L’Onu tace sul cooperante morto: “Verità per Mario”

Domandi ai passanti se conoscono il caso di Mario Paciolla, il 33enne ritrovato morto in Colombia il 15 luglio, e per le strade di Napoli, tutti ti dicono di no. E si dileguano. Colombia, hai detto. Pensano sia un camorrista. Ma in fondo, come potrebbero averne sentito parlare? Sulla homepage della missione dell’Onu per cui lavorava, che sovraintende al fragile processo di pace in corso tra lo Stato e le milizie dedite un po’ al marxismo e un po’ al narcotraffico, non c’è un rigo. Al Mattino, poi, si sono sbagliati: quello nella foto non è lui. Eppure alla Villa Comunale, alla veglia in sua memoria, la sera non manca nessuno. C’è Luigi Di Maio, ministro degli Esteri, che chiede alla Colombia e all’Onu collaborazione e lealtà, e dice: “Non sono qui solo per dovere”, c’è il presidente della Camera Roberto Fico, che promette: “Avremo la verità”, e c’è Sandro Ruotolo, oggi senatore, ma quando dice: “Sono a disposizione”, sembra dirlo con tutta la sua esperienza di giornalista di inchiesta. Perché è Luigi De Magistris, il sindaco, ultimo sul palco, il primo a dirlo senza mezzi termini: “Vogliamo giustizia per questo omicidio”.

La tesi del suicidio, infatti, che per ora è ancora la tesi ufficiale, non è delle più solide. Il 10 luglio Mario Paciolla, che era in Colombia già dal 2016, e viveva 650 chilometri a sud di Bogotà, a San Vicente de Caguán, bastione dei guerriglieri, aveva detto alla madre di essersi ficcato in un guaio. E di essere in pericolo. Aveva anticipato il rientro, e prenotato un volo per Roma per il 20 luglio. E aveva sbloccato una serratura per garantirsi una via di fuga dal tetto. Il suo corpo è stato ritrovato impiccato la mattina della partenza per Bogotà. Impiccato: ma con ferite di arma da taglio. Alle 22 aveva allertato il responsabile sicurezza dell’Onu.

E non a caso, sul palco c’è anche Alessandra Ballerini. L’avvocato della famiglia. E della famiglia Regeni. Sotto il palco, tanti hanno al polso il braccialetto giallo di Giulio. Sono “la meglio gioventù” di Napoli, trentenni che hanno condiviso con Mario Paciolla il liceo, un campo da basket, gli esami all’Orientale, un centro sociale, e ora sono sparsi per l’Italia e mezza Europa, e fissano lividi il suo volto su uno striscione rosso: consapevoli che avrebbe potuto essere il loro. Ma la Colombia non è l’Egitto, e il suo impegno, come quello della Farnesina, è totale. Meno quello dell’Onu, che ha già svuotato l’appartamento di San Vicente de Caguán di ogni prova. Alla porta, il proprietario ha già appeso un “Fittasi”. Naturalmente, l’Onu è molte cose. Ed è possibile che le tensioni fossero non al suo interno, ma in quella zona grigia che è tipica di ogni missione internazionale: la zona di contatto, e frizione, con il contesto locale. Anche perché i suoi compagni di liceo non hanno dubbi: Mario Paciolla non era uno che si tirava indietro. Non aveva scelto quella vita per conoscere il mondo, ma per cambiarlo. “E in Colombia si è scontrato con i suoi superiori più volte. Ma non era un avventuriero”, dice Simone, che oggi è ingegnere. “Era stato persino il logista della stampa del Vaticano durante l’ultima visita del Papa”. E in effetti, colpisce. In Italia, le migliori analisi della Colombia degli ultimi anni sono quelle di Limes, firmate da Astolfo Bergman. Era il suo pseudonimo. Si occupava della parte più complessa, e cruciale, del processo di pace: il reinserimento sociale dei guerriglieri. In un paese in cui l’alternativa alle armi c’è: ma è la cocaina. La Colombia è il primo produttore al mondo. Ed è in cima anche a un’altra classifica.

Quella degli omicidi degli attivisti per i diritti umani. Due a settimana. Il 30% del totale. “Ma era molto riservato. Non parlava mai dei rischi, dei problemi. Della solitudine. Non parlava mai di sé. E poi, onestamente, domandavamo poco”, dice Alessandro, che ora fa il giornalista. Tace un momento. “Perché alla fine, è una vita così diversa dalla tua. Così strana. E poi… E poi perché ti senti in difficoltà”, dice. Sono cresciuti al Rione Alto. Sopra il Vomero. Un’area di palazzine anni Sessanta, anonime, ma comunque una di quelle da cui si dice: scendo in centro. E solo Francesco Vuolo, biotecnologo, il solo a dirmi il suo nome per intero, decide di girarlo con me, e di raccontarmi il liceo, l’oratorio, la piazzetta Totò, i luoghi di 33 anni insieme. “In un certo senso, è come se avessimo scoperto Mario solo adesso. Ti diceva: ‘Lavoro all’Onu’, come io: Lavoro in laboratorio”, dice. “Ha avuto coraggio. Testa, ma soprattutto coraggio”.

I negazionisti “terrapiattisti” della strage nera di Bologna

Quarant’anni dopo il boato alla stazione, i depistaggi e le campagne negazioniste continuano come il primo giorno. Migliaia di atti, documenti, prove, carte, testimonianze, in undici sentenze pronunciate in tre diversi processi (a Giusva Fioravanti e Francesca Mambro; a Luigi Ciavardini; a Gilberto Cavallini) confermano che la strage del 2 agosto 1980 alla stazione di Bologna è nera ed è stata eseguita dai fascisti dei Nar, i Nuclei armati rivoluzionari.

Eppure proseguono le campagne innocentiste, alimentate da incredibili interviste ai condannati (come quella dell’AdnKronos, che sembra fare il verso all’Agenzia Repubblica dei tempi d’oro di Lando Dell’Amico) e da libri che rimettono in circolo tesi già smontate e smentite, non senza aggiungere piste fantasmagoriche, incredibili raddoppi e non provati collegamenti con la caduta del Dc-9 al largo di Ustica.

La strage di Bologna non è soltanto la più cruenta della storia italiana, con i suoi 85 morti e 200 feriti. È anche la prima a trovare una verità giudiziaria, con la condanna all’ergastolo, già nel 1988 in primo grado e nel 1995 in Cassazione, degli esecutori Fioravanti e Mambro, ma anche dei depistatori della P2 (il Venerabile Maestro Licio Gelli) e dei servizi segreti (il generale del Sismi Pietro Musumeci, il colonnello Giuseppe Belmonte e “l’esterno” Francesco Pazienza). I depistaggi: sono una costante delle stragi italiane, da piazza Fontana in poi. Gli apparati dello Stato nascondono prove, esfiltrano testimoni, intorbidano le acque, per impedire ai cittadini di comprendere che è in corso una guerra segreta, senza esclusione di colpi, per mantenere l’Italia – marca di confine tra l’Ovest a guida Usa e il blocco sovietico – dentro il campo occidentale. Costi quel che costi.

Per Bologna i depistaggi cominciano il giorno stesso della strage, quando il governo in carica, presieduto da Francesco Cossiga, mostra di credere che il crollo dell’ala ovest della stazione sia stato provocato dall’esplosione di una vecchia caldaia nei sotterranei dell’edificio. Proseguiranno per anni, con lo scopo di ingarbugliare le indagini e screditare i magistrati che le conducono. “Ma i depistaggi per Bologna sono diversi da quelli precedenti scattati dopo piazza Fontana”, spiega Leonardo Grassi, che da giudice istruttore ha indagato a lungo sull’eversione nera e sulle stragi di Bologna e dell’Italicus e che ora fa parte della commissione consultiva sugli atti segreti da rendere pubblici per effetto della “Direttiva Renzi”. Per piazza Fontana, o per la strage alla Questura di Milano del 1973, il depistaggio è semplice, lineare: sono bombe nere, ma da far passare per rosse, da addebitare agli anarchici, in modo che la “maggioranza silenziosa” del Paese chieda una svolta d’ordine: se non proprio un golpe, una stabilizzazione centrista e l’emarginazione di socialisti e comunisti. È il copione atlantico della “strategia della tensione”.

Con Bologna le cose cambiano: “I depistaggi diventano congegni complessi”, spiega Grassi, “con significati e motivazioni plurime, che oltre a distogliere gli inquirenti dalle indagini e a creare suggestioni false, possono avere in sé contenuti ricattatori che il Sismi di Musumeci e Belmonte comunica ad altri soggetti, coinvolti nella strategia stragista, unici in grado di percepirli appieno”. Grassi, già autore di un libro che racconta la sua esperienza non soltanto professionale (Il mestiere del giudice, Clueb), ora allinea in un altro volume Clueb, La strage alla stazione, le peculiarità di quell’attentato, compiuto in una fase diversa dal quella della “strategia della tensione”, che oscillava tra tentati golpe e “destabilizzare per stabilizzare”. Nel 1980, invece, il rumoroso “vogliamo i colonnelli” è sostituito dal silenzioso, sordo scontro dentro gli apparati dello Stato tra oltranzisti atlantici riuniti nel “club” P2 e uomini fedeli alla Costituzione repubblicana.

La loggia di Gelli ha occupato i principali gangli di potere, nei servizi segreti, nell’esercito, nella pubblica amministrazione, nella magistratura, nella politica, nell’economia, nell’editoria. Copre e finanzia i neri dei Nar, manovali della strage. Ecco perché risulta incomprensibile la difesa che di Fioravanti e Mambro viene fatta oggi da intellettuali e pezzi anche della sinistra: non sono i “ragazzi dello spontaneismo armato di destra” come vorrebbero apparire; sono “i killer della P2”. La definizione è di uno che se ne intende, Vincenzo Vinciguerra, che ha scelto “l’ergastolo per la libertà” dopo aver rivendicato l’eccidio di Peteano come atto di “guerra contro lo Stato”, mentre vedeva attorno a lui i camerati partecipare a una “guerra fatta per conto dello Stato”. Fioravanti, Mambro, Ciavardini, Cavallini rivendicano con orgoglio decine di omicidi. Non possono però confessare nemmeno a se stessi di essere diventati “i killer della P2”. Rimpilzati dai soldi di Licio Gelli. Aiutati dai servizi segreti di quello Stato che dicevano di voler combattere.

Grassi smonta definitivamente, nel suo ultimo libro, l’eterno depistaggio della “pista internazionale” (a piacere, di volta in volta, palestinese di Habbash, palestinese di Abu Ayad, libica, libanese, tedesca, di Carlos lo Sciacallo, del “lodo Moro”, del nesso con Ustica…). Ma i negazionisti in buona o cattiva fede non si faranno di certo convincere neppure questa volta, come non si fanno convertire i terrapiattisti.

Alla nuova indagine della Procura generale di Bologna è affidato ora il compito (la speranza?) di aggiungere nuove tessere al mosaico che sveli i volti dei mandanti, di chi ha usato e pagato e aiutato i “ragazzini dello spontaneismo armato nero”. Dentro la P2 e ai vertici dell’amministrazione dello Stato, dove si muoveva quel prefetto-gourmet, Federico Umberto d’Amato, che passava dai ristoranti stellati alle riunioni con gli americani, fino ai benevoli incontri con i neri che servivano alla guerra segreta dell’Occidente contro l’Impero del Male.

Vietato parlarne. Quando “Il Fatto” finì sotto accusa

Il nostro giornale ha pubblicato da dicembre del 2016 alla fine di febbraio 2017 tutte le notizie sul caso Consip in beata solitudine. Dopo l’arresto di Alfredo Romeo tutti i quotidiani, non solo Il Fatto Quotidiano, pubblicano stralci dell’informativa finale del Noe, teoricamente segreta. Non succede nulla. Il 18 maggio sul Fatto esce l’anticipazione del libro Di padre in figlio di Marco Lillo che svela le intercettazioni sul telefonino di Tiziano Renzi che parla con il figlio Matteo.

Il libro non è tenero con l’inchiesta romana. Il 23 maggio 2017 a Roma si incontrano i magistrati napoletani e romani che indagano su Consip. I vertici dei due uffici, cioé Giuseppe Pignatone, procuratore capo a Roma e Nunzio Fragliasso, procuratore facente funzioni a Napoli, si dividono i compiti sulle fughe di notizie del Fatto.

All’esito di questa riunione Roma indagherà ingiustamente Woodcock e Sciarelli. Mentre Napoli perquisirà altrettanto ingiustamente Il Fatto.

I pm di Napoli impegnano una decina di uomini per perquisire Il Fatto Quotidiano, il grafico del giornale, la tipografia, le case di Marco Lillo, della sua compagna, della ex moglie e persino quella del padre. Sono sequestrati a casaccio computer e hard disk del giornale, della compagna di Lillo, il cellulare di Lillo e quello della ex moglie.

I pm napoletani, visto che non trovano nulla, estendono la perquisizione alla casa del padre 96enne di Lillo. I legali del Fatto chiedono giustizia alla Cassazione. La Corte Suprema il 19 gennaio 2018 annulla tutto e statuisce “tutti gli atti e i documenti sono stati illegittimamente acquisiti al fascicolo di indagine” (..) “di conseguenza deve essere disposta la restituzione di tutti i computer hard disk pen drive, telefoni cellulari, cd e dvd sequestrati”.

L’ampia diffusione sui grandi quotidiani e nelle tv amiche di Renzi e della Procura di Roma delle notizie delle indagini (sbagliate) sul Fatto, su Woodcock, su Federica Sciarelli e per ora anche su Scafarto (in attesa di Appello) ha favorito la sensazione, errata, che il caso Consip riguardasse gli investigatori più che gli indagati. Nel prossimo autunno ci saranno i provvedimenti dei pm su Tiziano Renzi e della Corte di Appello su Scafarto.

Intanto Matteo Renzi, grazie all’atteggiamento della Procura di Roma sul padre e su Scafarto ha potuto fare la vittima scrivendo libri in cui lumeggiava complotti contro di lui.

In conclusione quattro anni dopo i verdetti dei giudici mandano a processo Lotti; bocciano le indagini sugli investigatori e i giornalisti e bacchettano i pm che volevano archiviare in fretta (si fa per dire dopo tanti anni) Tiziano Renzi. Intanto i dipendenti della Romeo Gestioni, con la loro tuta rossa, dopo la sospensione della gara Fm4, legittimamente continuano a pulire gli uffici della Procura di Roma. Compresi quelli dei pm che indagano sul loro titolare.

Processi e altre indagini, cosa resta di Consip

Il 3 agosto del 2016, esattamente quattro anni fa, le microspie dei Carabinieri del Nucleo Tutela Ambiente, Noe, intercettavano per la prima volta Carlo Russo che parlava di Tiziano Renzi con Alfredo Romeo negli uffici romani dell’imprenditore, vicino alla Camera. I pm napoletani Henry John Woodcock e Celeste Carrano si imbattono per puro caso in questo 33enne di Scandicci molto amico di Tiziano che si offre di aiutare Romeo nelle gare. Romeo si era aggiudicato provvisoriamente 3 lotti della gara più grande d’Europa: 2,7 miliardi in tutto per la pulizia e manutenzione dei palazzi pubblici italiani. Temeva di essere fatto fuori in graduatoria definitiva e di perdere così 609 milioni di euro. Inoltre era interessato a altre gare di Inps e Grandi Stazioni. Così inizia quattro anni fa il caso Consip. Gli incontri proseguono. Le microspie registrano le chiacchiere in libertà di Russo e Romeo.

Secondo le informative dei Carabinieri, Romeo un mese dopo offre a Russo nell’incontro del 14 settembre 2016 un informale “accordo quadro” che prevedeva dazioni (mai avvenute) di 30 mila euro al mese per “T.” (alias Tiziano Renzi) e 5 mila a bimestre per “CR” (Carlo Russo per i pm). Romeo in cambio voleva entrare in contatto con Luca Lotti e con l’Amministratore delegato di Consip, Luigi Marroni.

Tiziano Renzi si è sempre dichiarato all’oscuro di tutto. L’indagine è funestata subito dalle fughe di notizie a favore degli indagati. Il 21, 22 e 23 dicembre Il Fatto svela le indagini sulle fughe suddette in una serie di articoli: il ministro Luca Lotti e il generale dei Carabinieri Emanuele Saltalamacchia (ex comandante della Toscana) sono indagati perché avrebbero spifferato l’esistenza dell’indagine a Luigi Marroni e il comandante generale dei Carabinieri, Tullio del Sette, è indagato per un “allarme” dato a Luigi Ferrara, presidente della Consip. L’inchiesta poi nel 2017 passa per competenza alla Procura di Roma e cambia obiettivi e passo.

Quattro anni dopo cosa resta dell’inchiesta Consip? Al tagliando, la Procura di Roma non fa una bella figura. Vediamo la sorte dei protagonisti della vicenda.

 

Luca Lotti Accusato di aver rivelato l’inchiesta

La Procura di Roma a dicembre 2018 ha chiesto il rinvio a giudizio sia per l’ex ministro Luca Lotti che per il generale Emanuele Saltalamacchia per favoreggiamento. Per entrambi invece i pm hanno chiesto l’archiviazione per la rivelazione di segreto. Lotti e Saltalamacchia avrebbero rivelato un segreto che non era proprio del loro ufficio, per i pm. Il Gip Gaspare Sturzo però ha rigettato questa impostazione e alla fine il Gup Niccolò Marino ha disposto – contro il parere dei pm – il rinvio a giudizio anche per rivelazione di segreto. Al processo, fissato il 13 ottobre, Lotti e il generale Saltalamacchia dovranno difendersi da entrambe le accuse. Dalle intercettazioni del maggio 2019 agli atti di un’altra inchiesta, quella di Perugia su Luca Palamara, emerge l’ostilità di Lotti verso i pm romani: il deputato Pd probabilmente si aspettava la richiesta di archiviazione per entrambi i reati.
Nell’indagine Consip, chi fa il suo nome è l’ex ad Luigi Marroni, teste che i magistrati ritengono affidabile. É il 20 dicembre del 2016 quando i carabinieri del Noe dice: “Ho appreso in quattro differenti occasioni da Vannoni, dal generale Saltalamacchia, dal presidente di Consip Luigi Ferrara e da Lotti di essere intercettato”. Ferrara, spiega Marroni, lo avrebbe saputo dall’ex comandante generale dell’Arma Tullio Del Sette. Tutti hanno respinto le accuse. Il processo è in corso.

 

Tiziano Renzi L’incontro a Firenze con Romeo e l’amico Carlo Russo

L’allora procuratore capo Giuseppe Pignatone, l’aggiunto Paolo Ielo e il sostituto Mario Palazzi hanno chiesto l’archiviazione per il traffico di influenze illecite ipotizzato da loro stessi all’inizio. L’amico Carlo Russo, che spendeva il nome di Tiziano per trattare compensi, sarebbe per i pm un millantatore. Conclusione mantenuta anche quando i pm hanno individuato, grazie allo studio delle celle telefoniche agganciate dai rispettivi cellulari, un incontro a tre a Firenze il 16 luglio 2015 tra Alfredo Romeo, Carlo Russo e Tiziano Renzi. Incontro negato dai protagonisti. Il Gip Gaspare Sturzo ha accolto la richiesta di archiviazione per alcuni episodi minori di traffico di influenze ma non ha voluto archiviare i due episodi più importanti: la gara Consip e la gara Grandi Stazioni. Sturzo ha chiesto alla Procura di fare nuove indagini e i pm hanno sentito nei mesi scorsi come persone informate dei fatti l’ex tesoriere del Pd renziano Francesco Bonifazi (estraneo all’inchiesta) e hanno risentito l’amministratore di Consip, Marroni.
A settembre potrebbero seguire l’orientamento del Gip e chiedere il rinvio a giudizio di Tiziano Renzi. Oppure insistere con la richiesta di archiviazione.

 

Alfredo Romeo A giudizio nella capitale per corruzione

Arrestato dai pm di Roma nel marzo 2017 e poi scarcerato dalla Cassazione. Ora è a processo sia a Napoli che a Roma con l’accusa di corruzione. A Roma perché avrebbe consegnato circa 100mila euro all’ex dirigente Consip Marco Gasparri (che ha già patteggiato), in cambio di favori. A Napoli il processo riguarda fatti di corruzione minore in Campania. Su entrambi i processi incombe la sentenza della Cassazione che va nel senso dell’inutilizzabilità delle intercettazioni captate dai pm di Napoli. Il Consiglio di Stato e la Cassazione intanto hanno confermato l’esclusione dalla gara Consip per la società di Romeo. L’imprenditore resta in ballo a Roma per l’ipotesi più delicata politicamente: quella di traffico di influenze illecite contestata a lui in concorso con Carlo Russo e Tiziano Renzi. Come gli altri è in attesa anche lui delle determinazioni dei pm di Roma dopo il rigetto della richiesta di archiviazione e la richiesta di nuove indagini.

 

John Woodcock Il pm al centro di accuse infondate

Il pm di Napoli nell’estate del 2017 è stato indagato ingiustamente per rivelazione di segreto in concorso con la sua amica Federica Sciarelli e anche per falso in concorso con il capitano del Noe Gianpaolo Scafarto. Tutte le accuse erano infondate. Come poi la Procura di Roma ha dovuto ammettere chiedendo e ottenendo l’archiviazione, Woodcock non era la fonte del Fatto. La sua amica Federica Sciarelli non era il tramite della trasmissione delle notizie. Inoltre i giudici hanno stabilito che Scafarto ha fatto errori ma non c’era nessun falso voluto. Soprattutto Woodcock non c’entrava nulla perché aveva solo chiesto a Scafarto di fare un capitolo apposito dell’informativa sull’argomento servizi segreti.
Sciarelli è stata perquisita, nel luglio 2017, e i Carabinieri le hanno sequestrato e analizzato il cellulare perché accusata ingiustamente di essere il tramite delle notizie al Fatto. Tutto falso.
Woodcock è stato sottoposto anche a un procedimento disciplinare tanto lungo quanto ingiusto dal Csm. Il magistrato era accusato di avere parlato con la giornalista Liana Milella mancando di rispetto al suo capo: il procuratore reggente Nunzio Fragliasso. Dopo un primo verdetto di censura del Csm e l’annullamento con rinvio della Cassazione, Woodcock è stato definitivamente “assolto” da ogni addebito nel giugno 2020. Luca Palamara, amico di Luca Lotti, si era interessato attivamente del procedimento contro Woodcock, partito nella consiliatura precedente quando lui era membro del Csm.

 

Giampaolo Scafarto Il maggiore silurato

Il capitano dei Carabinieri che ha svolto l’inchiesta scrivendo molte cose sbagliate nelle sue informative è stato accusato dalla Procura di Roma di numerosi reati: dalla rivelazione di segreto al falso fino al depistaggio. La Procura di Roma – come per Woodcock – manifesta nei confronti del Carabiniere una pervicacia degna di miglior causa. Al padre di Matteo Renzi, Tiziano, i pubblici ministeri romani non hanno mai fatto una perquisizione o un sequestro di cellulare, mentre Scafarto ha subito due sequestri di cellulare. La Procura di Roma ha chiesto e ottenuto dal Gip nel gennaio 2018 per lui la sospensione dal servizio. Il Tribunale del Riesame però nel marzo 2018 l’ha annullata. Infine il gup Clementina Forleo ha disposto il non luogo a procedere per Scafarto su falsi, rivelazioni di segreto e depistaggi. Il capitano, nel frattempo divenuto maggiore, per i giudici (Gip e come detto prima anche tribunale del Riesame) non ha fatto nulla di penalmente rilevante. La Procura ha fatto ricorso e il processo è fissato il primo ottobre davanti alla Corte di Appello.

Adesso Fontana è un grosso guaio per Salvini

Due grosse nubi aleggiano sulla spiaggia di Milano Marittima, dove Matteo Salvini sta trascorrendo qualche giorno di vacanza (si fa per dire perché c’è la festa della Lega a Cervia e ieri sera l’ospite d’onore era lui). La prima nuvola è quella del processo per Open Arms, che si aggiunge a quello per la nave Gregoretti, che potrebbe addirittura portarlo alla decadenza da senatore. L’altra è il caso Fontana, che pesa come un macigno e crea notevoli imbarazzi nel partito e tra gli alleati.

Venerdì sera Fontana avrebbe dovuto essere l’ospite d’onore, intervistato dal vicedirettore di HuffPost Alessandro De Angelis (che si è preso bordate di fischi dalla platea per aver criticato la Lega sull’immigrazione e sul caso del governatore lombardo), ma un malore l’ha tenuto lontano, salvo poi intervenire con un messaggio via Skype. Tra gli stessi militanti qualche dubbio sul presunto malessere è venuto. “Di sicuro ha evitato domande scomode e altri scivoloni…”, si è detto.

Nel Carroccio, però, si sta anche pensando a correre ai ripari. Secondo il Messaggero, per esempio, Salvini avrebbe idea di commissariare Fontana, mettendogli a fianco un altro vice, Davide Caparini, attuale assessore al Bilancio. Ipotesi che prevederebbe un rimpasto nella giunta lombarda con il siluramento di Giulio Gallera (Sanità), Melania Rizzoli (Lavoro) e Lara Magoni al Turismo.

Caparini è un leghista della prima ora, ex deputato, in passato molto vicino a Bossi di cui è intimo amico il padre, Bruno Caparini, proprietario dell’Hotel Mirella a Ponte di Legno, luogo del cuore del Senatur. L’idea del commissariamento, però, trova poche conferme, anche perché, come spiega una fonte, “chi controlla Fontana c’è già: è Giulia Martinelli, suo capo segreteria, ex moglie di Salvini, la vera zarina della giunta lombarda. Chi meglio di lei?”.

Martinelli però poco ha potuto di fronte a tutti i guai del governatore, dalla gestione dell’emergenza Covid allo scandalo camici. E negli ultimi tempi viene descritta molto provata dalla situazione. Forse è per questo che il Capitano starebbe pensando a un’alternativa.

L’unica certezza, in mezzo a tante voci, è che la Lega non può permettersi di mollare Fontana. Qualcuno, infatti, nei giorni scorsi aveva buttato lì l’ipotesi dimissioni. “Sarebbe un suicidio: è il nostro governatore più importante, dobbiamo stare con lui”, dicono i leghisti. Nonostante maldipancia e critiche a denti stretti, dunque, La Lega è costretta a difenderlo.

Per questo dallo staff del segretario si è fatto notare agli organizzatori romagnoli che invitare Fontana per farlo intervistare da un giornalista “nemico” non è stata una grande idea.

Infine, c’è una terza nube all’orizzonte: Giancarlo Giorgetti, altro grande assente a Cervia. Che cosa ha in mente il leghista più stimato nelle istituzioni italiane ed europee? Per ora nulla. È in vacanza a Madesimo e si è auto imposto un rigoroso silenzio. I temi che lo dividono da Matteo Salvini sono tanti, soprattutto l’Europa. Ma di fondo c’è una questione irrisolta: visto che si andrà a votare non prima del 2023, che senso ha suonare sempre la stessa musica? Quesito non di poco conto che Giorgetti ha rivolto al segretario senza ricevere risposta. La musica del Capitano, infatti, non è cambiata: né a livello d’immagine (selfie in spiaggia a tutto spiano), né politico, dove il tema caldo è tornato a essere l’immigrazione, unita però al Covid. “C’è il rischio di una bomba sanitaria”, ha detto ieri Salvini parlando degli sbarchi. Dimenticando d’un colpo le ultime uscite “negazioniste”.

“Zona rossa? Non ci sarà”. Gallera si sbugiarda da sé

Regione Lombardia era consapevole che ad Alzano Lombardo si stava profilando un gigantesco problema di sanità pubblica già il 2 marzo 2020, ma non è intervenuta, preferendo aspettare e consigliando palliativi.

Ad ammetterlo quel giorno è lo stesso assessore regionale al Welfare, Giulio Gallera, ai microfoni di Radiopopolare di Milano. “Ad Alzano – dice Gallera al giornalista Massimo Alberti che lo incalza su un possibile secondo focolaio – c’è una situazione sicuramente complicata, c’è un numero di casi importante, la strategia che abbiamo deciso di adottare, più che quella di fare un’altra zona rossa, è quella di collocare in isolamento tutti i contatti diretti e i positivi asintomatici e di supportare il loro isolamento, fare in modo che non escano di casa. Anche in questo modo si evita la diffusione del contagio”.

Un’intervista andata in onda due giorni prima dell’incontro del 4 marzo tra i vertici del Pirellone e il ministro della Salute, Roberto Speranza, il cui audio è stato rivelato dal Corriere della Sera e quindi acquisito dalla procura di Bergamo che indaga sul perché la provincia di Bergamo sia diventata – percentualmente – il territorio più colpito al mondo dal Covid19.

La dichiarazione del 2 marzo spiega la titubanza con la quale Gallera e lo stesso presidente Attilio Fontana, accennano solo di sfuggita alla possibilità di istituire una zona rossa ad Alzano durante l’incontro col ministro.

Un passaggio che rivela anche la situazione nella quale si dibattevano in quei giorni i vertici del Pirellone, schiacciati tra l’urgenza di far fronte a un nuovo focolaio e le pressioni di Confindustria per non fermare le fabbriche. Del resto, il presidente di Confindustria Lombardia, Marco Bonometti, lo dirà chiaro: “Eravamo contrari a fare una zona rossa come a Codogno. Non si poteva fermare la produzione”. Lo stesso Bonometti che sosterrà come l’esplosione dei contagi nella Bergamasca e nel Bresciano sia stata dovuta alla massiccia presenza di allevamenti bovini.

L’audio testimonia come la giunta Fontana non avesse alcuna intenzione di chiudere tutto. È sotto questa luce che vanno rilette le parole di Gallera durante quel meeting: “Alzano e Nembro… voi volevate fare… Secondo me, l’idea della zona rossa lì, al di là che dia il messaggio che magari non è perfettamente lì, però là c’abbiamo il secondo focolaio… e là non c’è la percezione perché chi abita lì… questi continuano a uscire, vanno in giro”.

Tutto, tranne una decisa presa di posizione. Del resto, se Gallera avesse voluto fare pressioni sul governo per avere un blocco totale, avrebbe potuto dirlo chiaramente. Invece no. Tergiversa, e, ieri, intervistato dal Corriere – un ritorno alla ribalta, dopo il freezer nel quale era stato confinato nelle ultime settimane dai guru della comunicazione inviati da Matteo Salvini – sul perché non abbiano chiuso tutto dopo il 4 marzo, chiede sarcasticamente: “Cosa dovevamo fare? Urlare o mettergli le mani addosso?”. Forse sarebbe bastato raccontare con molta più chiarezza quali fossero le condizioni di Alzano e Nembro. Anche perché le raccomandazioni del comitato tecnico scientifico per chiudereNembro, Alzano e Orzinuovi, datate 3 e 5 marzo, erano chiare a tutti.

Gallera, oggi, si dichiara stupito che Speranza non abbia chiuso tutto dopo quell’incontro. Ma, se Regione Lombardia era tanto conscia della gravità della situazione, perché non ha agito autonomamente?

La risposta per i giorni successivi è stata che il Pirellone non aveva i poteri per stabilire una zona rossa tanto vasta. Una giustificazione che reggerà fino al 7 aprile, quando l’assessore sarà costretto ad ammettere di aver sbagliato: “Avremmo potuto farla noi (la zona rossa, ndr)? Ho approfondito e effettivamente c’è una legge che lo consente”, dirà in una conferenza stampa che già allora appariva surreale. Figuriamoci oggi…

“È troppo rischioso”. Stop al “liberi tutti” sui treni Alta velocità

Fine del distanziamento sui treni a lunga percorrenza? Sì, certo. Anzi, no. Sulla decisione delle compagnie di far viaggiare i convogli senza la distanza di un metro tra un passeggero e l’altro si è consumato in meno di 24 ore un “contrordine, compagni” giocato tra il ministero dei Trasporti e della Salute.

La notizia era trapelata venerdì pomeriggio: i Frecciarossa e Frecciargento di Trenitalia e i convogli di Italo avevano ricominciato a viaggiare a pieno carico perché secondo le compagnie si sarebbero realizzate le condizioni del Dpcm del 14 luglio che prevedono la possibilità di derogare alle misure distanziamento previste dal Mit: tra queste, la misurazione della temperatura alla partenza, l’autocertificazione da parte dei passeggeri di non aver avuto contatti con persone infette e l’obbligo di mascherina da sostituire dopo 4 ore. Walter Ricciardi, consulente del ministro Roberto Speranza, aveva subito sollevato perplessità: “È sbagliato eliminare il distanziamento”. Anche il Comitato tecnico-scientifico aveva fatto sapere in via informale di non essere d’accordo. In serata, però, era arrivata la nota del Ministero dei Trasporti che confermava: “È consentito derogare al distanziamento”, a patto di non utilizzare i sedili contrapposti, i cosiddetti “faccia a faccia”. Ieri mattina, poi, contro la decisione si era espresso anche Franco Locatelli, presidente del Consiglio Superiore di Sanità: “Il Cts non è mai stato investito del problema – spiegava il professore, che del Cts è membro – questa decisione desta preoccupazione in un momento in cui i nuovi casi di Covid stanno crescendo”. Venerdì il ministero aveva pubblicato i dati del monitoraggio settimanale e lanciato un alert preciso: 736 focolai attivi, casi in salita in 15 regioni e Rt superiore a 1 in 8 di esse. Ieri i nuovi positivi sono stati 295, in discesa rispetto ai 379 di venerdì e ai 386 di giovedì, ma con meno tamponi. 5 i morti.

Così sono stati gli uffici di Lungotevere Ripa a dire la parola definitiva, con il ministro Speranza che firmava “un’ordinanza che ribadisce che in tutti i luoghi chiusi, aperti al pubblico, compresi i mezzi di trasporto, è e resta obbligatorio il distanziamento di almeno un metro”. Due ore dopo anche il Mit correggeva la rotta: “I treni continueranno a viaggiare con le stesse regole”.

“Un provvedimento necessario – lo definisce Luca Richeldi, presidente della Società italiana di Pneumologia e membro del Cts – le compagnie avrebbero fatto meglio a interpellarci. Occorre considerare la situazione epidemiologica, registriamo una risalita dei contagi e siamo circondati da Paesi in cui i casi aumentano in maniera esponenziale (in Spagna 1.525 in 24 ore, in Francia oltre 1.300, in Romania 1.292, ndr). Non è il momento per assembrare le persone in treno”.

Questioni risolta, quindi. Non senza il disappunto delle compagnie che a causa del Covid-19 hanno lasciato introiti sul terreno: a maggio, in audizione al Senato l’ad di Trenitalia Orazio Iacono aveva spiegato che il gruppo ha perso circa 10 milioni al giorno solo a marzo e aprile, registrando una perdita di 500 milioni rispetto al 2019, che proiettata a fine anno arriva a 2 miliardi. In serata Ntv ha annunciato “disagi” per i passeggeri. Resta, invece, aperta la questione aerei, altro settore in crisi: a maggio Iata, associazione mondiale dei vettori, ha previsto per il 2020 un calo dei passeggeri del 55% rispetto al 2019 e un crollo dei ricavi da 838 a 419 miliardi di dollari. Perché se su un Frecciarossa occorre viaggiare distanziati la stessa regola non vale per i voli? Dal 15 giugno Alitalia, ad esempio, vola a pieno carico grazie al Dpcm dell’11 giugno che consente alle compagnie di derogare al distanziamento se garantiscono condizioni speculari a quelle previste per i treni, oltre all’utilizzo di particolari filtri (gli Hepa) per l’aerazione. “Gli aerei sono considerati meno a rischio – spiega Richeldi – in parte dipende dal fatto che, specie per gli spostamenti nazionali, i tragitti sono più brevi. Ma l’obiezione è legittima. Se la necessità di tenere le distanze vale per i treni, dovrebbe valere anche per gli aerei”.

Uri Galler

Invidioso marcio per le ultime irresistibili gag della sua spalla Fontana, che tenta di soffiargli la parte di capocomico, Gallera recupera subito terreno con una raffica di nuove scempiaggini, malgrado il triplo handicap di non avere un cognato nel ramo camici, né un conto in Svizzera, né una madre dentista con 5,5 milioni alle Bahamas (brava, ma un po’ cara). Il Giulio, che sta all’Attilio come Mario Santonastaso sta a Pippo, ha commentato l’audio, diffuso dal Corriere, della riunione del 4 marzo con Fontana e il ministro Speranza. Si parlava dell’ipotesi di una zona rossa ad Alzano e Nembro: i comuni della Val Seriana alle porte di Bergamo dove il 22 febbraio era esploso il secondo focolaio lombardo dopo quello di Codogno (subito cinturato dal governo). E il contributo di Gallera fu memorabile: “Secondo me, l’idea della zona rossa lì, al di là che dia il messaggio che magari non è perfettamente lì… però c’abbiamo il secondo focolaio, sta crescendo… bisognerebbe proprio…”. Ci scusiamo con i lettori per l’idioma di ceppo non indoeuropeo balbettato dall’assessore, ma è testuale. Voi cosa ci capireste? Che sta invocando la zona rossa? A parte il fatto che, nel caso, avrebbe dovuto già disporla lui da 11 giorni, in base alla legge 883/1978 sul Ssn. Ma no, non la chiede neppure il 4 marzo, quando ormai il contagio dilaga. Tant’è che Speranza, allertato il giorno prima non da Gallera ma dall’Iss, dice in italiano: “Tutto quel che abbiamo fatto finora non porta nessun segnale minimo di contenimento, ancora zero”. Ma Gallera minimizza: “É presto, e poi il dato è un po’ grezzo”. E attende il governo. Che si muove il 5, appena l’Iss raccomanda la zona rossa, e fa di più: due decreti per chiudere l’intera Lombardia (7 sera) e poi tutt’Italia (10).

Ora il Corriere domanda a Gallera perchè non chiese a Speranza la zona rossa. E lui: “Cosa dovevamo fare? Urlare o mettergli le mani addosso?”. No, bastava disporla o – in mancanza di coraggio (Confindustria non voleva) – chiederla. “Eravamo gli unici a spingere… abbiamo fatto di tutto per convincerli”: forse con la telepatia, visto che dagli atti risulta l’opposto. Per 11 giorni non chiede mai la zona rossa in privato (vedi audio). E chiede addirittura di non farla in pubblico: “Nuove zone rosse non sono all’ordine del giorno, Alzano compreso” (29.2), “Più che fare la zona rossa, isoliamo i positivi” (2.3). Negli anni 80 spopolava Uri Geller, l’illusionista anglo-israeliano che piegava i cucchiai e fermava le lancette degli orologi con la forza del pensiero. Ora abbiamo Uri Galler, l’illusionista padano che tenta di piegare i governi e fermare le pandemie con la forza del pensiero. Purtroppo gli manca il pensiero.

Credevo fosse pizza invece è un’alga 3D

Certo, la sublime Marina Abramovic ci ha mostrato che tutto è arte: stare seduti in silenzio di fronte a sconosciuti; pulire ossa di bovino dai resti di sangue e cartilagine; rimanere nudi e impassibili sotto il telaio di una porta in attesa che altri (amanti o meno del frottage) siano costretti a passare di lì . Perché non dovrebbe esserlo pure mettersi a dieta? Che sia, magari, anche la volta buona che riesca!

Così, il gruppo Project Nourished – il cui adagio è The only limit is your imagination (Il solo limite è la tua immaginazione) – s’è inventato un progetto che mescola, è proprio il caso di dirlo, performing art e cucina molecolare. Prima della chiusura globale, al Futurium di Berlino, il museo dedicato alle arti e tecnologie del futuro, poteva dunque accadere d’essere invitati a una cena virtuale.

Funziona così: il commensale è chiamato a inforcare un visuale da realtà virtuale che gli consente di vedere sulla tavola di fronte a sé prelibatezze quali pizza, pasta, sushi, squisiti dolci mentre in realtà l’unica “pietanza” presente è gelatina di angar, un’alga rossa giapponese insapore leggermente sapida, stampata in 3D a emulare perfettamente la forma della preparazione desiderata. Tuttavia, perché l’inganno regga sono necessari altri strumenti: una speciale forchetta con sensori di movimento, un diffusore di aromi per frodare l’olfatto e un aggeggino posto all’altezza della mandibola. Quest’ultimo è fondamentale perché, vibrando, crea per conduzione ossea l’apparenza di masticare il cibo illusorio (il croccante della pizza, la collosità della pasta, la setosità del pesce crudo, la consistenza di una bistecca, la morbidezza delle creme dei dolci) e non quello reale, cioè a dire la poltiglia dell’alga stampata in 3D. Restano dubbi sul gusto: l’angar è condita, invero, ma il sapore originale… lascia stare, è altra cosa. Adesso, se da un lato è risaputo che il cibo del futuro saranno probabilmente gli insetti – assai ricchi di proteine, lo stesso Carlo Cracco, qualche anno addietro ha provocatoriamente stilato addirittura delle ricette per Wired –, è altrettanto vero che la cucina molecolare, la food inspiration, così utilizzata, potrebbe aiutare chi è affetto da obesità, intolleranze, colesterolo o diabete. Che, però, l’idea che in una performing-cena a base di gelatina e visori 3D il piacere dell’arte sostituisca il piacere del cibo, beh… è ancora tutto da dimostrare.

Vedi il deserto salino della Bolivia e poi bevi (tanto alcol)

Il Salar de Uyuni, in Bolivia, è il più grande deserto salino del mondo. Un’area enorme, grande quanto l’Abruzzo, e in effetti non escludo che pure l’Abruzzo in altre epoche potesse essere un deserto di sale e che poi il sale l’abbiano consumato tutto per condire gli arrosticini. L’idea di visitare quell’immensità di sale sospesa a 3600 metri tra vulcani e montagne si è concretizzata nell’estate del 2018, quando dopo un lungo viaggio in Perù, sono arrivata in Bolivia passando la frontiera sul lago Titicaca. Una roba che detta così suona molto avventurosa, anche se in effetti di avventuroso c’è stato solo il ritrovarsi ad attraversare un tratto di lago piatto su cui la nostra imbarcazione oscillava pericolosamente per motivi ignoti, come se un mostro marino la prendesse a testate sul fondo. E garantisco che anche se sai nuotare, l’idea di poter finire nel Titicaca con la temperatura dell’acqua che non supera i 5 gradi, evoca subito scene apocalittiche alla Titanic: già mi vedevo su una tavola galleggiante, un fischietto in bocca e il mio fidanzato generosamente in acqua, in ipotermia avanzata, con due stalattiti di ghiaccio che gli pendevano dal naso. E invece siamo arrivati dall’altra parte, dove dopo neppure 5 km a bordo di una macchina con un autista insolitamente silenzioso, siamo finiti in una specie di villaggio nel nulla, di quelli che non trovi neppure su Google Maps e infatti io e il mio fidanzato abbiamo provato a geolocalizzarci con Google Maps ma Google Maps continuava a geolocalizzarci nel bel mezzo dell’oceano quindi o eravamo finiti ad Atlantide o ci sono zone della Bolivia che il satellite salta perché tanto lì chi volete che ci finisca a parte qualche turista italiano che deve rompere i coglioni alla Farnesina a Ferragosto.

Ecco, fatto sta che nella Frittole boliviana (la chiameremo Las Frittolas) era in corso una specie di grande festa patronale. Alla nostra domanda all’autista: “Che cosa si festeggia?”, l’autista rispondeva: “Non lo so, in Bolivia tutti i giorni è la festa di qualcosa!”. In effetti poche ore prima eravamo passati per una cittadina, Copacabana, in cui dei sacerdoti benedivano con l’acqua santa i motori delle macchine addobbate con fiori e immagini sacre, macchine le quali in attesa della benedizione si mettevano in fila nella via centrale della città come al Mc Drive. Una specie di gay pride dell’automobile, insomma. E quindi abbiamo chiesto all’autista di fermarsi mezz’ora perché volevano partecipare alla festa di qualcosa a Las Frittolas e non ce ne siamo pentiti perché la festa era un campionario di umanità meraviglioso: c’erano donne ubriache che danzavano in centinaia con scialli colorati, uomini che suonavano la tromba completamente ubriachi per cui non sapevi se stavano suonando l’inno della Bolivia o della S.p.a.l., uomini travestiti da donne, da strani spiriti e da torte a più piani, anche loro completamente ubriachi e poi, a parte noi, un unico turista vestito da cowboy che pareva Brad Pitt in Thelma e Louise però completamente ubriaco.

Rientrati in macchina completamente ubriachi abbiamo chiesto all’autista se la Bolivia avesse anche dei difetti: “Ne riparliamo quando andrete al Salar”, ci ha risposto. Non abbiamo capito che quella non era una frase buttata lì per caso, ma una di quelle frasi a effetto che rivelano il plot del film, tipo “Vedo la gente morta”. Dopo tre giorni a La Paz, due a Sucre e tre a Potosí dove i 4000 metri di altitudine mi hanno creato qualche lieve, impercettibile scompenso umorale (ho minacciato il boliviano che non aveva il poncho della mia taglia di vendicare la morte del Che in Bolivia iniziando con lui), siamo arrivati nella città di Uyuni, porta di accesso per il Salar. Ora, voi capite che con questo nome misterioso e la sua incredibile posizione, ci aspettavamo che Uyuni fosse una città magica.

In realtà, se il Salar di Uyuni è il deserto di sale più grande del mondo, Uyuni detiene a sua volta un altro primato: è la città più brutta del mondo. Credetemi, ne ho viste di città brutte. Sono nata e cresciuta nel triangolo “centrale elettrica-mattatoio-supercarcere di Civitavecchia”, ho visto le periferie di Pechino ad agosto e Bucarest a fine novembre, ma Uyuni è un non luogo: case in cemento mai terminate, come se un pandemia selettiva avesse sterminato tutti i muratori del posto, strade polverose che a ogni colpo di vento ti fanno diventare una maschera del teatro Kabuki, un mercato in cui si vende paccottiglia così oscena che alla fine sei tu a vendere qualcosa a loro, ristoranti in cui, giuro, ho letto “pasta al pesto” segnata sul menu come “pasta alla peste” e ho ancora il dubbio che non fosse un refuso bensì un condimento locale. Ed è in questo contesto che avendo 24 ore da spendere lì, prima di affrontare il deserto, abbiamo deciso di chiuderci in un dignitoso hotel prenotato da me mesi prima e di uscire solo per la partenza, il giorno dopo. Solo che non risultava effettuata alcuna prenotazione, per il 10 agosto 2018. Ce n’era una per lo stesso giorno, ma l’anno dopo, avevo fatto confusione su booking. E l’hotel dignitoso era pieno. Quindi siamo finiti in un hotel che ovviamente aveva solo un’ala costruita, per l’altra metà sembrava Sarajevo durante l’assedio. Roba che se la sera tornavi stanco e infilavi la chiave nella toppa sbagliata, precipitavi nel vuoto, dal quarto piano.

Comunque sì, nonostante tutto ne è valsa la pena. Il deserto di sale è uno spettacolo indescrivibile, una specie di allucinazione abbagliante e lunare in cui puoi non incontrare nessuno per 100 km. Salvo poi ritrovarti nel mezzo di quella distesa bianca, su un isolotto di soli cactus, a un passo dalla Cordigliera delle Ande, vicino a un geyser, a 3500 metri di altitudine, con una tizia che ti batte sulle spalle e fa: “Ma a Ballando con le stelle Mariotto è infame come sembra?”.