Bersani-Letta-Renzi e Zinga: la donna dei mille convogli scivola sulle rotaie

Curioso contrappasso quello di Paola De Micheli: la ministra che non ha mai perso un treno è inciampata sulle rotaie. La telefonata furibonda di Roberto Speranza sarà pure una fantasia giornalistica (l’ha smentita egli stesso); le linee guida sul riempimento dei vagoni saranno pure stabilite nel Dpcm di Conte, ma resta una sensazione: che sia successo tutto all’insaputa del ministro dei Trasporti, e nella sua completa inconsapevolezza, non è una gran figura.

Come dicevamo, De Micheli non è mai rimasta a piedi – proprio mai – nella sua longeva carriera politica. Quando prende la prima tessera di partito non è ancora maggiorenne: è quella della Dc di Piacenza, la sua città. Dopo Tangentopoli diventa la guida dei giovani popolari del Ppi. Ma la sua ascesa non è una linea retta: ancora giovane, De Micheli devia a sorpresa sull’imprenditoria.

Non è un successone: tra il 1998 e il 2003 è presidente e ad di Agridoro, una cooperativa di trasformazione del pomodoro, ma la coop finisce in amministrazione coatta con 5 milioni di buco, spolpata – letteralmente – dalla concorrenza micidiale delle passate cinesi. Poco male: è a partire da questo fallimento che De Micheli mette in mostra capacità quasi eroiche di riciclarsi.

In un duplice senso: riprende il percorso politico da dove l’aveva interrotto (nella Margherita) e mantiene un piede pure anche nella staffa industriale. Pochi anni dopo il tracollo imprenditoriale “per colpa” della concorrenza cinese – altro contrappasso – aggiunge a curriculum un’esperienza da consulente “presso Urumqi, Xingjiang”: la capitale del pomodoro del Dragone.

La capacità mimetica e il talento nelle relazioni accompagnano Paola De Micheli negli anni della maturità. È molto legata a Bersani anche per le comuni radici piacentine. Precedenti biografi raccontano che l’approdo alla Camera nel 2008 è merito di un accordo con Pier Luigi (ai danni di Roberto Reggi). Di certo è Bersani che la conferma a Montecitorio e la porta nei piani alti del Pd quando diventa segretario. Ma il vero amore politico di Paola è Enrico Letta, della cui corrente diventa una delle stelle più brillanti (specie in tv). È proprio grazie a Letta e al suo think tank Vedrò – una creatura a metà tra politica e lobbismo – che De Micheli annoda rapporti più stretti con pezzi da 90 del capitalismo italiano (inclusi i Benetton: torneranno utili). Nel giorno del fratricidio piddino – la direzione che caccia da Palazzo Chigi Letta il sereno e ci manda Renzi il Caino – Paola piange in pubblico. Poi però Renzi le procura una poltrona da sottosegretario all’Economia: come dicevamo, De Micheli non perde mai un treno. Col bersaniano Vasco Errani è commissario alla ricostruzione post-sisma, per qualche anno è persino presidente della Lega Volley.

Infine il grande salto: da zingarettiana – of course – punta al ministero dello Sviluppo economico, ma si accontenta volentieri dei Trasporti. Sulla sua scrivania il dossier dei dossier: la concessione di Autostrade ai Benetton (rieccoli). Passerà alle cronache politiche come la “grande frenatrice”, che ha lavorato con zelo a una soluzione che escludesse la revoca. Il resto è storia.

Caos sui treni e nei ministeri: migliaia di viaggiatori a piedi

Le stazioni ferroviarie, ieri, erano nel caos: chi aveva timore dei contatti, chi di non riuscire a partire per le vacanze, chi di perdere i propri soldi. Da Nord a Sud, agosto non è iniziato nel migliore dei modi. La compagnia Italo, per dire, ha fatto sapere di essere stata “costretta suo malgrado” a cancellare otto convogli in partenza la mattina e numerosi biglietti per quelli del pomeriggio. La notizia dei disagi era arrivata sabato sera, intorno alle 23, con un sms inviato dall’azienda Ntv: “Gentile cliente – si leggeva – in ottemperanza a quanto espressamente statuito dal ministero siamo costretti a procedere con la soppressione del treno”. In pratica l’azienda accusava il governo di aver “improvvisamente sostituito le disposizioni del decreto (dpcm) del 14 luglio”, che prevedeva deroghe al distanziamento dei posti sui treni, di fatto autorizzando i convoglia a viaggiare a quasi il 100% della capienza, e informava i clienti che avrebbero proceduto quanto prima “al rimborso di quanto corrisposto per il titolo di viaggio non utilizzato”. Sono stati cancellati i treni delle tratte più affollate, dalla Torino-Reggio Calabria alla Verona-Venezia e per almeno 8mila passeggeri non è stato possibile trovare una soluzione alternativa, con una perdita economica che è stata stimata in 3 milioni di euro. Trenitalia, invece, ha deciso diversamente, sostenendo di voler “garantire il viaggio a tutti i passeggeri, magari ricollocandoli in altre classi nel rispetto delle regole sul distanziamento” o indirizzandoli su altri convogli in orari simili.

Come sempre, in questi casi, si cerca il capro espiatorio. Che però è – come spesso – difficile da identificare in modo univoco. Il più delle volte, infatti, i drammi sono generati da una multipla convergenza di intenti o di superficialità. Le compagnie ferroviarie incolpano il governo di non aver prorogato il decreto, il ministero dei Trasporti ritiene di aver agito in base a quanto previsto dalle norme, quello della Salute di aver gestito la situazione basandosi sui numeri crescenti dei contagi e sulla mancanza di comunicazione da parte degli operatori. Mettiamo allora in fila i fatti. Come già raccontato ieri, l’ordinanza con cui il ministro della Salute, Roberto Speranza, ha reintrodotto l’obbligo di distanziamento di almeno un metro sui mezzi pubblici locali e sui treni a lunga percorrenza è arrivata solo sabato sera, al termine di una lunga giornata di polemiche. Trenitalia e Italo avevano stabilito – e dunque iniziato a vendere i biglietti – di poter viaggiare al 100 per cento dei posti in virtù delle nuove condizioni previste dal dpcm del 14 luglio, che prevede di fatto una deroga al distanziamento a patto che ci siano altre stringenti condizioni, dalla misurazione della temperatura all’autodichiarazione del passeggero fino all’obbligo della mascherina con sostituzione ogni 4 ore. Un programma per il quale le compagnie erano pronte da un po’, tanto che già venerdì circolavano mail e pubblicità con cui i viaggiatori venivano informati del cambiamento. Nello stesso giorno, probabilmente interpellato, il Ministero dei trasporti conferma con una nota le impellenti modifiche, sempre secondo dpcm del 14 luglio. Punto fermo: né il ministero né la norma parlano di capienza al 100%.

Ad ogni modo, è in quel momento che si scatena la polemica: virologi, epidemiologi, lo stesso Comitato Tecnico Scientifico, sono chiamati da un lato a commentare il cambiamento, dall’altro ad osservare un preoccupante aumento di casi positivi e di nuovi focolai.

È a quel punto che il ministero della Salute decide di emanare l’ordinanza che ristabilisce il distanziamento. E lo fa, è stato precisato ieri da più parti, senza alcuna frizione con il ministero dei Trasporti (smentendo i retroscena di furiose telefonate tra i due ministri) ma innegabilmente muovendosi in emergenza e con un certo nervosismo.

Anche perché probabilmente al ministero della Salute si aspettavano almeno di essere interpellati per un cambiamento di tale portata e delicatezza. Le linee guida, spiegano, non sono “autoapplicative” ma presuppongono che i soggetti coinvolti – in questo caso Trenitalia e Italo – compilino un protocollo di attuazione delle stesse e che questo sia presentato al Comitato Tecnico Scientifico che può esprimersi o fornire ulteriori indicazioni. Nulla di nuovo, insomma, soprattutto alla luce della proroga dello stato di emergenza fino al 15 ottobre (e non più, appunto, al 31 luglio): è stato fatto per la riapertura delle fabbriche (che ha richiesto ore di riunioni notturne con i sindacati e le parti sociali) e finanche con la Figc per la ripresa del calcio.

Ma mi faccia il piacere

Dieta a punti. “Risalirò di 10 punti” (Matteo Salvini, segretario Lega, 30.7). Di sutura.

Un apostrofo rosa. “Abbiamo portato a casa un’altro scudetto! #ForzaJuventus” (Antonio Tajani, vicepresidente FI, Twitter, 27.7). E lui, nel partito, è quello colto.

Nassau vende moda. “Quello all’estero era un conto che avevano i miei genitori, una cosa purtroppo di moda a quei tempi…” (Attilio Fontana, Lega, presidente Regione Lombardia, Repubblica, 28.7). E lui, nel partito, è quello furbo.

Intolleranze. “Non tollero dubbi su di me” (Fontana, 27.7). Infatti nessun dubbio. Solo certezze.

Memoria corta. “Il 3 ottobre (prima udienza del dibattimento su Open Arms, ndr) sarà la prima volta che vado a processo” (Salvini, Corriere della sera, 1.8). No, ciccio, è la seconda: il tuo primo processo si celebrò a Torino il 31 luglio 2013, quando il giudice ti condannò con decreto penale per razzismo alla pena pecuniaria di 5.700 euro per un simpatico coretto intonato a Pontida nel 2009: “Senti che puzza, scappano anche i cani, stanno arrivando i napoletani”.

Voto di castità. “No al taglio dei parlamentari, o il Parlamento sarà in mano alle segreterie” (Simone Baldelli, deputato FI, Corriere della sera, 2.8). Anziché a Mediaset.

Sala d’aspetto. “La mia ricandidatura? Dovrebbe essere collettiva” (Giuseppe Sala, sindaco Pd di Milano, Corriere della sera, 1.8). Perché, stavolta in quanti sareste?

Processo sprint. “Nordio giudica il caso Berlusconi: ‘Strana fretta, troppi errori: sentenza scandalo’” (Libero, 26.7). In effetti, per un’inchiesta nata nel 2001 e un processo iniziato nel 2006, la Cassazione sentenziò nel 2013 con una fretta sospetta. Ci dev’essere sotto qualcosa.

Celeste nostalgia. “Ai miei tempi la lottizzazione nella sanità non c’era” (Roberto Formigoni, collegato dagli arresti domiciliari con la festa di Tpi a Sabaudia, 31.7). C’era direttamente la corruzione.

Di Boschi e di riviera. “Se fosse capitato a me quello che sta succedendo a Rocco Casalino, le squadre social dei 5Stelle, che un tempo Casalino guidava, mi avrebbero insultato per giorni” (Maria Elena Boschi, senatrice Iv, Corriere della sera, 29.7). In effetti Casalino, figlio dell’ex vicepresidente di Etruria multato da Bankitalia e rinviato a giudizio per bancarotta, ha smosso banchieri e dirigenti di Bankitalia e Consob per salvare la banca paterna. E nessuno dice niente.

Garantismo all’italiana. “Il gup: ‘Lotti dev’essere processato’. Ma l’accusa aveva chiesto l’archiviazione” (il Giornale, 30.7). “Il caso Consip. Storia di un accanimento giudiziario. A giudizio ipotesi di reato ritenute infondate dai pm” (Il Foglio, 30.7). Funziona così. Se il pm chiede il rinvio a giudizio e il gup lo accoglie, è un complotto e un appiattimento del giudice sul pm, ergo bisogna separare le carriere. Se il pm chiede l’archiviazione e il gup l’accoglie, giustizia è fatta. Se il pm chiede l’archiviazione e il gup rinvia a giudizio, il pm vale più del giudice.

Scassese. “Serve un organismo burocratico speciale, con personale ben selezionato” (Sabino Cassese, il Messaggero, 27.7). Quindi non da lui.

Senti chi parla. “Desta perplessità e preoccupazione lo stato di inutilizzazione delle risorse provenienti dal ministero a seguito del crollo del Ponte Morandi (22 milioni non spesi sui 27 stanziati dal governo Conte, ndr). Questa Procura contabile non conosce le ragioni, anche in considerazione della gravità dell’evento e del pesantissimo impatto sulla economia locale e regionale, per cui queste somme non siano state spese o, comunque, spese in misura minima” (Claudio Mori, procuratore della Corte dei Conti, sul bilancio 2019 della Regione Liguria, 23.7).“I soldi Ue? Inutili in mano a Conte” (Giovanni Toti, ex FI, presidente Regione Liguria, La Verità, 27.7). Massì, diamoli tutti a Toti.

Gaiezze. “In questo paese va così: Travaglio può insultare chiunque, perché cane non morde cane, non ci si mette contro di lui, in un certo ambiente se dici alcune cose è difficile farsi accettare, ma io ho detto e dirò sempre quello che penso” (Gaia Tortora, vicedirettrice TgLa7, il Giornale, 31.7). Prima esprime il suo alato pensiero (“Travaglio, mavaffanculo”) su un giornalista che non l’ha mai vista, citata, pensata, calcolata in vita sua, come del resto i telespettatori. Poi strilla che è stato Travaglio a insultarla e cerca solidarietà. Ma in questo brutto Paese nessuno la vede, cita, pensa, calcola. Perché lei, quando dice alcune cose, è scomoda in un certo ambiente. Povera stella.

Il titolo della settimana/1. “Fu abbattuto dai giudici, ma Vignali era pulito. Disarcionato nel 2011 da un’inchiesta su presunti illeciti, viene riabilitato 10 anni dopo dal tribunale. Nel frattempo su Parma si è abbattuta l’ondata grillina, che si alimentò di quelle indagini finite nel nulla” (La Verità, 28.7). Strano: nel 2015 Vignali ha patteggiato 2 anni di reclusione per corruzione e risarcito il Comune con 500mila euro. Era pulito, ma non lo sapeva.

Il titolo della settimana/2. “Rinfacciano a Fontana pure la madre” (Libero, 27.7). Non sospettava di averne una.

Quei maledetti musicisti dal “Whisky facile”

“Dobbiamo pagar pegno a Piero Ciampi”. Con la consueta lucidità, Fabrizio De André si inchinò al primo cantautore moderno, padre di una categoria di artisti tutta italiana. Alcuni di loro saranno stigmatizzati come maudit, chi per il suo lato ombroso e oscuro e chi per un percorso alternativo. Fred Buscaglione “dal whisky facile” è stato l’icona della sua generazione: “Dobbiamo a lui l’invenzione di un nuovo genere musicale”, dichiarò Guccini in una intervista. E Luigi Tenco la cui sensibilità aprì una nuova strada nell’analisi delle relazioni sentimentali, prima dell’apertura alle tematiche sociali e politiche. E ancora: Franco Califano, Mia Martini, Gabriella Ferri e Rino Gaetano.

A questi autori – oggi si direbbe borderline – si aggiungono nei ritratti di Elisa Giobbi nel suo settimo libro La morte mi fa ridere, la vita no: Pace, Fanigliulo, Ugolino, Del Re, Toffoletti, Massimo Riva e Stefano Rosso. Outsider dalla vita complicata, sfilacciata, con poche gioie eppure quanto mai ispirati: “La nostra Spoon River dei precursori e dei dimenticati della canzone, spesso snobbati e persino emarginati in vita”, chiosa l’autrice. “È il 1949, siamo nella bella Lugano, l’aria del cabaret Cécile è talmente densa di fumo che gli sembra di star dentro la nebbia della sua Torino. Davanti a lui c’è una ragazza, ha già deciso che quella sarà la donna della sua vita: Fatima Ben Embarek. Ha sempre avuto un debole per le maggiorate. Si presentò in camerino con una rosa rossa”. Si sposarono e ben presto sopraggiunse la gelosia per le molte scappatelle del crooner e la preoccupazione per l’uso smodato di whisky: “Si calò in quel personaggio ispirato a Clark Gable e ai gangster americani come apparivano nei film di Eddie Constantine o nei racconti hard-boiled di scrittori come Damon Runyon”. Nell’estate del 1966 Luigi Tenco conobbe Iolanda Cristina Gigliotti in arte Dalida: “Poco dopo vanno a vivere a Parigi, nella casa di lei. In quei giorni nacque il progetto di presentare Ciao amore ciao a Sanremo”. Ma Tenco capisce di essere finito in un gioco torbido. Lo si apprende dalla lettera alla fidanzata Valeria: “Dalida è una donna viziata, nevrotica, ignorante, che rifiuta l’idea di una sconfitta professionale e sentimentale che sia. E ora non so più come uscirne”.

“L’amore passa, la fame no. Mia moglie in lockdown era fortunata: cucinavo io”

Se c’è uno in missione per conto di Dio (John Beluschi dixit) basta incrociare lo sguardo e i concetti di Antonino Cannavacciuolo. Quando parla spadella certezze, sue o mutuate da altri, con una calma e una sicurezza da non renderle mai scotte, mai invadenti, ma sostanziose; se poi qualcosa nella domanda non gli torna, muta leggermente l’inclinazione della voce, come ad aggiustare di sale una pietanza, e raddrizza la questione per servire in tavola ciò che ha in mente.

Lui sa cosa ha in mente.

E non ci è arrivato con il tempo, ci è quasi nato: “Da quando ho 13 anni ho iniziato a vivere il clima di una cucina professionale”; da allora ha aperto nove aziende (“do da lavorare a oltre 200 persone”), condotto programmi televisivi tanto da diventare una star di Sky e Discovery (“però resto sempre ai fornelli”) e scritto una lunga serie di libri di ricette per Einaudi, ultimo è Il meglio di Antonino, un best of con 127 rivelazioni culinarie.

È talmente impegnato da rendere un’impresa, decisamente ardua, e rimandata più volte, la possibilità di parlarci.

Come sta?

Un massacro, sono coinvolto in sei cose contemporaneamente, tra ristorante e registrazione delle puntate dell’Accademia (il programma in cui lui seleziona chef da inserire nella sua struttura principale).

Quando finisce?

Mai! Primo, perché mi piace; secondo, perché così ho la possibilità di creare posti di lavoro; e poi ne l’Accademia si cucina veramente.

Non come a MasterChef

Lì è un’altra cosa, è più show.

Insomma, un altro libro.

Si vendono, e nella vita si produce quando si vende. Poi chi affronta le mie ricette dice che i risultati ci sono. I piatti escono come descritti.

Le preparazioni non sono semplici.

Ma uno deve tentare più volte; forse non è chiaro, ma le ricette vanno provate e riprovate, non escono al volo; quando non cucino un piatto per un anno, sono costretto a riprendere la mano.

Come uno sportivo.

È così: la cucina prevede anche una serie di ingredienti mentali, di automatismi da ritrovare, e ogni volta vanno calibrati gli strumenti.

Cioè?

Non tutti i forni sono uguali, ognuno ha la sua tempistica.

Qualcuno l’accusa di pensare più alla tv che alla cucina.

(Qui cambia tono). Sono sempre presente nel mio ristorante, giro solo nei giorni di pausa, non mollo niente.

Quante ore dorme?

Mi alzo alle sei e mezzo e vado a letto alle due di notte.

Ci vuole forza.

Soprattutto allenamento e consapevolezza: non bevo mai alcol, perché non posso, e a pranzo mangio pochissimo, altrimenti mi appesantisco e arriva il sonno.

E da ragazzo?

Sempre stato così, anche a 13 o 14 anni, quando ho iniziato a costruire il mio presente, e ho capito che la mia famiglia era la brigata.

Suo padre è chef.

Nella mia infanzia l’ho visto pochissimo, sono cresciuto senza di lui.

Però ci ha lavorato.

Solo per due stagioni, e ha provato in ogni modo a impedirmi di seguire la sua strada. In ogni modo. Ma ha peggiorato la situazione.

Addirittura.

Pur di scoraggiarmi non mi ha parlato per lunghi periodi, poi mi ha mandato a lavorare nella cucina di uno grande chef, suo amico, persona durissima, e a lui ha chiesto di picchiare duro.

Alla faccia della raccomandazione…

Ha fatto bene, però mi ha dato una lezione di vita che non intendo replicare con mio figlio.

Sua moglie sarà d’accordo.

Lei ha fatto Bingo.

A conoscerla?

L’amore passa, la fame no.

Esplicitiamo.

Ma quale donna, durante il lockdown, ha avuto un Antonino Cannavacciulo a disposizione e per tutti i giorni?

Spadellava.

Sempre, e sottolineo sempre, uno chef perennemente a disposizione.

Torniamo al lei ragazzo: altre passioni?

In realtà solo la cucina.

Lo stadio?

Qualche volta d’inverno, perché da giugno a ottobre lavoravo; (ci pensa) però oggi sono qui, e sono ancora giovane, quindi ho la testa e la forza di godermi tutto questo successo, e di trasmetterlo.

Che consigli dà?

Inizio dalla divisa: deve essere ordinata, pulita, diventa il tuo biglietto da visita; (cambia tono) chi non vive una cucina non se ne può rendere pienamente conto, ma i collaboratori diventano una parte fondamentale, sono persone che lavorano con e per te, ai quali non devi mai far mancare la tua presenza.

E non è semplice resistere.

Non tutti i ragazzi ci riescono, alcuni dopo uno o due mesi capiscono il sacrificio e lasciano; (guarda un collaboratore) però almeno sette dei miei allievi, una volta usciti dal mio ristorante, hanno aperto il loro e conquistato una Stella Michelin.

Il suo collega Barbieri ha dichiarato al Fatto: “Se mi tolgono una Stella finisco dallo psicologo”.

(Stupito, non polemico) Ma lui non ha Stelle.

Così ha detto.

Le Stelle sono assegnate al ristorante, se l’esercizio chiude, si perde tutto. E lui ora non ha ristoranti stellati; comunque non ci ho mai pensato.

A cosa?

All’ipotesi “retrocessione”: lavoro bene, quindi non mi preoccupo, non mi pongo tali problemi.

Qual è l’articolo 1 della Costituzione di Cannavacciuolo?

La serietà.

Il secondo?

La curiosità.

Lo chef Fulvio Pierangelini ha criticato questa ossessione televisiva per la perfezione in cucina.

Alt, lui è un artista, insieme a Vissani è un reale mostro di bravura: quando in Italia andava di moda l’abbuffata, sono riusciti a ribaltare la situazione, a tracciare un percorso.

Quindi?

Se hai la mano e l’esperienza, puoi anche cucinare a mano libera, ma se sei un ragazzo, se non sei un genio, allora devi ragionare sui grandi numeri e garantire uno standard.

Lei che parla di abbuffata.

(Ride) Ecco, la sapevo.

Cosa?

Ora mi chiederà del mio peso.

Forse.

Sono arrivato a 155 chili, e questo è noto, adesso ho raggiunto i 127 e senza dieta. Lo sottolinei.

Perché ci tiene?

Sono tre anni che uso il tapis roulant, mi dà forza e autostima, scarico i pensieri e acquisto adrenalina; poi cammino anche per 12 chilometri e ho mutato le abitudini alimentari, ho tagliato i fuori-pasto. Ma niente diete: non mi convincono, sono solo palliativi di un attimo.

Come andava a scuola?

Mai stato un secchione, mi bastava la sufficienza. E poi allora ero un bel ragazzo: le donne mi davano una mano con i compiti.

Un leader.

All’alberghiero comanda chi è più bravo, come in palestra spicca chi solleva 200 chili. Io ero il migliore in cucina.

E oggi è una star.

Non mi piace questa definizione.

Come mai?

Il mio sogno è creare tanti posti di lavoro, dare una risposta concreta ai miei ragazzi: se non riesco a costruire ciò che ho in testa, allora ho fallito.

A che punto è?

Ho aperto nove aziende, e non ho finito.

La star degli chef, Gordon Ramsey, dopo il lockdown ha licenziato molti dipendenti.

Ognuno guarda al proprio cassetto; (resta per la prima volta zitto un paio di secondi) non mi comporterei mai come lui, mi massacrerei per trovare una soluzione.

La tv rischia di montare la testa dei ragazzi che si approcciano alla cucina?

Un po’ sì, non capiscono che i fornelli professionali non sono solo quelli di casa, dove la comfort zone ti permette di sbagliare: è come un ragazzo bravo a giocare a pallone nel cortile che crede di potersi permettere certe evoluzioni pure a San Siro…

Arriva il “però”.

Molti non si soffermano su cosa abbia significato portare il mondo enogastronomico in tv, e non capiscono che ora i consumatori hanno imparato l’importanza delle etichette sui prodotti, si interessano della provenienza, della stagionalità, magari si evitano le ciliegie a dicembre.

Un altro chef, Niko Romito, sostiene che nei programmi di cucina tutto appare semplice.

Nessuno di noi ha mai sostenuto fosse facile. Anzi. Ma negli ultimi sette-otto anni il mondo della ristorazione è esploso, e per me è Bingo.

Barbieri sente invidia intorno a lui.

Spero anche verso di me: gli incassi vanno bene.

Chef Locatelli ha rivelato di aver assaggiato di tutto.

Io non assaggio niente. Io mangio.

Cosa ha mangiato?

In Italia abbiamo prodotti come le lumache, le rane e l’anguilla che all’estero potrebbero suscitare qualche perplessità e invece sono integranti della nostra cultura, e non sono più belle o più buone delle cavallette.

Questione di cultura.

Esatto, e il mio “no” non parte mai dal “che schifo”, ma solo se fa stare bene o male.

Giudizio sui suoi colleghi televisivi: Locatelli.

Mi manca quando sta a Londra, lo vorrei sempre con me.

Bottura.

Mi chiama “zio”; lui sta creando qualcosa di importante, è in cima al mondo, e chi lo critica non ha capito nulla.

Alessandro Borghese.

Ha un carattere strepitoso, ed è stato bravo a costruire il suo percorso.

Secondo Vissani le donne non possono diventare chef.

Non può averlo detto, stava scherzando.

No, è così.

Ma se la sorella è da anni in cucina e gli porta avanti il ristorante; comunque ci sono e pure brave. Le prime “tre Stelle” italiane sono state assegnate proprio a donne; (ci pensa) la differenza è che dopo il servizio gli uomini vanno a dormire, loro devono pensare anche ad altro.

Un suo vizio.

A casa sostengono che sono troppo preciso.

Scaramanzia.

La mattina quando esco guardo sempre il cielo.

Chi è lei?

Un cagacazzi; (breve pausa) è finita?

Cosa?

L’intervista.

Sì, perché?

Mi ha tolto un litro e mezzo di sangue…

Ci voleva Greta a dividere i Murdoch

Donald Trump li aveva già allontanati: eccessivo il sostegno al magnate del padre padrone, per James il liberal. Greta Thunberg li ha ora divisi, con la complicità di Kathryn, la moglie attivista ambientalista.

James Murdoch s’è dimesso dal board di News Corp, lasciando ogni ruolo nell’impero dei media fondato dal padre Rupert, imprenditore “squalo” australiano d’origine. “Le mie dimissioni sono dovute a divergenze su alcuni contenuti editoriali e su altre decisioni strategiche”, ha scritto James nella lettera di dimissioni, stringata ma non elusiva. James, 47 anni, è il più giovane dei Murdoch. Il fratello maggiore Lachlan, 49 anni, è dal 2018 il numero uno di Fox Corporation, cui fanno capo Fox News, Fox Business e il resto della rete televisiva di Fox: oggi, Lachlan appare sempre più destinato a ereditare il trono del padre. News Corp raggruppa, invece, i giornali dell’impero Murdoch, tra cui quotidiani come il Wall Street Journal e tabloid come il New York Post e il Sun di Londra, oltre a diverse altre pubblicazioni nel Regno Unito e in Australia. La saga dei contrasti in seno a una delle dinastie più potenti e più influenti del mondo dei media affonda le radici nel tempo. Ma due sarebbero gli episodi che hanno innescato e accelerato il deterioramento dei rapporti: l’elezione di Trump nel 2016, al cui fianco papà Rupert schierò i suoi media (Fox News continua a esserne il megafono); e poi la cessione, nel 2017, di gran parte degli asset Fox a Disney, con lo smantellamento della 21st Century Fox di cui James era a capo.

A quel punto, James passò a News Corp, mentre Lachlan prendeva il timone della nuova Fox Corporation, a cui fanno capo canali come Fox News e Fox Business. La frustrazione di James per non riuscire a imporre al gruppo una svolta sui temi dell’ambientalismo e della lotta al cambiamento climatico è divenuta nel tempo insofferenza: sempre un’eccezione liberal in una famiglia fortemente conservatrice, recentemente, ha dato un miliardo di dollari alla campagna di Joe Biden. Secondo fonti di stampa, la goccia di troppo è stata la tragedia degli incendi in Australia, nel mese di febbraio: James ha fortemente contestato il modo in cui i giornali del gruppo hanno seguito la vicenda, con una linea editoriale poco sensibile alle ragioni della scienza. Un loro portavoce, citato da The Guardian, dice: “Kathryn e James sono particolarmente delusi dal negazionismo dei media del gruppo australiani”. Se il congedo di James è stato sintetico, il saluto di Lachlan è stato laconico: “Ringraziamo James e gli auguriamo il meglio per il futuro”.

Mercenari russi a Minsk: Lukashenko sfida Putin

Non erano semplici turisti russi in mimetica verde. A passeggiare frenetici per le strade della Bielorussia erano 33 mercenari addestrati da Mosca: ha dato notizia del loro arresto l’agenzia mediatica statale Belta, secondo cui però sarebbero 200 i miliziani ancora liberi nel Paese, pronti a compiere azioni di destabilizzazione alla vigilia delle elezioni presidenziali del prossimo 9 agosto. Per il numero uno dei servizi segreti di Minsk, Valery Vakulchik, a capo di quello che nel Paese si chiama ancora Kgb, i 33 sono “wagnerovzy”, soldati del gruppo Wagner, compagnia militare privata dello “chef di Putin”, Evgeny Prigozin.

Accompagnato dalla pompa magna della sua propaganda, il “padre della patria” Lukashenko, caudillo sovietico al potere dal 1994 e candidato incombente al suo sesto mandato consecutivo, ha chiosato di aver sventato “l’ennesima Maidan bielorussa, difendendo la sovranità della patria”, della cui annessione alla Russia, negli ultimi anni, ha spesso discusso nervosamente con il Cremlino.

Nel silenzio, nell’ombra, in segreto: prima in Siria, poi in Ucraina, infine in molti Stati africani. Gli anfibi dei Wagner hanno pestato ogni terra di conflitto in cui la Federazione russa sia stata coinvolta. Dei 33 mercenari arrestati 28 sono stati subito identificati come soldati attivi in Donbas e per questo la procura generale ucraina ha già chiesto a Minsk l’immediata estradizione. L’opposto domanda invece Mosca, che pretende la loro liberazione: per Dimitry Peskov, portavoce di Putin, i mercenari, che “non hanno compiuto alcuna azione illegale sul territorio”, erano diretti a Istanbul. Ma la Turchia “è solo un alibi” per gli ufficiali di Lukashenko.

Una soglia di partenza garantita durante la pandemia. Nel Paese dove il Covid-19 è stato definito “solo una psicosi” dal presidente e dove non è stata adottatta alcuna misura per prevenire la diffusione dell’infenzione, Minsk, nell’era del virus, è diventata lo snodo aereo privilegiato per evitare restrizioni e raggiungere facilmente mete internazionali. Quelle dei Wagner erano in Libia, Siria, infine in Africa. Secondo tesi accreditate da esperti e giornalisti, i 33 avevano l’ordine di raggiungere Khartoum, come dimostrano banconote e schede telefoniche sudanesi rinvenute nelle loro tasche.

Se la Bielorussia doveva essere solo stazione di transito verso lontani teatri di guerra o destinazione finale per operazioni di destabilizzazione è in queste ore l’enigma minore. C’è adesso il bivio di Lukashenko alla vigilia dell’apertura delle urne: se libererà i 33 mercenari, severe ripercussioni arriveranno dalla Kiev del presidente Zelinsky e da Washington, che ha inserito nella sua lista nera delle sanzioni il gruppo Wagner e il loro finanziatore. Ma se non lo farà, il presidente subirà la vendicativa e rumorosa ira di Mosca, dai cui finanziamenti e aiuti economici il suo Paese dipende.

Insieme ai contractor, anche la politica è finita nelle carceri di Minsk. Dietro le sbarre slave rimangono tutti gli oppositori che si erano candidati per sfidare Lukashenko alle elezioni: il banchiere Viktor Barbariko e il blogger anticorruzione più famoso del Paese, Serghey Tsikhanovsky, un Novalny bielorusso e minore, la cui arma più pericolosa si è rivelata, dopo le manette, la “moglie combattente.”

Era una silenziosa casalinga 37enne l’ultima volta che ha visto suo marito, prelevato dalle forze dell’ordine lo scorso giugno. In poche settimane Svetlana Tsikhanouskaya ha preso il suo posto ed è diventata la testa d’ariete bruna dell’opposizione, che 60mila bielorussi hanno appoggiato durante l’ultima, gigantesca manifestazione di protesta a Minsk. Nella Capitale Svetlana ha tuonato spregiudicata sul palco del Parco dell’Amicizia dei Popoli, quella che forse, con la sorella Mosca, la Bielorussia ora non ha più.

“Bolsonaro paralizzato di fronte alla pandemia. Non reggerà alla crisi”

Accanto ai ritratti di San Francesco e Santo Antonio, Flavio Dino, membro del Partito comunista brasiliano – rieletto governatore dello stato del Maranhão nel 2018 – ha posto le foto di Allende, Che Guevara, Ho Chi Minh e Mandela. La loro presenza, secondo il governatore, è “parte della stanza dei bottoni” e un simbolo d’appartenenza del politico che si definisce “socialista cristiano” e figlio della Teologia della Liberazione.

Flavio Dino è riuscito a tessere alleanze impensabili, grazie al dialogo e all’azione politica in uno Stato storicamente dominato da oligarchie che hanno segnato secoli di miseria. Nel Brasile polarizzato di oggi, il Maranhão è divenuto un’oasi di solidarietà e il bastione della sinistra contro il bolsonarismo.

Lei è comunista, com’è la sua relazione con il governo d’estrema destra Bolsonaro?

È una sfida. Abbiamo paradigmi ben diversi sulla struttura della società, nella misura in cui loro adottano un modello di concentrazione della ricchezza e del potere nella mani di pochi, mentre noi abbiamo una prospettiva totalmente democratica che difende la giustizia sociale. Persino in questo momento che combattiamo il coronavirus, veniamo fortemente ostacolati. Ciò dimostra l’attitudine negativa del governo Bolsonaro non solo contro il governo del Maranhão, ma, lo posso affermare in maniera categorica, contro tutti i governatori. Il bolsonarismo non è in grado di sopportare meccanismi di controllo del suo potere dispotico.

Ci si chiede se ci sarà un golpe in Brasile, ma in realtà militari sono già al potere.

Neanche durante la dittatura i militari hanno occupato così tanti incarichi civili: è incostituzionale. Quindi questa colonizzazione da parte loro del servizio pubblico è illegittima. Eppure si sentono legittimati da questa convivenza con la politica a perpetrare comportamenti anche illegali per avere benefici personali. Bisogna puntualizzare che non tutte le Forze Armate sono coinvolte in questo, tuttavia nessuno fa nulla per impedire che avvengano.

Quale è il destino che prevede per il governo Bolsonaro?

Credo che vi sia un impasse molto profondo, non vedo il governo federale in condizione d’affrontare quello che sta per succedere nel Paese dal punto di vista economico. Bisogna cominciare a pensare a soluzioni che riguardino l’occupazione, la generazione di ricchezza. Ma il governo è assolutamente inerte.

Casa pensa della gestione della pandemia da parte del governo Bolsonaro?

Penso che abbia fatto poche cose giuste e molte sbagliate. L’approccio di Bolsonaro di negare la gravità del coronavirus ha causato delle conseguenze gravissime, soprattutto quando ha preso a sabotare le misure di sicurezza riconosciute per diffondere le false soluzioni. Il governo federale non ha assunto un ruolo di coordinatore nazionale. Non ci sono dubbi che il principale responsabile del disastro sanitario che si sta verificando in Brasile sia Bolsonaro. Avrebbe dovuto guidare lo sforzo per le forniture delle attrezzatura sanitarie. Al contrario, gli Stati e i municipi hanno dovuto rivolgersi al mercato selvaggio per averle senza alcun sostegno da parte sua. Una partita di ventilatori acquistati dai governatori del “Consorcio Nordeste” in Cina ci è stato sequestrato negli Stati Uniti. Avevamo avuto la soffiata che il materiale era stato bloccato a causa di pressioni dello stesso governo americano che, con l’ausilio delle autorità sanitarie locali, hanno bloccato la spedizione che, dalla Cina, avrebbe dovuto raggiungere lo Stato di Maranhão. Quindi siamo ricorsi alla strategia di far passare la merce per l’Africa. Attraverso società private, tra cui la Etiopia Airlines, siamo riusciti ad avere i ventilatori cinesi facendoli passare per una rotta più sicura.

Che cos’è il “Consorcio Nordeste”?

Si tratta di un’associazione pubblica di nove Stati che promuovono scambi commerciali, ma anche una azione congiunta nei confronti del governo federale. É un modo per ottimizzare le expertise, con cui siamo riusciti a combattere le diseguaglianze regionali sociali. Il Consorcio divulga anche gli obiettivi regionali nel- l’ambito delle politiche sociali. Il Nordest ha molti aspetti positivi e può aiutare gli altri Stati a trovare soluzioni. Anche così si lotta contro l’idea di un territorio unico pieno di problemi.

Molti dicono che lei sarà il candidato della coalizione di sinistra alle presidenziali del 2022. Sono fake news o conferma questa ipotesi?

Credo che sia presto per parlarne, perché davvero stiamo viviamo un momento difficile e poi ci saranno prima le elezioni amministrative. Ma se ci sarà un’unione del campo progressista, anche solo in parte, è chiaro che mi potrei candidare. È importante, però, definire il programma anche politico, perché non si può partecipare in maniera frammentata alle elezione, e io non voglio contribuire a dividere la sinistra proprio mentre mi candido a trainare il campo progressista. Se si verificherà questa convergenza di forze politiche, allora senza dubbio posso essere il candidato.

La truffa dei Bitcoin su Twitter: arrestato l’hacker di Obama e Bill Gates, ha 17 anni

Sono tre ragazzi tra i 17 e i 22 anni: venerdì sono stati arrestati e identificati come gli autori del maxi attacco hacker che ha preso di mira i profili di politici e star su Twitter. Graham Ivan Clark, 17 anni, è stato arrestato a Tampa, in Florida, e verrà perseguito con trenta capi d’imputazione dall’ufficio del procuratore di Hillsborough. Secondo gli inquirenti è lui la mente dietro la maxi truffa. Gli altri due, Mason Sheppard, 19 anni, di Bognor Regis, Regno Unito, e Nima Fazeli, 22 anni, di Orlando, sono stati accusati presso il tribunale federale della California. Se da un lato si è trattato di una delle violazioni della sicurezza di più alto profilo degli ultimi anni, almeno per quanto riguarda le dimensioni e gli obiettivi scelti, dall’altro gli investigatori hanno parlato di “sciatteria” nella gestione delle operazioni, tale da aver reso semplice l’identificazione dei colpevoli e da rendere plausibile che l’operazione fosse guidata da un adolescente.

Gli hacker erano riusciti a inviare tweet fasulli, il 15 luglio, dagli account di Barack Obama, Joe Biden, Mike Bloomberg e di una serie di miliardari tra cui il Ceo di Amazon Jeff Bezos, Elon Musk e Bill Gates, in cui si offrivano, per essere solidali durante l’emergenza da Coronavirus, di inviare 2 mila dollari per ogni mille inviati a un indirizzo Bitcoin spacciato come loro. Oltre a quelli di personaggi super famosi, gli hacker hanno preso di mira 130 account tanto da spingere il social network a bloccare, nelle ore successive, tutti i post provenienti da account con la spunta blu, ovvero i cosiddetti account “verificati” che servono per indicare agli utenti che chi twitta è davvero un personaggio pubblico e famoso e non un imitatore.

Gli hacker erano riusciti a twittare da 45 account, accedere ai messaggi diretti di 36 e scaricare i dati di Twitter da sette. Il parlamentare olandese Geert Wilders ha affermato che la sua casella di posta era tra quelle violate. Gli investigatori dell’Internal Revenue Service a Washington sono stati in grado di identificare due degli hacker analizzando le transazioni Bitcoin sulla blockchain – il registro in cui sono registrate le transazioni – inclusi quelli che gli hacker hanno tentato di mantenere anonimi. “C’è una falsa convinzione all’interno della comunità degli hacker secondo cui attacchi come l’hacking di Twitter possono essere perpetrati in modo anonimo e senza conseguenze”, ha dichiarato il procuratore per il distretto settentrionale della California, David L. Anderson in un comunicato stampa, “L’annuncio 1dimostra che la loro euforia avrà vita breve”.

Berlino, 20mila al corteo anti-restrizioni: “Il Coronavirus è solo un falso allarme”

Quasi mille nuovi contagiati e sette morti nelle ultime 24 ore, secondo i calcoli del Robert Koch Institute, l’agenzia incaricata dal governo tedesco di monitorare l’andamento della pandemia da Covid-19 nel Paese. Eppure, anche in Germania c’è chi crede che il coronavirus non sia nulla di serio. Di più: che sia un vero e proprio complotto. “La più grande teoria della cospirazione è la pandemia di coronavirus”: lo hanno gridato ieri, per le vie del centro di Berlino, circa 20mila persone mostrando cartelli con le scritte “libertà” o “resistenza”. La manifestazione, organizzata per protestare contro le restrizioni imposte dal governo di Angela Merkel, è stata dispersa dalla polizia nel tardo pomeriggio. Pochi tra i partecipanti indossavano le mascherine e rispettavano le norme di distanziamento, secondo la polizia tedesca. “Le manifestazioni devono essere autorizzate anche durante la pandemia. Ma non così”, è stato il commento del ministro della Salute tedesco, Jens Spahn. In totale finora sono 9.148 i tedeschi morti per complicanze legate al covid.