L’intervento è riuscito, ma il chirurgo è pazzo: vede sirene e delfini rosa

Dai racconti apocrifi di Gian Dauli. Una coppia stava attraversando in auto la Provenza quando la donna si lamentò di un dolore lancinante alla testa. Il marito capì dalla faccia sconvolta che doveva essere qualcosa di grave. Ricordò di aver visto, un chilometro prima, una villetta isolata, con una placca d’ottone a lato del cancello: “Medico chirurgo”. Girò l’auto. Aveva letto bene. Venne ad aprire il dottore, in camice bianco. Ascoltò, fece una domanda, li accompagnò nell’ambulatorio. Dopo un esame accurato, il dottore disse: “C’è una massa che preme sul cervello. Non c’è tempo da perdere. A Nizza arrivereste troppo tardi. Eseguirò io l’operazione, anche se i miei strumenti non sono all’avanguardia. E voi mi aiuterete”. I suoi modi ispiravano fiducia, sembrava competente. Del resto, non c’era alternativa. Quando arrivò al punto più delicato dell’intervento, qualcuno bussò con vigore alla porta. “Non apra finché non glielo dico”, disse il dottore. “E continui a controllare l’anestetico”. Fuori continuavano a bussare, a chiamare a gran voce. Finalmente il dottore fece cenno di andare ad aprire. Entrarono due infermieri. Uno disse: “Istituto psichiatrico. È la terza volta che scappa. Lo ritroviamo sempre qui, nel suo vecchio villino”. “Sta… sta operando mia moglie!”. “Ho finito”, disse il dottore. Poi, rivolto a un infermiere: “Mi aiuti con la fasciatura. Metta un dito qui”. L’altro infermiere telefonò per chiamare un’ambulanza. Mezz’ora dopo, il dottore rientrava tranquillamente in manicomio, dove, affacciato alla finestra della sua camera, era solito dire ai passanti: “Siete in tanti, là fuori?”. La signora venne ricoverata a Nizza. Esaminati i referti d’urgenza, il primario di neurochirurgia disse: “Sua moglie ha bisogno solo di riposare. È stata un’operazione miracolosa. A volte, anche in una piccola località di campagna, si può trovare un bravo medico sconosciuto. Che grande lezione di umiltà, per tutti noi professori. Solo un uomo al mondo era in grado di eseguire un’operazione del genere con questa bravura. Il mio maestro”. La voce gli si strozzò in gola, fece un sospiro. “Ma da diversi anni è in manicomio. Una forma inguaribile di follia”.

Dagli aneddoti apocrifi di Rafael Cansinos Assens. La signora ammonì la figlioletta che l’ospite in arrivo per il tè era uno zio miliardario e aveva un naso rigonfio e spugnoso, di cui non bisognava parlare, a cui non bisognava accennare, che bisognava far finta di non vedere, per non offenderlo. “Te lo ripeto: non guardargli il naso, non interrogarlo sul naso, non cercare di toccargli il naso, fai come se il suo naso fosse un naso normale”. La signora stette sulle spine tutto il tempo, ma la bimba si comportò benissimo, poi venne la governante e la portò a giocare in giardino. Rimasta sola col parente miliardario, finalmente libera dall’angoscia, prese la teiera e disse: “Vuoi un’altra tazza di naso?”.

Dalle favolette apocrife di Tonino Guerra. Ogni sera, al bar, un romagnolo raccontava balle fantasiose. Gli amici gli davano corda, perché si divertivano: “Pataca, cos’hai visto oggi?”. E lui: “Os-cia, a Viserba ho visto una sirena nuda che suonava l’arpa a cavallo di un delfino rosa!”. E tutti ridevano alle sue spalle. Un giorno, a passeggio sulla spiaggia, il pataca vide, al di là degli scogli, una sirena nuda che suonava l’arpa a cavallo di un delfino rosa. La sera stessa, gli amici gli chiesero: “Pataca, cos’hai visto oggi?”. E lui: “Niente”.

 

Stavolta il Nyt Elogia “Giuseppi”

Non è più il paese della “capitale in rovina”. Giuseppe Conte non è più il premier che si inventava le lezioni alla New York University “dove nessuno lo conosce”. Il corrispondente del New York Times da Roma, Jason Horowitz ha cambiato registro e su uno dei più giornali più prestigiosi al mondo fa l’elogio dell’Italia e del governo: “Da epicentro dell’incubo coronavirus a modello che dà una lezione anche gli Usa” scrive nel numero del 31 luglio.

“Dopo un inizio incerto, l’Italia ha consolidato i vantaggi di un rigido lockdown a livello nazionale attraverso un mix di allerta e competenza medica dolorosamente acquisita”, scrive il Nyt, sottolineando che oggi gli ospedali italiani “sono praticamente vuoti di pazienti Covid-19” e “le morti quotidiane attribuite al virus in Lombardia, la regione settentrionale che ha sopportato il peso maggiore della pandemia, si aggirano intorno allo zero”. Negli Stati Uniti l’Italia era stata considerata da Donald Trump un esempio al contrario:”Guardate cosa sta succedendo con l’Italia”. Poi, la scorsa settimana un articolo super-elogiativo da parte del Nobel Paul Krugman e ora il corrispondente da Roma. Magari c’entra la campagna contro Trump, ma per l’Italia è un riconoscimento.

“Manina” di Malagò nel provvedimento che lo salva al Coni

In ogni legge che si rispetti c’è sempre un compromesso frutto di pressioni indicibili, un favore fatto di nascosto al potente di turno, un accordo sottobanco. Di solito si può solo provare a immaginare quali siano stati i patti segreti e destinati a rimanere tali, per la riforma dello sport è diverso: una bozza diffusa per errore con i commenti del gabinetto del ministro svela richieste e raccomandazioni. Come per l’incompatibilità degli incarichi sportivi, che rischiava di mettere in pericolo anche la presidenza di Malagò alle Olimpiadi di Milano-Cortina. E che proprio su “osservazione” di Malagò è stata tolta.

La riforma dello sport avanza a fatica nel caldo torrido d’agosto, il ministro Spadafora la vorrebbe in Consiglio dei ministri prima della pausa estiva ma non mancano gli affanni. La versione iniziale aveva creato il panico: abbassando il limite di mandati, Spafafora voleva mandare a casa Malagò e decine di presidenti federali che sono lì da decenni. Questi stanno provando a salvarsi, convocando le elezioni prima che la riforma entri in vigore, per Malagò l’allarme è già rientrato: Pd e Italia Viva hanno detto no, il M5S ha abbozzato e il ministro ha fatto un passo indietro pur di portare a casa il provvedimento (e il super dipartimento Sport di Palazzo Chigi, un vero Dicastero). Così il limite è tornato a tre e Malagò resterà alla guida dello sport italiano fino al 2025.

Risolto un problema, se n’è creato un altro sull’incompatibilità tra sport e politica, battaglia su cui Spadafora ha trovato consenso in maggioranza: basta porte girevoli col Parlamento. La norma vietava anche gli incarichi negli enti pubblici e privati in controllo pubblico, ma così rischiava di imbarazzare più di un dirigente e intralciare i sogni olimpici di Malagò: la natura giuridica del Comitato di Milano-Cortina 2026 non è chiara, Fondazione privata con soldi privati, ma costituita da soggetti pubblici. Non si sa se il divieto avrebbe potuto applicarsi al presidente, nel dubbio, meglio non rischiare: quella parte è stata tolta e un funzionario a margine ha annotato “osservazione Malagò”.

Non è l’unico commento uscito da Palazzo Chigi. Dalle note, ad esempio, si scopre una telefonata (immaginiamo i toni allarmati) tra Malagò e il capo di gabinetto sul prezioso registro Coni, dove ci sono i dati di tutte le società sportive: la riforma voleva toglierglielo, ora ne manterrà il controllo. È stato invece il deputato Pd Andrea Rossi a intercedere per un’altra piccola casta, quella dei Comitati regionali, dove tanti dirigenti sono poco più che volontari, rischiava di aprirsi una voragine, ma alcuni presidenti hanno creato veri feudi, a partire da chi li rappresenta in giunta, cioè il numero 1 della Sicilia Sergio D’Antoni, ex segretario Cisl, tre volte parlamentare, una viceministro (con Prodi). Potranno tutti ricandidarsi, senza limiti.

Sulla riforma la partita non è chiusa. Cresce il malumore del M5S, che chiedeva di rispettare lo spirito della delega, in particolare sulla centralità della società governativa Sport e salute e la riduzione delle competenze del Coni. I parlamentari volevano anche applicare l’incompatibilità alla Fondazione Milano-Cortina, ma al Foro Italico sostengono che così si violerebbe la carta olimpica per cui presidente e segretario Coni devono essere nel Comitato. Le ragioni di Malagò sono state convincenti, l’articolo sgradito è già stato eliminato da una “manina”. Solo che stavolta ha lasciato la firma.

Dittatura? È il Parlamento con meno decreti e fiducie

“Dittatura, dittatura!”. Ma anche: “Siamo in mano a un governo liberticida” sbraitava pochi giorni fa la leader di Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni, nel suo accorato discorso alla Camera contro la decisione del governo Conte di prorogare lo stato di emergenza al 15 ottobre. Da settimane le opposizioni (e diversi giuristi, anche progressisti) accusano l’esecutivo di usare l’emergenza Covid per esautorare e “svuotare” il Parlamento e dare i “pieni poteri” (copyright Il Giornale, Il Tempo e Il Riformista) all’esecutivo. Ma dal Rapporto 2019-2020 sulla legislazione prodotto dal servizio studi della Camera dei Deputati, emerge tutt’altra realtà: nei primi due anni della XVIII legislatura – quindi durante i governi Conte I (maggioranza Lega-M5S) e Conte II (M5S-Pd) – sono diminuiti i decreti legge emanati dall’esecutivo rispetto allo stesso periodo della XVII legislatura, ovvero il governo Letta e il primo anno dell’esecutivo di Matteo Renzi. Insieme ai decreti legislativi, i decreti legge sono le norme in cui il potere esecutivo si sostituisce al Parlamento e riguardano, o dovrebbero riguardare, i casi di “necessità e di urgenza”: i decreti legge entra subito in vigore una volta approvati dal Consiglio dei Ministri e pubblicato in Gazzetta Ufficiale, in attesa della conversione del Parlamento (entro 60 giorni).

Rispetto ai primi due anni di legislatura, i governi Conte I e Conte II hanno emanato 48 decreti legge sui 279 atti normativi, contro i 56 di Letta e Renzi sui 244 totali (dal 22 al 17%). Non solo, il rapporto pubblicato il 27 luglio segnala come, nel confronto tra il biennio 2013-2015 e 2018-2020, sia diminuito il numero di questioni di fiducia poste dal governo in almeno un ramo del Parlamento: le compagini gialloverde e giallorosa l’hanno posta per 19 delle 107 leggi (17,8%), contro le 26 su 114 di Enrico Letta e Matteo Renzi (22,8%).

Sicuramente pesa il fatto che negli ultimi quattro mesi – da marzo a oggi – il governo Conte II sia stato costretto ad approvare decreti monstre per rispondere all’emergenza Covid-19 che hanno fatto confluire in testi corposi molti atti che, in tempi normali, avrebbero riguardato singoli provvedimenti legislativi. Quest’ultimo dato risulta evidente dal netto incremento medio dei commi dei decreti legge pari all’82% durante i governi di Giuseppe Conte, il 30% in più rispetto alle norme governative dello stesso periodo della legislatura passata.

Ma il potere del Parlamento, checché ne dicano le opposizioni, è diventato più centrale sotto i governi dell’avvocato di Volturara Appula: insieme alla diminuzione dei decreti legge emanati, decresce anche il peso delle leggi di conversione (dal 39 al 34%) ma soprattutto le leggi di iniziativa governativa riguardano il 55% di tutta la produzione normativa, contro il 75% del biennio 2013-2015 (- 20%). Per quanto riguarda le leggi diverse da quelle di conversione (decreti legge e decreti legislativi), i governi Letta e Renzi avevano di fatto svuotato il Parlamento: su 69 leggi presentate, 51 erano di iniziativa governativa contro le 18 di iniziativa parlamentare (74-26%). Nei primi due anni della XVIII legislatura invece, per quanto resti maggiore l’iniziativa del governo sulla produzione legislativa, il rapporto tra i due poteri si è riequilibrato: su 70 norme, 29 sono state avanzate dal Parlamento (41%), contro le 39 del governo (56%). Il restante 3%, pari a 2 leggi, è di origine mista.

Di fronte a un minore intervento del governo nella produzione legislativa, però il rapporto mette in evidenza un aspetto relativo all’emergenza coronavirus: la tendenza dell’esecutivo di Giuseppe Conte a perseguire una “legislazione difensiva”, ovvero “che cerca ‘via di fuga’ rispetto alle complessità dell’assetto normativo”: in particolare le norme che delegano dossier a commissari straordinari e la produzione degli ormai celebri Dpcm. A questo proposito, si legge nelle premesse, i tecnici della Camera sottolineano come l’emergenza provocata dal Covid-19 “abbia inevitabilmente accentuato la spinta alla ‘verticalizzazione’ delle decisioni”. Nel periodo 23 febbraio – 17 luglio 2020 sono state approvate 33 leggi: 10 dei 15 decreti sono connessi all’emergenza.

Niente Conte, i ciellini vogliono Draghi

La flemma è quella ecumenica di chi rivendica di “non avere intenzione di entrare nella discussione su un futuro governo”, ma le scelte del Meeting di Rimini 2020, anticipate dal Fatto tre settimane fa e confermate ieri dal presidente Bernard Scholz su Repubblica, mostrano in controluce una precisa visione del quadro politico da parte degli organizzatori. E non manca qualche stranezza, se non altro perché nel momento del bisogno di “unità nazionale” (indicato da Sergio Mattarella e ripreso da Scholz), la rassegna sembra più orientata verso i nemici del governo che verso i suoi protagonisti.

Qualche esempio? Alla kermesse annuale di Comunione e Liberazione mancherà Giuseppe Conte. Già assente nel 2018 e nel 2019, il pur cattolicissimo presidente del Consiglio non parteciperà neanche quest’anno e la notizia stride con le frequenti ospitate dei suoi predecessori – da Matteo Renzi a Paolo Gentiloni, da Mario Monti a Enrico Letta -, tutti invitati durante il rispettivo mandato (solo Prodi non ebbe un gran rapporto con la kermesse). Ieri poi Scholz ha ufficializzato la presenza di Mario Draghi alla cerimonia di apertura del Meeting, proprio mentre l’ex presidente della Bce è invocato da più parti come il salvatore della Patria che dovrà scalzare Conte. Ovvio allora che il suo invito assuma un significato politico e battezzi Draghi come problem solver del Paese: “Riteniamo sia molto importante – dice Scholz – ascoltare persone che hanno saputo prendere decisioni coraggiose e di grande competenza in momenti storici di difficoltà. Abbiamo bisogno di ascoltare persone così, che sanno assumersi le giuste responsabilità in situazioni di crisi”.

Draghi sì, Conte no. Non solo: a Rimini non ci sarà neanche il segretario del Pd Nicola Zingaretti. La sua assenza fa rumore, anche perché dal Pd arriveranno diversi big (David Sassoli, Paolo Gentiloni, Roberto Gualtieri, Paola De Micheli, Graziano Delrio), ma non il segretario, nonostante Scholz imputi l’assenza a un cattivo incastro di date.

Ci sarà invece Luigi Di Maio, presente a un panel dal titolo provocatorio – “Il Parlamento serve ancora?” – insieme a Roberto Speranza e (in una seconda sessione) Maria Elena Boschi, Matteo Salvini, Giorgia Meloni, Maurizio Lupi, Antonio Tajani e il già citato Delrio (non proprio un parterre amichevole nei confronti di Conte). Salta all’occhio allora lo “sgarbo” a Vito Crimi, leader del M5S costretto alle retrovie, con l’ex capo posto al pari di segretari di partito e capigruppo in Parlamento. La presenza di Di Maio ha pure un significato simbolico, perché il Movimento non mette piede al Meeting da 5 anni. L’ultima volta fu un disastro: nel 2015 il deputato Mattia Fantinati aveva insultato dal palco Cl, definita “la più potente lobby italiana” e accusata di aver trasformato “l’esperienza spirituale in un paravento di interessi finalizzati a denaro e potere”. I 5 Stelle si erano sempre rifiutati di tornare.

Export, cantieri e digitale: i ministri fanno i compiti

Giuseppe Conte ha fretta, perché ha fretta l’Europa. E allora ai ministri tocca fare i primi compiti, entro martedì. Cioè presentare titoli e direttive dei progetti per far fruttare i soldi dell’Europa, con schede dove compaiono spesso parole come digitalizzazione, formazione ed efficientamento energetico. La prima stazione da oltrepassare per salire sul treno dei 209 miliardi del Recovery Fund, un rapido che non aspetta nessuno, nemmeno l’Italia che pure sarà il Paese che riceverà più denaro tra prestiti e versamenti a fondo perduto. Entro metà ottobre bisogna presentare alla Ue i progetti per gli investimenti, tutti. E per farcela Conte vuole chiudere il documento complessivo del governo entro il 31 agosto. Per questo il premier, come raccontato ieri dal Sole 24 Ore, ha chiesto a tutti i ministri di inviare le prime schede di progetto entro martedì. Cinque pagine da riempire con le proposte di ogni dicastero, almeno per linee generali.

I dettagli arriveranno più avanti, ma intanto le schede stanno prendendo forma, con i tecnici al lavoro anche nel fine settimana. Anche nella Farnesina dell’ex capo del Movimento, Luigi Di Maio, dove punteranno innanzitutto sulla digitalizzazione e l’efficientamento energetico delle ambasciate. “Un modo anche per risparmiare molti soldi” spiegano, citando un esempio concreto: “Fare buone conference call permetterà di limitare i viaggi dei funzionari”. Ma il ministero degli Esteri sta valutando anche se chiedere risorse per rafforzare il settore delle esportazioni. Dipenderà anche dai paletti del Recovery, perché alcune linee vanno rispettate. Lo sanno bene al ministero della Pubblica amministrazione, guidato dalla 5Stelle Fabiana Dadone, dove insisteranno innanzitutto sull’interconnessione delle banche dati della Pa. “L’obiettivo – dicono dal dicastero – è sempre quella della one only, ossia di far sì che a cittadini e imprese i diversi dati vengano chiesti una sola volta, e che poi siano le varie amministrazioni a trasmetterle l’una all’altra”.

Ma per riuscirci bisognerà vincere resistenze diffuse (gestire i dati dà potere) e anche risorse. Però c’è anche un altro fronte fondamentale per Dadone, quello della formazione del personale. “Più fondi sarebbero preziosi, anche per dotare il personale di strumenti per lavorare da casa nel miglior modo possibile” raccontano. E su maggiori risorse conta parecchio anche la ministra alle Infrastrutture Paola De Micheli (Pd). Giovedì scorso De Micheli ha riunito tecnici e staff per fare l’elenco dei progetti da finanziare con il Recovery Fund. Di fatto però l’obiettivo di fondo è potenziare con nuovi fondi e soprattutto accelerare il Piano Italia Veloce, il progetto di ammodernamento che va dai porti alle linee ferroviarie, fino a strade e autostrade.

Un piano articolato in 15 anni, a cui i soldi europei potrebbero dare ossigeno, come verrà ricordato nella scheda. Un altro ministero che chiederà molti fondi è quello allo Sviluppo economico, guidato dal grillino Stefano Patuanelli. La priorità per il Mise è il potenziamento del piano Transizione 4.0, tramite cui si concede credito d’imposta alle imprese che investono in nuovi macchinari e nella ricerca, fino a detassare completamente gli investimenti. Grazie ai soldi dell’Europa Patuanelli vorrebbe rendere il piano triennale, alzando le aliquote delle agevolazioni fiscali. Ma nella scheda di progetto finirà anche il back reshoring, ossia il sistema di premialità per le aziende che riporteranno in Italia la produzione dopo averla delocalizzata.

Infine, il Mise rilancerà sull’ecobonus al 110 per cento, la misura per agevolare l’acquisto di veicoli a ridotta emissione (si vuole strutturarlo su 7 anni) e sul rafforzamento del reddito energetico per incentivare il ricorso alle energie rinnovabili.

Immigrati, virus, tamburi e Briatore: levategli il mojito

Deve essere un’estate durissima per Matteo Salvini, a giudicare dal livello della sua propaganda social e non solo social. Un livello così infimo e spassoso allo stesso tempo che c’è solo una spiegazione: i mojitos quest’estate ha cominciato a berseli tutti Luca Morisi. Senza zucchero di canna, succo di lime, menta e acqua di seltz: solo rum, però. Ecco dunque la speciale classifica delle minchiate postate da Matteo Salvini negli ultimi giorni.

1)Il leader della Lega esprime solidarietà a Mario Conte, sindaco di Treviso, per i 129 richiedenti asilo positivi al Covid nell’ex caserma Serena. Sindaco che afferma: “Il nuovo focolaio all’interno della struttura genera un danno incalcolabile, anche in termini di immagine, faccio causa alla Stato!”. “Sacrosante parole, questi sono i sindaci della Lega!”, tuona Matteo Salvini. Peccato che sia il sindaco di Treviso che Salvini si dimentichino, nell’ordine, che a) Treviso è stato uno dei primi focolai d’Italia e una delle prime zone rosse d’Italia, per cui “l’immagine” della città – se vogliamo scomodare un termine da soubrette – era già compromessa dal 7 marzo. b) Il 9 luglio a Treviso è arrivato un pullman di badanti dal Kosovo che rientravano in città per tornare ad assistere gli anziani: due di queste erano positive. Quindici persone di quel pullman sono risultate irrintracciabili. In quel caso il sindaco non ha parlato di bomba sanitaria e di cause al governo italiano. Si vede che se devono svuotare il pappagallo agli anziani trevigiani, gli stranieri sono un po’ meno stranieri degli altri.

2) Alla luce dell’arrivo dei migranti in Italia, Matteo Salvini mette le mani avanti e scrive: “Se tornerà l’epidemia, sappiamo chi ne sarà colpevole”. In pratica lui gira senza mascherina nel tour delle piazze stringendo mani e maneggiando i cellulari di chiunque, va in Senato rifiutandosi di indossare la mascherina, dice che il saluto col gomito è la fine della specie umana, strizza l’occhio ai no-mask, dice che non manderà sua figlia a scuola con la mascherina, lancia il messaggio che la mascherina sia una specie di bavaglio che il governo vuole mettere agli italiani e se torna l’epidemia è colpa dei migranti. Certo. I leghisti non si ammalano, basta bagnarsi con l’acqua del Po. O stringere la mano di Salvini, Gesù aveva le stimmate, lui ha gli anticorpi sui palmi. Gli dai il cinque e sei immune.

3) Posta un video di Flavio Briatore scrivendo a caratteri cubitali la frase dell’imprenditore contro il Governo: “VIVONO IN UNA BOLLA, NON HANNO IDEA DELLA VITA REALE!”. Cioè, secondo Salvini Flavio Briatore è l’esperto di vita reale. Attendiamo che citi Attilio Fontana come esperto in trasparenza bancaria.

4) Scrive: “Non vi sembra un’Italia al contrario? Quando lo spiego all’estero non ci credono!”. Ora, sarebbe interessante sapere a chi spieghi l’Italia all’estero Matteo Salvini. E in che lingua, visto che il suo unico interlocutore al momento sembrerebbe quell’Orban che a maggio gli scrisse saggiamente via sms “Dear friend! Congratulations. L’Ungheria è con te, Matteo! Viktor”. Della serie: fino a “dear friend” magari ci arriva, il resto glielo scrivo in italiano così capisce.

5) Per frignare a proposito del processo Open Arms, Salvini posta la foto di sua figlia che è in un’età – 7 anni – in cui non può ancora incazzarsi per la sua esposizione pubblica a fini propagandistici. E commentando la foto scrive: “Per amore dei nostri figli, per il bene dell’Italia, in difesa dei nostri valori e del nostro futuro. Possono anche processare un uomo, ma non potranno mai arrestare le nostre idee e la nostra voglia di Libertà”. Inutile dire che sogno un futuro in cui quella bambina, per spiegare la sua idea di libertà, a 18 anni, con una crocchia di dreadlocks in testa come Carola Rackete, speronerà un gazebo della Lega alla guida di una ruspa.

6) Salvini posta una notizia di cronaca di quelle che scuotono il paese come neppure riuscì a fare la strage di Erba e cioè: “Torino, immigrato tunisino strappa una collana a una 70enne. I passanti lo inseguono e lo bloccano”. Segue il commento: “E io a processo?”. Giuro che ho riflettuto almeno 15 minuti sul nesso tra i due avvenimenti ma non l’ho compreso. Cioè, se un tunisino delinque, Salvini non deve essere processato? E se anziché tunisino fosse stato messicano, cosa avrebbe scritto, qualcosa tipo “E noi qui mangiamo ancora nachos al formaggio?”. E se il ladro fosse stato italiano, il processo andava bene? Perché nel caso informo che ieri un italiano ha tentato di compiere un furto nel duomo di Arezzo, un altro italiano ha rubato una moto a Modugno, uno ha commesso un furto alla Ip di Sondrio, un altro ha rubato una borsa a Genova e insomma, dovrebbe essercene abbastanza per compensare il tentato furto del tunisino e chiedere il 41 bis per Salvini, se il criterio è “se delinquono solo gli stranieri niente processo”.

7) L’account ufficiale “Lega Salvini Premier” posta una foto del premier Conte, di Roberto Fico e di Teresa Bellanova che suonano i tamburi. Il commento per sbeffeggiarli è: “Mentre l’Italia affonda, loro suonano il tamburo”. Tamburo che chissà, al leghista medio deve sembrare anche uno strumento vagamente esotico, che evoca danze tribali e cannibalismo. Purtroppo l’account “Salvini premier” ignora il fatto che si trattava di un’iniziativa di inclusione per i disabili. Speriamo che nella foga di questi giorni Salvini non chieda di rispedire anche loro, in Tunisia.

E Gavio si candida per Aspi

Il secondo gruppoautostradale italiano, quello cha fa capo alla famiglia Gavio e ha in concessione 1.400 chilometri di corsie nel nostro Paese, soprattutto nel ricco nordovest, ha sentito l’odore del sangue e ora punta al bersaglio grosso: la rete di Autostrade per l’Italia destinata a finire nell’orbita di Cassa depositi e prestiti.

Umberto Tosoni è ingegnere, ha 45 anni e di mestiere fa l’amministratore delegato di Astm, la holding autostradale del Gruppo Gavio, e a pochi giorni dall’inaugurazione del nuovo ponte sul Polcevera a Genova la butta lì: “La vicenda di Aspi è complicata per come si è sviluppata. Sicuramente l’ingresso di Cdp è una garanzia importante dal punto di vista finanziario, ma all’operazione manca un partner industriale”. Mica è una proposta, per carità: “Se qualcuno ci chiederà di farlo noi siamo a disposizione per dare una mano nella logica di un intervento di sistema e per l’interesse del Paese”, ovviamente. Chi potrebbe chiederglielo non è neanche un mistero: sono noti i buoni rapporti del gruppo con l’area politica del centrosinistra (ma s’intendono bene anche con la controparte, vedi i finanziamenti a Giovanni Toti in Liguria), magari meno noti ma davvero ottimi quelli con la ministra delle Infrastrutture, la dem Paolo De Micheli (nella foto).

Se riuscissero a entrare nella futura Aspi, i Gavio si troverebbero a gestire in un modo o nell’altro 5mila chilometri di autostrade in Italia, cioè il 77% della rete. Per il momento si devono accontentare, per modo di dire, di aver messo le mani sulla Sitaf, la società che gestisce i 73 chilometri della Torino-Bardonecchia e, soprattutto, i 13 del tunnel del Frejus: Astm s’è aggiudicata la gara indetta dalla sindaca di Torino Chiara Appendino per il 19,3% di Sitaf pagando 272 milioni. Oggi i Gavio hanno, insomma, il 67,2% del capitale della società che ha in gestione il Frejus fino al 2050 e al 31 dicembre 2018 – l’ultimo bilancio presente sul sito – denunciava ricavi per 270 milioni di euro e utili (in crescita del 6% sull’anno precedente) per 30 milioni.

Tornando alla gentile offerta per Aspi, non è certo quello il vero fronte aperto tra Gavio e il governo: il nuovo sistema tariffario dell’Autorità dei Trasporti – un po’ meno vantaggioso di quello con redditività da Google ancora in vigore – è una sorta di spauracchio per l’impero formato dal capostipite Marcellino. Anche Astm si oppone con tutte le sue forze alla fine della cuccagna e finora la differenza tra la famiglia piemontese e i Benetton l’ha fatta solo la fortuna: a differenza del Morandi, il crollo del viadotto sulla A6 Torino-Savona dell’autunno scorso non ha ucciso nessuno. Solo per caso, però.

“PedeFontana”: così la Lega s’è presa l’autostrada inutile

Beppe Sala sarà assai scontento. Era appena novembre quando – all’esito di un contenzioso passato per una perizia del Tribunale – il Comune di Milano riconsegnò alle autostrade Serravalle il suo 18 e dispari per cento della società in cambio di 2,7 euro ad azione, 91 milioni in tutto. Ecco, Sala sarà scontento perché in questi giorni – e senza apparenti novità, né straordinari aumenti di traffico – s’è stabilito che la Regione Lombardia passerà il suo 82,4% della Serravalle a FNM, società che si occupa di treni a sua volta controllata dalla Regione, per 519 milioni, vale a dire al prezzo di 3,5 euro ad azione, un 22% abbondante in più. Soldi che, peraltro, finiranno in larga parte in quel pozzo senza fondo noto come Pedemontana lombarda, società attualmente controllata da Serravalle e dunque dalla Regione a guida leghista.

La cosa bizzarra è che – per non lasciare inesplorato alcun conflitto di interessi – prezzo e modalità di questo vorticoso balletto finanziario sono stati decisi dalla stessa Giunta di Attilio Fontana grazie a un emendamentino all’assestamento del bilancio regionale: niente perizie, niente slide, niente stime. Tre euro e mezzo ad azione e basta: è il prezzo giusto, parola dell’assessore Davide Caparini benedetto col voto a favore del centrodestra in Consiglio regionale.

Si dirà: vabbè, ma è uno scambio “in famiglia”, non ci perde nessuno. Non solo non è così, ma giusto giovedì anche il Gruppo Gavio ha venduto il suo 13,6% di Serravalle a FNM a 3,5 euro ad azione: 86 milioni di euro. Il povero Sala, insomma, ha venduto la sua quota a quasi 25 milioni in meno rispetto ai prezzi di oggi, i Gavio a quasi 20 milioni in più di quelli stabiliti da un giudice pochi mesi fa: bella fortuna, non c’è che dire. I ricorsi giudiziari sono scontati: per legge un ente pubblico non può vendere una sua proprietà senza fare una gara o dimostrare almeno che non serve e come ha stabilito il prezzo.

Tutte preoccupazioni impallidite di fronte alla ferma volontà di Fontana e soci di farsi un bell’impero infrastrutturale tutto verde-Lega. Funziona così. FNM, presieduta dall’ex deputato Andrea Gibelli, si prende Serravalle dalla Regione, che destina 350 milioni dei 519 che incassa a un aumento di capitale in Pedemontana Lombarda – il cui presidente è l’ex ministro Roberto Castelli – che i soci privati non avevano alcuna intenzione di fare (la Regione, nel frattempo, ricapitalizza Serravalle con altri 150 milioni in quattro anni).

Mal di testa? Non è finita: alla fine, ma cifre ufficiali non ce ne sono, la Regione dovrebbe possedere il 35-40% di Pedemontana mentre Serravalle, che oggi la controlla col 79%, si vedrebbe diluita fino al 45%, essendo però nel frattempo finita in pancia a FNM. Il trittico leghista Caparini-Gibelli-Castelli potrà così giocare con l’autostrada senza fastidi esterni: il primo appalto a partire, per capirci, vale un miliardo e mezzo. Ciliegina sulla torta: FNM, il socio di maggioranza, pur essendo controllata dalla Regione è formalmente quotata in Borsa (il flottante è il 25%) ed è quindi largamente sottratta al controllo del Consiglio regionale. Timori da malpensanti, anche se si tratta della società che aveva dato una consulenza – si presume necessaria – al buon Gianluca Savoini, l’amico russofilo di Salvini.

Tutto a maggior gloria della Pedemontana lombarda, praticamente ormai una PedeFontana, che fa sognare i leghisti dai tempi di Formigoni. Ma di che parliamo? Un bellissimo progetto degli anni 50, dal suggestivo tracciato a zig zag, che dovrebbe connettere l’area subalpina, culla del leghismo, all’asse Milano-Bergamo. Gli 87 chilometri di corsie furono autorizzati a Palazzo Chigi 11 anni fa col metodo del project financing: lo Stato concede, il privato costruisce e gestisce l’infrastruttura fino a guadagnarci. Bell’idea, ma non funziona mai: in genere lo Stato paga tutto e, se del caso, copre pure le perdite. Per restare in Lombardia basta dire “Bre-Be-Mi”.

La Pedemontana non fa eccezione: finora per aprirne 22 chilometri sono serviti un decennio, un miliardo e mezzo, una sequela di viaggi in tribunale, contratti rescissi, progetti annullati, etc. etc. In tutto questo, su quella strada non viaggia nessuno – un terzo delle auto attese – e pare che la società in cui oggi entra trionfalmente la Regione non sia in grado nemmeno di far funzionare per bene il Telepass: non un piccolo problema visto che è praticamente l’unico mezzo di pagamento.

Nonostante il record non straordinario, la missione dei nuovi padroni leghisti è: finire l’opera (se va bene ci vorranno altri cinque anni). Le prossime tappe, non scontate, sono 1) rifare il progetto perché quello vecchio non andava bene e 2) trovare un socio privato entro l’anno. Ammesso che questo cavaliere bianco si presenti, alla fine l’opera la pagherà tutta il contribuente lombardo: oltre ai 350 milioni a venire, la Regione ha già in essere un prestito da 600 milioni con Pedemontana che prima o poi si trasformerà in un aumento di capitale e altri soldi andranno trovati.

La ciliegina sulla torta: FNM, che sta comprando Serravalle a debito, viene prosciugata per occuparsi di autostrade mentre dovrebbe provvedere al raddoppio delle ferrovie e progettare la mobilità sostenibile. È il modello lombardo.

“Da Bogotà c’è massima disponibilità”

Ministro, lei è cresciuto a Pomigliano. A mezz’ora da qui. Ed è coetaneo di Mario. In questi giorni è stato molto vicino alla sua famiglia. Come mai è stato così colpito dalla sua storia?

Quello che è accaduto a Mario non può lasciare indifferenti: è morto in Colombia mentre contribuiva attivamente, tramite il suo lavoro per l’Onu, al processo di pace in corso. Il minimo, ora, è lavorare senza sosta per avere verità e giustizia. L’ho promesso alla sua famiglia e farò tutto quanto in mio potere. Nel più breve tempo possibile.

Le indagini sono all’inizio. Cosa si sa, per ora?

Ho chiamato personalmente la ministra degli Esteri, Claudia Blum Capurro de Barberi, per esprimerle l’estrema importanza che ha per noi questa vicenda, e tramite la nostra Ambasciata, siamo in contatto costante con le autorità locali e con la Missione Onu per ottenere massima attenzione e massima collaborazione. Aspettiamo i risultati dell’autopsia per avere un quadro più chiaro e agire di conseguenza. Con massimo impegno.

Molti pensano alla Colombia, e pensano ai narcos. Ma quali sono, in realtà, i rapporti tra i due paesi? Da cosa siamo legati?

Ridurre la complessità di un Paese a caratterizzazioni semplicistiche è sempre sbagliato. La Colombia è una grande democrazia dell’America Latina che con l’attuale presidente Iván Duque sta consolidando il processo di pace iniziato dal Presidente Santos, e premiato dal Nobel. Abbiamo ottimi rapporti, dimostrati da scambi commerciali crescenti e da oltre 200 accordi tra le nostre università. Ed è proprio in virtù di questi ottimi rapporti che abbiamo chiesto la massima collaborazione, cosa che del resto che la collega colombiana mi ha confermato.

Mario lavorava nella missione Onu a sostegno del processo di pace. Che ruolo ha l’Italia?

A seguito dell’Accordo firmato nel 2016 con le Farrc, la Colombia è impegnata in un significativo processo di ricostruzione del suo tessuto sociale ed economico. In questi anni l’Italia e l’Unione europea hanno costantemente sostenuto la Missione dell’Onu attiva dal 2017, contribuendo in parallelo alle attività umanitarie, e in particolare, allo sminamento, nelle aree che più hanno sofferto a causa del lungo conflitto.

Ora la cooperazione riguarda anche il Covid. L’America Latina è l’area più colpita.

Mi lasci esprimere prima di tutto profonda solidarietà. Anche sotto questo punto di vista l’Italia è molto attiva. Come ho dichiarato nel corso della conferenza Ue-America Latina del 10 luglio, siamo pronti ad aiutare a combattere l’epidemia, e a condividere le “best practice” che abbiamo appreso nel corso delle fasi più tragiche dell’emergenza. La solidarietà internazionale è essenziale per sconfiggere questa minaccia globale.