Indipendenza. L’ex viceministro va all’Autorità sui conti ?

Avevamo già visto, per non citarne che due, il dermatologo del Pd diventare garante della Privacy e l’ex dirigente di Publitalia, poi deputato berlusconiano, all’Authority per le comunicazioni e quindi sappiamo quanto psichiatricamente complessa sia la relazione che intercorre tra la politica (e l’establishment e le lobby più in generale) con quegli equivoci noti come Autorità indipendenti. Sono un equivoco a vari livelli, ma quello che qui interessa riguarda appunto il rapporto con la politica: il legislatore ha sì scelto – o s’è lasciato imporre – di avere questi corpi estranei a controllare e regolare alcuni settori della vita pubblica, ma non si rassegna a quanto lei stessa ha approvato e, dietro la finta dei curricula e delle competenze, continua a giocare la partita ben più sostanziale delle affiliazioni di partito o personali.

È così che s’è arrivati al dermatologo e al pubblicitario ed è sempre così che si vorrebbe pervenire al commercialista. Tra le mille poltrone che rischiano di restare bloccate dallo stallo messicano giallorosa, infatti, ci sono le tre dell’Ufficio parlamentare di bilancio, una sorta di Autorità indipendente sui conti pubblici prevista dal Fiscal Compact e introdotta per legge ai tempi di Monti. Il Consiglio che la regge, in carica per sei anni non rinnovabili, è attualmente composto dagli economisti Pisauro e Zanardi, e dalla funzionaria del Senato Chiara Goretti.

Il meccanismo di nomina funziona così: i tre vengono scelti dai presidenti di Camera e Senato “in un elenco di dieci soggetti indicati dalle Commissioni parlamentari competenti”. E che requisiti servono per “validare” le stime economiche del governo? “Riconosciuta indipendenza e comprovata competenza ed esperienza in materia di economia e di finanza pubblica a livello nazionale e internazionale”.

Ecco, tra gli aspiranti con buone probabilità di finire nella short list risulta al Fatto ci sia Enrico Zanetti, commercialista già a capo del centro studi della sua categoria, deputato eletto con Monti, sottosegretario e viceministro all’Economia con Renzi, candidato sfortunato nel 2018 – dopo un flirt con Verdini – in un accrocchio centrista con Lupi&Fitto. Desiderano vederlo ascendere all’alto incarico un pezzo del centrodestra e i renziani. Ora, avremmo da dire assai pure sulla “comprovata esperienza” in materia di finanza pubblica, ma come faranno a non ridere quando dovranno certificarne la “riconosciuta indipendenza”?

 

Autostrade, i veri numeri della guerra Cdp-Atlantia

Che la partita non fosse chiusa lo si era capito da subito, osservando il comunicato Stampa del Consiglio dei Ministri diffuso nella prima mattina del 15 luglio scorso. Nell’accordo che era stato raggiunto con Atlantia riguardo alla definizione dei rapporti di concessione con Autostrade per l’Italia (Aspi) mancava un elemento essenziale: il prezzo al quale viene valutata Autostrade per l’Italia. Senza questo elemento, tutti gli altri punti che riguardano il futuro assetto societario del concessionario rimanevano un grosso punto interrogativo. In assenza di un prezzo anche il giudizio sull’operazione ha lasciato spazio a valutazioni diametralmente opposte; dall’esproprio proletario “in stile venezuelano”, al regalo fatto ai Benetton con soldi dei contribuenti. Il “rilevantissimo piano di manutenzione e investimenti” e la procedura attraverso la quale consentire a Cassa Depositi e Prestiti (Cdp) di investire in Aspi e determinarne il nuovo assetto azionario dipendono tutti dalla valutazione che si vuol ricavare dalla transazione.

Cdp, potendo assumere partecipazioni in aziende “che risultino in una stabile situazione di equilibrio finanziario, patrimoniale ed economico e siano caratterizzate da adeguate prospettive di redditività”, non può entrare in Aspi a valori che non siano coerenti con il nuovo piano economico e finanziario. All’interno di questo piano, l’accettazione del meccanismo di incremento tariffario basato sul cosiddetto tetto al prezzo (price cap), che lega l’andamento delle tariffe a specifici obiettivi di efficienza del gestore piuttosto che agli investimenti programmati (anche se poi non realizzati), comporterà per il futuro aumenti tariffari più contenuti rispetto a quelli ottenuti in passato. Dall’altra parte c’è l’interesse di Atlantia, messa da parte la minaccia di una revoca della concessione che avrebbe reso non così improbabile il suo default in conseguenza di quello di Aspi, a vedersi riconosciuto un valore di mercato che non sia troppo penalizzante. A complicare le cose è arrivata la crisi economica legata al Covid che ha depresso i valori di gran parte delle partecipate di Atlantia. Il calo del titolo Atlantia, che dalla fine di gennaio ad oggi ha perso quasi 6,6 miliardi di capitalizzazione (più del 35%), sconta infatti non solo una probabile (ma adesso sempre di meno) revoca della concessione, ma soprattutto il considerevole calo dei volumi di traffico delle principali controllate europee e sudamericane avvenuto in questi mesi. Un calo che ha coinvolto come noto anche Aspi e che, stando alle stime di J.P. Morgan, dovrebbe farle registrare quest’anno, escludendo l’effetto straordinario degli accantonamenti per i danni del crollo del ponte Morandi, un margine lordo di poco superiore a 1,8 miliardi, il valore in assoluto più basso degli ultimi 10 anni.

Se dovessimo valutare oggi Aspi solo sulla base del margine di quest’anno, applicando un multiplo tra il valore di impresa in rapporto al margine lordo pari a 8, che è in linea con quello comunemente utilizzato per questo tipo di settore, il valore sarebbe di circa 6 miliardi, molto vicino a quello contabile che Atlantia ha della partecipazione in Aspi.

In sostanza, se l’operazione tra Governo/Cdp e Atlantia fosse conclusa a questi valori, Benetton e soci uscirebbero senza alcuna plusvalenza. Invece, se si tenesse conto di un pronto recupero del traffico autostradale che nel 2021 ritornasse ai livelli dello scorso anno e di un nuovo piano tariffario con aumenti a price cap a 1,75%, come Aspi si è detta disposta ad accettare nella lettera inviata al Governo l’11 luglio scorso, il margine operativo lordo potrebbe esser stimato a circa 2,3 miliardi di euro, ancora escludendo gli accantonamenti legati al ponte Morandi. Applicando lo stesso multiplo visto in precedenza, Aspi varrebbe circa 10 miliardi di euro.

Se poi, come vorrebbero alcuni fondi azionisti di Atlantia, l’operazione dovesse esser condotta in modo da valorizzare non solo l’operatività di Aspi ma anche il suo controllo, una eventuale Offerta Pubblica di Acquisto sul mercato da parte di Cdp e altri investitori potrebbe far aumentare ancora la valutazione del 30/40% riportandone il valore ad un livello non così distante da quello al quale fu valutata nel giugno del 2018, prima del crollo del ponte Morandi e della crisi Covid, quando Atlantia cedette circa il 12% della propria partecipazione allo scopo di recuperare parte delle risorse necessarie per finanziare l’operazione di acquisizione della spagnola Abertis. In quest’ultimo caso, l’operazione non sarebbe economicamente conveniente per CDP e gli altri nuovi investitori.

Anche ipotizzare che nel 2021 il margine lordo possa riportarsi ai 2,3 miliardi stimati in precedenza, però, è un esercizio estremamente incerto. Incerto perché ancora non si conoscono i termini della nuova concessione e quindi delle nuove tariffe. Incerto perché non sappiamo l’evoluzione della crisi economica in atto e quindi dei volumi di traffico. Incerto perché non essendosi conclusi i vari procedimenti legati al crollo del Morandi, gli oneri risarcitori ad esso collegati non sono ancora stimabili. In questa incertezza riesce difficile ipotizzare a breve un accordo tra le parti. In assenza di un valore più o meno condiviso, la partita che si voleva chiudere entro oggi, in occasione dell’inaugurazione del nuovo ponte sul Polcevera, si trascinerà ancora per un po’ di tempo.

In agonia da 11 anni, ferma da 6: Alcoa e la vertenza eterna

“Oggi è un piccolo passo. Non c’è ancora niente da festeggiare”. Il presente e il futuro dell’ex Alcoa di Portovesme, oggi Syder Alloys, sono tutti racchiusi nelle parole della sottosegretaria allo Sviluppo Alessandra Todde, al termine del vertice ministeriale convocato il 28 luglio nella fabbrica del Sulcis, ad appena una settimana dalla chiusura dell’accordo con Enel che assicura l’ energia a prezzi competitivi con la formula del 5 più 5: ovvero cinque anni più cinque di fornitura agevolata in grado di far ripartire lo stabilimento e dargli una prospettiva nel mercato mondiale dell’alluminio.

L’ex Alcoa è la vertenza simbolo del Sulcis Iglesiente, la provincia più povera d’Italia, dove il miraggio dello sviluppo industriale negli anni 60-70 del Novecento ha lasciato più macerie. Qui la disperazione ha gli occhi e il volto dei quasi 3000 lavoratori in cassa integrazione del Sulcis, cioè il 35% dell’intera regione. La maggior parte di loro sono operai e specializzati dell’indotto che ruota intorno alle grandi fabbriche di Portovesme: Eurallumina, Portovesme srl, ex-Ila ed ex-Alcoa.

Al picco di produzione, a fine anni 90, gli impianti di Portovesme appena ceduti dalla Alumix (a partecipazione statale) all’americana Alcoa producevano 155mila tonnellate di alluminio primario con circa mille addetti per un fatturato di 580 milioni di euro. Poi la crisi, iniziata nel 2009 coi primi tagli all’occupazione e l’avvio di una dura vertenza. Nel balletto delle trattative per la cessione degli impianti si susseguono senza successo Glencore e Klesh, sino alla fine del 2015, quando arriva la proposta d’acquisto della multinazionale svizzera Syder Alloys, formalizzata due anni dopo con la benedizione di ministero dello Sviluppo, Invitalia e Regione Sardegna. Il revamping degli impianti però, più volte annunciato, viene continuamente rimandato. Ora, con la firma dell’accordo sull’energia, potrebbe essere arrivato il momento della svolta: sono passati 11 anni dall’inizio della vertenza, sei dalla fermata totale degli impianti.

Nel vertice di martedì è stato confermato il piano di investimenti da 150 milioni: 20 a carico della vecchia proprietà, 8 della Regione e 84 di Invitalia, il grosso del contratto di sviluppo voluto nel 2017 dall’allora ministro Calenda. Di quell’accordo faceva parte anche il cosiddetto “Pacchetto Calenda” sull’energia, da rivedere in un’ottica “di sistema” dopo l’intesa con Enel e la disponibilità dichiarata alla riconversione della centrale elettrica “Grazia Deledda” in vista del phase out dal carbone. La strada del gas sembra ormai tracciata, attraverso il trasporto via mare e i centri di rigassificazione sulla costa: “Il progetto di virtual pipeline – spiega la sottosegretaria Todde – prevede due punti di stoccaggio e riconversione, a Portovesme e Porto Torres, in prossimità di due centrali che hanno dato la loro disponibilità alla riconversione. Un passo fondamentale non soltanto in vista della transizione energetica, ma anche perché, con 400 megawatt di potenza già installata, consente di mantenere la produzione di energia in Sardegna, senza dipendere da rifornimenti esterni”.

Se il nodo energia sembra in via di superamento, ora per Syder Alloys l’incognita è il piano industriale, che dovrà scandire tempi e modi della produzione e il riassorbimento dei circa 500 lavoratori ancora fuori dai cancelli: se ne parla a settembre, mentre tra 18 mesi – se tutto va bene – dovrebbe arrivare la prima colata di alluminio primario dalle celle elettrolitiche: “I tempi della produzione in questo caso sono strettamente legati a quelli della fornitura energetica”, ha spiegato l’ad di Syder Alloys Giuseppe Mannina. Dunque non prima di gennaio 2022. Tempi decisamente più brevi per l’avvio della produzione secondaria in fonderia: un anno.

Da Embraco a Mercatone Uno. Ecco i tavoli spolpati dalla crisi

“È stata risolta una crisi frutto delle inadempienze del passato. Grazie al ministro Carlo Calenda è stato trovato un accordo che sembrava impossibile”, dichiarava l’ex premier Matteo Renzi il 30 maggio 2016 sul caso del call center Almaviva. Peccato che 7 mesi più tardi, la crisi gestita dal ministro dello Sviluppo economico si sia chiusa con 1.666 lavoratori licenziati nella sede di Roma. Gli 840 centralinisti della sede di Napoli hanno accettato il ricatto di tagliarsi lo stipendio. Almaviva è uno dei più grandi fallimenti nella storia delle trattative sindacali italiane, nonché uno dei 102 tavoli di crisi aperti al Mise da più di tre anni sugli attuali 150 totali. Ma ce ne sono addirittura 28 attivi da più di 7 anni. Tre nomi su tutti: Ilva, Alitalia e Alcoa (l’approfondimento è nella pagina accanto).

Il resto delle crisi è una costante di quello che è avvenuto per anni nelle stanze del Mise: le questioni restano irrisolte con 300mila lavoratori a rischio. I progetti di rilancio rimangono su carta, si delocalizza all’improvviso, non si rispettano accordi e piani industriali approvati, come nel caso di Whirlpool. E i ministri dello Sviluppo che si avvicendano continuano a rimpallarsi colpe e responsabilità, lamentando di ricevere in eredità solo proroghe della cassa integrazione straordinaria, ma nessuna soluzione strutturale. Tanto che il numero attuale dei tavoli aperti, 150, è in linea con quelli degli ultimi 6 anni: 160 nel 2014, 151 nel 2015, 148 nel 2016, 165 nel 2017, 144 nel 2018 e 149 nel 2019. Il ministro Stefano Patuanelli negli scorsi mesi ha giudicato immotivato l’attacco arrivato dell’ex collega Calenda che, commentando la spinosa questione Embraco, ha parlato di “un’esplosione dei tavoli di crisi”. Del resto, la vertenza dello stabilimento torinese è figlia della gestione dello stesso Calenda, emblema di diversi falliti tentativi di salvare le aziende e gli operai. Una rassegna dei casi più eclatanti.

Embraco. La crisi esplode a inizio 2018, 5 mesi prima che il ministro Calenda lasci la poltrona a Luigi Di Maio; entrambi nel corso degli anni hanno dato la vicenda per risolta. Il gruppo brasiliano (allora faceva parte della multinazionale Usa Whirlpool) decide di chiudere lo stabilimento di Riva di Chieri nel Torinese, di delocalizzare la produzione dei compressori per frigoriferi e di licenziare 517 dipendenti. Un centinaio di lavoratori sceglie l’uscita incentivata con 60mila euro, ma 407 danno fiducia al progetto di reindustrializzazione affidata alla Ventures (la società è stata selezionata dall’Invitalia del commissario Covid Domenico Arcuri) e avvallata da Calenda. Il piano scatta l’11 luglio 2018, c’è Di Maio, con un contributo statale di 49mila euro per ogni dipendente tenuto. A gennaio 2019 è previsto l’inizio della produzione di robot pulitori di pannelli fotovoltaici, mai avvenuta. Ora i pm indagano sull’utilizzo dei fondi destinati alla reindustrializzazione del sito: i soldi avrebbero dovuto rilanciare l’ex Embraco – ha ricostruito il fatto.it – sarebbero finito sui conti esteri dei manager di Ventures. Secondo i pm “il denaro è stato quasi interamente distratto disperdendosi in rivoli che nulla hanno a che vedere con la continuità aziendale e con la salvaguardia dei livelli occupazionali”. Almeno 3 milioni di euro dei 20 al centro dell’intesa sono stati usati per pagare finte consulenze d’oro a proprietari e manager della società, comprare auto di lusso ed estinguere prestiti personali. A giugno è stata depositata istanza di fallimento e il 23 luglio il tribunale di Torino ha dichiarato fallita Ventures. Ora i 407 dipendenti non hanno più la cassa integrazione. La Regione Piemonte si è impegnata ad accelerare la richiesta di Cig e la sottosegretaria al Mise con delega alle crisi d’impresa Alessandra Todde ha annunciato per mercoledì la convocazione di un tavolo a Torino.

Whirlpool. Avviata un anno fa la procedura di chiusura per il sito di Napoli in cui lavorano 430 persone, i vertici della multinazionale venerdì scorso hanno confermato che la fabbrica chiuderà il 31 ottobre del 2020, vale a dire a due anni dall’accordo con cui la proprietà si era impegnata al rilancio degli impianti senza spostare la produzione di lavatrici verso Polonia e Cina. Una decisione che stralcia l’accordo con governo e Regione Campania, siglato il 25 ottobre 2018 da Di Maio, che ha messo a disposizione quasi 50 milioni di euro per continuare la produzione a Napoli. Già a settembre 2019 Whirlpool ha fatto sapere che lo stanziamento non avrebbe garantito la sopravvivenza di lungo periodo del sito. Una bomba sociale pronta ad esplodere. I lavoratori non si rassegnano e continuano la mobilitazione. Il governo, attraverso la sottosegretaria Todde, ha confermato la volontà di lavorare affinchè Whirlpool rispetti gli accordi e resti a Napoli dopo che sono state messe a disposizione circa 100 milioni di euro di risorse pubbliche. Naufragata anche l’ipotesi degli svizzeri della Passive Refrigeration Solutions (dai finanziatori sconosciuti) che giovedì scorso si sono ritirati. Invitalia ha selezionato due imprese interessate a subentrare: Adler Group e Htl Fitting. Le difficoltà dello stabilimento partenopeo sono note anche prima del 25 ottobre 2018, quando la Whirlpool ha siglato l’accordo con Di Maio. Già a febbraio 2018, Calenda – che ha accusato l’attuale ministro degli Esteri di aver aspettato le Europee per annunciare le intenzioni di Whirlpool di chiudere lo stabilimento di Napoli – aveva pensato di chiudere la partita lavorando su un altro tavolo legato al gruppo Whirlpool: la crisi della Embraco. Questo piano è durato meno di un mese e 7 mesi dopo si è riaperta la crisi su Napoli.

Blutec. Quella di Termini Imerese (Palermo), dove la magistratura indaga sul fallimentare tentativo di rilancio dell’ex impianto Fiat, è una delle crisi più datate: lo stabilimento è stato chiuso nel 2011. Roberto Ginatta, buon amico e socio in affari di Andrea Agnelli, è l’uomo scelto dal governo Renzi nel dicembre 2014 per salvare lo stabilimento. Ginatta è accusato di aver distratto 16,5 milioni di euro di finanziamenti pubblici, erogati dalla Regione Sicilia per il tramite di Invitalia per sostenere il programma di sviluppo finalizzato alla riconversione e riqualificazione del polo industriale. Da ottobre 2019, la ex Blutec è in amministrazione straordinaria. I Commissari nominati non hanno ancora individuato la nuova missione produttiva. Il bando per la manifestazione di interesse ad acquisire gli stabilimenti è scaduto a maggio. Il Mise lo scorso mese ha ottenuto la proroga dell’amministrazione straordinaria che concede altra cig ai 670 lavoratori.

Mercatone Uno. Si è perso il conto dei tavoli convocati al Mise per risolvere l’annosa questione dell’Ikea italiana, resa famosa dai trionfi ciclistici di Marco Pantani. Si inizia con l’allora ministra Federica Guidi nel 2015 quando, a causa di un crollo del fatturato, l’azienda annuncia inizialmente la riduzione del 50% dei punti vendita. Per i dipendenti è tempo di licenziamenti e cassa integrazione, e presto si aprono le porte del commissariamento. Dopo tre bandi di vendita andati deserti, a dicembre 2017 , sul tavolo dei commissari straordinari arrivano 7 offerte vincolanti per l’acquisto dell’azienda, tra cui quella della Shernon Holding (controllata al 100% da una società maltese) che promette continuità occupazionale e il raddoppio del fatturato in 4 anni grazie a 25 milioni di euro di investimenti. Calenda approva, ma ad aprile 2019 Di Maio assiste impotente alla domanda di ammissione al concordato preventivo della Shernon. A maggio viene dichiarata fallita: i 1.643 dipendenti lo vengono a sapere via Whatsapp, mentre i clienti che hanno versato acconti per migliaia di euro perdono tutto. I lavoratori, esaurita la cassa a zero ore, ora beneficiano della Cig straordinaria prevista dal dl Rilancio. Dei 55 negozi, meno di 10 sono stati venduti salvaguardando 200 lavoratori.

“Accadde domani”. Il futuro odora di vecchio: il sogno dei cronisti e la gran noia di tutti gli altri

L’altra notte in tv davano un vecchio film di René Clair con Dick Powell e Linda Darnell, Accadde domani, la storia di un cronista sfortunato che comincia a ricevere ogni sera da un fantasma amico il giornale con le notizie del giorno dopo; ne approfitta, se le rivende e diventa ricco e famoso.

Idea grandiosa per un bellissimo film. I bei film io me li rigiro nella mente e ne divento la protagonista, mi immedesimo come in un sogno, e nel mio sogno la sensazione era bellissima: andavo in giro sapendo prima degli altri quello che sarebbe accaduto il giorno dopo, anche i fatti privati, che so: Gino lascerà Manolita, oppure Silvana si metterà con Maria, quel tal negozio fallirà o quel ristorante magari anche, lo spettacolo più brutto del mondo che debutterà domani sera sarà un trionfo, insomma cose normali che accadono in Italia.

Ma nel mio film io non ero una giornalista, ero semplicemente io, e dopo un po’ la trama ha iniziato ad annoiarmi, la sensazione bellissima si è viziata di un sapore stantio. Sapere il giorno prima che domani la Juventus vincerà l’ennesimo scudetto è tutt’altro che uno scoop; che domani il governo metterà una tassa speciale per combattere l’evasione fiscale zzz che continua ad aumentare zzz, oppure che da domani a Roma saranno ordinati mille autobus nuovi che però non sono ancora pronti zzz, che l’Eurotassa ci sarà restituita ZZZZ… I fatti, nudi e crudi, vengono rimbalzati sui giornali con più o meno interesse a seconda dell’estro di più o meno importanti penne. La realtà si nutre della rappresentazione di se stessa. I giornalisti lo sanno, i migliori almeno.

Ah dimenticavo, nel film il giornalista scopre che sul giornale del giorno dopo c’è il suo necrologio. Nel mio film invece mi sono immaginata il più bello dei coccodrilli e soprattutto ho mandato a quel paese il fantasma inutile.

(Ha collaborato Massimiliano Giovanetti)

 

Rischio sovranista. La via repubblicana di Laclau: “Saldatura fra populismo e democrazia radicale”

Giacomo Marramao avverte subito, nel suo libro edito da Castelvecchi, Sulla sindrome populista: “Ciò che stiamo vivendo ora è un dispositivo strategico di svalutazione”. Cito un piccolo libro, indispensabile alle discussioni che divampano e all’asprezza, sempre meno tollerante, che divide l’Italia e l’Occidente. Un’altra frase chiave: “Si tratta di distinguere fra un conflitto di valori (…) e le strategie di delegittimazione reciproca fra competitori politici che perseguono obiettivi di occupazione del potere”.

Ecco il punto centrale: non domandatevi se il populismo è degno o indegno protagonista del momento. Chiedetevi perché è qui, con tanta forza e la pretesa di condurre verso un nuovo mondo. Ma, avverte Marramao, attenzione allo spazio dell’ “interregno”, fra il prima e il dopo. Incontrerete “un ibrido rappresentato dal mix di antipolitica e retorica iperdemocratica che caratterizza la vera natura del popolo nei movimenti populisti”.

L’idea è questa: “Da una parte c’è il popolo come unità sostanziale omogenea e fattore di identità. Dall’altra il popolo virtuoso contro i suoi rappresentanti corrotti”, (Marramao cita Diamanti e Lazar), “la cui sovranità può essere riscattata solo da un capo capace di incarnare la volontà”. Ma la proposta del pamphlet è che vi sia una terza uscita: “Una democrazia antagonistica e al tempo stesso pluralistica e anti-autoritaria”. Scartare questa terza via, ammonisce l’autore, sarebbe un grave errore. Marramao indica le fonti culturali del populismo rimodellato e corretto (si potrebbe dire: immerso nella cultura e sottratto all’istinto di piazza del populismo, così come lo si conosce, lo si invoca e lo si combatte): ovvero, le teorie del filosofo francese Ernesto Laclau e della politologa Chantal Mouffe.

Laclau inverte l’ordine dei pezzi: il popolo non è alla fine di una marcia che lo porta allo scontro, ma all’inizio di un percorso che ne fa un protagonista. La politica è ancora lo strumento che può dare senso, anche linguistico, alla comunicazione fra le parti. Il concetto di egemonia gramsciana che Laclau chiama in campo (benché con un ruolo multiplo e complesso) resuscita le classi e il conflitto, che non si dissolve affatto nel miracolo di un popolo antagonista, portatore unico di sue ragioni. Il risultato del lavoro di Laclau – e presentato da Marramao come una proposta capace di schiodare l’immobilismo combattivo del populismo alla caccia della politica, e della politica che sbarra la strada al populismo – è quello di “una saldatura fra populismo e democrazia radicale guidata da una strategia egemonica”. Come osserva alla fine l’autore, “molto resta da discutere”.

E propone di farlo “tenendo conto della doppia anima della democrazia moderna: l’anima madisoniana con il principio di limitazione del potere, ivi compreso il potere del popolo sovrano; l’anima populista col principio della partecipazione”. Qui il libro mostra da vicino il terreno friabile del rischio.

 

Sulla sindrome populista

Giacomo Marramao

Pagine: 48

Prezzo: 6

Editore: Castelvecchi

Brasile. Lula, la sua condanna e le ombre dell’interesse Usa

La civiltà avanza. Anni fa in Sud America l’unica strada per togliere di mezzo un governo legittimo implicava l’intervento delle Forze armate e una notevole dose di ferocia. Da alcuni anni è lecito sospettare che nelle democrazie parlamentari meno strutturate sia possibile raggiungere lo stesso scopo percorrendo una scorciatoia più semplice e incruenta, in apparenza perfettamente legale: la via giudiziaria.

Questa grossomodo è la tesi che Luiz Inacio da Silva, per tutti Lula, ha promesso di provare nei prossimi mesi. Leader storico del ‘partito dei lavoratori’, il Pt, e presidente del Brasile dal 2003 al 2010, Lula fu arrestato nel 2018 per corruzione insieme a decine di politici del suo e di altri partiti brasiliani. Condannato a 12 anni, è stato scarcerato dopo diciannove mesi perché secondo la Corte suprema il suo processo era viziato da pregiudizio politico e deve essere rifatto. Nel frattempo l’accusatore di Lula, il pm Sergio Moro, è diventato ministro della Giustizia del governo formato dalla destra di Bolsonaro, che ha vinto le elezioni.

Lula ritiene di poter provare che il procedimento contro di lui è stato ispirato dall’Fbi e dal dipartimento della Giustizia Usa. Motivo principale: il petrolio. Il Pt aveva ripristinato i privilegi di Petrobras, la compagnia petrolifera nazionale, rivale delle grandi compagnie americane. La nazionalizzazione, di fatto l’esproprio, delle miniere di rame cilene di proprietà americana era stata una delle ragioni per le quali il governo di Salvador Allende era stato rovesciato da un colpo di stato. La storia si ripete in altra forma? La corruzione che ha travolto i partiti brasiliani, incluso il Pt, non è un’invenzione delle procure. Ma se Lula fosse personalmente innocente e riuscisse a provare che c’è stato un ‘aiutino’ americano all’accusa, la vicenda acquisterebbe una diversa dimensione.

E forse illuminerebbe di diversa luce quanto avvenuto nella vicina Bolivia, dove, con modalità assai opache, il presidente Evo Morales è stato incriminato dalla magistratura e costretto a dimettersi.

Gli industriali “sanno cosa serve davvero”. Siamo sicuri?

Per capire il declino italiano, basta confrontare le infinite crisi industriali (che leggete a sinistra) con le esternazioni dei campioni della Confindustria. Non bastasse la piaga di quegli economisti a cui gli studi conferiscono più arroganza che visione sociale, ci toccano anche gli imprenditori a cui la ricchezza non assicura lungimiranza.

Giovedì l’Istat ha detto che rispetto a febbraio si sono persi 600 mila posti di lavoro. “Occorre tenere presente la gravità di questi dati nonostante il blocco dei licenziamenti e l’altissimo ricorso alla cassa integrazione, o il risultato sarebbe disastroso; per questo devono continuare”, ha spiegato Fulvio Fammoni della Fondazione Di Vittorio (Cgil). Nello stesso giorno, il bollettino economico della Bce segnalava che gli ammortizzatori sociali hanno contenuto enormemente la disoccupazione nell’area euro nonostante il crollo delle ore lavorate (-30%). In Italia sono 8,1 milioni i lavoratori coinvolti. Se anche solo metà di quelli in Cig straordinaria per Covid fossero stati licenziati, la disoccupazione sarebbe al 25%. Si può discutere di come superare misure d’emergenza, invece gli industriali si stracciano le vesti solo per rimuovere il blocco dei licenziamenti o avere la Cig senza condizioni. Poco importa il disastro che si profila.

Il giorno dopo, sul Sole 24 Ore, il vicepresidente addetto alle relazioni industriali, Maurizio Stirpe, tuonava contro il solito “clima anti industriale” e la bozza del prossimo “decreto Agosto”: “Al blocco dei licenziamenti deve corrispondere una cassa integrazione Covid senza condizioni, non con la griglia di costi aggiuntivi prevista nei testi circolati finora”. Ce l’aveva con l’ipotesi di far pagare un contributo alle imprese che useranno la Cig Covid pur avendo un calo di fatturato inferiore al 20%. Una scelta logica del governo dopo che le stime hanno mostrato che un terzo delle ore Cig è stata usata da imprese che non erano affatto in crisi. Insomma: fateci ridurre il costo del lavoro via sussidio o via licenziamenti. Non basta neppure la nuova infornata di decontribuzioni in arrivo.

“Gli imprenditori sanno cosa serve”, spiegò il neo presidente Carlo Bonomi poco prima di insediarsi a Viale dell’Astronomia. Sarà…

Ululati in tv: “Ognuno fa quel che vuole”. Scatta la rivoluzione del Coyote Tardelli

Se in Italia venisse commissionato il sondaggio: “Conosce o ha sentito parlare di più: A) dell’Urlo di Munch; B) dell’Urlo di Tardelli”, nonostante il dipinto del pittore norvegese sia uno dei più conosciuti al mondo, l’Urlo di Tardelli stravincerebbe. Sono passati 38 anni dalla finale mondiale Italia-Germania 3-1, la partita che consegnò ai posteri la sfrenata, smodata, irrefrenabile esultanza di Tardelli, “Schizzo” per gli amici, “Coyote” per il c.t. Bearzot che lo chiamava così per l’insonnia cronica che costringeva il giocatore a trascorrere le notti ululando solitario alla luna.

Una vita è passata dal quel leggendario gol ma la notizia, fresca di questi (non esattamente freschi) giorni è che il “Coyote” ha ripreso a ululare. Sempre di notte, esattamente a 90° Minuto Notte Gol (RaiDue), dove Tardelli è opinionista fisso, lasciando tutti allibiti per lo stridore e la disarmonia del lamentoso ululato. Motivo: Massimo Moratti aveva criticato la scelta della Juventus di festeggiare il 36° scudetto esibendo allo Stadium il numero 38 (comprensivo dei due scudetti cancellati dalla giustizia sportiva, uno dei quali finito all’Inter). “Io credo – ha ribattuto Tardelli – che adesso bisognerebbe smetterla con queste critiche, anche perchè la Juventus ha vinto quello che ha vinto sul campo. Io ho visto 38… o metterli o non metterli poi vedremo, poi la storia dirà qualcosa. Io credo che uno decida di mettere quello che vuole: poi gli altri lo giudicano, nel bene e nel male. Io metterei… se ho vinto 38 scudetti secondo me, metto 38 scudetti”. Dove si dimostra che si può essere fuoriclasse assoluti in un campo (Tardelli lo è stato come calciatore), ma somaro in tutti gli altri.

L’ex juventino, appese le scarpe al chiodo, aveva intrapreso la carriera d’allenatore. Proprio Moratti l’aveva chiamato nel 2000-2001 a sostituire Lippi sulla panchina dell’Inter, e di mister Tardelli si ricordano ancora oggi le sconfitte per 0-6 nel derby contro il Milan di Comandini e per 1-6 contro il Parma in Coppa Italia. Javier Zanetti, nella sua autobiografia, ha scritto: “Appena arrivato a Milano mi fa cenno con il dito di avvicinarmi e mi chiede: ‘Tu sei il capitano, giusto?’. Una domanda già curiosa: lo sa tutta Italia che sono io a giocare con la fascia nell’Inter. Con rispetto gli rispondo: ‘Sono capitano dell’Inter, mister’. ‘Guarda, non mi piaci per niente quando porti palla (un po’ come dire a Gigi Riva di non giocare col piede sinistro, n.d.r.). Devi darla via prima, hai capito?’. ‘Mister, allora temo ci sarà un problema. Perché queste sono le mie caratteristiche’”. In Egitto lo assunsero come c.t. nel febbraio 2004 e ad ottobre lo cacciarono; ad Arezzo lo chiamarono a sostituire Marino a febbraio 2005 e ad aprile richiamarono Marino. Fine della carriera di allenatore.

Oggi Marco Tardelli si è autocandidato alla presidenza del sindacato calciatori: e potrebbe anche farcela perché il suo programma è destinato a fare presa. L’abbiamo letto in anteprima: “Se l’arbitro convalida un gol che ritenete irregolare, riprendete il gioco con una punizione a vostro favore: ognuno decide come vuole. Se l’allenatore vi sostituisce e voi non gradite, restate in campo: ognuno decide come vuole. E se l’arbitro vi mostra un cartellino rosso, voi non fateci caso e continuate a giocare: ognuno decide come vuole. Poi la storia dirà qualcosa”. Lunga vita al “Coyote” che ritorna.

 

100 fiori di legalità. Basta solo un corrotto per naufragare (e un virtuoso per rinascere)

Quant’è bella giovinezza. E soprattutto: quanto è bello incontrarla più volte mentre è in cammino. Ritrovare i giovani che si fanno adulti senza il lampo dell’ambizione che sbriciola gli ideali. Questo ho pensato riunendo per tre giorni in un ostello di Como una ventina tra laureati, ricercatori e studenti. Studenti pochi. Volevo soprattutto riunire miei ex allievi trentenni. Per sapere che uso stiano facendo – oggi, nel lavoro – di quei corsi sulla criminalità organizzata che li appassionavano in università. Che rapporto ci sia tra le tesi di laurea e la funzione sociale. E per rinnovare la nostra comunità scientifica studiando insieme quel formidabile distretto di reti mafiose che, stando alle indagini degli ultimi anni, si è costituito, sotterraneo quanto intenso, nella provincia di Como.

Me li riguardavo tutti durante questa speciale università itinerante. Cambiati in certi lineamenti ma non nell’espressione. Con acerbe biografie alle spalle, qualcuno con cenni di fili ingrigiti, ma ancora vogliosi di imparare, di “esserci”. Da tempo mi chiedo che cosa faranno nella vita i giovani che studiano queste materie. Ora iniziano le risposte. C’è chi lavora all’antiriciclaggio in una grande banca ed è di riferimento per i colleghi, “è lei che sa bene queste cose”. C’è chi fa il sottufficiale nelle forze dell’ordine, l’unico di centinaia di nuovi marescialli che abbia chiesto la Calabria tra i non calabresi. Chi si accinge a partecipare a uno speciale concorso che lo porti nell’Arma corrosa dalle polemiche come ufficiale leale e analista raffinato. Chi ha appena vinto un importante concorso per dirigente in un grande Comune dove si occuperà di anticorruzione. Chi fa la giornalista di battaglia, umile e studiosissima, per un grande quotidiano. Chi ha un ruolo burocratico fondamentale in una importante commissione antimafia regionale. Chi primeggia in assoluto nei suoi temi tra i ricercatori universitari, con tutti i segni di riconoscimento della futura intellettuale. Chi ha rinunciato alla vita accademica per un posto di responsabilità nell’accoglienza dei migranti in una grande città del Nord.

E c’è anche la ragazza più giovane, volontaria da quattro anni in un celebre bene confiscato lombardo. O l’altra studentessa che ha contestato in aula il suo docente di diritto penitenziario che a lezione si doleva del 41 bis per Totò Riina, privato di ogni diritto “anche se non costituiva più un pericolo attuale” (“scusi, ma lo sa che dal 41 bis ha ordinato l’assassinio del sostituto procuratore Di Matteo?”).

Vederli commuove e smuove. Anche quando prendono l’aperitivo. Anche quando cantano. Allora è possibile, pensi. Allora è possibile immettere gradualmente nella nostra società gli antidoti necessari. Nei mestieri e nelle professioni di tutti i giorni. Ci siamo detti con loro che basta un corrotto, una “talpa”, un dipendente infedele ai livelli più bassi per rovinare un ambiente intero, ma che basta una persona virtuosa per fare il contrario, produrre fatti, trasmettere culture.

Li ho sentiti parlare, nelle sere, dei loro desideri, ragionare con precisione di linguaggio, evocare le Lezioni americane di Calvino. Ho sentito il suono della giustizia in quell’età in cui in molti, anche nel cosiddetto “terzo settore”, iniziano a sgomitare da mercenari delle idee. E ho sentito che quell’aria da “Grande freddo” era splendidamente insolita. Il passato comune come punto di partenza, certo. Solo che il pensiero andava al futuro. Dall’università degli Studi di Milano verso i tanti luoghi d’Italia per cambiarla. Tutti convinti che basti un maresciallo a libro paga o un infermiere affiliato ai clan per sfregiare la vita quotidiana. Ma anche che bastino un funzionario anticorruzione o un impiegato antiriciclaggio onesti e competenti per renderla più civile. Scoperte da niente. Scoperte da rivoluzione.