Gantz-Bibi: scontro sulla democrazia

È difficile capire cosa tiene insieme il governo israeliano se non l’emergenza del coronavirus che, nonostante le rassicurazioni, continua a dilagare ponendo Israele all’ottavo posto nel mondo per contagi. L’ultima riunione di governo si è chiusa con un nuovo scontro al calor bianco, l’ennesimo, fra il premier Benjamin Netanyahu e il premier “supplente” e ministro della Difesa Benny Gantz. Da giugno vanno avanti le manifestazioni di piazza contro Netanyahu per la sua incapacità di far fronte alla pandemia, per tutti gli escamotage che sta cercando per evitare i 3 processi che l’attendono dal prossimo gennaio, per la crisi economica che ha messo in ginocchio il Paese. Erano qualche centinaio qualche settimana fa agli incroci stradali, adesso sono migliaia, decine di migliaia.

Senza un leader, senza un partito alle spalle. Semplici cittadini. Eppure secondo il premier “calpestano la democrazia e nessuno limita le manifestazioni, al contrario trovano complicità”. E poi ha aggiunto Netanyahu – senza fornire prove – “che le manifestazioni sono un incubatore del Coronavirus”. Gantz – leader di Kahol Lavan – ha replicato duramente che invece la gente ha diritto di manifestare e che anzi deve essere protetta”. “Il diritto di manifestare è la linfa vitale della democrazia”, ha detto ancora Gantz, “e chi protesta va protetto dai provocatori che li attaccano”, facendo riferimento ai raid degli squadristi della tifoseria del team calcistico Beitar Jerusalem, guidata dal famigerato gruppo razzista-mafioso noto come “La Familia”, tutti supporter del primo ministro.

L’ultima manifestazione contro Netanyahu, sabato sera davanti alla residenza del premier a Gerusalemme in Balfour Street, ha raccolto oltre 10mila manifestanti e si è svolta in maniera pacifica, la polizia ha fermato 12 persone che al termine della protesta rifiutavano di lasciare la piazza. Netanyahu ha anche accusato il ministro della Pubblica Sicurezza Amir Ohana di non fare abbastanza per arginare queste manifestazioni che si sono svolte anche davanti alla sua residenza estiva a Cesarea, sulla costa a nord di Tel Aviv. Gli attacchi contro giornali e tv sono il leit motiv di Bibi, specie i due network tv Canale 12 e Canale 13, che “forniscono la propaganda per le manifestazioni anarchiche di sinistra, fanno il lavaggio del cervello al pubblico per far cadere un forte premier di destra”. Netanyahu non è certo il tipo che si fa intimidire dalle proteste, ma anche la folla in piazza è determinata a chiedere le sue dimissioni.

Frode bancaria: Trump indagato per i suoi affari

Era il segreto peggio custodito di Manhattan, che il procuratore generale Cyrus R. Vance jr stesse indagando sul presidente Trump e la sua azienda. Ed era scontato che il magnate non si sarebbe arreso neppure al verdetto della Corte Suprema pronunciato un mese fa e avrebbe cercato in ogni modo di continuare a non rendere pubbliche le sue dichiarazioni dei redditi o, almeno, di rinviare l’ora della verità a dopo l’Election Day, il 3 novembre. Le due verità sono venute a galla e si sono intrecciate ieri: il procuratore Vance ha inviato alla Corte, cui i legali di Trump hanno presentato l’ennesimo ricorso dilatorio, le motivazioni della richiesta di documentazione fiscale personale e aziendale degli ultimi otto anni.

Dalla nota del procuratore, si ricava – scrivono i media Usa che vi hanno avuto accesso – che la magistratura newyorchese sta indagando Trump & C. per frode bancaria e assicurativa. Gli sviluppi giuridici colgono Trump in un momento già difficile su più fronti: è indietro nei sondaggi sul suo rivale Joe Biden, candidato democratico alla Casa Bianca; deve affrontare l’epidemia di coronavirus, che a giorni avrà contagiato cinque milioni di persone negli Stati Uniti e ne ha già uccise ben oltre 150mila; e deve provare a rilanciare l’economia, che vive una crisi peggiore della Grande depressione degli anni Trenta.

Nella sua nota, Vance non precisa quale sia il nucleo della sua indagine, ma scrive che “incontrovertibili” notizie di stampa dello scorso anno indicano che la procura ha una base legale per chiedere quei documenti. Gli articoli in questione ipotizzavano che il magnate abbia illecitamente gonfiato le sue ricchezze e il valore delle sue proprietà agli occhi di banche e assicurazioni. L’alternativa è che Trump abbia mentito al fisco, sottovalutando i suoi beni. O l’una o l’altra, per il presidente sono guai. Fin dalla campagna elettorale 2016, l’allora candidato Donald Trump si rifiutò di rendere pubbliche le sue dichiarazioni fiscali, sostenendo che erano oggetto d’un contenzioso con l’Amministrazione: l’avrebbe fatto a contenzioso appianato – il che, a suo dire, non è ancora avvenuto –. I legali di Trump chiedono al tribunale di dichiarare non valida la richiesta della procura, o almeno di ridimensionarne la portata (meno documenti per meno anni). E ciò nonostante la Corte Suprema abbia sostanzialmente avallato il diritto dei magistrati inquirenti di chiedere e ottenere i documenti in oggetto.

Le dichiarazioni fiscali del magnate presidente sono una delle incognite di questa campagna che, giunta a tre mesi esatti dal voto, è ancora potenzialmente ricca di sorprese: Biden deve svelare – questioni di giorni, forse di ore – la scelta della sua vice; Trump può giocare la carta degli stimoli all’economia – il Congresso ne sta discutendo – e può sempre azzardare “distrazioni di massa”, e c’è sempre l’alea della “sorpresa d’ottobre” che cambia le carte in tavola e che quest’anno potrebbe essere il vaccino anti-coronavirus.

Il tempo per una rimonta stringe, perché già fra un mese si aprirà il voto per corrispondenza o anticipato – si comincerà dalla North Carolina, proprio il 4 settembre –. Trump ha già ventilato un rinvio dell’Election Day e vuole citare in giustizia gli Stati che privilegiano il voto per posta – a cominciare dal Nevada –. Potrebbe rispondere alle provocazioni politiche dell’opposizione aprendo un’inchiesta su Biden, troppo “morbido” con Cina e Ucraina. Ma l’iniziativa del procuratore Vance lo costringe sulla difensiva giudiziaria, piuttosto che all’offensiva politica.

Il sistema Maxwell: la villa di Clinton e le notti di Andrea

Il Metropolitan Detention Centre di Brooklyn è “noto” per essere una prigione infernale, mal finanziata, con poche guardie e poco personale. In quest’inferno Ghislaine Maxwell, presunta procacciatrice di ragazzine per i piaceri sessuali di Jeffrey Epstein, è rinchiusa dal giorno del suo arresto, il 2 luglio, con accuse che vanno dall’adescamento di minori a fini sessuali all’associazione a delinquere. Ci è finita dritta dal paradiso, la villa del New Hampshire dove si nascondeva dal suicidio di Epstein e che, si è scoperto in seguito, pur dichiarandosi nullatenente, ha acquistato di recente per un milione di dollari. La buona notizia per lei, l’unica, è che un tribunale statunitense ha accolto la sua richiesta di bloccare, almeno fino a settembre, l’imminente pubblicazione di documenti “molto indiscreti’ sulla sua vita sessuale. Non è una vittoria di Pirro: le attività sessuali di Ghislaine con Epstein, già ex fidanzato, sarebbero rilevanti per dimostrare il suo coinvolgimento nel reclutamento e addestramento delle decine di donne, ai tempi minorenni, che oggi la accusano di averle adescate. Il resto le sta franando intorno. Altri documenti, già resi noti e risalenti a un processo per diffamazione del 2016, descrivono nei dettagli il “sistema Maxwell-Epstein”. Una bomba che fa tremare ricchi e potenti, nomi di vip registrati nel famigerato libro nero di Epstein, e sembra solo la punta dell’iceberg.

Rivelazioni che entrano nei dettagli del presunto coinvolgimento, fra gli altri, del principe Andrea e dell’ex presidente Usa, Bill Clinton. Clinton ha cercato di prendere le distanze dal caso, ma dal processo emerge una storia diversa. Frequentava regolarmente Epstein; avrebbe viaggiato sul suo jet privato in almeno 17 occasioni con giovanissime e, circostanza molto compromettente, sarebbe il proprietario di una villa nell’isola caraibica di St James’, feudo di Epstein e già ribattezzata PaedoIsland, l’isola dei pedofili, dove Epstein abusava delle giovanissime o le “metteva a disposizione” di amici facoltosi e senza scrupoli con lo scopo di ricattarli.

La principale accusatrice del sistema Epstein-Maxwell, Virginia Giuffre, ricorda di aver visto Clinton sull’isola, dove si sarebbero tenute orge durate giorni. Lui nega di averci mai messo piede. E sempre la Giuffre ha rivelato per prima il coinvolgimento del principe Andrea, con cui sarebbe stata indotta da Ghislaine ad avere rapporti sessuali quando era ancora minorenne, prima nella casa della Maxwell a Londra e poi nel ranch messicano di Epstein, per un intero weekend, in cambio di 1.000 dollari generosamente offerti da Jeffrey. Circostanze sempre negate da Andrea: ma, sempre che la Giuffre dica la verità, il rapporto del principe con il duo al centro degli abusi appare molto più profondo di quanto sostenuto finora. Sarebbe stato il terzogenito della regina Elisabetta a introdurre Ghislaine nell’alta società newyorchese nei primi anni 90, quando, dopo la morte sospetta del padre, il magnate Robert Maxwell, lei aveva deciso di allontanarsi da Londra. Lui a chiedere clemenza per l’amico Jeffrey ai pubblici ministeri della Florida in un caso di abusi su una 14enne nel 2007, finito con una condanna. Ed emergono anche possibili tentativi di insabbiamento: secondo un ex ufficiale della Guardia Reale, i turni delle guardie del corpo di Andrea, indispensabili all’Fbi per ricostruire i suoi spostamenti nelle date (siamo nel 2001), che lo potrebbero compromettere, sarebbero stati distrutti dopo soli 2 anni.

Da Palm Beach al suicidio: ecco chi era l’amico dell’élite

Jeffrey Edward Epstein: miliardario, criminale, suicida. Pedofilo e abile manipolatore di ragazze giovanissime divenute sue “schiave sessuali” secondo gli inquirenti. I problemi del magnate con la giustizia cominciano nel 2005, quando la polizia di Palm Beach in Florida – dove l’imprenditore aveva una delle sue innumerevoli residenze –, comincia a investigare dopo una denuncia di molestia sessuale su minore. Nel 2008 Epstein si dichiara colpevole per istigazione alla prostituzione, sconta 13 mesi di custodia domiciliare. Nella prima indagine che lo riguarda i federali riescono a raggiungere 36 minorenni violate dal moghul, nella seconda il numero di vittime aumenterà a dismisura, fino a raggiungere le centinaia. Nel 2019, con l’accusa di traffico di minori, Epstein finisce in manette. Nello scandalo rimangono coinvolti membri dell’élite politica americana e internazionale: tra loro ci sono Bill Clinton, Donald Trump, il principe Andrea. Viene accertato il coinvolgimento negli abusi della sua fidanzata, Ghislaine Maxwell, adesso sotto processo per aver preso parte a traffici e perversioni del compagno. La storia del finanziere nato a New York nel 1953, la stessa città dove è stato trovato impiccato misteriosamente in una cella del Metropolitan Correctional Center nel 2019, rimane fitta di enigmi: gli stessi che circondano foto e video con cui Epstein avrebbe ricattato politici e imprenditori che partecipavano alle sue feste, uomini potenti a cui forniva in pasto ragazze giovanissime.

“Io, in fuga dall’fbi per i file su Epstein”

John Mark Dougan, nome in codice da whistleblower: “Bad wolf”, lupo cattivo. L’ex poliziotto americano coinvolto nel caso Epstein risponde al telefono dal suo esilio siberiano, nella Federazione russa che gli ha concesso asilo quando, ricercato per intercettazioni, è scappato dagli Stati Uniti sfuggendo agli agenti dell’Fbi. Racconta la sua versione rauca della storia del miliardario americano dalla siderale Irkuzk.

L’uomo che avrebbe fornito al Cremlino di Putin diversi file sugli abusi sessuali del principe Andrea è nato nel Delawere 43 anni fa, è cresciuto nel Colorado da “cowboy americano”, è figlio di un pilota d’aerei che conosceva bene i cieli della Colombia e solo nel 1984 smise di trasportare droga in Sudamerica. Questo l’inizio della bizzarra sorte di Dougan, che ha accumulato nella sua biografia un’inusitata quantità di dettagli straordinari, che lui giura siano tutti veri. Dopo pessimi voti a scuola, ma ottimi risultati in informatica, Dougan si arruola a 20 anni nei Marines. Quando molla l’esercito diventa programmatore informatico. Decide di abbandonare il monitor per la divisa, nel 2002 si arruola come ufficiale dello sceriffo della Contea di Palm Beach, Florida. Rimane operativo fino al 2009, quando decide di denunciare alcuni colleghi corrotti alla stampa locale: “Un gruppo di poliziotti picchiava membri delle minoranze etniche, li sbattevano in prigione con false accuse. L’ho riferito allo sceriffo Ric Bradshaw, che non ha fatto niente, allora ho parlato con il Palm Beach Post ed è stata aperta un’inchiesta”.

L’ufficio dello sceriffo Bradshaw non era quello che investigava su Epstein, ma “quello che si occupava della sua sorveglianza, lo facilitava mettendo di guardia uomini che si voltavano dall’altra parte quando il milionario volava a New York per abusare ragazzine”.

Dougan decide di lasciare le forze dell’ordine per diventare l’amministratore di un sito in cui i poliziotti come lui potevano denunciare “in maniera totalmente anonima” i colleghi coinvolti in casi di razzismo, corruzione, insabbiamenti, scandali, controversie. Diventa, nel tempo, proprietario di un deposito digitale di foto e video che “dimostrano l’eccessivo potere di alcuni poliziotti”. È l’attività per cui il suo vecchio dipartimento e poi l’Fbi cominciano a tenerlo sotto osservazione, quando lo identificano come Bad Wolf, il lupo cattivo.

Dougan decide di scappare dalla sua terra a stelle e strisce quando 45 agenti dell’Fbi fanno irruzione a casa sua per sequestrare hard disk e computer; “se fossi finito in galera, non mi avrebbero permesso di uscirne vivo”. Approda a Mosca dopo una fuga rocambolesca di tre settimane: scendendo e salendo da treni in corsa da un lato all’altro del Paese, si è travestito con una parrucca bionda di sua madre, si è finto fotografo per prendere un piccolo aereo e raggiungere il confine, ha simulato un infarto per atterrare, ha preso un bus verso Toronto. Dal Canada ha raggiunto la Russia che gli ha dato asilo. Dougan giura di aver fatto tutto questo da solo e a una domanda precisa, ripetuta tre volte, per tre volte risponde allo stesso modo: “Gli agenti hanno verificato la mia storia e hanno accordato l’asilo, non ho interazione con gli ufficiali russi, non conosco nessuno nel governo russo”.

Sul caso Epstein “tutti i giornalisti che mi hanno intervistato non hanno capito una cosa: non ero parte della squadra che investigava il miliardario, lo era Joseph Recarey, un poliziotto del dipartimento della polizia di Palm Beach, un’agenzia che collaborava spesso con la nostra. Recarey si fidava del mio silenzio, mi ha dato quei file per sicurezza quando l’ho incontrato nel 2010. Come lui hanno fatto molti suoi colleghi, mi hanno affidato i loro documenti, mi usavano come una cassetta di sicurezza”. Una cassaforte digitale di cui aveva fatto una copia che ha portato con sé in Russia e in cui ora conferma ci siano documenti sul tycoon: “Per quanto ne so i file su Epstein sono nel server, mi sono stati affidati da Recarey, ma non li ho mai guardati, io ero solo il deposito delle storie dei colleghi”. Nessuno può chiedere a Recarey se lo abbia fatto davvero: il poliziotto è morto a 50 anni “dopo una breve malattia”, riferisce il dipartimento. Il server che contiene i documenti di cui parla il “lupo cattivo” invece ha “una dimensione di quasi due tera, contiene molti documenti, circa 700 video, che ora si trovano a 8mila km di distanza da me”.

In quei documenti che dice di tenere criptati e secretati in vari server nel mondo – “alcune persone conoscono le localizzazioni, altre le chiavi per decriptarli” –, ci sarebbero, secondo ipotesi del servizio di intelligence britannico poi riportate dalla stampa inglese, prove contro il principe Andrea che Dougan avrebbe passato al Cremlino. Teoria però da Dougan smentita sulle pagine del Times di Londra: “Non ho mai dato i file ad agenti russi, né me li hanno mai chiesti”.

Per Dougan sono ovvie due informazioni. È certo che Epstein non si è suicidato: “Era più alto della sbarra del letto a cui è stato trovato impiccato, aveva vertebre rotte come se si fosse impiccato da un soffitto”. È certo che “i servizi segreti americani e forse anche il Mossad fossero a conoscenza dei suoi ricatti a uomini influenti, politici, membri dell’élite” e, invece di fermarlo, “abbiano cominciato a usarlo per i loro scopi. Non c’è altro motivo per cui Epstein non sia stato arrestato prima. Non sono un pazzo cospirazionista che crede che la Cia abbia abbattuto le Torri gemelle: credo solo che il miliardario abbia compiuto crimini enormi, ma l’intelligence ne stia coprendo di più gravi”.

“Lupo cattivo” non ha perso il pelo, lo ha solo ridipinto di colori nuovi: quelli del tricolore russo. L’America “ormai insana” che ha lasciato è la sua vecchia patria dove rischia una condanna a 95 anni di carcere, dice di trovarsi benissimo nella sua nuova casa, la Russia: “Adoro le persone, la natura, qui esistono davvero poche cose che non mi piacciono”. Non parla del suo amore per la Federazione solo in questa telefonata, ma spesso lo fa anche su RT, la tv del Cremlino, che gli ha dedicato un lungo documentario. Al telegiornale statale Dougan è intervenuto spesso per spiegare quanto bene sia stato curato dopo aver contratto il Covid-19. Forse il lupo cattivo è un ciarlatano mitomane, forse un prestigiatore digitale finito nelle pagine dei report dell’intelligence internazionale per sbaglio. Certo è un fatto: Mosca non ha mai concesso aiuto a nessuno senza avere nulla in cambio.

Il Nord contro Roma: “No al distanziamento”

È caos dopo l’ordinanza del ministro Speranza che ristabilisce il distanziamento a bordo sui treni per evitare il contagio da Covid. Regola che, peraltro, vale anche per i mezzi pubblici, che paiono invece sempre più affollati nelle grandi città.

La polemica esplode non solo per i treni ad alta velocità, ma anche per i regionali: riguardo a questi ultimi i viaggiatori sono confusi. In Piemonte, per esempio, si viaggiava a scacchiera per un certo periodo, poi la giunta Cirio aveva consentito di stare vicini, come in Liguria. Adesso le cose sono di nuovo cambiate e torna l’obbligo dello stare lontani. Il pendolare tipo che nel weekend viaggia tra le due Regioni non sa più come comportarsi. Nelle stazioni di Milano e Torino ieri mattina c’era ressa. Centinaia i viaggiatori risentiti perché avevano scoperto da poche ore che non ci sarebbe stato più posto, a causa delle nuove regole del governo che impongono che si viaggi lasciando sempre un posto libero a fianco.

Sono soprattutto i governatori del Centro-Nord a ribellarsi, facendo blocco comune contro Roma per bypassare il nuovo vincolo del 50%. A partire da Liguria e Lombardia, che ieri non avevano ancora revocato le ordinanze per il liberi tutti emanate venerdì. Sulla stessa linea anche il Piemonte, che non assicura di garantire quanto chiesto dal governo. “Ci faremo sentire affinché la situazione venga sanata”, afferma l’assessore regionale ai Trasporti, Marco Gabusi, che il 10 luglio aveva abolito il distanziamento sociale, anche se non era chiaro a tutti i piemontesi, che come gli altri passeggeri d’Italia non riescono più a stare dietro ai cambi di passo, nel disorientamento generale. La confusione regna anche all’interno delle singole regioni.

A Milano la società che gestisce bus e tram, Atm, è decisa a mantenere il distanziamento “in attesa di un chiarimento”. Regola che dovrebbe valere anche in Piemonte, dove però – perlomeno a Torino – resta irrealizzabile anche a causa dello stop, in alcune tratte, della metro. Anche il Nord-Est si mostra battagliero. “Non si capisce perché i lavoratori che stanno vicini con la mascherina al lavoro non possano fare lo stesso sui mezzi di trasporto”, tuona dal Veneto il governatore Luca Zaia. Gli fa eco Giovanni Toti dalla Liguria: “Il governo continua con una strada e una metodologia spiacevole”. Morale, ognuno fa di testa sua. La stretta non dovrebbe riguardare gli aerei, per i quali le regole rimarranno quelle attuali. “Il Comitato Tecnico Scientifico è a lavoro su questo e io ho espresso una posizione molto chiara”, ha detto il ministro della Salute Roberto Speranza.

Sui treni e gli altri mezzi pubblici lo scontro tra governo e Regioni è destinato a durare. E sono praticamente esauriti tutti i biglietti per i Frecciarossa in partenza da Milano per il Sud Italia nel prossimo fine settimana. Un giorno importante sarà mercoledì, quando il Comitato tecnico scientifico (Cts) incontrerà il ministro delle Infrastrutture Paola De Micheli per esaminare il nuovo protocollo dei trasporti. Si tornerà a parlare del distanziamento sui treni, dopo che gli esperti si sono schierati nei giorni scorsi contro un allentamento della disciplina di sicurezza.

Dalla Liguria a Torino, il far west dei treni regionali inizia all’alba

Andare dalla Liguria a Torino in treno è un’impresa ricca di incognite. Lo capisci poco dopo Finale Ligure, quando il treno sta per concludere la corsa a Savona e sale a bordo una coppia distinta. Lui e lei vengono fulminati con lo sguardo dai passeggeri: si sono seduti accanto a una signora nonostante i ben visibili cartelli rossi con su scritto “lasciare questo posto libero”. Tuttavia, fanno notare i nuovi arrivati, sui treni regionali non sarebbe più in vigore l’obbligo di lasciare libera una poltrona ogni due. E in effetti il treno è un regionale “veloce” partito da Ventimiglia prima dell’alba di lunedì. “Invece no, non vi dovete sedere lì”, tuona un’anziana, sostenendo che Piemonte e Liguria avrebbero le stesse regole: stare seduti a un metro di distanza gli uni dagli altri. Resterebbe invariata la formazione a scacchiera. Alla fine poco importa, perché non passa nessun controllore a chiarire la situazione e in ogni caso, alle 7.16, il treno arriva – per una volta puntuale – a Savona.

Chi è diretto a Torino è costretto a cambiare. Si precipita al binario 5, per prendere al volo un altro regionale veloce. La banchina è molto affollata. Ci sono uomini in giacca e cravatta che vanno al lavoro, anziani che rientrano in città dai luoghi di villeggiatura e molti ragazzi – anche minorenni – che hanno fatto “serata”. Tre sono ubriachi. Uno ha una collana di cartapesta in stile hawaiano. Paonazzi in volto, urlano e alitano in giro, provando a importunare una ragazza, che si salva perché c’è molta gente. Nessuno di loro ha la mascherina. Anche in stazione non si vedono controllori. Sono senza protezioni anche un ragazzo che fuma seduto su una panchina, un senza tetto e qualche sparuto pendolare che corre. Tutti ammassati, e ognuno fa come vuole. Nessuno vigila.

Il gruppo di adolescenti molesti era salito in treno alle 6.38 alla stazione di Ceriale (Savona). Anche qui erano stati visti tutti senza mascherina, birre in mano, a fianco di anziani in attesa. A Ceriale è impensabile vedere un controllore, così come un macchinista, un ferroviere semplice. Da anni hanno chiuso anche la biglietteria, che era molto utile, soprattutto per gli anziani, che potevano chiedere informazioni a un impiegato, mentre oggi sono costretti a farsi aiutare da altri per acquistare il biglietto alla macchina automatica. Un addetto delle Ferrovie in carne e ossa sarebbe stato ancor più necessario in questi giorni, in cui nessuno sa come viaggiare, se c’è posto, se potrà salire sul treno o se verrà respinto da un capotreno a bordo.

Racconta Stefania, 65 anni, torinese che ha la seconda casa a Ceriale: “Io non sapevo che adesso per prendere il treno fosse obbligatoria la prenotazione. Meno male che ieri me lo ha detto la mia vicina di ombrellone, così ho telefonato a Trenitalia e ho chiesto informazioni. Mi hanno risposto che la prenotazione del biglietto è sempre necessaria, ma che per chi, come me, è invalido e ha la tessera, ci sono dei posti riservati: meno male. Ho una visita medica importante prenotata martedì mattina. Certo che potevano anche avvisare però”. E se da Ceriale a Savona non si vede un controllore, lo stesso film da Savona a Torino. I vandali senza mascherina si siedono vicino a un anziano terrorizzato, che la mascherina la tira su più che può. Loro mettono le scarpe sui sedili, urlano, fanno branco. Nessuno osa dire nulla. Non passa nessuno. E nemmeno alla stazione di Porta Nuova si vede un addetto al controllo.

In compenso, in stazione ci sono decine di passeggeri inferociti perché hanno appena scoperto di non poter salire sui treni ad Alta velocità. Quando avevano prenotato non era obbligatorio il distanziamento a bordo – perlomeno in alcune tratte – adesso le norme sono (ri)cambiate. “Scopriamo oggi che dopo l’ordinanza del ministro Speranza i posti sono dimezzati”, tuona una donna, che aggiunge: “Mi è arrivato un messaggio che diceva che il Dpcm è cambiato, dal giorno alla notte”. “Io rischio di perdere i soldi – racconta una madre – non si può dirlo tre ore prima. Non sanno dirci nulla neppure per il rientro”.

“1,4 milioni di contatti con il virus” Sei volte in più dei contagi censiti

“Il dato, 2,5% di sieroprevalenza, può sembrare piccolo, ma può essere problematico: se incontro 20 persone in una giornata ho il 50% di possibilità di incontrare una persona positiva. Se lo faccio per 7 giorni ho la possibilità di incontrare mediamente 3,5 positivi”. Raccomanda prudenza Gian Carlo Blangiardi, presidente Istat, nel corso della presentazione dei risultati dell’indagine sul SarsCov2. I risultati della campagna per capire quante persone nel nostro Paese abbiano sviluppato gli anticorpi al nuovo coronavirus, anche in assenza di sintomi, sono relativi a 64.660 persone che hanno effettuato il prelievo dalla fine di maggio a luglio.

Un campione statisticamente importante, ma lontano dal bacino originariamente programmato di 150 mila soggetti. Sono un milione 482 mila le persone, il 2,5% della popolazione residente in famiglia, risultate con IgG positivo, che hanno cioè sviluppato gli anticorpi. Quelle che sono entrate in contatto con il virus sono dunque 6 volte di più rispetto al totale dei casi intercettati ufficialmente durante la pandemia attraverso l’identificazione dell’Rna virale. “Gli asintomatici arrivano al 27,3% che non è una quota bassa, per questo è molto importante la responsabilità individuale e il rispetto delle misure” – ha sottolineato la direttrice dell’Istat Linda Sabbadini – “i tre sintomi più diffusi sono febbre, tosse e mal di testa, ma la perdita del gusto e dell’olfatto sono più associate all’infezione”.

La prevalenza dello sviluppo di anticorpi al SarsCov2 non presenta differenze di genere ed è simile per tutte le classi di età: il livello più basso all’1,3% è per i bambini piccoli mentre per gli anziani è a 1,8%, segno, secondo gli analisti, di “un effetto di protezione dei familiari per questi segmenti”. Sebbene la trasmissione intrafamiliare sia molto elevata, se si adottano le misure di protezione il contagio non avviene, come accaduto per il 60% della popolazione che ha avuto familiari conviventi malati. Gli operatori della sanità sono i più colpiti, con il 9,8% mentre non emergono differenze sostanziali tra gli altri settori lavorativi, esclusi gli addetti alla ristorazione che superano il 4%. Prudente il ministro della Salute, Roberto Speranza: “Siamo fuori dalla tempesta, ma non siamo in un porto sicuro, a livello internazionale il momento è tra i più difficili e dobbiamo continuare a muoverci con cautela”.

Una lezione che sembra aver capito anche il leader della Lega Matteo Salvini, accusato di “negazionismo” dal premier Giuseppe Conte dopo le passerelle sulla riviera romagnola con selfie e strette di mano. “Quando è necessario, la mascherina si mette, nei luoghi chiusi, sui treni, ai giovani dico di rispettare la distanza, fate quello che la scienza chiede di fare”.

A colpire, all’interno dell’indagine, sono le differenze territoriali molto accentuate: la Lombardia raggiunge il massimo con il 7,5% di sieroprevalenza, ossia 7 volte il valore rilevato nelle regioni a più bassa diffusione soprattutto del Mezzogiorno. “Questi sono dati che indicano l’aver incontrato il virus e aver montato una risposta immunitaria, cosa ben diversa dal conferire un patentino di immunità rispetto a SarsCov-2” – ha sottolineato il presidente del Consiglio superiore di sanità (Css) Franco Locatelli specificando che “non è stato investigato in questo studio il contributo del sistema immunitario e non conosciamo l’effetto protettivo di questi anticorpi”. C’è una enorme variabilità anche intraregionale sui dati: 24% a Bergamo contro, ad esempio, Como e Lecco al 3-5%.

Cremona e Piacenza hanno un tasso superiore al 10%. Nelle ultime 24 ore i contagi da Covid sono stati 159, in ulteriore calo rispetto al giorno precedente (239). Aumentano però le vittime, 12 (domenica 8). I tamponi effettuati sono stati appena 24.036, quasi 20 mila in meno rispetto a ieri, con il consueto netto calo della domenica. Cinque regioni non fanno registrare nuovi casi: Marche, Friuli-Venezia Giulia, Calabria, Valle d’Aosta e Basilicata.

 

Sostegni: “Io testa di ferro in più casi per Manzoni”

“Non ho il piacere di conoscere questa persona e la Lega non c’entra”. Così ha riposto finora Matteo Salvini su Luca Sostegni, l’uomo arrestato su richiesta della Procura di Milano per l’inchiesta sulla Lombardia Film Commission, l’ente pubblico lombardo che ha acquistato per 800 mila euro un immobile a Cormano pagato solo 11 mesi prima 400 mila euro. Salvini dice dunque di non conoscere Sostegni, e descrive di conseguenza la vicenda come qualcosa di completamente slegato dal suo partito. L’ex ministro dell’Interno dimentica però alcuni particolari. Non solo il fatto che per la compravendita immobiliare di Cormano sono indagati – per peculato e turbativa d’asta – Alberto Di Rubba e Andrea Manzoni, scelti da Salvini stesso per gestire i soldi pubblici che ogni anno affluiscono nelle casse del gruppo Lega di Camera e Senato. Il leader del Carroccio omette anche di dire che c’è un legame stretto fra Manzoni e Sostegni.

Nelle carte della Procura di Milano, non c’è infatti solo la vicenda della Paloschi Srl, la società che aveva originariamente in pancia il capannone di Cormano, liquidata con centinaia di migliaia di euro di debiti nei confronti del fisco. Nell’interrogatorio reso davanti ai pm Eugenio Fusco e Stefano Civardi, Sostegni ha detto di aver fatto la “testa di paglia” anche in altre società per conto dei commercialisti della Lega. In particolare, Sostegni avrebbe detto di aver agito da prestanome di Manzoni nella New Quein Srl. Si tratta di un’azienda che fino a poco tempo fa era proprietaria della discoteca Queen Anghelus, una delle più conosciute dagli appassionati di balli latino-americani in provincia di Bergamo. “Sostegni è stato socio puramente figurativo e liquidatore della società in crisi New Quien Srl, (anch’essa) gravata di debiti tributari e previdenziali per oltre 460.000 euro”, si legge nelle carte della procura. L’ipotesi è che Manzoni fosse il socio occulto della discoteca. E che Sostegni gli sia servito per chiudere la società evitando la bancarotta e tutte le conseguenze del caso, visti i debiti accumulati con Inps e Agenzia delle Entrate. Insomma, un sistema per spolpare l’azienda e lasciare il cerino in mano allo Stato. Proprio come sarebbe avvenuto per la Paloschi. Di certo Sostegni è stato l’unico proprietario ufficiale della New Quien a partire dal giugno 2018 fino alla data della chiusura dell’azienda, avvenuta il 17 marzo 2020, in pieno lockdown. Non solo: Sostegni è stato anche liquidatore della società. Un incarico che gli è stato però revocato, a sua insaputa, in un’assemblea dei soci avvenuta nell’ottobre del 2019, quando Sostegni si trovava in Brasile. “La finalità di quella seduta assembleare – si legge nel decreto di fermo per Sostegni firmato dai magistrati milanesi – era quella di poter procedere celermente alla cancellazione della società dal registro delle imprese effettivamente avvenuta il 17/03/2020, in pieno lockdown e secondo il medesimo schema di evasione fiscale” contestato per la Paloschi.

All’accusa – tutta da dimostrare – di essere stato il prestanome di Manzoni nella gestione della discoteca Queen Anghelus, si aggiunge un fatto che collega direttamente il commercialista della Lega a Sostegni. Sono le visure camerali a dirlo. Per qualche mese, da giugno a dicembre del 2011, Manzoni è stato l’amministratore unico della Elle Esse Consulting Sas. Proprietario? Sostegni in persona. È lui l’uomo che sta facendo tremare la Lega. Un prestanome con parecchia esperienza: il registro delle imprese dice che nella sua storia ha avuto incarichi in 35 aziende. Quasi sempre come liquidatore.

Borghesi, l’uomo che sussurra ai contabili di Capitan Salvini

Martedì 14 luglio, ore 22. La mattina dopo, a Milano, la Guardia di finanza fermerà Luca Sostegni in procinto di scappare in Brasile. La Procura lombarda lo accuserà di essere un prestanome usato dai commercialisti della Lega, Andrea Manzoni e Alberto Di Rubba, per sottrarre alla Regione Lombardia 800mila euro attraverso la compravendita di un immobile a Cormano. Poche ore prima che Sostegni inizi a parlare con i magistrati, nel centro storico di Roma, in piazza di San Clemente, due uomini sulla quarantina passeggiano. E parlano. Uno di loro è Manzoni. L’altro è Stefano Borghesi, bresciano di Lumezzane, commercialista come Manzoni, ma soprattutto uomo del cerchio magico di Matteo Salvini, vice del Capitano ai tempi della segretaria della Lega Lombarda, senatore e presidente della commissione permanente Affari costituzionali.

Un fedelissimo del Capitano a colloquio con Manzoni, nei giorni caldi dell’inchiesta su cui Salvini continua a definirsi “assolutamente tranquillo” e Manzoni “completamente estraneo”. Cosa si dicevano Manzoni e Borghesi? Lo abbiamo chiesto a Borghesi, ma nel momento in cui il giornale va in stampa il senatore non ci ha ancora risposto.

Borghesi non è indagato per la vicenda della Lombardia Film Commission. Il suo legame con i commercialisti leghisti finiti sotto il faro della Procura è però un fatto documentato. Quarantatre anni, laurea in Economia e commercio, un paio di nomine nei consigli di revisione contabile di società a controllo pubblico (Agea e gruppo Poste Italiane), Borghesi è in affari con Manzoni e Di Rubba. E anche con Giulio Centemero, l’ex assistente personale di Salvini diventato tesoriere del partito.

I quattro condividono infatti le quote azionarie della Mdr Stp Srl. È la piccola società che, fra il 2018 e il 2019, ha ricevuto 39 bonifici da Lega per Salvini Premier, Lega Nord e Radio Padania. Un totale di quasi mezzo milione di euro bonificato dalle casse del partito – gravato dal debito dei 49 milioni di euro frutto della truffa sui rimborsi elettorali ottenuti presentando bilanci falsi – e arrivato a quelle dell’impresa privata dei suoi esponenti. Motivo? Servizi contabili: questo almeno è l’oggetto sociale della società dei commercialisti di fede salviniana.

“Al di là della cifra, sono tranquillo, perché tutti i soldi sono tracciati e l’attività è stata svolta ed è sotto gli occhi di tutti”, ha spiegato ieri Manzoni all’AdnKronos in merito ai bonifici ricevuti dalla sua impresa privata. Di sicuro il suo socio Stefano Borghesi è una figura importante nella ragnatela finanziaria leghista costruita dopo l’avvento di Matteo al potere. Devono averlo pensato anche Manzoni e Di Rubba quando hanno scelto di mettersi in società con lui e Centemero. Questione di date e di ruoli. La Mdr Stp Srl è infatti un’azienda di recente costituzione. È stata fondata nell’ottobre del 2018, quando i giornali avevano già raccontato di strani giri di soldi che dalla Lega erano finiti a società legate a Di Rubba e Manzoni. Ne aveva scritto L’Espresso per la prima volta nel giugno del 2018.

Perché i due commercialisti, appena venuti alla ribalta delle cronache, pochi mesi dopo decisero di creare una nuova impresa con dei parlamentari leghisti, rischiando di attirare su di essa l’attenzione mediatica che infatti è arrivata? Le quote della Mdr Stp peraltro non sono distribuite in modo equo: Di Rubba e Manzoni detengono il 96% dell’azienda, mentre Borghesi e Centemero sono titolari del 2% ciascuno. Insomma, degli eventuali utili aziendali i due parlamentari beneficerebbero in minima parte. Una spiegazione potrebbe trovarsi fra le norme che regolano le perquisizioni. Che succede se la polizia giudiziaria deve perquisire gli uffici di una società privata tra i cui soci ci sono dei parlamentari? Succede che non basta presentarsi con un decreto firmato da un giudice.

Se infatti un parlamentare (e qui sono due) ha il suo ufficio personale all’interno dell’azienda, la faccenda si è molto più complicata. Serve il voto della giunta per le autorizzazioni, cioè l’ok da parte degli stessi colleghi in Parlamento. Lo sa bene Roberto Maroni, che in virtù di questa garanzia nel ’96 evitò una perquisizione giudiziaria per la vicenda della “Guardia nazionale padana”. Ma non è sicuramente con questo obiettivo che Borghesi & C. hanno creato un’impresa.