Come si è fuoriclasse. Favino visto da dietro un set

Pubblichiamo parte del contributo di Marco Tullio Giordana al libro “Pierfrancesco Favino. collezionista di anime”. Il libro fa parte delle iniziative per il 18° Festival MoliseCinema (4-9 agosto).

 

Immaginiamo una giornata di nebbia, scura, densa, tipo quelle che una volta piombavano su Milano spegnendo ogni luce. Due camminano in direzione opposta, in testa una stessa idea. Mi piacerebbe interpretare il ruolo di Pinelli, pensa uno. L’altro: per Pinelli l’unico che mi viene in mente è Favino. Un attimo e i due sbattono uno contro l’altro. Un po’ è romanzato ma più o meno è andata così. Ci conoscevamo ma non avevamo mai lavorato insieme. Favino avevo avuto modo di ammirarlo in decine di film ammirandone la continua evoluzione. Soprattutto mi ha sempre colpito lo studio, molto accurato e “storicizzato”, della lingua dei personaggi: non solo nelle assonanze musicali ma anche nelle sue implicazioni storiche e sociologiche. Perché la parlata milanese di un ferroviere degli anni 50/60 è molto diversa da quella che si sente oggi nelle calate genericamente “lombarde”, che più che milanesi hanno corruzioni brianzole e piccolo borghesi distanti anni luce dalla lingua che parlava la classe operaia che fu.

Pinelli (…) parlava una lingua che oggi non si sente più. Favino è dotato dell’orecchio assoluto e sa intonarsi al volo a qualsiasi modello, e in pochissimo tempo s’impadronì di quella lingua “marinara” (…) fino al punto di poter improvvisare. Trovò una perfetta intesa con Michela Cescon, che avrebbe interpretato sua moglie Licia, e insieme andarono a trovare la vera Licia Pinelli, incontro al quale preferii non essere presente perché potessero chiedere, dire, ascoltare, senza interferenze. Era cosa delicata, ma sapevo che sarebbero stati, come furono, ambasciatori appassionati e persuasivi. C’era infatti in entrambi quella generosità rara di spendersi per la promozione del film, con grazia e senso di responsabilità, senza lasciare sulle sole spalle del regista il peso di doverlo difendere – che nel caso di Romanzo di una strage fu aggravato dai tenori sessantotteschi offesi che il film non la raccontasse a modo loro. (…)

Pensando a Favino e al modo così scrupoloso con cui prepara i ruoli (…) non posso non ricordare la scuola da cui proviene e che così bene l’ha attrezzato non solo alle tecniche del mestiere ma anche a concedersi senza riserve al progetto e al regista. Si tratta dell’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica Silvio D’Amico che nel biennio 1991-1992 licenziò un gruppo di fuoriclasse. (…) Gli insegnanti di questa formidabile nidiata furono grandi figure del Teatro italiano: da Orazio Costa a Mario Ferrero, da Paolo Terni ad Angelo Corti e Marise Flash. Avendo avuto la fortuna di lavorare con alcuni di questi attori posso dire di aver riconosciuto la catena fortissima del comune Dna, una medaglia che ho riconosciuto anche in tutti gli altri coi quali non ho lavorato direttamente ma ho potuto ammirare nei loro spettacoli.

Torniamo a Pierfrancesco.

C’è un modo inconfondibile di riconoscere il grande attore, impossibile sbagliarsi. Questo modo si chiama “piano d’ascolto”, cioè il momento in cui, dopo aver consumato la tua battuta, aspetti quella dell’altro per poi rilanciare. Lì capisci se uno sta soltanto in attesa del proprio turno, ascolta solo sé stesso e il proprio bioritmo o se invece, per l’appunto, “ascolta”, agisce, interagisce, vive insieme all’altro che gli sta davanti. Chi si rilassa, chi si sgonfia, chi si rianima solo quando parla lui, non è un buon attore, anzi: forse non è proprio il mestiere suo. Per non parlare di quando magari devi limitarti a dare la battuta fuori campo perché la macchina da presa non ti inquadra. Anche lì puoi veramente vedere la stoffa: se l’attore è generoso, collaborativo con i colleghi, capace di mantenere la tensione della scena. Inutile aggiungere altro (…) Credo di aver capito qualcosa del suo metodo solo a film finito. Ognuno deve coltivare il suo ed è sbagliato, oltre che inutile, entrarvi a gamba tesa. Nel rapporto fra attore e regista è inevitabile che qualcosa rimanga nell’ombra, un segreto necessario, un sottinteso, qualcosa che, come nelle amicizie e negli amori, non è necessario “spiegare”. Qualcosa di misterioso che assomiglia più alla radiestesia che alla comunicazione verbale, una vibrazione interna, una frequenza impercettibile che arriva agli altri senza che tu nemmeno sappia spiegare come. Quando succede è magnifico e irripetibile.

Successe questo: alla fine di Romanzo di una strage la produzione organizzò un simpatico rinfresco in riva al mare. La lavorazione era stata lunga e difficile ma ci lasciavamo in grande armonia, contenti tutti di aver fatto del nostro meglio insieme e dispiaciuti di perderci di vista, almeno per un po’. Vedendo Pierfrancesco ballare con la sua adorabile (e bravissima attrice) Anna Ferzetti mi sono finalmente reso conto del suo segreto: si tratta di abbandonarsi – proprio come nel ballo – a una sorta di furore dionisiaco, di estasi, di allegra possessione. Erano così bravi che prima di osare affiancarci a loro ci abbiamo messo un po’. Voglio augurare a entrambi di danzare, nelle rispettive carriere che non è difficile prevedere molto lunghe, sempre con quella stessa gioia.

Casino alla roulette: da bancomat a incubo della Valle d’Aosta

Rien ne va plus. Il Casino di Saint Vincent rischia di chiudere roulette, baccarat e slot machines. Un pasticciaccio giudiziario, ma che potrebbe trasformarsi in un vero e proprio fallimento, pronto a portarsi via 71 anni segnati dai grandi introiti per la Regione autonoma (milioni e milioni di euro nei decenni): una sorta di “superbancomat” per le casse della Vallée, ma pure per alcuni politici e amministratori locali. E con essa, tutte le ambiguità morali e di legalità che hanno intrecciato una narrazione cominciata nel 1949, quando lo Stato italiano decise di aprire anche il Val d’Aosta una “zona franca” rispetto al “pregiudizio” pubblico per il gioco d’azzardo.

Una storia sbagliata che non si è fatta mancare nulla: sospetti di infiltrazioni mafiose, un attentato dinamitardo contro un pretore che indagava sul Casino, una pista che porterebbe addirittura all’omicidio del procuratore capo di Torino, Bruno Caccia, ucciso nel 1983 dai sicari della ’ndrangheta. E poi, nelle varie stagioni della politica locale tra la Prima e la Seconda Repubblica, una serie di scandali quasi fotocopia, con compromissioni soprattutto di alcuni leader del partito autonomista dell’Union Valdôtaine.

Ma veniamo intanto alla cronaca di oggi. Una sentenza di inizio luglio della Corte d’Appello di Torino, arrivata proprio dopo la riapertura post-pandemia, ha accolto il ricorso di due creditori e ha disposto la revoca dell’ammissione al concordato preventivo, concesso dal Tribunale di Aosta il 22 ottobre 2019. Un colpo di scena che ora pesa sul tentativo di salvataggio della società di gestione, Saint-Vincent Resort & Casino (oltre alla casa da gioco, amministra l’adiacente Hotel Billia) e che di fatto cristallizza la situazione al novembre 2018, quando la Procura di Aosta presentò un’istanza di fallimento “per la grave insolvenza”. Con una circostanza paradossale: la dura “ristrutturazione”, fissata dal concordato, aveva chiuso il bilancio 2019 con un utile di 13,5 milioni di euro. Ora è tutto nelle mani del Tribunale aostano: nel caso ci fossero le condizioni per un controverso ricorso in Cassazione, scatterebbe la sospensione della revoca. Altrimenti, il Tribunale dovrà valutare se la situazione finanziaria “attuale” può o no giustificare il fallimento della società. Uno scenario molto incerto, per una sala da gioco (una delle quattro italiane, con Campione d’Italia, Venezia e Sanremo, tutte in difficoltà nell’epoca dei casino online) che negli anni 60 e 70 aveva vissuto giorni degni della letteratura mitteleuropea del gioco d’azzardo, anche grazie a eventi come le Grolle d’oro del cinema e il Premio giornalistico Saint-Vincent. Quando Casino e Billia accoglievano Alberto Sordi e Sophia Loren, Vittorio Gassman e Gina Lollobrigida, Giulietta Masina e Federico Fellini. Fasti rinverditi, a cavallo del nuovo secolo, in chiave calcistica: Saint-Vincent cominciò a ospitare i ritiri estivi della Juventus di Moggi e Giraudo.

L’istanza di fallimento era scaturita da un’inchiesta penale per bancarotta. L’ennesimo incidente in una vicenda tormentata che non si è mai risolta dal punto di vista finanziario e che può avere effetti pesanti proprio per la Regione: che detiene il controllo della società ed è al centro di polemiche per la malagestione.

I soldi del Casino, a lungo, avevano rimpolpato l’ente locale e di fatto erano una riserva di vita per tutti i valdostani, pietra miliare di quelle esenzioni “cuore” dell’autonomia regionale cui la Valle d’Aosta approdò dopo le smanie separatiste verso la Francia di De Gaulle seguite alla fine della guerra.

Infine, un “posto fisso” sicuro, ancora una volta gestito dalla politica per le assunzioni: tramandate di padre in figlio e con ottimi stipendi arrotondati dalla cagnotte, la mancia dei vincitori per croupier e addetti di sala.

Nello stesso tempo, però, Saint-Vincent era diventata anche il teatro di pratiche ai limiti della legge: dai “prestasoldi”, gli usurai che la bazzicavano e la intimidivano per offrire prestiti-capestro ai giocatori incalliti, sino alle mire dei clan mafiosi che intravedevano un’immensa occasione di riciclaggio del denaro sporco. Una realtà scoperchiata la notte dell’11 novembre del 1983, quando scattò il “blitz della San Martino”, con la Guardia di Finanzia nei saloni dei quattro casino italiani, a caccia delle corruzioni dei politici locali, ma soprattutto della penetrazione delle cosche di Cosa Nostra italiana e statunitense (la “famiglia” dei Bono) nella loro gestione.

L’inchiesta su Saint-Vincent era stata avviata poco prima dal procuratore Caccia, ucciso la notte di domenica 26 giugno 1983, mentre in Italia si svolgevano le elezioni politiche anticipate. L’avvocato di parte civile della famiglia Caccia, Aldo Repici, sostiene che proprio quella su Saint-Vincent sarebbe stata una delle indagini scomode che armò i killer calabresi contro un magistrato troppo pericoloso per le mafie trapiantate al Nord. E non ha mai smesso di legare quell’omicidio a un altro attentato, per fortuna fallito, del 1982: un’autobomba per il pretore di Aosta Giovanni Selis, il primo a cercare di far luce (inascoltato, anzi definito “un matto”) sul sistema dei “prestasoldi”.

Adesso le vicende giudiziarie che riguardano il Casino hanno risvolti meno violenti, ma riportano in campo l’intreccio perverso attorno alla politica. E, come in una mano di poker, l’ultimo azzardo è nelle interpretazioni di diritto societario del Tribunale di Aosta.

“Maxwell gestiva le schiave sessuali”

Il caso Epstein è diventato ufficialmente anche il caso Maxwell. Sulla base di una nuova tranche di documenti svelati ieri nell’aula di Manhattan dove si tengono le udienze, emerge che l’eterna fidanzata del finanziere pedofilo “suicida”, l’ereditiera Ghislaine Maxwell, ha a propria volta abusato sessualmente di ragazze minorenni che poi offriva agli amici potenti di Jeffrey Epstein con il suo placet. Una delle minorenni finite tra le grinfie della coppia è Virginia Roberts Giuffre. Mi ha “addestrata a essere una schiava sessuale”, ha detto la donna ai magistrati riferendosi alla Maxwell che è stata arrestata il mese scorso negli Stati Uniti all’interno del compound per miliardari dove si nascondeva. I documenti svelati sono stati utilizzati durante il contenzioso civile ormai risolto a carico della Maxwell, figlia del magnate britannico dei media Robert. Nel 2015 Giuffre aveva intentato una causa civile contro la donna, amica intima anche del principe Andrea d’Inghilterra, accusandola di averla attirata quando era ancora adolescente nella rete di Epstein con il pretesto di offrirle un lavoro come massaggiatrice. Giuffre durante il dibattimento ha spiegato che la coppia l’aveva successivamente costretta a fare sesso con numerosi uomini ricchi o famosi, tra cui il Principe Andrea, famosi politici, ricchi imprenditori, un autorevole scienziato e uno stilista. Uno dei politici più famosi degli Stati Uniti amico di Epstein è l’ex presidente Bill Clinton che, secondo i dati raccolti dalla stampa americana, ha volato più volte sull’aereo privato di Epstein: un Boeing che sulle fiancate dai colori sgargianti portava la scritta “Lolita Express.” Più chiaro di così. I file includono email personali tra Epstein e Maxwell, nonché informazioni tratte da una discussione tra Giuffre e il suo avvocato.

“È sua la tesi che Ghislaine Maxwell ha fatto sesso con ragazze minorenni praticamente ogni giorno quando era con lei nella stessa abitazione, giusto?” aveva chiesto il giudice nel maggio del 2016 a Giuffre. La risposta è stata: “Sì”. Le orge si svolgevano nella tenuta alle Isole Vergini di Epstein, dove venivano regolarmente invitati gli amici potenti della coppia che ha frequentato a lungo anche Donald e Melania Trump quando ancora pensavano solo a divertirsi e fare soldi. Giuffre ha detto che “doveva” fare sesso orale con Maxwell a bordo piscina alla presenza di Epstein. Alla domanda con chi Maxwell le avesse ordinato di fare sesso, Giuffre ha risposto che entrambi le dicevano di allenarsi con questo o con quello, ma senza fare nomi. “Ghislaine e Jeffrey erano una coppia solida ed entrambi volevano fare sesso tutti i giorni con noi ragazze minorenni ”, aveva ribadito Giuffre durante la deposizione.

“Donne polacche ostaggio del patto Chiesa-destra”

La Polonia sta per abbandonare la Convenzione di Istanbul, trattato giuridico internazionale contro la violenza domestica sulle donne, e a Varsavia questa è l’ennesima notizia che fa squillare ininterrottamente il telefono del vicedirettore della Gazeta Wyborcza, Bartosz T. Wielinski.

“Il rigetto della Convenzione non è l’unica novità. Siamo un Paese spaccato a metà, polarizzato tra un’ala pro-europea, occidentale, progressista e un’ala di conservatori e tradizionalisti, riluttanti ad adottare gli standard europei. Quest’ultima metà della società è plasmata dalla Chiesa e quella polacca non è come quella occidentale: assomiglia più a quella russa, rigetta la teoria gender, le libertà individuali. È una chiesa cattolica, ma è ortodossa per imposizioni, fa leva su quella parte della popolazione che pensa che l’Ovest sia marcio, i diritti Lgbt o l’aborto peccati capitali, la violenza sulle donne una questione da risolvere tra le mura domestiche, in silenzio”.

Una chiesa che usa il potere politico o che viene usata?

Una risposta netta non c’è. La Chiesa negli anni 80 ha giocato un enorme ruolo per la nostra indipendenza, dal 2015 lo Stato ha cominciato a supportarla e finanziarla apertamente e a sua volta la chiesa appoggia apertamente il Pis, il partito Diritto e Giustizia di Jaroslaw Kaczinsky. La Chiesa influenza decisioni politiche e mina il dibattito sui diritti civili e delle donne. Le battaglie in Polonia si vincono comunque spaccando la società e dicendo che c’è una cospirazione di sinistra o occidentale contro di noi. Recentemente mostravano in tv persone marciare nude al Gay Pride di Berlino e la commentatrice della tv pubblica diceva: “Ecco cosa vuole farvi diventare l’Unione europea”. Sulla Convenzione di Istanbul il dibattito nel Paese è stato lunghissimo ed è andato oltre: non riguardava più il documento in sé, ma la divisione della nostra società nel rovente periodo post-elettorale.

Siete stati il primo Paese al voto nell’era Covid-19.

Durante la pandemia non si poteva protestare contro il governo, la polizia è stata brutale, ma si poteva andare in chiesa o alle urne. Le persone hanno votato per la continuità: il Pis ha promesso l’aumento del salario minimo, pensioni e fondi ai governi locali, promesse che ora si scoprono non praticabili. In generale hanno giocato poi la carta anti-tedesca: la Germania è colpevole di tutti i mali polacchi, dall’Olocausto alla cattiva economia. La questione russa è stata silenziata, ma per la nostra politica interna noi assomigliamo sempre più alla Russia. Durante la campagna elettorale nelle zone rurali, bacino elettorale del Pis, i politici sono stati invitati a tenere discorsi in chiesa da preti che trattano abitualmente temi politici nei loro sermoni, altri preti hanno appeso manifesti del Pis nei templi. I ministri del governo invece andavano in giro a promettere trattori.

Salmi politici.

Anche due partiti di estrema destra vicini alla chiesa e ora in coalizione con il Pis, perché necessari per la maggioranza al Parlamento, hanno preteso che la Convenzione fosse rigettata.

È stato sconfitto il liberale ed europeista Rafal Trzaskowski, sindaco di Varsavia, perfetto opposto del presidente Duda.

Credo sia sbagliato dire che Trzaskowski abbia perso: non ha vinto, nonostante il virus e nonostante la propaganda della tv pubblica controllata dal governo, che diffondeva solo cattive notizie su di lui. È riuscito a diventare un leader credibile dell’opposizione, un’enorme minaccia per il Pis. Ha avuto 400mila voti in meno di Duda, che a Varsavia non ha ottenuto nemmeno un seggio, e rimane il burattino del vero uomo a capo della destra clericale al potere: Kaczinsky. Ma c’è la questione della sua longevità.

Ha 71 anni. Dopo di lui il diluvio?

Si aprirà una feroce lotta intestina nell’ala destra, il Pis non ha nessuno con cui rimpiazzarlo.

Trump e i dispetti alla Germania

Il ritiro di 12 mila soldati Usa dalla Germania, deciso in settimana dal presidente Donald Trump “danneggerà le relazioni diplomatiche degli Stati Uniti” con gli alleati europei e “intaccherà l’efficienza dell’Esercito statunitense”: è la convinzione del generale Ben Hodges, ex comandante delle forze Usa in Europa. I piani del Pentagono, approvati dalla Casa Bianca, prevedono, almeno per il momento, che circa 6.400 uomini tornino negli Stati Uniti con le loro famiglie; e che 5.400 siano invece riposizionati nel Vecchio continente, in gran parte in Italia e in Belgio.

Il parere espresso dal generale Hodges in un’intervista alla Deutsche Welle, la radio tedesca rivolta all’opinione pubblica internazionale, coincide con quello del senatore repubblicano Mitt Romney, un arci-nemico del magnate presidente, già candidato alla Casa Bianca nel 2012, e di vari esponenti politici tedeschi: la mossa di Trump “è un favore a Putin”, “un grave errore”, “uno schiaffo in faccia a un amico e a un alleato che dovremmo tenerci vicino nell’impegno comune di impedire l’aggressione russa e cinese”. Probabilmente, il presidente la vede in chiave elettorale: un modo di mantenere una delle promesse della campagna 2016, ridurre la presenza militare Usa all’estero. E può anche darsi che, come altre decisioni annunciate nelle ultime settimane, tipo l’uscita degli Usa dall’Organizzazione della Sanità dell’Onu, l’Oms, essa non sia mai attuata: un cambio della guardia alla Casa Bianca il 3 novembre potrebbe comportare il blocco e/o l’inversione dei provvedimenti. Alla sede della Nato a Bruxelles, si cercano di evitare le polemiche: “Pace e sicurezza in Europa sono importanti per la sicurezza e la prosperità dell’America. E siamo più forti e più sicuri solo quando siamo insieme”, commenta genericamente il segretario generale Jens Stoltenberg, affermando che gli Usa “si sono consultati con tutti gli alleati prima di decidere e annunciare” ritiri e spostamenti. A Berlino, invece, il malumore è diffuso, anche se la cancelleria e il ministero degli Esteri evitano di girare il dito nella piaga. “Il ritiro delle truppe, invece di rafforzare la Nato, indebolisce l’Alleanza nei confronti della Russia e nei conflitti nel Medio Oriente”, stigmatizza Norbert Roettgen, candidato alla presidenza della Cdu. La ministra della Difesa tedesca Annegret Kramp-Karrenbauer, già delfina della cancelliera Angela Merkel, vi vede “un’occasione” per accelerare la costruzione della difesa europea. “Vorrei che finalmente si procedesse in maniera più veloce verso la Sicurezza e la Difesa europea e che si usasse per questo il semestre tedesco di presidenza europea”, in corso. E il ministro dell’Interno, Horst Seehofer, considera il ritiro “un modo di procedere scorretto che mette a dura prova le relazioni tedesco-americane.”

Ma è a Washington che la fibrillazione, politica e militare, è maggiore: l’opposizione alla decisione è bipartisan, anche in Congresso. I nervi dei repubblicani, già tesi per l’andamento dell’epidemia e per le ipotesi di rinvio delle elezioni, rischiano di saltare. Romney rileva che i nemici dell’America non stanno in Germania o a Berlino, ma in Russia e a Mosca; cita a prova l’annessione della Crimea e la crisi tra Russia e Ucraina; e ricorda che il Cremlino ritiene la presenza militare Usa in Europa una minaccia per i suoi confini. Se nessuno è nostalgico della Guerra Fredda, quando i militari Usa nel Vecchio continente erano oltre 300 mila, molti trovano intempestiva e immotivata la riduzione da 36 mila a 24 mila uomini del contingente in Germania, tra esercito ed aeronautica.

La mossa era stata pre-annunciata da tempo, ma l’ufficializzazione è venuta dal capo del Pentagono Mark Esper. In futuro, spiega Esper, non sempre in linea con Trump, ma su questo punto allineato alla Casa Bianca, altre truppe potranno essere schierate in Polonia, nei Baltici e sul Mar Morto, previ accordi con le autorità locali. Un rafforzamento dei presidi in Polonia e nei Baltici avrebbe chiari contorni anti-russi, in apparente contraddizione con l’attuale ritiro dalla Germania.

Nel dettaglio – ma in proposito mancano conferme definitive –, in Italia dovrebbero essere dislocati due battaglioni dell’esercito e una squadriglia di caccia F-16, trasferiti nella base aerea di Aviano, Treviso, e/o a Vicenza. Il quartier generale dello Us Africa Command potrebbe insediarsi a Napoli, dove c’è una base della Us Navy, o in Spagna. Il quartier generale dello Us European Command, ora a Stoccarda, sarà trasferito a Mons, in Belgio, dove c’è già il quartier generale Nato, lo Shape.

Promesse elettorali a parte, Trump motiva la sua mossa con un suo mantra: “La Germania non sta pagando quanto deve alla Nato, sta approfittando della nostra protezione“; e avvalora l’impressione d’una rappresaglia anti-Berlino, che non è certo l’unica a non spendere per la difesa il 2% del Pil convenuto in sede atlantica: anche Italia e Belgio, ad esempio, non lo fanno.

Uranio, protestano i parà del Tuscania: “Missioni brevi e più soldi ai malati”

“Mi sono arruolato nel 1982, ho fatto tutte le missioni all’estero, quando mi hanno tolto la tiroide ci hanno trovato 18 metalli, mi hanno negato la causa di servizio copiando pari pari da endocrinologiaoggi.it. Alla fine del 2018 sono andato anch’io in Iraq, non sapevamo delle questioni tra il generale Vannacci e il Coi, il Comando operativo interforze. Ci hanno fatto firmare un foglio sull’uranio impoverito e l’inquinamento, ma non sono stati presi provvedimenti, neanche le mascherine”.

Parla così Franco Careddu, appuntato scelto e delegato Cobar del I° reggimento carabinieri paracadutisti Tuscania. Il reparto d’élite della Seconda Brigata mobile dell’Arma è sottosopra. L’esposto del generale Roberto Vannacci, che ha comandato la missione in Iraq dal settembre 2017 all’agosto 2018 e accusa gli Stati maggiori di non avergli consentito di tutelare i militari dalle possibili contaminazioni legate all’uranio impoverito, non poteva passare inosservato. Il Fatto Quotidiano ne ha scritto il 18 giugno. In Iraq c’erano e ci sono tuttora un centinaio di carabinieri del Tuscania e di altri reparti, Vannacci ha scritto che l’unica cosa da fare è ridurre la durata delle missioni a quattro mesi, cioè “la media” indicata nel 2017 alla Commissione parlamentare d’inchiesta sull’uranio impoverito dall’ammiraglio Giuseppe Cavo Dragone, allora a capo del Comando interforze e oggi capo di Stato maggiore della Marina, mentre in realtà durano molto di più. Al Tuscania contano “quattro decessi per leucemia, oltre venti militari ammalati per patologie tumorali alla tiroide, quattro militari per patologie varie dell’apparato digerente” si legge in una delibera del 30 giugno del Cobar Tuscania, la rappresentanza militare, che ha ottenuto un incontro con i comandanti del reggimento e della brigata, tenutosi il 13 luglio. In totale, secondo l’Osservatorio militare, sono 379 i morti e quasi 8.000 i malati.

“Sono i comandanti che chiedono di restare in Iraq più di quattro mesi – racconta Careddu –. Quello perché spara bene, quello perché è un bravo infermiere, quell’altro per un altro motivo, e poi perché non ci sono i voli, ora poi con le quarantene…”. Chiedono anche mascherine e dispositivi di protezione, nonché visite specialistiche al rientro, ma soprattutto missioni più brevi. “Attualmente un collega è lì da 380 giorni”, fa sapere Careddu. E maggiore attenzione dalla gerarchia: “Le valutazioni della commissione medica di La Spezia si fermano spesso al 24 per cento di invalidità, dal 25 in su c’è il vitalizio”, È noto che i giudici molto spesso rettificano o ribaltano la “giurisdizione domestica” della Difesa, che però continua a resistere fino in Cassazione dopo almeno 150 sentenze sfavorevoli. La riunione del 13 luglio al Tuscania non ha dato grandi risultati: “Una pacca sulla spalla”, dice Careddu. Il comandante ha preferito non rispondere al Fatto.

In Iraq i successori di Vannacci hanno fatto sottoscrivere ai militari un documento in cui c’è scritto, sulla base di studi britannici, che i “valori di Du”, depleted uranium, sono “apprezzabili” solo “a pochi millimetri dalle carcasse dei mezzi” colpiti con il noto munizionamento, quindi c’è il “divieto” di “avvicinarsi a meno di 10 metri da rottami di mezzi militari (in particolare corazzati) o similari”. Nessun accenno alle nanoparticelle di metalli diversi dall’uranio che secondo un’ormai vasta letteratura scientifica si diffondono con la combustione delle corazze e di altri obiettivi.

Domenico Leggiero, dell’Osservatorio militare, attacca: “Impossibile che un capo di Stato maggiore continui a svolgere il proprio ruolo dopo che è stato accertato che ha rilasciato dichiarazioni false a una Commissione d’inchiesta e quindi al parlamento. Impossibile che un comandante resti inascoltato dopo aver denunciato fatti gravissimi. I ministri sapevano, la politica deve intervenire”.

Deperito in carcere, è morto. Un’altra inchiesta sulle Vallette

C’è un’indagine della Procura di Torino sulla morte di Antonio Raddi, un detenuto deceduto lo scorso dicembre a 28 anni, in ospedale, dopo aver perso, nel carcere di Torino, 30 chili in sei mesi. Il Garante delle persone detenute, Monica Gallo, aveva segnalato il caso alla direzione delle Vallette nove volte, dall’agosto del 2019. Raddi, condannato per rapine, maltrattamenti ed evasione, era entrato alle Vallette il 28 aprile dello stesso anno. Pesava 80 chili. A novembre 50. Non era più in grado di bere né mangiare quando, il 13 dicembre, in cella, aveva iniziato, come testimonia il compagno, a “vomitare sangue, per poi svenire”. La sera era stato portato al pronto soccorso del Maria Vittoria. La notte, alle 4.46, era entrato in coma. Pochi giorni dopo, il decesso. Il fascicolo per omicidio colposo è sulla scrivania dell’aggiunto Vincenzo Pacileo, che riceve la denuncia del Garante il 20 dicembre scorso. Antonio era un ex tossicodipendente. Nessuno sa perché fosse inappetente. Che fosse un caso grave, lo avevano capito i collaboratori del Garante, che avevano scritto più volte, indicando il timore di “un imminente evento critico”. Il 20 novembre, il medico del carcere rispondeva all’ennesima lettera ipotizzando che la perdita di peso fosse quasi voluta: “Una modalità strumentale per ottenere benefici secondari”.

Già il 4 luglio Raddi, c’è scritto nella denuncia, “esprime un forte disagio per la restrizione all’undicesima sezione, lamentando di non avere un cuscino, il lungo periodo di trattamento con metadone, muffa nel cibo”. Il papà, Mario Raddi, chiama più volte l’ufficio del Garante, preoccupato “per il peggioramento delle sue condizioni di salute e la disappetenza” di Antonio, che aveva una patologia neurologica dall’infanzia. Il 16 luglio i collaboratori del Garante lo vedono “particolarmente sofferente”. Il 7 agosto parte la prima segnalazione. Il 20 agosto arriva la risposta dal direttore del carcere: “Non ci sono particolari criticità”. Nelle settimane successive i genitori vedono il figlio sempre più “deperito”. Il 23 settembre il Garante, dopo averlo visto, precisa: “C’è un drammatico peggioramento dello stato fisico e psichico. Ha bisogno di supporto psicologico, sostiene di avere visto solo una volta la psichiatra”. Il 19 novembre è la referente del Serd a chiamare il Garante allarmata e il 2 dicembre a mettere nero su bianco: “Non riesce più a ingerire né solidi né liquidi”. Il 4 dicembre Antonio si presenta al Garante sulla sedia a rotelle. “Implora di intervenire, ha le stesse sembianze di Stefano Cucchi”, verrà scritto, con la richiesta di “una opportuna e urgente rivalutazione clinica con conseguenti provvedimenti del caso”. Il 9 dicembre Raddi viene ricoverato alle Molinette: vuole essere dimesso, glielo permettono. Il 6 dicembre era stato al Maria Vittoria per quattro ore: era risultato positivo a metadone, farmaci e Thc. Il 10 dicembre il direttore rassicurava: “Il soggetto è ampiamente monitorato”. Tre giorni dopo il collasso in cella e il ricovero in ospedale.

Whirlpool, entro il 31 ottobre il sito di Napoli chiuderà

La multinazionale statunitense Whirlpool non è disponibile ad altre proroghe. Lo ha ribadito nel corso del tavolo al ministero dello Sviluppo sulla cessione del sito di Napoli e sul futuro dei suoi 430 lavoratori confermando lo stop della produzione dal 31 ottobre prossimo. Una presa di posizione rispedita al mittente dal ministro Stefano Patuanelli secondo cui il nuovo piano industriale “ha delle carenze e delle limitazioni eccessive”. Dopo l’incontro al Mise, Whirlpool ha diffuso una nota dai toni morbidi, in cui si legge che “l’Italia rappresenta un hub strategico per Whirlpool nella regione Emea sia dal punto di vista industriale che commerciale” e “l’azienda ribadisce l’impegno verso il Paese in cui le sue attività contribuiscono all’economia nazionale per quasi un miliardo di dollari all’anno”. Tra aprile e maggio, lamenta l’ad della multinazionale Luigi La Morgia, a causa del Covid “abbiamo perso il 19% della produzione”. Per questo dal 13 luglio l’azienda propone incentivi ai lavoratori disposti a lasciare il posto. L’azienda ha confermato però l’obiettivo di 250 milioni di euro di investimenti entro il 2021 e “l’impegno a continuare a investire in Italia”. A oggi sono stati investiti 90 milioni di euro, entro il 2020 ne saranno investiti 70 e il resto nel 2021. Patuanelli ha ricordato che “in totale quasi 50 milioni di euro sono stati messi a disposizione dal governo e Regione Campania per continuare la produzione a Napoli”. E il ministro ha ribadito che mantenere aperto lo stabilimento di Napoli resta “l’opzione A”. Ma insieme a Invitalia sta studiando delle alternative nelle filiere della componentistica dell’automotive e dell’aerospazio. Due sarebbero le principali imprese interessate: Adler Group e Htl Fitting con investimento, rispettivamente, di 15,3 milioni di euro di investimenti (e 52 posti di lavoro) e 18,6 milioni e 20 occupati. La Fiom Cgil chiede al governo il blocco dei licenziamenti e un intervento per scongiurare la chiusura del sito di Napoli.

Enpam, al bocconiano Dallocchio e all’ex dg chiesti danni erariali per 65 milioni di euro

Un nuovo capitolo allunga la storia infinita delle vicende legali sugli investimenti dell’Enpam, la cassa di previdenza dei medici. Il primo aprile scorso le sezioni unite della Cassazione, con un’ordinanza firmata dal presidente Giovanni Mammone, hanno rigettato il ricorso di Maurizio Dallocchio, docente di Economia aziendale alla Bocconi, contro la richiesta di danno erariale in concorso con Leonardo Zongoli, ex direttore generale dell’ente, avanzata dalla Procura regionale per il Lazio della Corte dei Conti. L’ordinanza fa giurisprudenza perché stabilisce che, data la natura pubblica delle casse previdenziali solo formalmente “privatizzate”, i danni loro causati sono erariali. Secondo la Corte dei Conti i “plurimi e continuati investimenti finanziari a notevolissimo rischio” realizzati dall’Enpam avrebbero violato “lo statuto dell’ente, il principio prudenziale nella gestione degli investimenti e le delibere del consiglio di amministrazione sui parametri d’investimento”. Cinque le categorie di danni contestate: commissioni liquidate agli advisor per i derivati Cdo (43,7 milioni), perdite sui titoli Saphir e Anthracite (17,6 milioni), spese legali per cause contro le banche che avevano emesso i Cdo (3,1 milioni), per rinegoziare i Cdo (800mila euro) e sui titoli Lehman Brothers (600mila euro).

Come altre casse, l’Enpam dal 2006 investì quasi 3 miliardi in prodotti finanziari, tra i quali derivati e titoli illiquidi. Per quella vicenda a Roma nel gennaio 2015 Dallocchio fu rinviato a giudizio insieme a Zongoli e a Roberto Roseti, ex responsabile investimenti finanziari dell’ente. La posizione dell’ex presidente Eolo Parodi fu stralciata per motivi di salute. I magistrati contestavano le accuse di truffa aggravata e ostacolo agli organi di vigilanza. L’Enpam fu riconosciuta parte civile. Il 13 novembre 2018 l’accusa di truffa fu dichiarata prescritta. Dallocchio fu assolto da quella di ostacolo alla vigilanza.

Il procedimento della Corte dei Conti è incardinato ma Dallocchio si difende: “Dal mio rapporto come consulente e consigliere non esecutivo in Enpam non ho mai avuto vantaggi o utilità, solo danni personali e professionali. La stessa Enpam ha dichiarato che dal 2000 al 2010, anche durante la tempesta del 2008 per il crac Lehman Brothers, non ha mai avuto danni da quegli investimenti, la cui ristrutturazione comportò costi addizionali: una decisione alla quale io non partecipai. Non avevo alcun ruolo decisionale autonomo. A quale titolo dunque mi si chiede un rimborso danni? Questa è solo una nuova spada di Damocle sulla mia testa”, conclude il professore.

Legge elettorale, Conte “commissaria” Emiliano e reintroduce la parità di genere

Per le elezioni pugliesi è dovuto intervenire direttamente il consiglio dei ministri. Ieri sera ha varato un decreto legge per rimediare alla decisione del consiglio regionale della Puglia, che nei giorni scorsi aveva scelto di non introdurre nel suo sistema elettorale la doppia preferenza. Il principio è chiaro: non può esserci nessuna elezione senza che la legge elettorale si basi sul rispetto del principio della parità di genere. Quindi – come succede nelle altre Regioni – per la composizione del consiglio territoriale, l’elettore deve indicare sulla scheda il nome di un candidato uomo e di una donna. Dopo l’ultimatum alla Puglia e dopo aver atteso 24 ore, Conte ha riunito il Cdm alle 17 con un solo punto all’ordine del giorno: la modifica della delibera pugliese sulla cancellazione delle doppie preferenze. Una decisione contestata dal centrodestra. In un comunicato Salvini, Meloni e Berlusconi scrivono: “In Puglia si sta giocando con le istituzioni. Per responsabilità del presidente uscente, il Cdm si è preso la responsabilità di scrivere un provvedimento che rischia di compromettere il libero esercizio del voto”.