Vizi e virtù dell’Iran, dove anche un Agnelli è di casa

“È un martire ed era italiano, come te”. Il 17 gennaio scorso, due settimane dopo l’assassinio del generale Soleimani, il comandante dei Pasdaran, centinaia di migliaia di iraniani hanno invaso la Mosalla di Teheran, una delle moschee più grandi al mondo. Erano otto anni che l’Ayatollah Ali Khamenei, Guida suprema dell’Iran, non guidava la preghiera del venerdì. Ogni metro quadro delle vie intorno alla Grande Moschea era occupato dai fedeli. Ognuno aveva con sé un tappeto da stendere sull’asfalto. Khamenei, durante la predica-comizio, elogiò Soleimani e definì Trump un codardo per aver fatto uccidere il generale. La folla applaudiva e riservava al presidente Usa epiteti che un tempo rivolgeva solo a Saddam Hussein.

In piazza, quel giorno, c’era una parte delle società iraniana. Uomini, donne in chador, vecchi, bambini e poi gli ulema, i dotti musulmani tutti ben vestiti e accompagnati dalle loro famiglie. Queste persone non rappresentano integralmente la società persiana. L’Iran è pieno di cittadini stanchi del potere degli Ayatollah e di imposizioni a cui sono costretti a sottostare. Ma chi ritiene che i milioni in piazza per i funerali di Soleimani siano stati costretti da qualcuno, mente. L’Iran, così come il mondo islamico, è molto più complesso di quanto appaia.

“È un martire ed era italiano, come te” mi disse quel giorno un signore sulla settantina mostrandomi una spilla con l’immagine di Edoardo Agnelli il quale, negli anni ‘80, sembra si sia convertito all’Islam. In Iran c’è chi ritiene che il figlio dell’Avvocato non si sia suicidato ma che sia stato assassinato per impedire che l’impero della Fiat finisse nelle mani di uno sciita. La magistratura italiana, come è noto, archiviò velocemente il caso come suicidio ma questo poco importa a chi cerca di guadagnare qualche spicciolo vendendo gadget con l’immagine del povero Edoardo durante le manifestazioni religiose a Teheran.

Teheran nord è un altro mondo. Più ci si arrampica sulle colline della città e più dal capo delle donne il velo scivola giù trasformandosi in un foulard con il quale proteggersi dal freddo. A Teheran alta il giovedì notte va in scena la “Persia da bere”. Nelle case borghesi, che un tempo appartenevano ai fedelissimi dello Scià, per rimediare una bottiglia di importazione basta contattare via whatsapp un rider di fiducia che arriva in motorino, consegna e va via. Nei party della “Teheran bene” quasi tutti ce l’hanno a morte con il governo islamico e ritengono i sostenitori dell’Ayatollah degli oscurantisti manipolati dal Regime. Le donne vestono come in occidente e andare a vivere a Dubai è il sogno di molti.

Se c’è chi ritiene gli alcolici bevande del demonio c’è anche chi si vanta di avere in dispensa whisky irlandese e chi beve vino che produce da sé, per molti un atto di resistenza, per altri un omaggio alla Storia. La città di Shiraz, culla della cultura persiana, oltre che per le moschee e i caravanserragli che per secoli hanno accolto le carovane dei mercanti che percorrevano la Via della Seta, è celebre per i suoi vigneti e lo Shiraz, diffuso in tutto il mondo, è un vitigno originario proprio dell’Iran centrale.

Questa complessità della società persiana viene volutamente insabbiata perché la narrazione occidentale, soprattutto dopo che Trump è uscito in modo unilaterale dall’accordo sul nucleare – una delle migliori cose fatte da Obama – deve essere semplice. Un paese pericoloso, sull’orlo della guerra civile, con un popolo sotto scacco del governo islamico oppure fortemente reazionario. Non è così. L’Iran è un grande paese, accogliente, sicuro, dove lo Stato, con tutti i suoi limiti, esiste.

La povertà esiste ed è cresciuta da quando le sanzioni sono state intensificate ed il turismo, uno dei sostentamenti della classe media, è crollato. C’è il petrolio ma i padroni del mondo hanno deciso che l’Occidente non debba comprarlo nonostante sia di alta qualità. C’è indigenza, soprattutto in alcuni quartieri periferici delle grandi città o nelle zone remote del Paese, ma lo Stato garantisce servizi alla popolazione inesistenti nei paesi confinanti.

L’Iran non confina con la Svezia e con la Norvegia bensì con l’Iraq e con l’Afghanistan dove le condizioni di vita, soprattutto dopo le guerre combattute dall’occidente in nome della libertà, sono drammatiche.

Gli ospedali di Qom e di Mashhad vengono invasi da migliaia di afghani ed iracheni che vogliono curarsi. L’Iran ha accolto tre milioni di afghani fuggiti dalla guerra made in Usa o dal regime dei talebani, grandi nemici, tra l’altro, dei pasdaran iraniani. Molti afghani hanno trovato lavoro nelle imprese edili persiane. Non navigano nell’oro ma neppure fanno la fame come accadrebbe nel loro Paese.

L’Iran ha i suoi vizi e le sue virtù. È innegabile che la condizione femminile necessiti di cambiamenti radicali. Per ottenere un passaporto la moglie deve chiedere il permesso al marito. L’adulterio è un peccato capitale che può provocare tragiche conseguenze. Ma rispetto a molti altri Paesi musulmani considerati affidabili dall’Occidente – forse perché comprano armi e non lottano più per i diritti dei palestinesi – le donne hanno opportunità lavorative inimmaginabili.

Sono soprattutto loro a superare i test di ammissione alle università pubbliche che in Iran sono le più prestigiose.

Ho dovuto passare due mesi in Iran per rendermi conto della parzialità della narrazione che viene fatta della Persia e di quanto mostrare la verità, o almeno un’altra parte di essa, cozzi con gli interessi politico-finanziari di chi non solo controlla il mondo economicamente ma vorrebbe controllare persino le nostre opinioni.

L’11 febbraio scorso, poco prima che anche l’Iran finisse in lockdown da Covid, ho partecipato alla manifestazione per l’anniversario della Rivoluzione islamica. Alcuni manifestanti portavano mimetiche, passamontagna e fasce legate in fronte con scritte che inneggiavano ad Allah.

Avrò visto quelle immagini decine di volte nei telegiornali e le ho sempre associate ad una violenta propaganda anti-occidentale. Quel giorno parlai con alcuni di loro, erano infuriati con il governo statunitense per l’assassinio di Soleimani ma erano persone normali, miti, nonostante l’abbigliamento. Quando dissi loro che ero italiano smisero di infervorarsi sulla politica ed iniziarono a parlare di calcio. Erano imbestialiti con i dirigenti dell’Esteghlal che non avevano trattenuto Stramaccioni, l’allenatore italiano che aveva portato la loro squadra al primo posto in classifica.

Alla “Terza guerra mondiale a pezzi”, come l’ha definita Bergoglio, si è aggiunta ormai la nuova guerra fredda tra Stati Uniti, in difficoltà, e la Cina, potenza emergente. Ma dove sta l’Europa? A che gioco intende giocare? Ha intenzione di costruire una politica estera autonoma oppure sottostare alle imposizioni dei vincitori? Farebbe bene a muoversi, lo impone la sua storia e la crisi economica in corso.

Costruire un rapporto con l’Iran costituirebbe un primo passo sia per non sottomettersi agli ordini del Pentagono che per evitare che Teheran, con le sue risorse e le sue opportunità economiche finisca tra le braccia di Pechino. Ma per costruire un rapporto schietto, accorto e vigile con l’Iran occorre comprendere la complessità della società persiana, composta da uomini e donne molti più simili a noi di quanto non si voglia raccontare.

Selezione predittiva. La magia e il trucco del mestiere comico

 

Sempre più persone si allontanano dalla Chiesa per tornare a Dio. – Lenny Bruce

 

Per creare e comprendere la comicità è fondamentale paragonare il contesto dato e quello simile che abbiamo in memoria. Questo sistema predittivo, dovuto all’attività cognitiva superiore, individua anomalie nell’input sensoriale per un miglior riconoscimento percettivo. Hickok (2014) la chiama “selezione predittiva”. Trova finalmente una soluzione l’annoso enigma che Dario Fo (1987) esprimeva in questi termini: “A molti sarà capitato di assistere alla rappresentazione di un’opera recitata in una lingua sconosciuta, e di meravigliarsi del fatto che il discorso alle volte apparisse abbastanza comprensibile e anzi, in certi momenti, assolutamente chiaro”. Fo attribuiva la comprensione delle parole sconosciute al concorso di gesti, ritmi, toni da parte degli attori; e dell’enciclopedia personale da parte dello spettatore. Aggiungeva, però, che “questo non basta a spiegare il fenomeno. Ci si rende conto dell’esistenza di qualcosa di sotterraneo, di magico, che spinge il nostro cervello a intuire, anche, ciò che non è completamente e chiaramente espresso”. La magia è dovuta alla selezione predittiva.

Il pensiero è l’attività mentale che opera sulle immagini degli oggetti e sulle relazioni fra esse. Gli schemi mentali, infatti, sono solo due: quello della cosa e quello della relazione a un’altra cosa. È possibile tradurre in immagine la cosa, ma non la relazione, che è solo nel pensiero, in quanto risultato di raffronto, confronto, separazione, somma &c.: questo rende possibile l’esistenza della filosofia (Melandri, 1989) e della comicità.

Flagranza, astanza. Quando la realtà dell’oggetto colpisce la percezione, si ha “flagranza”; quando la parola rende l’oggetto come presente alla coscienza, si ha “astanza” (Brandi, 1957).

Metabole e astanza. Le figure retoriche (“metabole”) sono la via regia per l’astanza. Le metabole attivano pattern neurali che non sono quelli attesi, e la coscienza ha un sussulto nell’integrarli: l’urto stacca la coscienza dall’uso abitudinario del codice comunicativo, e il risultato è, per lei, fresco ed emozionante come la percezione di un oggetto nuovo. Esistono modi intermedi. Il paragone, per esempio, riduce l’urto figurale descrivendo, invece di rendere presente: evita il salto logico. Si crea astanza anche con la parola nuda, se arriva con una certa sorpresa (effetto della posizione e/o del ritmo); oppure con parole che riempiono a poco a poco l’immaginazione in modo totale, come durante la lettura dei romanzi: un fenomeno che Macedonio Fernandez (1967), redarguendone con spirito il lettore, definiva allucinazione. Una gag verbale è tanto più riuscita quanto maggiore è la sua astanza. “Un mattino, al risveglio da sogni inquieti, Gregor Samsa si trovò trasformato in un enorme insetto” (Kafka, 1915). “Un mattino, un uomo si sveglia e scopre di essersi trasformato nei propri plantari” (Woody Allen, 1975).

Logica e analogia. La comicità, come ogni pratica umana, è guidata da principî razionali sia logici che analogici. L’analogia è un particolare processo di pensiero che instaura un paragone indiretto fra A e B, indicando l’uguaglianza fra i rapporti in cui è coinvolto A e quelli in cui è coinvolto B. L’analogia non spiega, ma descrive attraverso il riferimento a cose note. Per farlo, trasforma le opposizioni binarie della logica, instaurate dai principî di identità (A è A) e di non-contraddizione (A non è non-A), in opposizioni bipolari, creando un campo dove A e non-A coesistono. Questo campo è il tertium datur (analogico) di ogni opposizione logica (per esempio, quella fra il puro e l’impuro, che fonda gli integralismi religiosi contro cui da millenni polemizza la satira con le sue operazioni analogiche). L’equilibrio razionale di logica e analogia è una dialettica (Melandri, 1968).

Funzioni dell’analogia. Le funzioni sono usi regolari, soggetti a norme. Quelle dell’analogia sono tre, tutte indispensabili per la prassi divertente:

– funzione euristica: l’analogia usata per idee, scoperte, invenzioni (statisticamente sono più frequenti gli errori e gli abbagli, così si tende a svalutare questo uso dell’analogia);

– funzione sintetica: l’analogia usata per agire (la prassi richiede una scelta, e in questa scelta realizziamo l’unità del nostro sapere; il sapere è diviso in categorie: per passare da una categoria all’altra, usiamo l’analogia);

– funzione evocativa: il momento emotivo dell’esperienza, che a ogni inizio è colma di promesse (ne fa parte anche la curiosità che muove alla conoscenza).

Gli usi irregolari dell’analogia, invece, sono infiniti, e tanto più inaspettati quanto creativi. La comicità e l’arte ce ne danno un catalogo costantemente aggiornato.

La bisociazione. La funzione euristica dell’analogia, il suo essere esplorazione creativa, si manifesta nei tre fenomeni psichici del joke, della poesia e della scoperta scientifica (Koestler, 1964). Il loro tratto comune consiste nel portare alla luce somiglianze nascoste, e genera un ethos euforico (la meraviglia). Koestler, attraverso il concetto di “bisociazione” (la scoperta di una connessione fra idee prima separate), trova la parentela fra il buffone, il poeta e lo scienziato. Le differenze sono funzionali: il buffone vuole far ridere, il poeta portare all’estasi, lo scienziato arrivare alla comprensione.

Il comico del discorso. Ogni cultura si manifesta nelle sue pratiche sociali, regolate da leggi e norme, che possono essere parodiate per evocare il caos arcaico e predisporre l’uditorio alla risata. Anche gli elementi e le norme del discorso comunicativo (a ogni piano, livello, unità) possono essere tradotti da neutri a non pertinenti. Fonema, enunciato, argomento retorico, regole linguistiche, norme conversazionali, galateo, trama, narrazione: ogni traduzione non pertinente farà ridere se unita al modo comico, quello della vittima espiatoria. Le trasformazioni comiche possibili degli elementi e delle regole del discorso sono innumerevoli, e la tentazione di elencarle e raccoglierle tutte pare irresistibile: frequenti, nei secoli, gli atlanti anatomici di freak verbali, come quello fondato sulla tassonomia dell’argomentazione di Perelman & Olbrechts-Tyteca (1958), che sono interessanti come gabinetti di curiosità, da cui trarre ispirazione e formule. Tali cataloghi sono preziosi se organizzati in base a criteri generativi, per esempio quelli che hanno permesso al Gruppo di Liegi (1970) di scoprire due tropi mai realizzati in letteratura (quindi vuoti di esempi). Conoscere a fondo le leggi nascoste della comunicazione aumenta l’arsenale di cui un comico può disporre per i suoi atti di sabotaggio dell’immaginario. Le esploreremo nelle prossime puntate.

(15. Continua)

La vendetta dell’ex renziano nel feudo che fu della Boschi

Arezzo negli ultimi anni è sempre stata la provincia del renzismo. Negli anni d’oro del giglio magico Firenze era il centro e Arezzo, feudo dei Boschi (padre e figlia), la periferia. Da cinque anni, in concomitanza con la caduta di Matteo Renzi, la città medaglia d’oro della Resistenza è in mano al centrodestra del sindaco Alessandro Ghinelli e le elezioni comunali di settembre potrebbero affossare definitivamente quel che resta del renzismo in Toscana. A giocare un bello scherzetto a Maria Elena Boschi e a Italia Viva potrebbe essere un outsider: quel Marco Donati, ex deputato Pd poi passato con la creatura di Renzi, conosciuto per essere il fedelissimo di Meb in città. Da qualche settimana, il 40enne Donati ha lasciato in polemica il partitino renziano non condividendo la sua deriva “leaderistica” e ha deciso di scendere in campo in prima persona con la lista civica “Scelgo Arezzo” in cui sono confluiti molti esponenti della società civile e delusi dal renzismo. “Io ho una formazione legata alla partecipazione, non posso accettare un partito del capo”, spiega lui oggi. Quella di Donati può diventare una vendetta anche nei confronti dei suoi ex compagni di partito visto che proprio Italia Viva ad Arezzo non è riuscita a presentare una sua lista ed è confluita, con almeno due candidati, nella civica “CuriAmo Arezzo” che sostiene il candidato del centrosinistra, Luciano Ralli. La lista renziana è formata da professionisti di ogni settore e da medici e infermieri provenienti dal mondo della sanità: una composizione che sta facendo discutere in città per i suoi legami con la sanità privata. Secondo gli ultimi sondaggi, Donati potrebbe essere l’outsider contro i candidati di centrodestra e centrosinistra: nell’ultima rilevazione di giugno, in cui non aveva ancora annunciato la candidatura, era dato intorno al 20% con una concreta ipotesi di andare al ballottaggio.

Calano le violenze sessuali, salgono quelle in famiglia

Sono diminuiti i reati di violenze sessuali a causa del lockdown, che ha impedito a molti di uscire. Ma c’è stato un aumento notevole di maltrattamenti e lesioni volontarie consumate nell’ambiente familiare”. Il dato preoccupante è fornito da Maria Monteleone, sostituto procuratore che per dieci anni ha guidato il pool sulle violenze di genere della Procura di Roma. Prendendo in esame l’arco temporale tra gennaio e maggio, e facendo un confronto con l’anno precedente, c’è stato un notevole aumento dei reati: 200 casi in più di lesioni volontarie tra i familiari, da 248 (2019) a 448 (2020), +32 casi per i maltrattamenti, da 706 (2019) a 738 (2020), le violenze sessuali di gruppo sono passate da 2 a 11. I mesi di chiusura in casa per Covid hanno invece fatto diminuire le denunce per violenze sessuali, da 224 (2019) a 188 (2020) e lo stalking: da 404 (2019) a 397 (2020) casi. “Un numero significativo di violenze e maltrattamenti in famiglia riguarda minori, con forme molto più gravi rispetto a prima – spiega la Monteleone -. Circa il 50-60% delle violenze sono abusi su minori, nei nuclei familiari e in istituti scolastici. Mentre per i reati sessuali, circa il 70% sono su bambine”. Sono così aumentate anche le misure cautelari prese dalle autorità. “Sono cresciuti gli allontanamenti dal nucleo famigliare e le custodie cautelari, che spesso e volentieri riguarda mariti, compagni o figli, con problemi di droga, alcol, gioco e in alcuni casi anche psichiatrici”. Le misure in carcere oggi sono 187, 36 in più rispetto all’anno precedente, gli arresti e i fermi segnano un +61: da 96 (2019) a 157 (2020), mentre gli allontanamenti dal nucleo familiare sono 23 in più: da 64 (2019) a 87 (2020). “Durante il lockdown c’è stato un uomo, ai domiciliari e con braccialetto elettronico, che è riuscito a rompere il braccialetto e recarsi sotto casa dell’ex compagna. Grazie alla geolocalizzazione siamo riusciti a intervenire in tempo”, ha raccontato la Monteleone.

Avevano lavorato durante il Covid: ora li mandano via

Hanno affrontato in prima linea le settimane del lockdown in uno dei principali Covid Hospital del Lazio. Ora sono stati sostituiti da “volontari specializzati”, in barba a una clausola sociale prevista per legge e “richiamata negli atti di gara”. Il cambio appalto del servizio ambulanze al Policlinico Gemelli di Roma costerà il posto di lavoro a 28 persone, fra autisti e infermieri. L’ospedale cattolico ha infatti assegnato alla Croce Rossa Italiana il servizio, gestito fino al 31 luglio scorso dalla società privata Heart Life Croce Amica. L’ex ente militare, oggi associazione privata, ha preferito non riassorbire il personale già operante, sostituendolo con “dipendenti e volontari” per i quali “è stato strutturato un percorso formativo molto stringente”. La ragione sta nel “considerevole” ed “estremamente vantaggioso” ribasso offerto dalla Cri, rispetto ai 950 mila euro annui dalla ditta precedente: alle richieste de Il Fatto, sia Gemelli sia Croce Rossa rispondono “non siamo tenuti a fornire” la nuova cifra, né alla stampa né ai legali della società uscente. I 28 lavoratori, in assemblea permanente, hanno scritto una lettera a Papa Francesco.

La clausola sociale è prevista dall’articolo 7 della legge regionale 16 del 2007 e, come affermano i legali di Heart Life nel carteggio con il Gemelli, è stata richiamata negli atti di gara. Tuttavia, né la Cri né l’ospedale cattolico ritengono che si debba applicare, in quanto la Fondazione “è un soggetto privato” e “ad essa non si applicano le disposizioni invocate”. Il Gemelli è una struttura accreditata al servizio sanitario regionale: l’unica – insieme al Campus Bio-Medico – che durante l’emergenza abbia ottenuto il permesso per i test molecolari nel propri laboratori. L’adiacente clinica Columbus, in gennaio in procinto di chiudere, su disposizione della Regione Lazio è diventata il secondo Covid Hospital della Regione Lazio, per un costo delle casse pubbliche non quantificato.

Mail Box

 

C’è troppa invidia nei confronti del premier

Quante se ne devono vedere e sentire, signora mia. Quando il Premier prof. Giuseppe Conte porta a casa di tutti gli Italiani i dovuti risultati, sul fronte della politica interna e delle “conquiste” ai vari tavoli istituzionali (ultimamente) dell’Ue e di altri consessi, è il Governo che cha vinto. Quando le cose non vanno per il verso giusto è (solo) Conte che non sa fare niente. Per certi aspetti, in questo Paese tanti cittadini, politici, professoroni e… cernitori di vento, sono pregni del vizio della poca memoria. Ma, vivaddio, Conte c’è! E i conti li presenta bene. A tempo opportuno, non dimenticando – ciòcchèggiusto –anche gli interessi. Che cosa bella, signora mia.

Carmine Grillo

 

Renzi ha messo gli occhi sullo stadio di Firenze

Chi scrive è un semplice cittadino, sebbene anni fa abbia ricoperto l’incarico di presidente del Consiglio di Quartiere 2 (Circoscrizione Campo di Marte) a Firenze, il territorio che dal 1931 ospita lo stadio comunale. L’impianto è sempre stato “croce e delizia” degli abitanti della zona. Da un lato, c’è il radicato affetto per la nostra squadra, la Fiorentina; dall’altro, le conseguenze degli eventi, sportivi e non, che lì hanno luogo: per esempio l’esercito di auto e motorini parcheggiati ovunque, oltre all’inquinamento atmosferico e acustico che questi causano. Ho appreso che recentemente il Senatore Renzi, del Gruppo Partito Socialista Italiano-Italia Viva, ha presentato un emendamento al D.L. “Semplificazione”, in pratica cucito ad hoc per il Sindaco di Firenze, il suo figlioccio politico che, nel saturo territorio comunale, non riesce a trovare uno spazio confacente alla nuova proprietà viola. Nell’emendamento si esautora di fatto il controllo e il potere di veto oggi in capo alle Soprintendenze (ormai uno dei pochi argini allo scempio dei nostri paesaggi, prima dell’intervento delle Procure) in materia di tutela degli impianti sportivi storici, quale appunto l’Artemio Franchi. Ora, dopo il tentativo di Matteo Renzi di amputare un ramo del Parlamento, dopo le sue iniziative nei confronti della Magistratura, dopo la cancellazione di garanzie fondamentali per i lavoratori (e mi fermo solo per ragioni di sintesi) ci mancava l’ennesima rottamazione del diritto, dell’ambiente e del patrimonio. Per questo, ho scritto al presidente del Consiglio e ai senatori chiedendo loro di fermare questo “tana libera tutti” che darebbe ai sindaci, per interposta persona dei patròn delle società di calcio, mano libera nel tirare su micidiali cattedrali commerciali, spesso, come a Firenze, nel cuore della città.

Andrea Aiazzi

 

Le forze dell’ordine eliminino le mele marce

Spero tanto che, come ha detto il dottor Gratteri, siano solo poche le mele marce che infangano l’onorabilità e la credibilità delle nostre forze dell’ordine. Vorrei crederci davvero. Se non abbiamo fiducia nelle persone che dovrebbero proteggere i nostri diritti, non so come potremo difendere le nostre libertà. Ma sotto quelle divise ci sono persone, con i loro problemi e le loro idee politiche, come noi, con la differenza che loro sono armati. Io odio le armi, e vorrei non esistessero. Però a stare sempre in silenzio non ci sto. Chiedo a tutte quelle persone in divisa che credono nel giuramento fatto e sono animate da senso civico e morale di fare ordine nei loro reparti e darci la possibilità di credere in loro.

Gianni Dal Corso

 

L’onore ha un peso: Bocelli lo tenga a mente

Gli antichi latini avevano un motto: “Honor, onus”, cioè l’onore è un peso, una responsabilità. Se una stronzata la dico io, che non sono nessuno, una formica in uno sciame, la mia frase ha poco peso e passa inosservata. Ma se quella stronzata la dice una persona molto famosa, ammirata e stimata a livello mondiale, il suo peso può schiacciare il suo autore perché la risonanza è ben più grande. Se il mondo ti tributa onore, sei tenuto a comportarti in modo onorevole. Dopo avere negato la pandemia con una frase veramente idiota, il grande Bocelli, spaventato dalla reazione indignata e unanime dei social, prima ha detto di essere stato frainteso, poi ha pigolato delle scuse a bassa voce. Potremmo anche accettare quelle scuse, quello che dovrebbe spiegare è cosa ci faceva uno come lui che rappresenta la cultura italiana nel mondo a un convegno di capre negazioniste, assieme a gentaglia del calibro di Salvini o Sgarbi, che la morale non sanno nemmeno dove stia di casa e che in quel convegno sputavano sui morti, facendosi beffe di quanti il Covid19 lo combattono allo stremo o ne sono vittime. I milioni di contagiati e di morti nel mondo dovrebbero chiudere la bocca a costoro per sempre.

Viviana Vivarelli

Re Salomone. Il suo esempio mostra come pregare Dio: con riconoscenza

“Chiedi ciò che vuoi che io ti conceda” (1 Re 3,5) dice Dio al giovane Salomone appena diventato re a Gerusalemme. Non è la storia del genio della lampada di Aladino, non è una fiaba. Qui c’è Dio che ascolta la preghiera dell’essere umano. Gesù ha detto: “Chiedete e vi sarà dato; cercate e troverete; bussate e vi sarà aperto” (Matteo 7,7). Il Signore ci è vicino, così tanto vicino da poterci ascoltare. Se fosse più lontano magari ci vedrebbe, ma non potrebbe ascoltarci, invece ci ascolta perché è vicino. La domanda però è: noi siamo capaci di chiedere? E di chiedere le cose giuste? Salomone lo sa e lo fa, e la Scrittura lo presenta come esempio per tutti noi. Ma Salomone è un re, noi non lo siamo. Che esempio può essere per noi? Vediamolo.

Salomone ha chiaro in mente che il suo mandato è di governare e quindi chiede a Dio: “Dà al tuo servo un cuore intelligente perché io possa amministrare la giustizia per il tuo popolo e discernere il bene dal male” (1 Re 3,9). Dietro alla richiesta del giovane re ci sono due elementi importantissimi. Il primo è che Salomone riconosce con chiarezza di essere inserito in una storia, che per lui è di insegnamento e che gli dà responsabilità. La preghiera di Salomone, infatti, inizia dalla riconoscenza per la vita del re Davide, suo padre, nel cui solco vuole condurre la propria (v.6). Tutti noi siamo inseriti in una storia, familiare e collettiva, verso la quale portiamo la nostra parte di responsabilità e nel cui contesto verremo giudicati.

La comunità evangelica italiana, per esempio, ha appena ricordato il pastore della chiesa valdese Giorgio Bouchard, morto lunedì scorso. Fu un protagonista della storia del Novecento di questa componente del panorama religioso italiano. Lo si potrebbe ricordare per molte cose, per esempio per la sua appassionata difesa nel 1974 della legge sul divorzio contro il referendum che ne voleva l’abolizione, oppure per la firma che pose nel 1984, accanto a Bettino Craxi capo del Governo, sulla prima Intesa tra lo Stato italiano e una confessione religiosa non cattolica, secondo quanto previsto dall’art. 8 della Costituzione ma mai attuato prima. Un credente che seppe parlare alla società e alla cultura italiana perché non considerò la sua missione circoscritta solo nell’ambito ecclesiastico. Come lui, anche ciascuna e ciascuno di noi è chiamato a fare la storia di oggi nel solco di quella di ieri, nel rispetto dei valori comuni che contribuiscono a creare una comunità umana giusta e solidale.

Il secondo elemento che sta dietro alla richiesta del giovane re Salomone è che per lui governare significa servire. In particolare significa amministrare la giustizia, che Salomone descrive come: “Discernere il bene dal male” (v.9). La sua prospettiva è centrata non sulla conservazione del suo potere, ma sulla conservazione di una vita dignitosa e giusta per il suo popolo. Per questo serve chiarezza. Per questo il re chiede discernimento. Un esempio, quello di Salomone, che dovrebbero seguire in particolare coloro che amministrano il bene comune ma che vale per tutti: abbiamo bisogno di saggezza, intelligenza, discernimento per condurre con giudizio le nostre vite, specie quando il bene e il male non ci appaiono ben distinti fra loro.

“Piacque al Signore che Salomone gli avesse fatto una tale richiesta. E Dio gli disse: ‘Poiché tu hai domandato questo, e non hai chiesto per te lunga vita, né ricchezze, né la morte dei tuoi nemici, ma hai chiesto intelligenza per poter discernere ciò che è giusto, ecco, io faccio come hai detto; e ti do un cuore saggio e intelligente’” (vv.10-12).

*Già moderatore della Tavola Valdese

 

Italia senza Speranza: dov’è finito?

 

“Talvolta viene evocato il tema della violazione delle regole di cautela sanitaria come espressione di libertà. Non vi sono valori che si collocano al centro della democrazia come la libertà. Naturalmente occorre tenere conto anche del dovere di equilibrio con il valore della vita, evitando di confondere la libertà con il diritto di far ammalare gli altri”.

Sergio Mattarella

 

Che fine ha fatto il ministro della Sanità, Roberto Speranza? Sappiamo dai giornali che ha disertato l’ultima riunione del consiglio dei Ministri in segno di protesta per l’esclusione della sinistra dalle nomine al vertice delle commissioni parlamentari. Poi più nulla. E non va bene perché Speranza è stato il ministro che ha operato nell’emergenza Covid con equilibrio e competenza (come riconosciuto dalla stessa opposizione). Ruolo e funzione di cui oggi più che mai ha bisogno l’Italia che, come abbiamo già scritto, dopo le fasi uno e due ha imboccato la fase “come vi pare”, nella più assoluta confusione e anarchia di comportamenti. Sarebbe perciò indispensabile che il ministro tornasse a palesarsi per rispondere ad alcuni interrogativi, diventati quanto mai pressanti dopo il fermo messaggio del Capo dello Stato. E dunque: la curva dei contagi di nuovo in aumento in alcune Regioni, quanto ci deve preoccupare? Che senso ha mantenere in alcuni luoghi (negozi, aziende, banche, uffici pubblici) l’obbligo di mascherina e di distanziamento? Mentre sulle spiagge si accalca un numero incalcolabile di persone senza restrizione alcuna (di controlli neanche a parlarne). Idem nelle discoteche e perfino alle prove di ammissione per la facoltà di Medicina. Che senso ha continuare a imporre negli aeroporti regole tassative di sicurezza mentre si fa saltare sull’Alta velocità l’obbligo dei sedili vuoti (poi ripristinato in extremis)? Questa divisione a capocchia tra l’Italia regolata e quella sregolata, spesso tra loro confinanti, non toglie credibilità e autorevolezza alla gestione dell’epidemia che gli esperti continuano a dichiarare presente tra noi? A proposito di esperti, esaurita la sbornia televisiva, non sarebbe il caso che i più qualificati (a partire dall’Istituto superiore di sanità) ci dicessero come stanno realmente le cose? Se incombe ancora la seconda ondata del virus, prevista per l’autunno? Infine (per il momento) ci può spiegare perché il governo non vuole rendere pubblici i verbali del Comitato tecnico scientifico, e ha fatto ricorso al Consiglio di Stato avverso la sentenza del Tar del Lazio favorevole alla diffusione di quei documenti? Come scrive Riccardo Luna su “Repubblica”: “Abbiamo o no il diritto di conoscere tutta la verità su quei mesi?”. Dunque, signor ministro della Salute, per favore batta un colpo. O anche due.

 

“Il nuovo regime climatico”: ghiacciai, adieu. Arriva Isaias

In Italia – Dopo un avvio normale, l’estate in questi giorni ha fatto sul serio proponendo la prima ondata di caldo nord-africano a scala nazionale. I valori più elevati – almeno 7 °C sopra media, talora vicini ai record e resi soffocanti dall’elevata umidità relativa – si sono registrati da giovedì in poi con 38,3 °C a Sezzadio (Alessandria), 39,8 a Guidonia (Roma), 40,5 a Scansano (Grosseto) e 42,4 a Iglesias. Ma nel mezzo della vampata rovente che peraltro ha reso luglio 2020 da 1 a 2 °C più caldo del consueto, violenti temporali hanno colpito mercoledì sera il Bellunese (127 mm di pioggia in 4 ore ad Auronzo, record nella serie dal 1985, allagamento di strade ed edifici) e giovedì sera l’Adamello e l’alta Valtellina (colate di fango e detriti presso Peio, Ponte di Legno, Bormio, Livigno… chiusi il Passo della Forcola e la statale dello Stelvio). Così, anche quest’anno il troppo caldo minaccia i ghiacciai. Fino al prossimo 6 gennaio il Forte di Bard (Val d’Aosta) ospita la mostra L’adieu des glaciers, viaggio tra fotografia e scienza nel Monte Rosa, gruppo montuoso che con Umberto Monterin e Angelo Mosso ha visto nascere in Italia gli studi di glaciologia, climatologia e fisiologia umana in alta montagna.

Nel mondo – Domenica 26 luglio un’altra notevole fiammata di caldo ha interessato la penisola iberica con temperature massime fino a 44,7 °C a Siviglia (il record storico assoluto è però di 46,6 °C), coinvolgendo poi gran parte d’Europa tra giovedì 30 e ieri: colpita specie la Francia con vari primati tra cui 41,9 °C a Socoa e 41,3 °C a Vichy, ma anche l’Inghilterra, con 37,8 °C a Londra-Heathrow, terzo caso dopo quelli del 25 luglio 2019 (38,7 °C) e 10 agosto 2003 (38,5 °C). In Francia peraltro è terminato il luglio più secco nella serie nazionale dal 1959 (anomalia di pioggia -70%). Luglio fresco invece in Svezia e Norvegia (2 °C sotto media), ma ancora più a Nord, nell’arcipelago delle Svalbard, spicca il primato assoluto di caldo di 21,7 °C stabilito sabato 25 a Longyearbyen, superando il precedente di 21,3 °C del 16 luglio 1979. Gran fusione dei vicini ghiacciai e torrenti in piena. La tempesta tropicale “Hanna”, prima del 2020 a raggiungere lo stadio di uragano in Atlantico, ha toccato il confine tra Texas e Messico una settimana fa con piogge alluvionali, almeno quattro morti e svariati dispersi nello stato centro-americano (533 mm in 24 ore a Monterrey), mentre il ciclone Douglas ha risparmiato le Hawaii. Ora preoccupa l’uragano “Isaias”, che negli ultimi giorni ha percorso quasi tutto l’arco delle Antille a partire da Porto Rico, dove ha causato alluvioni, fino ad approdare ieri sera in Florida, mentre la Georgia e le due Caroline si preparano all’impatto di domani. Alle inondazioni che continuano a flagellare il Sud dell’Asia si aggiungono ulteriori episodi in Yemen (17 vittime), Giappone, Nigeria (7 morti), Niger, Mali e Nuovo Galles del Sud (Australia). Per chi in vacanza ha voglia di affrontare una lettura vasta e impegnativa, ma di grande portata per la crisi ambientale che viviamo, propongo la riflessione del filosofo e antropologo francese Bruno Latour La sfida di Gaia – Il nuovo regime climatico (Meltemi Edizioni). È un saggio sullo sfuggente concetto moderno di natura e sul rischio epocale di perdere le condizioni di abitabilità del nostro pianeta. Scenario terribile che emerge anche da un modello al calcolatore realizzato da Mauro Bologna e Gerardo Aquino delle Università di Arica (Cile) e Londra, e spiegato su Scientific Reports (Deforestation and world population sustainability: a quantitative analysis): tra sovrappopolazione e deforestazione, difficilmente la nostra civiltà potrà sopravvivere più di altri 20-40 anni senza una svolta verde. Capite?

 

“Libia” è diventata ormai solo una brutta parola

Se c’è un Paese che avrebbe dovuto imparare a non fare il finto padrone in Libia, come se la Libia fosse la parte debole e sottomessa dei giochi politici di altri, è l’Italia. L’Italia si è inventata la conquista quando la Libia era sabbia, l’ha sottomessa con la crudeltà dei militari che avevano appena sterminato “il banditismo” del Sud italiano. Poi, con la pretesa di farle la Libia italiana, aveva condotto una seconda guerra di repressione, e i fantasmi dei ribelli impiccati si aggirano ancora a tormentare e screditare ogni intervento italiano.

L’ultima maledizione è la caccia ai migranti. In questa maledizione (che vuol dire lasciar morire fingendo che sia una politica, e dicendo continuamente il contrario di quello che noi – l’Italia – abbiamo fatto e stiamo facendo) abbiamo un ruolo attivo che atterrisce perché è condotto da un Paese che si ritiene grande potenza democratica, condanna a parole chi rifiuta gli scampati dal mare e fa finta di accogliere, anzi promette, con voto unanime di una assemblea di grande partito democratico che lo farà. Invece il simbolo rimane. È l’uomo lasciato annegare per quindici giorni, appeso a un relitto in mezzo al Mediterraneo (la Guardia Costiera italiana non ha risposto alle disperate chiamate di aiuto, fino a quando è stato possibile al morente farsi sentire). E i quattro giovani senegalesi uccisi (ma forse sono il doppio) dalla Guardia costiera italo-libica perché, piuttosto che tornare nei lager, tentavano di fuggire (anche qui i fondi per tortura e morte e le armi per uccidere sono italiani) e si erano illusi di avere una possibilità di salvezza.

Errore. Benché l’ex ministro dell’Interno, autore di una legge estremista detta “Sicurezza”, respinta dalla Corte costituzionale, sia sotto processo per avere applicato, con sostegno o silenzio di tutti, la sua legge illegale, nessun politico, compresi quelli che continuano ad assicurare di essere “di sinistra”, osa toccarla. Temono (sono sicuro che sbagliano) che i giudici siano della stessa tempra dei politici. Anzi, sono i “buoni” della sinistra, come il deputato Pd Del Rio che in passato aveva mostrato una prudente opposizione alla persecuzione e che adesso ammette che dobbiamo essere più realisti… Ma c’è chi tiene viva la rabbia. Sostenuti dalla passione missionaria di Lega e Meloni (che forse domanderà a se stessa “con che faccia?”), i nostri concittadini, a questo punto della storia civile, si liberano della più grande questione morale con cui le civiltà si sono confrontate dall’inizio dei secoli. “Non possiamo prenderli tutti” è una affermazione apparentemente ragionevole che ha due versioni. Prima versione: violano illegalmente i confini della patria. La frase è assurda e falsa, perché se qualcuno è obbligato a entrare nella “nostra sacra Patria” (cfr. Meloni e Salvini ) per salvare i suoi figli non ha alcun modo legale di farlo. Seconda versione: “Non c’è più posto”, detta da cittadini di un Paese vuoto, senza milioni di nuovi nati e con milioni di giovani che se ne vanno all’estero, oltre a migliaia di edifici vuoti o abbandonati, è un falso clamoroso. Non è in discussione la desiderabilità di aiutare chi sta morendo, come non lo è se vi fermate a prestare soccorso dopo un grave incidente stradale. Si fa perché si deve fare e per impulso di umanità. Segue l’affermazione “gli altri (in Europa) non lo fanno, perché dovremmo farlo noi?”. È un ottimo argomento per gli evasori fiscali (“solo io devo pagare le tasse?”) che nei Paesi civili non viene accettata perché disonesta e illogica. Per ragioni economiche legittime e urgenti l’Italia ha lottato con successo a Bruxelles, poche settimane fa, per proteggere i nostri interessi economici. Ma di nostra iniziativa abbiamo proibito il mare alle Ong, abbiamo fermato la Marina militare e sequestrato e multato navi e pescatori che avevano osato portare aiuto. Tutto ciò è barbarie italiana, non europea. E girano frasi che dovrebbero imbarazzare chi le ha pensate: “Chi salva un uomo in mare se lo porti a casa” (Feltri ieri su Libero).

La magistratura ha notato, fra centinaia di eventi delittuosi e mortali accaduti in mare, le iniziative fuori legge dell’ex ministro dell’Interno in due processi per sequestro di persona. E il Senato della Repubblica, con quattro voti di maggioranza, ha approvato di malavoglia l’autorizzazione a procedere. Ormai si è perso persino il ricordo del sindaco di Riace, Lucano, che aveva ridato vita al suo borgo abbandonato accogliendo e offrendo un po’ di normalità a famiglie di immigrati scampati alla guerra e al mare. Per questo è stato rimosso, arrestato, processato. E assolto due anni dopo. Forse non è stata realistica la decisione del Senato di permettere il processo all’ ex ministro Salvini che sequestrava donne e bambini in mare e cantava felice sulla spiaggia di Papeete. Non è che uno dei tanti di un’intera classe politica colpevole del reato di strage.