Il Campidoglio o il Viminale? AAA cercasi posto per Zinga

Ministro dell’Interno, sindaco di Roma, segretario del Pd dimissionato, più che dimissionario? Cosa c’è nel futuro di Nicola Zingaretti? Non è facile la sua estate, mentre stenta a trovare una via d’uscita da un ruolo che rischia di diventare sempre più ingrato: quello di essere a capo di un partito, ma con il compito essenzialmente di tenere insieme tensioni e volontà contrapposte, piuttosto che dirigerle in prima persona. Il suo punto di forza, da sempre, che però è anche il suo tallone d’Achille. Paradossale il destino di uno che fa il segretario di un partito il cui obiettivo principale è stare al governo, senza farne parte.

Raccontano che Zingaretti abbia preso particolarmente male la classifica stilata dal Sole 24 Ore a inizio luglio, nella quale è ultimo nell’indice di gradimento dei presidenti di Regione. Così come è sempre più insofferente rispetto a un’esperienza di governo che non riesce a controllare davvero: non solo perché non ne fa parte, ma anche perché i gruppi parlamentari non rispondono a lui. E dunque, che fare? Goffredo Bettini, parlando a Repubblica, domenica, ha adombrato il suo ingresso nell’esecutivo guidato da Giuseppe Conte. Pare che il segretario non abbia gradito. L’ex europarlamentare resta il suo consigliere numero 1, ma le divergenze tra i due esistono. Così come le forzature a cui questi lo spinge. Prima di tutto, proprio il rapporto con il premier: mentre secondo Bettini, Conte non si discute, l’esperienza di governo va difesa e perseguita, Zingaretti tollera poco i continui rinvii e i continui compromessi che il Pd deve fare. Fosse per lui, il voto sarebbe la soluzione migliore. Tanto è vero che, dicono i suoi, in caso di elezioni anticipate lascerebbe la presidenza della Regione Lazio, candidandosi in Parlamento. Lo scenario, però, non è a disposizione. L’opzione di andare al governo è sul tavolo. Lo spingono non solo quelli che vogliono rafforzarlo, ma anche chi – a cominciare dal suo vice, Andrea Orlando – immagina un futuro alla guida dei Dem. Finora lui ha resistito: scettico sia a rischiare di lasciare spazio aperto al Nazareno, sia a entrare in un’esperienza che non vede come sua. Non è detto che alla fine – in caso di rimpasto – non finisca davvero così. La casella individuata per lui è quella del Viminale. Luciana Lamorgese è nel mirino dei sostituibili del Pd. Va detto che il tema migranti è di nuovo tra i più scottanti e che il Pd finora non è riuscito né a incassare la modifica dei decreti sicurezza di Salvini, né tantomeno a inserire lo ius soli nell’agenda del governo. Le premesse, dunque, non sono delle migliori.

Ma neanche l’alternativa è grandiosa: il 20 settembre si vota per le Regionali. Se il Pd, oltre a Liguria, Marche e Veneto dovesse perdere anche la Toscana sarebbe considerata una débâcle. Tanto più che eventuali vittorie di Michele Emiliano in Puglia e Vincenzo De Luca in Campania sarebbero considerate un loro successo personale. Base Riformista è già pronta a chiedere un congresso vero. E comunque vada, Orlando e Stefano Bonaccini sono pronti a candidarsi alla guida del Pd. Tanto più che quel giorno si prepara un’altra mezza sconfitta per i dem: si vota il referendum confermativo del taglio dei parlamentari.

Una questione che il Pd ha più subito che voluto e accettato formalmente solo in cambio di una nuova legge elettorale. Che all’orizzonte non si vede. A proposito di direzioni poco chiare: il Nazareno non ha intenzione di fare campagna elettorale per il Sì. Anzi medita di lasciare libertà di coscienza. Ovviamente, schierarsi ufficialmente per il No appare fuori discussione: battaglia troppo impopolare. Tra le varie collocazioni che si studiano per “Nicola”, c’è pure quella a sindaco di Roma: lui in passato ha sempre detto no. E i vertici del Nazareno stanno ancora cercando di convincere Franco Gabrielli (che sinora ha rifiutato, anche pubblicamente).

Ma le situazioni sono in evoluzione e la gestione è complessa. Una scelta del segretario su tutte è sembrata poco felice: quella di aprire la polemica sul Mes la notte stessa in cui Conte incassava i 209 miliardi complessivi del Recovery Fund. Nel merito, le ragioni di Zingaretti per farlo sono quelle di tutto il Pd. Nella scelta dei tempi è sembrato a molti poco lucido.

Trattativa ferma tra Cdp e Atlantia Slitta pure l’intesa sulla concessione

Che il governo non si sarebbe presentato a Genova con lo scalpo ottenuto dell’uscita dei Benetton era noto da giorni. Ieri però si è aggiunto l’ulteriore allungamento dei tempi. La ministra dei Trasporti Paola De Micheli ha ammesso che domani non ci sarà la firma con Autostrade per l’Italia (Aspi) per il rinnovo del Piano economico finanziario e del nuovo “Atto aggiuntivo”. È un passo fondamentale per riequilibrare la concessione a favore della parte pubblica in base all’accordo sancito col governo. Serviranno diversi incontri tecnici per capire se le proposte di Aspi sono coerenti con il nuovo modello tariffario voluto dall’Autorità dei Trasporti. L’intesa necessita poi di un parere dell’Avvocatura e dovrà infine passare al vaglio degli organi tecnici, a partire dal Cipe.

L’accordo è fondamentale per dare un valore ad Autostrade e sbloccare la trattativa tra Atlantia e la Cassa Depositi e Prestiti. Ieri gli uomini della holding controllata dai Benetton hanno chiesto un rinvio a metà settimana dell’incontro previsto in giornata. La distanza tra le parti è notevole. Nei piani del governo Cdp dovrebbe assumere il controllo con un aumento di capitale che la porti al 33% di Aspi, Atlantia venderebbe poi a investitori graditi alla Cassa un altro 22%, infine Aspi verrebbe scissa dalla holding e quotata permettendo ai soci, in primis i Benetton, di uscire. Manca però l’accordo su due punti fondamentali. Il primo è il valore di Aspi (sotto i 6 miliardi Altantia non avrebbe perdite a bilancio, sopra ci guadagnerebbe pure). La holding vuole anche un meccanismo compensativo in caso il valore della quotazione di Aspi risulti superiore a quello di ingresso di Cdp. Il secondo è la manleva legale chiesta da Cdp: Atlantia non ne vuole sapere.

“Le parole di Mattarella ci hanno ridato dignità”

Èstato inaugurato il nuovo ponte San Giorgio, che viene definito orgoglio italiano, dopo che in questi mesi siamo stati sotto scacco per l’arrivo di continue iniziative per alimentare l’attenzione solo per il nuovo ponte, distogliendo l’attenzione dalla tragedia che lo ha originato, si sono spesso dimenticate le nostre vittime, martiri di un sistema che deve essere smantellato. Dopo una nostra presa di posizione forte, giunti ormai allo stremo, abbiamo chiesto che i nostri cari non fossero nominati a fronte di un’inaugurazione in stile carnevale. Il presidente Mattarella è intervenuto e ha richiesto sobrietà, una parola forte che ha riassunto tanti mesi di battaglia per ridare dignità a una tragedia, a tanti mesi di dolore per la leggerezza di certe scelte. Per noi è stato molto importante, ci ha fatto comprendere che il nostro dolore non era confinato solo nel nostro cuore e in quello di altri cittadini con grande senso civico, ma era presente anche nel cuore del nostro Stato. Le parole del presidente e la delicatezza dell’architetto Piano ci riempiono il cuore e ci danno speranza per rispetto, memoria e giustizia. La sobrietà della cerimonia ha riportato l’attenzione dove necessario, vogliamo ritrovare la presenza dello Stato anche per la commemorazione del 14 agosto, dove i nostri cari dovranno essere ricordati.

 

Il Modello Genova e le sue ombre: costi, tempi, opacità

La cerimonia che ieri s’è celebrata sopra al nuovo ponte di Genova, e a cui partecipano in pochi, non può far dimenticare cosa c’è sotto: l’inaugurazione del nuovo viadotto è stata disertata dai familiari delle vittime, che attendono ancora giustizia e mal sopportano l’atmosfera di festa; la Valpolcevera, una zona depressa e alle prese con una lunga crisi post industriale, che rischia di essere dimenticata dopo l’inaugurazione della nuova opera.

Da mesi non si fa che parlare di “Modello Genova”: il riferimento è alla rapidità con cui è stato costruito il nuovo ponte, al clima di unità nazionale, più in genereale all’efficienza di procedure senza lacci e lacciuoli burocratici. Quel modello, però, riprodotto in un contesto diverso e senza avere alle spalle il peso di una simile tragedia, rischia di aprire grosse incognite.

È passata inosservata, ad esempio, una notizia di qualche giorno fa: la Procura di Genova ha chiesto il rinvio a giudizio nei confronti di Pietro Salini, amministratore delegato di Salini Impregilo, partner di Fincantieri nella costruzione del nuovo viadotto e ieri tra i protagonisti dell’inaugurazione. L’accusa è di turbativa d’asta. La vicenda giudiziaria riguarda le presunte mazzette pagate per costruire il Terzo Valico. Una storia che rimonta a trent’anni fa, eppure sembra scritta ieri: all’inizio degli anni Novanta si pensava che la burocrazia soffocasse le grandi opere in Italia e per questo si scelse di affidare i cantieri dell’Alta Velocità a un general contractor, sul modello anglosassone, nella convinzione che i privati avrebbero magicamente posto fine a lentezze e opacità nelle politiche infrastrutturali. Si è visto come è finita.

Nel frattempo Salini è uno dei maggiori sponsor del “Modello Genova” e della sua esportabilità: basta guardare la sua pubblicità sui maggiori giornali italiani. Eppure è difficile immaginare che in un altro contesto, senza il peso di 43 vittime, l’azienda concorrente dei vincitori – Cimolai, leader mondiale nella costruzione dei ponti (con tanto di progetto firmato dall’archistar Santiago Calatrava) – avrebbe accettato di buon grado di evitare un ricorso al Tar.

Per illustrare l’efficienza di questo modello prenderemo le parole di ieri di Marcello Sorrentino, amministratore delegato di Fincantieri Infrastructure: “L’emergenza Covid ha determinato extra-costi, di cui ci siamo fatti carico. Sarebbe spiacevole finire in tribunale per questo. Sono certo che troveremo una soluzione”. Il messaggio è al sindaco-commissario, Marco Bucci, che si è affrettato a rispondere: “Se ci sono extra costi, li faremo pagare ad Autostrade per l’Italia”. Insomma, il costo finale di un’opera e chi paga non sono proprio dettagli, ma a Genova va così.

Quanto alla velocità, è stato dimenticato in fretta l’incendio di una pila, divampato all’alba della vigilia di Capodanno, che in altri contesti avrebbe forse portato a bloccare il cantiere e ad approfondire meglio le condizioni di sicurezza in cui è maturato. A tutto questo si aggiunge un ultimo elemento: il limite di 70 km/h, decisamente poco autostradale, imposto perché il tracciato, che ricalca il vecchio, non è più a norma con le nuove regole di sicurezza.

Un altro tema da valutare con calma riguarda l’economia sotto al ponte. Il decreto Genova ha riversato sulla città milioni di euro: per le imprese e i lavoratori in difficoltà sono stati stanziati 30 milioni di euro, ma oltre 13 non sono stati spesi dal commissario all’emergenza Giovanni Toti, presidente della Regione Liguria impegnato nella campagna elettorale per la rielezione. Mentre gli incentivi per portare nuove aziende nelle zone più colpite sono finiti ad aziende fantasma, molti commercianti intorno alla zona rossa, nei quartieri operai di Certosa e Sampierdarena, non hanno ancora visto un euro: il loro timore è che, una volta spente le luci dell’inaugurazione, i fondi rimasti siano distribuiti a pioggia, dimenticando quelli che le ferite del disastro di due anni fa le portano ancora addosso.

Il Colle e Conte contro i Benetton: il ponte United Colors arcobaleno

Mezz’ora prima dell’arrivo del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, Renzo Piano passeggia a lungo sul ponte Genova San Giorgio. L’ombrello in mano lo ripara dal diluvio, mentre sussurra a chi gli si avvicina i segreti del viadotto che ha regalato alla sua città e che a meno di due anni dal crollo del Morandi – era il 14 agosto 2018 – restituisce finalmente un collegamento alla Val Polcevera. È l’immagine che anticipa la sfilata delle più alte cariche dello Stato a Genova, nel giorno in cui si inaugura il nuovo viadotto.

Lo ripetono tutti: questa non è una festa. Lo ha detto Mattarella ai familiari delle vittime, che hanno preferito non partecipare alla cerimonia incontrando in privato il capo dello Stato in prefettura. Lo ribadiscono dal palco sul ponte il sindaco di Genova Marco Bucci, il governatore ligure Giovanni Toti, il già citato Renzo Piano e poi il presidente del Consiglio Giuseppe Conte.

Prima dei discorsi di rito suonano l’inno nazionale e il silenzio militare, poi vengono scanditi i nomi di chi perse la vita sul Morandi. È il momento più toccante del pomeriggio. “La prima cosa che mi viene in mente è il ricordo per le vittime e le loro famiglie”, esordisce Bucci. Toti sceglie le sue parole d’ordine: “‘Mai più’ e ‘sempre così’, perché nessuno deve morire più in questo modo e perché ogni infrastruttura dovrebbe essere realizzata così come è stato realizzato il nuovo ponte”. Renzo Piano ripropone la metafora che più gli è cara: “Ho immaginato il ponte come un vascello bianco”. Storia di mare, come nella Crêuza de mä di Fabrizio De André, rivisitata per l’occasione da 18 artisti.

Il discorso del premier, che arriva quando in cielo è comparso un arcobaleno, è quello più politico, con l’orgoglio per la decisione di sottrarre il controllo delle autostrade ai privati: “Il governo ha ritenuto doveroso promuovere il complesso procedimento di contestazione degli adempimenti che hanno causato il crollo del ponte. Questo procedimento si è concluso con l’accordo di ridefinire i termini della convenzione, con la possibilità di garantire in modo più efficace gli investimenti per la manutenzione”. Tradotto: il ponte viene consegnato ai Benetton (attuali concessionari), ma presto tornerà allo Stato. Non è un caso che Conte ne parli. Poco prima Mattarella, nell’incontro in Prefettura, era stato chiaro: “Le responsabilità non sono generiche, hanno sempre un nome e un cognome. E sono sempre frutto di azioni o omissioni, quindi è importante che ci sia un accertamento severo, preciso e rigoroso delle responsabilità”.

E se Renzo Piano spera in un ponte “amato perché semplice e forte come la città”, Conte menziona Piero Calamandrei e la sua rivista Il Ponte: all’epoca “il ponte” era tra le macerie della guerra e il futuro, oggi può “creare una nuova unità dopo la frattura del crollo”.

Il taglio del nastro e le frecce tricolori concludono la cerimonia facendo lentamente smaltire gli ospiti. Tra loro, come detto, non c’è l’associazione dei parenti delle vittime, ma c’è Emmanuel Henao Diaz, che nel crollo perse il fratello: “Mi sento in dovere di partecipare per dimostrare a mio fratello che non faccio finta di niente, come invece chi doveva pensare alla sicurezza di quel ponte”. Per il resto, tra le centinaia di invitati ci sono giuristi, dirigenti e soprattutto politici.

L’inaugurazione dà modo a tutti di esultare: al governo, ma anche a Bucci, peraltro commissario straordinario per la ricostruzione, e Toti, governatore in campagna elettorale, che in mattinata incontra la presidente del Senato, Maria Elisabetta Alberti Casellati. Con loro c’è mezzo governo (Luigi Di Maio, Alfonso Bonafede, Luciana Lamorgese, Paola De Micheli) e l’ex ministro Danilo Toninelli, coi presidenti delle Camere, la presidente della Corte Costituzionale Marta Cartabia e i vertici di Fincantieri. Non manca la retorica del “Paese che si rialza” e di “Genova che riparte”, ma per una volta sembrano crederci tutti.

Arrivano i Dpcv

Siccome Matteo Salvini – cui non difetta l’umorismo, quando parla sul serio – ha annunciato che “l’anno prossimo tornerò al Papeete Beach da presidente del Consiglio”, cresce il rammarico in tutto il Paese per non averlo avuto al governo anche nell’anno in corso. Ecco i primi 21 Dpcv (Decreti del Presidente Cazzaro Verde) che, al posto di Conte, avrebbe varato durante la pandemia.

Dpcv n.1/21 febbraio (primi focolai a Codogno e Vo’, 1 morto): “Chiudere tutta l’Italia. Non penso solo ai barconi e ai barchini. Penso ai controlli di chiunque entra in Italia ed esce dall’Italia: evidentemente, qualcosa non funziona. Da oggi chiunque entri in Italia con qualunque mezzo di trasporto, dalla zattera all’aeroplano, venga controllato”.

Dpcv n.2/22 febbraio (zone rosse nel Lodigiano e a Vo’): “Quando c’è di mezzo la salute, meglio una precauzione in più che in meno”.

Dpcv n.3/23 febbraio (focolaio ad Alzano, 3 morti): “Chiudere, blindare, controllare, bloccare, proteggere prima che il disastro sia totale”.

Dpcv n.4/24 febbraio (229 infetti, 6 morti): “Non è il momento delle mezze misure: servono provvedimenti radicali, serve l’ascolto dei virologi e degli scienziati, servono trasparenza, verità e un’informazione corretta, servono controlli ferrei ai confini su chi entra nel nostro Paese”.

Dpcv n.5/27 febbraio (650 infetti, 17 morti, boom di contagi nella Bergamasca): “L’Italia riparte. Alla faccia di chi se la prende con medici, infermieri, governatori e sindaci, saranno ancora una volta cittadini, famiglie e imprese a salvare questo splendido Paese. Accelerare, aiutare, sostenere, riaprire, ripartire. Riaprire tutto al più presto per rilanciare: fabbriche, negozi, gallerie, palestre, discoteche, ristoranti, bar, centri commerciali, teatri. Tornare alla normalità”. “L’Italia è il Paese più bello del mondo, veniteci. Venire a fare turismo in Italia è bello, sano e sicuro. Per responsabilità di qualcuno sembra che fare la settimana bianca in Trentino, Piemonte, Val d’Aosta, visitare la splendida Venezia e i bronzi di Riace, andare in terra di Sicilia o di Sardegna sia pericoloso, no no no!”.

Dpcv n.6/28 febbraio (821 infetti, 21 morti): “Aprire, aprire, aprire! Si torni a produrre, a comprare, al sorriso!”.

Dpcv n.7/29 febbraio (1.128 infetti, 29 morti): “Il mondo deve sapere che venire in Italia è sicuro, perché siamo un Paese bello, sano e accogliente, altro che ‘lazzaretto d’Europa’, come qualcuno sta cercando di farci passare”. “Rinviare Juve-Inter a maggio che senso ha? Porte aperte o porte chiuse, per me si doveva giocare”.

Dpcv n.8/4 marzo (2.706 infetti, 107 morti: chiusi ritrovi pubblici, scuole, università): “Un Paese serio e civile aiuta le mamme e i papà che lavorano”.

Dpcv n.9/9 marzo (9.171 infetti, 463 morti: due giorni dopo la chiusura di Lombardia e altre 14 province): “Zona rossa in tutta l’Italia”.

Dpcv n.10/10 marzo (10.149 infetti, 631 morti): “Fermiamo tutta Italia per i giorni necessari. Chiudere prima che sia tardi”. “Zona rossa in tutta Europa”.

Dpcv n.11/13 marzo (17.660 infetti, 1.266 morti: chiusi locali e commercio al dettaglio in tutt’Italia): “Prima si chiude Schengen, meglio è”.

Dpcv n.12/21 marzo (53.578 infetti, 4.825 morti: lockdown nazionale, spostamenti vietati, chiuse le attività): “Chiudere tutto”.

Dpcv n.13/26 marzo (80.539 infetti, 8.165 morti): “La mia proposta di riaprire tutto nasceva evidentemente da una mia valutazione scientificamente sbagliata”.

Dpcv n.14/4 aprile (124.632 infetti, 15.362 morti): “Riaprire le chiese ai fedeli per Pasqua, permettiamo a chi crede di andare a messa. Si può andare dal tabaccaio, al supermercato, allora perché non si può curare l’anima?”.

Dpcv n.15/14 aprile (162.488 infetti, 21.067 morti): “Riaprire in sicurezza il prima possibile”.

Dpcv n.16/16 aprile (168.941 infetti, 22.170 morti): “Chiedere la riapertura da parte della Lombardia è un grande segnale di concretezza e di speranza. Altri Paesi riaprono, non possiamo rimanere indietro”.

Dpcv n.17/18 maggio (225.886 infetti, 32.007 morti: inizia la fase 2 con riaperture graduali): “Oggi in piazza Duomo a Milano la Lega dovrà stupire il mondo. E il 2 giugno tutto il centrodestra in piazza del Popolo a Roma contro il governo”.

Dpcv n.18/9 giugno (dopo la manifestazione di piazza del Popolo, senza distanziamento e con continui selfie senza mascherina con i fans): “Potrò abbassarmi la mascherina per parlare con una signora, no?”.

Dpcv n.19/27 luglio (convegno in Senato, parlando ai relatori accanto a lui senza distanziamento): “La mascherina non ce l’ho e non la metto… Il saluto col gomito è la fine della specie umana: se uno mi dà la mano, io gliela do”.

Dpcv n.20/2 agosto (a un minorenne con la mascherina accanto a lui sul palco a Cervia): “Puoi toglierla, la mascherina!”.

Dpcv n.21/3 agosto: “La mascherina quando è necessario si mette. Nei luoghi chiusi, in treno: io la metto. Ai ragazzi dico: usate la testa. Mantenete la distanza, rispettate quello che la scienza ci chiede di fare”.

Lo portano via.

Altro che Masterchef: l’artista in cucina era Ugo

“In questo mio rapporto d’amore con la cucina non ho né mediazioni né prescrizioni: io sono il creatore della scena e il suo esecutore, il demiurgo che trasforma le inerti parole di una ricetta in una saporita e colorata realtà… La mia è una cucina d’arte. La soffro come pochi”.

C’è stato un uomo per cui Masterchef non era un programma televisivo, ma di vita, e vita gastronomicamente fatta arte: Ugo Tognazzi. Se n’è andato trent’anni fa, il 27 ottobre del 1990, ma rimane vivo nei film e nei piatti che ci ha lasciato. Anzi, nei piatti e nei film, giacché egli stesso palesava una priorità: “L’attore? A volte mi sembra di farlo per hobby. Mangiare no: io mangio per vivere”.

Memorie di un Abbuffone confesso, capace di Storie da ridere e ricette da morire, in cui la personalità culinaria tracimava gli angusti confini dell’edibile e dell’immaginabile. Fino a farsi religione privata, gelosa e golosa, eppure spalancata al proselitismo: “Nella mia casa di Velletri c’è un enorme frigorifero che sfugge alle regole della società dei consumi. È di legno, e occupa una intera parete della grande cucina. Dalle quattro finestrelle si può spiarne l’interno, e bearsi della vista degli insaccati, dei formaggi, dei vitelli, dei quarti di manzo che pendono, maestosi, dai lucidi ganci. Questo frigorifero è la mia cappella di famiglia”. Dove farsi sorprendere genuflesso, “raccolto in contemplazione, in attesa d’una ispirazione per il pranzo”, dove farsi cogliere nel paradosso di “quanto ascetico sia il mio attaccamento ai prosaici piaceri della tavola”.

Riabilitate “ingordigia, golosità: parole sciocche, dettate dalla morale corrente punitiva e masochista” e create ex nihilo Balena alla Pizzaiola e Orecchiette al Pomomascarpone, Ugo predicava il ritorno al futuro gastro-esistenziale: nel recupero della “morale epicurea della gioia”, nel riavvicinamento al “flusso ininterrotto e secolare della bava, dello sperma e della merda”, già negli Anni Settanta fuggiva all’assedio “dei liofilizzati, dei surgelati, degli inscatolati”.

Troppo avanti per il sentire, anzi, il gustare comune, troppo sinestetico per arrendersi all’ordinarietà, troppo Tognazzi per non rivendicare, con l’amico Marco Ferreri, l’autodeterminazione: “Ognuno è libero di fare la sua scelta, anche di morire gonfio di foie grasso stremato dagli amplessi”.

Nei suoi libri, il già ricordato L’abbuffone e Il rigettario, dai quali vengono le ricette che trovate in questa pagina, La mia cucina e Afrodite in cucina, si professa avanguardia: futurista per lettera, dadaista per natura, surrealista per esito. Ecco, nell’Abbuffone, La Dernière Bouffe, dove le ricette da morire sono quelle de La grande abbuffata di Ferreri, dalla torta Andrea alla Bavarese di Tette; ecco le Costine alla Mao, la frittata Austerity, il Maial Tonnè, i Coglioni di Toro al Pernod, l’Agnello alla Pecorina e – che ne sarebbe oggi? – La Checca sul Rogo; ecco la carbonara internazionalizzarsi a My Cherbounerau, in cui il prediletto cognac arriva a freddo sul finale.

Il soffritto per musica, il ragù per dopobarba, ha “la cucina nel sangue, il quale, penso, comprenderà senz’altro globuli rossi e globuli bianchi, ma nel mio caso anche una discreta percentuale di salsa di pomodoro” e, accanto al Vizietto (1978) spartito con Michel Serrault, “il vizio del fornello. Sono malato di spaghettite”. Malattia contagiosa incubata nel buen retiro di Torvaianica, che ora lo celebra tra cinema e cibo con Ugo Pari 30 (vedi le info al lato).

I commensali erano essi stessi il pasto, non per antropofagia, ma per soddisfazione, la più grande per Tognazzi, “l’approvazione degli amici”. Ferreri, Paolo Villaggio, Vittorio Gassman e tanti altri ancora (De Bernardi e Benvenuti, Scola, Age e Scarpelli…) chiamati a esprimere un giudizio su scala fantozziana: straordinario, ottimo, buono, sufficiente, cagata, grandissima cagata. Capitò che i voti fossero impietosi, ma qualcuno, ha ricordato Villaggio, si spinse oltre: “Sulla porta, quando stavamo andando via, (Tognazzi, ndr) si è accorto che Mario Monicelli aveva raccolto dei reperti della cena e gli ha domandato: ‘Dove li porti?’. E Monicelli, feroce: ‘All’Istituto italiano di criminologia. Voglio sapere se si può fare qualcosa!’”.

 

Leggi e Ambiente, a New Delhi persino Greta è impopolare

Come ogni venerdì, davanti al ministero dell’Ambiente, delle Foreste e del Cambiamento climatico di Nuova Delhi, i militanti ecologisti si contano sulle dita di una mano. In piedi sotto la pioggia, a due metri di distanza l’uno dall’altro, le mascherine sul viso, gli attivisti che manifestano contro l’EIA, la nuova legge di Impatto ambientale, sollevano degli striscioni: “I soldi non si respirano”, c’è scritto. Poco dopo, come sempre, la polizia arriva e disperde pacificamente la manciata di attivisti. “Ecco a che punto sta in India la contestazione degli ambientalisti – sottolinea Chittranjan Dubey, fondatore di Extinction Rebellion India -. Manifestare all’aperto è vietato e sul web c’è la censura. Eppure questo disegno di legge nuoce agli interessi degli indiani e delle generazioni future”. L’EIA – che sta per “Environmental impact assessment” (“Valutazione di impatto ambientale”) – è una procedura amministrativa finalizzata a regolamentare le autorizzazioni delle attività inquinanti. Presentato a marzo, mentre la pandemia e il panico cominciavano a propagarsi in India, il nuovo testo per il 2020 indebolisce ancora di più – per non dire sotterra – le poche misure di salvaguardia ecologica che ancora esistono nel paese.

Oltre alla nuova norma sull’impatto ambientale, è stata annunciata anche l’apertura al capitale privato del settore del carbone e di 109 linee ferroviarie. Con la chiusura delle frontiere e i divieti di assembramento, il governo indiano intende far adottare queste riforme il più presto possibile. In un primo tempo la protesta aveva preso piede sul web. Ma poi, a inizio luglio, i siti web di tre importanti movimenti ambientalisti sono stati oscurati. “Il blocco è arrivato senza preavviso”, racconta Yash Marwah, uno dei leader del movimento Let India Breath, che fa campagna contro la legge dal 7 aprile. “Il nostro sito – aggiunge – forniva informazioni sul testo in nove lingue e permetteva di scrivere al governo attraverso un modulo online”. Gli altri due siti messi al bando, fridaysforfuture.in (dal movimento della svedese Greta Thunberg) e thereisnoearthb.com, contribuivano a loro volta a alimentare la protesta contro la legge. “Con il blocco immotivato dei siti il governo ha superato ogni limite – sostiene Apar Gupta dell’Internet Freedom Foundation (IFF), una ONG che difende la libertà del net -. Per la Corte suprema ogni limitazione delle libertà digitali deve essere giustificata”. L’IFF ha inviato dunque cinque richieste di informazione al governo, rimaste tutte senza risposta. Il 22 luglio l’ONG ha ottenuto alla fine il testo di una denuncia sporta dal ministro dell’Ambiente alla polizia postale di Nuova Delhi, in cui il ministero accusava il sito Friday for Future di “molestie digitali” e ne chiedeva la sospensione per “diffusione di informazioni contrarie alla legge e a sfondo terrorista, che minano l’integrità o la sovranità dell’India”. Di fronte alle polemiche, due siti sono stati riaperti il 24 luglio. Ma questo tentativo di intimidazione spinge altri siti all’autocensura. “Ho chiesto ai nostri membri di non scrivere al ministero per non subire la stessa sorte”, confessa il leader di un movimento ambientalista, che preferisce restare anonimo. Il ministro dell’Ambiente, Prakash Javadekar, ha avviato una consultazione pubblica sul tema, che ha definito “un meraviglioso esercizio di democrazia”. “Ma nei fatti chi parla viene fatto tacere”, spiega Anjali Dalmia. La giovane, 20 anni, ha riunito 60 gruppi di studenti che hanno scritto al governo, ma le 60 richieste sono state respinte.

La nuova normativa per l’Impatto Ambientale, destinata a favorire la ripresa dell’economia indiana, devastata dalla pandemia, introduce numerose modifiche tecniche al precedente testo del 2006. Il Center for Policy Research le riassume in una formula: meno regolamentazione, più eccezioni. Preoccupa in particolare la possibilità che la legge darà ai progetti industriali di venire attuati senza licenza ambientale, il “post-facto clearance”. “Sarà possibile cioè avviare il progetto di una miniera, di una diga o di una centrale a carbone e ottenere la licenza dopo”, spiega Ritwick Dutta, celebre avvocato e presidente della ONG Legal Initiative for Forest and Environment (LIFE). In caso di non rispetto delle norme, le multe previste sono ridicole: da 1.000 rupie (12 euro) a 5.000 (60 euro) per ogni giorno di ritardo nell’applicazione della norma. In altre parole, per gli industriali sarà più conveniente inquinare: a una centrale a carbone costerà meno pagare la multa per tutto l’anno che installare i costosi filtri che permettono di ridurre le emissioni di CO2. Lo stesso vale per l’estrazione dei minerali nelle aree protette. Le aziende inquinanti avranno anche un altro vantaggio. Il campo dei cosiddetti “progetti strategici”, esenti da ogni controllo, sarà esteso. La qualifica di “progetto strategico”, prima riservata all’esercito, sarà cioè applicata ad altri settori, ferrovie, dighe, metallurgia, petrolio e così via. “Certo, alcuni progetti sono davvero strategici, ma il governo potrà usare la formula a sua discrezione”, teme T.V. Ramachandra, ricercatore al prestigioso Indian Institute of Science di Bangalore. La sua principale preoccupazione riguarda la riserva di biodiversità dei Western Ghats, una vasta catena montuosa che si trova nel sud del paese: “Si stanno abbattendo le foreste e si distrugge l’ecosistema”, dice. L’esperto teme che la riserva continui a essere saccheggiata senza che gli scienziati abbiano voce in capitolo: “Il prezzo che pagheremo sarà molto più alto del Covid-19”. Il ministro dell’Ambiente assicura che il progetto di legge è ancora una “bozza”: “Abbiamo diverse piste per migliorarlo”, sostiene Javadekar. La consultazione pubblica doveva concludersi il 30 giugno ma, sotto la pressione dell’Alta corte di Delhi, è stata rinviata al 10 agosto. E dopo? Il testo sarà adottato con decreto senza il voto del Parlamento. “Basta uno sguardo al progetto per rendersi conto che è contrario alla Costituzione – sostiene Ritwick Dutta -. Ma l’obiettivo del governo è chiaro: favorire gli affari, anche se ciò significa infrangere la legge”.

L’avvocato spera che il testo possa essere rinviato a ottobre, dal momento che il decreto dovrà essere tradotto nelle diverse lingue dell’India e che la cosa richiede del tempo. ”Far passare il nuovo dispositivo mentre gli esperti non sono nei laboratori e non possono lavorare è scorretto – sottolinea T.V. Ramachandra -. Si dovrebbe lavorare per favorire la salute pubblica, non per aumentare l’inquinamento”. L’India è già di per sé poco armata contro chi inquina. Molti gli esempi di catastrofi ambientali recenti. A maggio, una fuga di gas dalla fabbrica di Vizag (Andhra Pradesh) ha ucciso dieci persone e ne ha avvelenate altre mille. L’inchiesta ha rivelato che la società non era a norma di legge. Da giugno, si ripetono delle esplosioni nel giacimento petrolifero di Baghjan (Assam), dove l’estrazione viene effettuata, senza autorizzazione, a 500 metri da un parco nazionale. Resta vivo in India il ricordo della tragedia chimica dello stabilimento di Bhopal, nel dicembre 1984, che aveva fatto 4.000 morti. Era stata quella catastrofe a innescare la laboriosa costruzione del codice ambientale dell’India, che oggi si sta smantellando. “I veri strumenti per battersi oggi sono le comunità locali, il digitale e la pressione dei media”, sostiene Ritwick Dutta. È così che si stanno battendo le popolazioni degli Stati di Assam, Chhattisgarh e Goa contro dei progetti minerari. “Il Covid-19 soffoca la lotta degli attivisti, ma questa non si fermerà”, promette Yash Marwah di Let India Breathe. “Volendo far passare il testo durante la pandemia e censurando i siti, il governo si è messo in trappola da solo – spera a sua volta Anjali Dalmia -, perché i giovani passano appunto molto tempo su Internet per informarsi”. Su 180 paesi, l’India è al 168/o posto dell’Indice di sostenibilità ambientale 2020 elaborato dalla Yale University e dalla Columbia University.

(Traduzione di Luana De Micco)

SuperEnalotto. Sisal tenta il colpo con lo Stato: o proroga la concessione (vantaggiosa) o fa causa

Non si può chiamare ricatto, ma è sicuramente un modo per mettere lo Stato con le spalle al muro. La storia di Sisal è emblematica del rapporto squilibrato tra il pubblico e i concessionari, anche quando si è cercato di migliorare le condizioni del rapporto che li lega. Nei giorni scorsi, il colosso del gioco ha scritto una lettera perentoria ai vertici del ministero dell’Economia e al premier Giuseppe Conte prefigurando il “blocco della concessione” del Superenalotto e minacciando “l’avvio di un contenzioso” se il governo non gliela proroga. Il motivo sarebbe dovuto, al solito, alla crisi causata dal Coronavirus, o meglio al lockdown che “ha causato il blocco della raccolta” e un “calo dei volumi del 40% rispetto al 2019”, rendendo a suo dire impossibile realizzare “nei 6 mesi previsti” gli adempimenti per l’avvio della nuova concessione, che doveva partire a metà dell’anno. Tra questi, c’è l’“organizzazione e la contrattualizzazione di una rete di 33 mila punti vendita”, attività che però il colosso non dovrebbe avere difficoltà a realizzare.

Qui sta il paradosso. Sisal è infatti titolare della vecchia concessione scaduta, ma ha anche vinto la gara per la nuova concessione a fine 2019 (durata: 9 anni). Lo ha fatto con un’offerta imbattibile: 222 milioni di euro, su una base d’asta di 100, e una riduzione dell’aggio spettante al concessionario (una quota dei volumi di raccolta che lo Stato gli versa per il servizio) che passa dal 3,73% previsto dalla vecchia concessione allo 0,5%. Queste cifre hanno sbaragliato i concorrenti come Lottomatica e Saska, segno che il Superenaolotto è vitale per Sisal.

Ora il colosso non chiede di rinviare l’inizio della nuova concessione di qualche mese, per recuperare il blocco del lockdown (la scadenza, peraltro, è già stata prorogata da giugno al 24 agosto), ma “di 18 mesi”. Un tempo ritenuto “necessario per il ritorno a una condizione di equilibrio”. Altrimenti farà causa allo Stato e, si desume, rescinderà il contratto. Sisal può farlo perché 18 mesi è comunque il tempo ritenuto necessario per indire una gara e assegnare nuovamente la concessione del Superenalotto, che nel frattempo rimarrebbe a lei (con l’aggio al 3,73%) e, comunque, il secondo classificato offriva condizioni peggiori. Se lo Stato cede, la nuova concessione partirà nel 2022 e solo da allora Sisal ridurrà l’aggio. Un beneficio che nel biennio potrebbe avvicinarsi ai 40 milioni di euro, mentre lo Stato ovviamente ci perde.

Nella sua lettera il colosso chiede un “intervento normativo” e spiega di aver quantificato in 18 mesi la proroga necessaria dopo un confronto con l’Agenzia dei Monopoli, che però – da quanto risulta – ha chiesto un parere all’avvocatura dello Stato e negato la possibilità anche di rateizzare oltre il 2020 la seconda rata dei 222 milioni dovuta da Sisal, cosa che raddoppierebbe il beneficio nel biennio per il colosso.

La guerra di lobby è già in corso. Nelle scorse settimane era circolata al Tesoro una bozza di emendamento da inserire nel decreto Rilancio che concedeva a Sisal sia la proroga che la rateizzazione. Non se n’è fatto più nulla. Per questo il colosso ha deciso di mettere nero su bianco la minaccia legale.

 

Trasporti, c’è più equità sociale se si riducono i sussidi ai ricchi

Le diseguaglianze economiche, crescenti all’interno dei singoli paesi ma per fortuna decrescenti a livello globale, sono un problema sociale di grande rilievo, che il coronavirus ha forse accentuato. Meritano attenzione anche nel settore dei trasporti.

Le diseguaglianze nei trasporti sono di molti tipi, ma limitiamoci al reddito, assumendo che sia quello più rilevante (anziani, studenti, casalinghe, abitanti in centri isolati, se sono ricchi se la cavano comunque).

Ma sono i trasporti uno strumento efficace per ridistribuire il reddito? No, dovrebberlo essere le tasse progressive previste dalla Costituzione. Infatti questo strumento assicura libertà (il reddito si può usare come si vuole), è diretto (i modi indiretti hanno problemi di manipolazione politica), e in Italia il prelievo fiscale teorico è molto progressivo. Però è progressivo in teoria, ma sappiamo che l’evasione è elevata. Quindi assumiamo che sia giustificato anche l’uso di strumenti distributivi “in natura” (servizi a prezzi che non corrispondono ai costi, cioè sussidiati o tassati a fini sociali).

Vediamo com’è la situazione in Italia per i trasporti:

– iniziamo dalle brevi distanze, dove dominano i movimenti pendolari per lavoro o studio. La gran parte degli spostamenti per lavoro a livello regionale avviene in macchina, dove l’alta tassazione dei carburanti penalizza in egual modo lavoratori ricchi e poveri. Gli studenti pendolari si servono per lo più del super-sussidiato trasporto pubblico (Tpl), e dunque sono sussidiati studenti ricchi e poveri. Nessuna politica sociale è qui riconoscibile. Una situazione simile si verifica anche a livello urbano, e ancora più squilibrata: qui risiedono le categorie a più alto reddito, il trasporto pubblico è molto più usato anche per lavoro, quindi vi è un esplicito sussidio anche ai lavoratori ad alto reddito che lo usano (soprattutto impiegati).

– sulle lunghe distanze prevalgono le utenze occasionali. Qui lo squilibrio sociale nei trasporti collettivi è davvero massimo: i più poveri (lavoratori stranieri, studenti a basso reddito, ecc.) usano servizi autobus che non solo non sono sussidiati, ma sono tassati come tutto il trasporto su gomma, e pagano anche il costo dell’infrastruttura in caso si servano di autostrade. All’altro estremo, ci sono gli utenti dell’Alta Velocità, quindi con un elevato valore del tempo, che non pagano l’infrastruttura, fatto che inciderebbe molto sulle tariffe. Gli automobilisti, ricchi o poveri, pagano forti tasse sui carburanti (che sulle reti extraurbane sono più alte dei costi ambientali che generano), e spesso pagano i costi delle autostrade, se se ne servono.

I viaggiatori delle ferrovie ordinarie sono sussidiati qualunque sia il reddito, mentre quelli aerei, a reddito più alto, pagano tutti i costi (ma non quelli ambientali, a differenza degli utenti della strada).

Un quadro che quindi merita una riflessione esplicita, della quale però non c’è traccia.

Ma concentriamoci sui problemi delle categorie a più basso reddito, secondo un’ottica “rawlsiana” (dal nome del filosofo padre di questo approccio, più ancora che di un generico egualitarismo).

Parliamo dei nuclei famigliari che non possono permettersi un’automobile, neppure usata e di piccola cilindrata. Cioè lavoratori a reddito molto basso (precari soprattutto), disoccupati e pensionati. Queste categorie hanno bisogno di muoversi su distanze brevi, urbane o suburbane.

Occorre riequilibrare i sussidi al Tpl, differenziando di più le tariffe urbane in base al reddito (smettendo di sussidiare i ricchi). In quest’ottica, la messa a gara dei servizi, prevista dalla legge ma inapplicata in Italia, può ridurre molto i costi di produzione, fino a avere trasporti urbani gratuiti per queste categorie.

In secondo luogo, occorre anche favorire per loro il possesso o l’uso di mezzi individuali, perché questa mobilità è l’unica che consente la “fuga dalla rendita urbana”, cioè l’accesso ad alloggi meno cari. Infatti i prezzi delle case crescono in funzione dei servizi pubblici, specie di trasporto. Le case meno care sono quelle più decentrate, impossibili da servire con il Tpl, che necessita di un minimo di densità per non rimanere semideserto. Ma la mobilità individuale fa anche funzionare meglio il mercato del lavoro meno qualificato, spesso molto variabile nello spazio e nel tempo (“se trovo un lavoro, e l’autobus non mi ci porta?” “la fabbrica cambierà sede, ma in bus ci metterò due ore…”).

La relazione tra il costo dell’abitare e il costo/tempo dei trasporti è certo uno dei temi più rilevanti, ed ignorati, nelle scelte sociali attuali sulla mobilità.