Migranti, 200 nuovi arrivi e fuga dai centri. Conte assicura un aumento dei rimpatri

Dopo la fuga della settimana scorsa dall’hotspot di Caltanissetta, ieri diverse decine di migranti hanno scavalcato le recinzioni della tensostruttura di Porto Empedocle che li ospitava e hanno tentato di far perdere le loro tracce. “Una cinquantina”, è stato detto, poi alcuni sono “rientrati”. A Campomarino, in provincia di Campobasso, a scappare dal Centro di accoglienza “Sweet Dreams” sono stati 32 ospiti sugli 83 arrivati il 31 luglio, tutti negativi ai test per il Covid-19 ma comunque in quarantena. La fuga nel giorno in cui sono approdate a Lampedusa quattro imbarcazioni mentre 4 barchini sono stati agganciati dalla Capitaneria. In tutto 200 nuovi arrivi che hanno mandato in tilt il centro di accoglienza della maggiore delle Pelagie. “Non possiamo tollerare che si entri in Italia in modo irregolare – ha detto il premier Conte – né che i sacrifici fatti dal Paese per la crisi Covid siano vanificati”. Poi ha annunciato una intensificazione dei rimpatri. Ora i migranti ospitati dall’hotspot dell’isola saranno trasferiti sulla nave quarantena. A decidere quante persone potranno salire a bordo è il ministero della Salute.

L’orgoglio italiano e la cloaca del web

Vivere un momento di quiete dopo la tempesta, il clima mite e le vacanze ormai in atto, inducono a fare delle riflessioni. Mi sono chiesta, quasi svegliata da un incubo, cosa sia successo nella prima metà dell’anno, a parte il dramma sanitario. Credo che fermarsi a pensare, abbandonando simpatie e antipatie politiche, possa essere utile per metabolizzare un periodo devastante. È infatti accaduto qualcosa di unico. Abbiamo assistito alla solidarietà di molti per il lavoro incessante di noi tutti impegnati in prima linea contro il Covid. Siamo stati chiamati eroi, angeli. Ci sono arrivati fiori, si sono affissi striscioni negli ospedali. Ma spesso quelle stesse persone hanno trascorso il tempo infinito del lockdown discreditando tutto e tutti sui social. È venuta a galla una valanga di fango sollevata da esperti e non. Tutti contro tutti, animati da un’aggressività inaudita. A leggere post, frasi, articoli sul web, il fenomeno è evidente. Prima di guardare quanto si stesse facendo per rispondere alla pandemia, si è sempre morbosamente cercato l’errore, ingigantito, dipinto di losco. Sia chiaro, errori ne sono stati commessi molti, alcuni anche degni di indagini della magistratura, ma chiederei a ciascuno dei denigratori cronici cosa avrebbe fatto al posto di chi si è trovato improvvisamente sui carboni ardenti. Fino a oggi siamo forse stati fra i migliori al mondo nella gestione dell’emergenza, l’Italia è al centro dei riconoscimenti di tutti e attualmente nella condizione migliore dal punto di vista infettivologico. Eppure il web si è trasformato in una cloaca. La responsabilità è di tutti. Notizie tendenziosamente riferite parziali con la strumentalizzazione di un pezzo di frase pronunciata in contesti e tempi volutamente tralasciati, dichiarazioni di esperti offensive dei colleghi. Le interviste televisive trasformate in una fossa dei leoni. Ho vissuto le emergenze Sars, Influenza suina, Ebola. Non è mai successo nulla di simile. Un esperto di psicologia sociale potrebbe darci una spiegazione. E se avesse ragione Plauto nell’affermare Homo homini lupus?

Direttore microbiologia clinica e virologia del “Sacco” di Milano

Rutti, messe e metal: il truce programma di governo di Salvini

“Conto di tornare qui al Papeete l’anno prossimo come presidente del Consiglio, con ruoli di governo, se gli italiani vorranno, per prendere per mano questa terra e questo Paese”. Lo ha detto Matteo Salvini al Corriere della Sera, e tenuto conto di come non ne indovini mezza da un anno esatto, c’è da sperare che a Palazzo Chigi non lo si veda mai. Dal suicidio del Papeete 2019, apice mondiale dell’insipienza politica, il Cazzaro Verde si è in effetti lanciato a bomba contro se stesso. Sondaggi in picchiata, gaffe a nastro, figuracce come se piovesse: un disastro vero che cammina.

Va però anche ricordato come, in questo Paese, un’occasione la si conceda a tutti. Anzitutto a chi non la merita. Dunque, a Palazzo Chigi, Salvini potrebbe finirci davvero. Oltretutto il governo, al Senato, dipende da nessuno (cioè dal renzismo). Quindi ogni cosa, più che illuminata, è imponderabile. Già: ma se Salvini andasse a Palazzo Chigi, oltre ad ammazzare il Paese e minare dalle fondamenta la democrazia, cosa farebbe? Essendo il politico più banale del globo terracqueo, ipotizzarne le mosse è facile come sconfiggere Marattin a una gara di capelloni. Immaginiamo dunque alcune sue mosse.

– Negazione sistematica e perdurante del Covid. Il Coronavirus non esiste ed è solo un’invenzione di Conte, Soros, Bilderberg, Memo Remigi e la Pora Menca. In questo senso, basta con le mascherine e col distanziamento sociale. Tutti potranno muoversi, baciarsi e ammucchiarsi senza limiti, in una sorta di orgia a caso permanente. Per tranquillizzare i più paurosi, si creerà però una task force di esperti scientifici capitanata dal Generale Pappalardo.

– Corsi di heavy metal in Parlamento. Sarà la mossa di Salvini per ridare lustro alla cultura italiana. I più giovani potranno seguire le lezioni di esperti metallari trucidi che, usando gli scranni in Parlamento come palchi di raduni rave, insegneranno alle nuove generazioni come urlare senza senso, berciando fuori sincrono e ansimando con vezzo arditamente diacronico. La preside di tale dottrina sarà ovviamente Giorgia Meloni, che dopo l’intervento clamorosamente acid rock di una settimana fa, ha varcato ogni porta immaginabile della leggenda. Durante tali lezioni, per sentirsi ancora più rock, i giovani studenti potranno allegramente spaccare le chitarre sulla testa di Gasparri. Quasi come Hendrix a Woodstock.

– Il Fatto Quotidiano verrà chiuso con decreto fascio-leghista approvato a maggioranza sovranista. Travaglio verrà mandato al confino, Padellaro in Siberia e io a sculacciare i billi della Val di Chiana. Di contro, l’unica rete autorizzata a diffondere “notizie” sarà Rete4 e Porro assurgerà a Farinacci mediatico del nuovo Dux. Quindi, rispetto a oggi, non cambierà nulla.

– Le pagine social di tutti i non salviniani verranno polverizzate e il moderatore unico di Facebook sarà Calderoli. In questo senso, la password universale per entrare nel proprio profilo sarà un rutto.

– I migranti non esisteranno più.

– La democrazia non esisterà più.

– La Santanchè esisterà ancora.

– La Messa di Natale la celebrerà il doppiamente fallico Capezzone.

– La Marcia su Roma verrà dichiarata Festa Nazionale.

– Dal 24 aprile si passerà direttamente al 26 aprile.

– Le librerie imploderanno per disabitudine.

– La Camera verrà spostata a Pontida e il Senato al Papeete.

– Giletti presenterà il “Festival di Salvini”.

– Moriremo politicamente tutti.

 

La resistibile ascesa della rag. Purchia, frenata dalla sintassi

La rag. Rosanna Purchia è stata a lungo soprintendente del San Carlo di Napoli. Non sapeva nulla di Bach e di Beethoven, di Rossini e di Richard Strauss. Nella primavera di quest’anno è stata sostituita da Stéphane Lissner, sostituzione ancora più funesta: costui, già alla Scala e all’Opéra di Parigi, è ignorante quanto lei e ancora più arrogante. Lo ha voluto quell’allocco del sindaco De Magistris, pagandogli uno stipendio stratosferico: poi voglio vedere come finirà di fronte alle spese eccezionali alle quali il Comune dovrà far fronte. Nel maggio 2019 il presidente della Repubblica, con un’iniziativa che definire improvvida è un eufemismo, nominò la Purchia Grande Ufficiale della Repubblica. Io gli scrissi una lettera aperta, pubblicata sul Fatto Quotidiano e ripresa da molti organi, nella quale dichiaravo che non avrei accettato alcuna onorificenza mi venisse eventualmente offerta (finora, in settanta anni di vita, non ne ho ricevuta alcuna): meglio essere un quivis de populo che essere decorato con la Purchia.

Adesso ci siamo trovati di fronte a un altro enorme scandalo. La Purchia è in posizione favorita per la nomina a direttore del Piccolo Teatro di Milano; o magari, speriamo, lo era. Costei ha già lavorato al Piccolo: come dattilografa e poi come contabile. Ma è successa una cosa imprevedibile. A onta delle fortissime spinte che le dava Franceschini, la Purchia non è stata nominata. Due consiglieri di amministrazione che rappresentano la Regione Lombardia per ben due volte non si sono presentati alle riunioni del Consiglio, così facendo mancare il numero legale e perciò impedendo la nomina. Beninteso, la Purchia, così come sconosce Bach e Beethoven, ignora chi siano Eschilo, Shakespeare, Calderòn e Schiller, poi anche Pirandello e D’Annunzio. Or è accaduto che, dovendo i candidati presentare un programma scritto che configurasse la loro eventuale azione da direttore, la Purchia ha presentato una pagina piena di errori di italiano: nemmeno dirò di sintassi, di grammatica. Questo ha ulteriormente offeso il Consiglio. Peraltro ci si domanda come potrebbe costei essere nominata quando la legge Madia fissa un limite di età per i dipendenti pubblici, e il Piccolo, viste le erogazioni di ministero, Comune e Regione, è un teatro di Stato a tutti gli effetti. Pochi giorni fa, un fatto impreveduto: il sindaco di Milano, Sala, si è sfilato dal mazzo dei sostenitori della ragioniera napoletana. Ha rimandato la riunione del Consiglio “in attesa che vengano esaminate altre autorevoli candidature”. Se la Purchia non passasse, sarebbe una tremenda cattiva figura per lei (che a quel punto diventerebbe impresentabile e politicamente morta) e per i suoi dante causa.

Dal ministro Franceschini non mi attendo nulla; ma il segretario generale del ministero, Salvo Nastasi, è un uomo intelligente e spregiudicato: sono certo che in cor suo l’abbia abbandonata al suo destino, e che presto lo farà pubblicamente. Una sconfitta alla Purchia passi, ma non una sconfitta personale. A questo punto mi auguro sia per valere il detto “Ognuno per sé e Dio per tutti”!

 

 

Comunione e liberazione: il peggior cattolicesimo

“Anima persa” del cattolicesimo italiano, tra l’inizio e la fine della Chiesa di Karol Wojtyla, Comunione e Liberazione è stata una vera e propria “testa di cuoio” del collateralismo religioso a favore del ventennio berlusconiano. Appoggiata, usata e incentivata soprattutto dalle scelte dell’allora presidente della Conferenza Episcopale Italiana, il cardinale Camillo Ruini, in una commistione tra il Vangelo e gli interessi politici e affaristici degli “atei devoti”.

Eppure, che cosa fosse Cl, e che cosa fosse in particolare il suo Movimento Popolare, era ben chiaro già negli anni 70 e 80 sia al laicato cattolico sia ad alcune gerarchie della Chiesa italiana che, dopo il Concilio Vaticano II, avevano dato il via a una riflessione sulla necessità di un rinnovamento del ruolo dei credenti nella politica, a cominciare dalla “scelta religiosa” dell’Azione Cattolica sotto la guida di Vittorio Bachelet.

C’è un episodio, tenuto perlopiù nascosto dalla pubblicistica (e divulgato unicamente da siti stranieri, mai però smentiti) che risale al 13 aprile 1980 e alla prima visita di Giovanni Paolo II a Torino, nei giorni del terrorismo delle Brigate Rosse. Cardinale della città era Padre Anastasio Ballestrero, un carmelitano scalzo che, nel 1975, era stato eletto presidente della Cei. Forse l’oppositore più strenuo della volontà di Wojtyla di dare pieno riconoscimento ecclesiale a Cl. Quella domenica, dopo la messa, lui e il papa si incontrarono nella sagrestia. Unico testimone fu padre Giuseppe Caviglia, anche lui un carmelitano scalzo e segretario di Ballestrero, che poi mantenne per molti anni la riservatezza su quanto ascoltò. Le ricostruzioni raccontano di una domanda aspra del papa, “Eminenza, perché lei è così ostile a Comunione e Liberazione?”, e di una risposta altrettanto esplicita: “Santità, lo capirà quando si sarà accorto che è la parte peggiore del cattolicesimo italiano”. Parole profetiche, rileggendo gli ultimi 40 anni di storia del nostro Paese. Parole, però, non ascoltate. Poco dopo, infatti, il riconoscimento a Cl arrivò assieme alla grande occasione per Ruini e per il suo modo di intendere “il ruolo dei cattolici nella politica italiana”. Come ha scritto Alberto Melloni: “Ruini intuisce che, nel venir meno della credibilità dei partiti e nel disfarsi del tessuto della rappresentanza politica, lui ha una grandissima chance”. I giornalisti e gli intellettuali ciellini serviranno poi, come una clava, per abbattere qualsiasi altra voce cattolica di dissenso: bollata con le accuse quasi eretiche di “relativismo” o addirittura di “gnosticismo”.

Il ruolo di Comunione e Liberazione in quell’arco di tempo avrà il suo occaso e il suo tramonto nella parabola di Roberto Formigoni, l’enfant prodige della creatura di don Luigi Giussani: fondatore e presidente del Movimento Popolare, parlamentare prima della Dc e poi delle sue varie frammentazioni, fino ad approdare nella galassia del Partito delle Libertà di Silvio Berlusconi. Il “Celeste” che viveva con i “memores domini”, ma che da presidente della Regione Lombardia è finito in carcere ed è stato condannato a 5 anni e sei mesi: i pm del processo di primo grado parlarono di lui come “il capo di un gruppo criminale”. Un terremoto per la credibilità di Cl e di tutte le sue diramazioni (e a discapito di migliaia di militanti e credenti), compresa la Compagnia delle Opere: il suo braccio economico. Un potere politico (ma sorretto dalla religione) che, in Lombardia, ha conquistato, assieme alla Lega, una sanità pubblica sempre più spostata verso i privati, nel nome della “sussidiarietà” (quella stessa sanità disastrata dell’emergenza Covid-19) e, in Italia, quasi il monopolio delle mense scolastiche e universitarie.

Una difficoltà rivelata finalmente, negli ultimi anni, da un imbarazzato silenzio mediatico attorno al movimento, nonostante il perdurare di certe attenzioni e, soprattutto, di certe autocensure, persino nei giornali di sinistra. Una prudenza che aveva coinvolto anche il Meeting di Rimini, per due decenni vera e proprio talk show dal vivo della politica estiva, soprattutto in chiave berlusconiana. Sino a qualche giorno fa, però, quando con l’annuncio dell’edizione 2020, è stato anche svelato che sarà Mario Draghi a inaugurarla. Presentato così da Bernhard Scholz, il presidente tedesco della manifestazione: “È importante ascoltare persone che hanno saputo prendere decisioni coraggiose e di grande competenza in momenti storici di difficoltà”; parole subito seguite da un ragionamento politico: “Se si vuole parlare di un governo di unità nazionale, occorre prima di tutto superare il clima di continua campagna elettorale”. Qualcosa che di certo avviene a insaputa di Draghi, ma che svela ancora una volta il vizio irrefrenabile della “parte peggiore del cattolicesimo italiano”.

 

Almirante-BerlinguerDue nemici riappacificati per una lotta comune

Gentile Antonio Padellaro, mi è piaciuto molto l’articolo “Almirante-Berlinguer”, in cui scrive: “Nel libro Il Gesto di Almirante e Berlinguer proponevo di dedicare una piazza alla battaglia comune condotta contro il terrorismo degli anni piombo da entrambi i leader politici”. L’ho apprezzato perché in esso ho visto rispecchiata la mia convinzione circa la necessità di “rifondare” su basi serie e senza pregiudizi la discussione politica tra avversari per il bene del Paese. La Resistenza all’ex amico tedesco iniziò nel settembre 1943 e terminò nel 1945. Da allora, però, non è ancora finita la guerra civile, tra democratici e fascisti, iniziata pure nel settembre 1943. Secondo me, il problema che “blocca” una corretta dialettica politica, in Italia, è proprio questo. Non avremo mai un Paese unito in ambito sociale, politico, economico, culturale, finanziario, se prima non firmeremo una pace condivisa.

Mario Rosario Celotto

Le confesso la mia perplessità in merito a quanto da lei sostenuto. lo, berlingueriano fin da ragazzo, ricordo la sorpresa quasi incredula quando Almirante venne in Botteghe Oscure a salutare il nostro segretario perché capimmo la portata dell’evento. Ma, detto questo, dedicare una piazza a un fascista mai pentito, che fu collaboratore di Mezzasoma nel sottoscrivere decreti che prevedevano la fucilazione di partigiani, uno che firmò gli infami decreti razziali, che fu responsabile della vergognosa rivista La difesa della razza, credo sia un gravissimo errore politico, ma anche di mancanza di rispetto verso chi subì fino alle estreme conseguenze le decisioni di quell’uomo.

Andrea Cavala

Fare di Almirante un padre della patria, che si è distinto nella lotta contro il terrorismo stragista di quegli anni, è francamente un falso storico. Mentre nessun esponente del Pci venne associato neanche lontanamente ai crimini degli anni di piombo, alcuni esponenti di primo piano del Msi non furono estranei alla strategia della tensione. Il senatore del Msi M. Tedeschi risulta coinvolto come depistatore mediatico della strage di Bologna. Lo stesso Almirante venne incriminato per favoreggiamento aggravato verso i terroristi della strage di Peteano in cui morirono tre carabinieri. Almirante e un avvocato friulano fecero pervenire al terrorista la somma di 35mila dollari perché si sottoponesse a un intervento alle corde vocali in modo che non venisse riconosciuta la sua voce nella telefonata fatta ai carabinieri per attirarli nella trappola. Entrambi vennero incriminati per favoreggiamento aggravato verso i terroristi, ma soltanto il secondo fu condannato, mentre il leader del Msi si avvalse dell’immunità parlamentare e poi dell’amnistia.

Maurizio Burattini

 

Potrei cavarmela con le giuste osservazioni di Maria Rosaria Celotto sul tema della “riappacificazione” necessaria tra gli italiani e su chi, invece, non la vuole, anche (e soprattutto) per motivi politici strumentali. Non è certamente il caso delle lettere di Andrea e Maurizio, che esprimono compiutamente il disagio per l’accostamento tra la figura di Enrico Berlinguer e quella del fascista e repubblichino Giorgio Almirante. Eppure i loro contatti ci furono, e sono stati accertati grazie a testimonianze dirette. Berlinguer, insomma, non esitò a parlare col “nemico” per un interesse superiore come la lotta al terrorismo. E viceversa. Se dunque i diretti interessati seppero superare ostilità e prevenzioni, chi siamo noi per ribadire quelle stesse ostilità e prevenzioni?

Antonio Padellaro

Mail box

Napoli: la violenza è imperdonabile

Ho visto in televisione le immagini dell’aggressione al carabiniere nel Napoletano. Sono rimasto disgustato. I miei primi sentimenti sono stati rabbia e vendetta. Sì, perché la violenza che hanno messo in atto è inaudita. Gli aggressori vivono in un mondo dove la violenza è l’unico modo per vivere e operare. Capiscono solo la legge del più forte. Non hanno rispetto per nessuno, figuriamoci per un uomo delle Istituzioni, servitore dello Stato. Immaginate la moglie che ha assistito da vicino a quanto accaduto o un padre, una madre, un fratello o semplicemente un amico, che sentimenti abbia potuto provare vedendo tutto ciò. Non si può perdonare questo tipo di violenza. Oggi, fortunatamente, non piangiamo un bravo carabiniere che ha sentito forte il dovere di separarsi dalla moglie per fermare una rissa.

Angelo Faccilongo

 

Le “Questioni comiche” di Luttazzi sono preziose

L’articolo del preziosissimo Luttazzi in Radar, Questioni comiche, mi ha letteralmente esaltato tanto da rileggerlo due volte. In mezzo al mare di rifiuti della stampa italiana, l’ho trovato un vero elisir per la mente. Complimenti a Luttazzi e a chi ha avuto il coraggio di restituirgli voce. Questa è la profonda ragione per la quale mi identifico nella visione del Fatto a cui sono fedele dal settembre del 2009. Un enorme grazie, profondo e sincero.

Roberto Ciucci

 

Dov’è finita la gratitudine a medici e infermieri?

Finita l’emergenza medici e infermieri sono tornati “invisibili”. Dopo la retorica degli angeli e degli eroi in corsia, nessuno più parla dei loro sacrifici e del loro impegno durante l’emergenza. Tante promesse ma nessuna gratificazione o riconoscimento alcuno per aver rischiato la loro vita per salvare quella degli altri.

Gabriele Salini

 

Se devi vendemmiare, nessuna quarantena

È verissimo quello che scrive Selvaggia Lucarelli. La Lega ha una visone asimmetrica degli immigrati. In Franciacorta, per esempio, per poter vendemmiare subito, rumeni e bulgari non rispettano la quarantena. Le imprese non devono, ovviamente, perdere tempo e soldi, come si evince da quello che scrivono sul sito della Regione Lombardia. Per cui: tamponi non obbligatori, Dpi e controlli febbrili a carico aziendale, medico del lavoro a disposizione.

Bruno Maffioli

 

Perché Di Maio andrà al meeting di Rimini?

Ha attratto la mia attenzione l’articolo di Lorenzo Giarelli riguardo ai personaggi che hanno dato la propria adesione al meeting di Comunione e Liberazione che si terrà prossimamente a Rimini. Dalla struttura degli argomenti e dalle persone aderenti parrebbe proprio l’investitura per un governo trasversale (chiamiamolo delle mega intese) capitanato dal professor Mario Draghi, attualmente in astinenza da potere (ma non potrebbe dedicarsi all’insegnamento universitario o alla cultura nell’ambito della Santa Sede?) e di cui farebbero parte un pezzo del PD (vedi Delrio, Gualtieri, Paola De Micheli), Italia Viva, Forza Italia, qualche pezzo di Lega (Giorgetti non manca mai all’appuntamento) e la Meloni. In questo contesto, preoccupante però è l’adesione di Luigi Di Maio, capo politico de facto di una forza che ha sempre osteggiato Comunione e Liberazione (Grillo l’aveva definita Corruzione e Lottizzazione). Ricordando il buon Mattia Fantinati del 2015, in questo modo questa associazione (chiamiamola così!) viene fortemente legittimata (è quello che vogliono), ricollocandosi quindi in ascesa nel quadro politico, superando quell’impasse a cui era stata costretta in questi anni. Purtroppo, in questo contesto, Di Maio svolge la parte dell’utile pedina per il raggiungimento dello scopo (non religioso) “Visibilità C.L.”, a meno che il suddetto elemento abbia altre ambizioni che vanno al di là dell’appartenenza al Movimento 5 Stelle. Nella vita tutto può accadere, le sirene cantano forte.

Marco Olla

Dieudonné “bannato” da Facebook: il razzismo non è satira, ma reato

Ieri Facebook e Instagram hanno espulso dalle loro piattaforme il comico francese Dieudonné per l’uso di termini offensivi e disumanizzanti contro gli ebrei e le vittime della Shoah; due mesi fa, Google gli ha chiuso il canale Youtube. Dieudonné, un tempo alfiere di temi anti-razzisti, da un decennio abusa della libertà di espressione per fare monologhi razzisti e antisemiti; e, come tutti i razzisti, quando cercano giustamente di impedirglielo si atteggia a vittima della repressione o parla di censura.

Per commentare l’arresto dell’ideologo anti-semita Alain Soral, suo amico, è arrivato a strumentalizzare una frase di Gandhi: “È più facile credere a ciò che ci viene detto ufficialmente che avventurarsi nell’indipendenza intellettuale. In realtà, non l’opposizione, ma il conformismo e l’inerzia sono sempre stati gli ostacoli più gravi all’evoluzione della coscienza”. Dieudonné si serve di questa frase come di un fumogeno: in una democrazia, l’indipendenza intellettuale non comprende la libertà di razzismo. Il razzismo non è un diritto, è un reato (nel 2015, Dieudonné fu condannato in Belgio a due mesi di carcere per incitamento all’odio razziale, e due volte a Parigi per antisemitismo).

Come orientarsi per esprimere un giudizio ponderato, in casi simili? Nella comicità trasgressiva, l’opinabile è compreso fra i poli del gradiente satira > cinismo > fare il cazzaro > fare lo stronzo > sfottò fascistoide (deridere vittime vere di carnefici veri: il giudizio su questa attività dipende dalla propria ideologia). Subito dopo, c’è il razzismo manifesto, che non è più un’opinione “anticonformista”, ma un reato. Sempre nel 2015, Dieudonné commentò gli attentati di Parigi (rivendicati dall’Isis) con lo slogan “Je suis Charlie Coulibaly”, che perculava lo slogan di solidarietà a Charlie Hebdo aggiungendovi il cognome del terrorista che aveva ucciso quattro persone di religione ebraica in un supermercato kosher di Parigi. Dieudonné è pure l’orgoglioso inventore della quenelle, una sorta di saluto nazista verso il basso che è stato adottato da diversi movimenti antisemiti, e sfoggiato pure da Jean-Marie Le Pen (padrino di battesimo di una figlia di Dieudonné).

Purtroppo, la modalità di funzionamento degli algoritmi dei social favoriscono hate speech e razzismo, e infatti Dieudonné aveva più di un milione di follower su Facebook; ma hate speech e razzismo hanno conseguenze gravi, e non possono essere tollerati: adesso che pure i grandi sponsor non vogliono più essere associati a siti tossici, finalmente i social cominciano a prendere provvedimenti nobili. Dieudonné twitta che continuerà su Telegram. Di fronte a casi come il suo, brillano in tutta la loro pochezza le affermazioni di certi giovani comici nostrani, secondo cui la soluzione a chi si offende per la satira è “non ti offendere, ridi!”. Ogni apologia della violenza, anche indiretta, si pone fuori dal campo della comunicazione e obbliga l’interlocutore a subire provocazione e sopraffazione. In questi frangenti, offendersi è il minimo. Tanto è vero che, secondo il codice penale, è un’attenuante “l’aver agito in stato d’ira, determinato da un fatto ingiusto altrui”. Ma loro, beati, si vantano di fare satira “post-impegnata”, cioè priva di una matrice ideologica: gli sfugge che anche il disimpegno ne ha una. Forse credono sia un lusso che possono permettersi. Auguri.

 

Sulla spiaggia, tra Cassese e sbarramento

Reduce da una domenica estiva trascorsa su una spiaggia del litorale, ho preso qualche appunto su ciò di cui parlano gli italiani, cosa li appassiona e perché.

Vicino di ombrellone: “Mi perdoni, so che lei è un giornalista e vorrei sentire il suo parere, ma l’obbligo di mascherina e le regole sul distanziamento sociale, che come vede qui tutti rispettiamo, mi costringe ad alzare un po’ la voce, posso?”. Dica pure. “Con gli amici del chiosco della grattachecca sono giorni che discutiamo animatamente di legge elettorale, come del resto avviene in tutto il Paese. C’è chi si schiera con il maggioritario e chi con il proporzionale che Renzi sta picconando contro Bettini e Di Maio. Elettrizzante, altro che le finali di Champions League”.

Signora intenta a scodellare un fumante timballo di maccheroni: “Che dice faranno anche lo sbarramento al cinque per cento?”. Interviene Rocco il bagnino, che nell’esercizio delle sue funzioni sta sequestrando un pallone per evitare gli assembramenti da partitella: “Scusate se m’intrometto, ma sono discorsi inutili se prima non si fanno le riforme, sblocco delle opere pubbliche, digitalizzazione, nuove assunzioni, regolamento per gli appalti, come giustamente dice il professor Cassese”.

Bagnante appena uscito dai flutti: “See

altro che Cassese, io sto con il professor Ainis che ha ragione da vendere quando dice che il virus della ‘decretite’ ha infettato il nostro ordinamento”.

Bagnino (in tono minaccioso): “Lei parla come un negazionista, vuole per caso attaccare briga?”. Vicino d’ombrellone: “Calma signori calma, la nazione ha bisogno di concordia per addivenire rapidamente alla modernizzazione delle istituzioni contro ogni conservatorismo”.

Ma ormai si è formato un capannello dove si alterca tra i pro e i contro il referendum sul taglio dei parlamentari. Prima, però, di menare le mani, esse vengono asperse con ampie dosi di gel disinfettante, come da protocollo.

E i furbastri della “cassa” avranno pure il regalino

Il cosiddetto “decreto Agosto” dovrebbe essere in procinto di andare in Consiglio dei ministri: “Speriamo questa settimana e di pubblicarlo subito in Gazzetta Ufficiale”, ha detto il viceministro Pd all’Economia, Antonio Misiani. Si tratta del terzo decreto anti-crisi della serie iniziata a marzo: vale 25 miliardi di maggior deficit, il che porta gli interventi in disavanzo durante l’emergenza Covid-19 a circa 100 miliardi totali.

La gran parte dei nuovi interventi si concentrerà sul lavoro e quel che qui interessa è che la maggioranza, oltre a tutto il resto, continua a discutere sui due punti più qualificanti del provvedimento: la proroga del blocco dei licenziamenti fino a fine anno e quella della cassa integrazione “Covid”, due cose che vanno necessariamente insieme. C’è un bel pezzo del Pd, oltre ovviamente ai renziani, a cui non piacciono le due misure e, sorprendentemente, è sulla seconda che c’è la battaglia politica più consistente a difesa di quelli che chiameremo “i furbetti della Cig”. Una battaglia non attenuata nemmeno dal fatto che in quel testo a lorsignori viene fatto pure un nuovo regalo.

Per capire, bisogna entrare nei dettagli: come si ricorderà, tanto l’Ufficio parlamentare di bilancio che uno studio Inps-Bankitalia hanno evidenziato come una percentuale significativa di imprese (una su quattro o addirittura una su tre) ha usufruito della Cassa integrazione guadagni nelle sue varie forme pur non avendo avuto cali significativi del fatturato: in sé una cosa sgradevole ma legale, anche se – va detto – è possibile, ma statisticamente assai improbabile in queste dimensioni, non aver subito contraccolpi nei ricavi avendo lasciato i propri dipendenti a casa (il che comporta che in molti hanno lavorato pur essendo in Cassa integrazione).

Un bel trasferimento di ricchezza dalla fiscalità generale a imprese che non ne avevano bisogno (2,7 miliardi secondo le prime stime), questo mentre i redditi dei lavoratori in Cig calavano in media del 27% (sempre Inps-Bankitalia). Ieri ilfattoquotidiano.it ha pubblicato – anonimamente – alcune storie di dipendenti costretti a lavorare dalla cassa integrazione e, nel colonnino qui accanto, vi chiediamo di raccontarci anche la vostra: non sono solo i piccoli truffatori del Reddito di cittadinanza a meritarsi l’onore delle cronache.

Tornando al decreto a venire, per evitare che anche le prossime 18 settimane di Cassa integrazione finiscano in discreta parte a imprese che non ne hanno bisogno, il governo sta valutando una certa selettività all’ingresso: è previsto infatti un “contributo” a carico di quelle aziende che chiedano la Cig senza avere avuto perdite superiori al 20% del fatturato.

Una previsione quest’ultima che non piace, come detto, a un pezzo di maggioranza (vedi l’intervista di ieri del deputato-economista dem Tommaso Nannicini, contrario anche a prolungare il blocco dei licenziamenti), a non dire dei lamenti di Confindustria. Non basta – ai non ingenui cantori delle virtù dell’industriale novello Atlante assediato dallo Stato corrotto – nemmeno l’ulteriore “aiutino” inserito nelle bozze del decreto anche per i furbetti di cui sopra: sconti fiscali per chiunque riporti i dipendenti al lavoro, senza riferimenti a cali di fatturato.

In sostanza, lo Stato ha pagato lo stipendio anche ai dipendenti di aziende che non hanno subito danni dal coronavirus e ora le pagherà per far tornare quegli stessi dipendenti al lavoro. Altri sgravi, anche se storicamente hanno funzionato molto poco pur costando moltissimo, saranno concessi a chi aumenterà l’occupazione rispetto al periodo pre-Covid.