rinviare l’approvazione in Consiglio dei ministri. Dicono che anche Luigi Di Maio si sia smarcato da un testo che per una parte del M5S ha tradito il suo spirito, indigeribile dopo i sospetti di ingerenze da parte del Coni. Così rischia di saltare la riforma. E con questa il ministro, che in giornata minaccia le dimissioni. “Ma lo ha già detto tante volte”, ringhiano fonti grilline.

Le stesse che indicano la miccia della scontro in una mossa di Spadafora, che nel fine settimana avrebbe mandato un nuovo testo al Dipartimento affari giuridici e legislativi di Palazzo Chigi, senza passare per i partiti. Ma già l’ultimo vertice di maggioranza era stato difficile, con il senatore Emanuele Dessì che aveva lasciato il tavolo. Giorni prima in un’altra riunione era sbottato: “Questa non è una mediazione ma una capitolazione”. La situazione è precipitata dopo che un articolo del Fatto ha rivelato una bozza in cui il gabinetto del ministro ha lasciato traccia di tutti i suggerimenti ricevuti da Malagò. Ieri mattina allora arriva il confronto tra i parlamentari che seguono lo sport, Crimi e Bonafede. E si decide per lo stop. Alla base, innanzitutto il ruolo del Comitato olimpico e del suo capo, che la delega approvata dal governo gialloverde voleva ridimensionare e invece adesso è di nuovo centrale. Niente taglio del limite dei mandati (si sono opposti Pd e renziani), Malagò può ricandidarsi; niente incompatibilità con la Fondazione Milano-Cortina. Non è un caso che insieme alla lettera del direttivo, al ministro sia arrivato anche un altro documento con richieste del M5S, quasi tutte in chiave anti Coni e pro Sport e Salute, la partecipata governativa che esce ridimensionata dal nuovo dipartimento del governo. Condizioni inaccettabili per Spadafora: una delega approvata con la Lega e scritta col Pd doveva essere oggetto di compromesso, fanno notare i suoi. E chi oggi la blocca rischia di buttare un anno di lavoro. Sullo sfondo poi c’è sempre il comitato internazionale del Cio, che ha già minacciato di sospendere l’Italia e sollecita il testo. Grazie alle proroghe Covid si può arrivare a novembre. Ma il ministro vuole chiudere prima dell’estate, e potrebbe legare il suo destino politico alla riforma. La sua uscita provocherebbe subito quel rimpasto che il premier Conte non vuole: almeno non ora, prima delle Regionali. E Spadafora lo sa.

Stragi e cronisti da non scordare: Bologna e Milano narrate da Vespa

Fra i cronisti presenti alla Stazione di Bologna in quel terribile 2 agosto 1980 si fa presto strada l’ipotesi di una bomba. Lo squarcio è enorme, i morti si contano ormai a decine, i feriti non si contano nemmeno. Per me è un luogo familiare: una delle mie primissime inchieste a fine anni 50 riguardava proprio la CAMST, la coop “rossa” che gestiva i ristoranti dove mi fermavo spesso. Telefono agli inviati del Messaggero

(che dirigo da gennaio) e mi confermano l’ipotesi di una bomba ad alto potenziale, una orribile strage probabilmente “nera”. Ma l’inviato del telegiornale più visto dagli italiani, il Tg1, Bruno Vespa, non si rassegna, continua a battere la pista dello “scoppio delle caldaie” del ristorante confinante con la sala d’aspetto dello squarcio. Insiste, ufficialmente, fino al Tg1 delle 20. Poi cede, vinto.

Una ufficialità a prova di bomba. Ma Bruno Vespa è fatto così. Una decina di anni prima aveva annunciato sicuro al Tg1: “Il colpevole della strage di piazza Fontana a Milano è l’anarchico, Pietro Valpreda”. Era invece la falsa pista anarchica basata sulla incerta testimonianza del tassista Rolandi. Pista mai accettata dal Giorno, dall’Espresso, dalla Stampa. Nel 2019 i documenti su piazza Fontana finalmente desecretati l’hanno attribuita non alla Questura di Milano, bensì in modo chiaro e diretto a Umberto Federico D’Amato, direttore degli Affari Riservati, e a Silvano Russomanno del Sisde, volati a Milano. Attesi dal questore Marcello Guida. Non dal commissario Luigi Calabresi estromesso da tutto, anche dagli interrogatori di Giuseppe Pinelli. Lotta Continua non capì nulla. Lo rivela Paolo Brogi nel bel libro Pinelli, l’innocente che cadde giù

uscito pochi mesi fa da Castelvecchi. Da leggere con molta attenzione.

Rider, il confronto esclude le sigle a favore delle App

Il tavolo dei rider è ripartito ieri al ministero del Lavoro, ma le distanze sono le stesse che lo fecero saltare a dicembre 2018: le aziende che consegnano cibo a domicilio insistono nel considerare lavoratori autonomi i fattorini; i sindacati confederali e autonomi chiedono le tutele del lavoro dipendente. Una salita ripida quanto venti mesi fa, anche perché la ministra Nunzia Catalfo ha invitato solo i sindacati “di lotta”. Assenti i rappresentanti dell’Ugl, sigla che in questa trattativa è disposta a fornire la sponda alle imprese. Il sindacato di destra è alleato con l’Anar, associazione di rider nata a settembre 2019 su posizioni pressoché congruenti con quelle delle piattaforme, a partire dalla difesa delle paghe a cottimo, cioè ancorate al numero di consegne. Assodelivery, che rappresenta i big del settore come Deliveroo, Glovo e Just Eat, sarebbe più che contenta nell’averli come controparte e firmare con loro il contratto nazionale. Ma la ministra non ha invitato né l’Ugl né l’Anar, esclusione che suona come una delegittimazione. Assodelivery ne ha comunque invocato la presenza sebbene solo implicitamente facendo riferimento al desiderio di includere i “sindacati comparativamente rappresentativi”. E infatti l’Ugl è da settimane impegnata in una rincorsa alla rappresentatività, con l’Anar stessa intenta nell’organizzare giornate di tesseramento. Si vedrà se il ministero proseguirà con la linea dura o sarà costretta a estendere gli inviti per settembre. Per ora, dall’altro lato del tavolo c’è un fronte compatto formato da Cgil, Cisl, Uil e la rete Rider X i diritti, alla quale aderiscono Deliverance Milano e Rider Union Bologna, Napoli, Palermo e Roma. Le rivendicazioni sono la paga oraria, un monte ore garantito, i diritti sindacali, le ferie, la malattia. Risultati finora impensabili visto il modo di ragionare delle app; l’obiettivo del governo è ambizioso considerando l’insidia delle organizzazioni vicine alle aziende pronte a fare irruzione.