Gli Abusivi della Cig: 600 volte i “furbi” del reddito

Se il “furbetto” ha appeso al collo il cartellino del Reddito di cittadinanza potete stare tranquilli che contro di lui si scaglierà tutto l’establishment italiano. Partiti moderati, giornali liberali, opinionisti e parlamentari d’assalto. Se, invece, il “furbetto” succhia la Cassa integrazione da Covid senza averne diritto, a finire nei guai è chi solleva il problema.

 

Gli allarmi di Inps e Cgil

Lo scorso giugno il presidente dell’Inps, Pasquale Tridico, aveva fatto notare, a proposito di Cassa integrazione che “stiamo sovvenzionando anche aziende che potrebbero ripartire, magari al 50%, e grazie agli aiuti di Stato preferiscono non farlo”. Finì male per lui, sul piano mediatico, con Confindustria a guidare il coro dell’indignazione: “Parole inaccettabili”, anzi no, “sconcertanti”, meglio, “ingenerose”, di più “offensive”, ecco i soliti “pregiudizi anti impresa”.

L’allarme, in realtà, lo aveva lanciato la Fillea-Cgil, il sindacato degli edili, già il 30 marzo facendo notare che “l’informativa ai sindacati come atto interno senza obbligo di comunicazione all’Istituto potrebbe rappresentare l’inizio di una pratica furbesca che vedrà centinaia di aziende di fatto scavalcare gli obblighi di legge”. La Fillea si era sbagliata per difetto, a oggi, secondo i dati forniti dall’Inps, le imprese già “beccate” nella “pratica furbesca” sono 2.600.

Quando invece si è trattato di denunciare la “dimenticanza” della moglie di un detenuto al 41-bis, che non aveva specificato nella domanda per il Reddito di cittadinanza la singolare collocazione del coniuge, lo scandalo è stato unanime. Tutti i detrattori di quella misura si sono sbracciati per chiederne l’abrogazione. Peggio ancora quando sono stati scovati ben 37 “furbetti”, (33 italiani e 4 stranieri), denunciati dai carabinieri nell’ambito di un’operazione denominata Jobless Money (Soldi senza lavoro), tra cui elementi di spicco della cosca Piromalli-Molè di Gioia Tauro. La notizia, in realtà, nei casi citati è che i controlli avevano funzionato.

 

I numeri della Gdf

I dati però rendono ragione dei diversi allarmi. Al 21 giugno scorso, secondo la Guardia di Finanza, sono 709 i “furbetti” scoperti nel 2019 nell’ambito dei 22.151 interventi per la tutela della spesa pubblica. Secondo i dati Inps, il reddito medio del Reddito di cittadinanza è di 521 euro mensili. I 709 beneficiari indebiti scoperti sono costati quindi 4.432.668 euro, poco meno di 4,5 milioni di euro. Stiamo parlando di una misura che ha un costo complessivo annuo di 7,5 miliardi che, secondo l’ultimo report al 7 luglio, giunge a 1,2 milioni di beneficiari per un totale di 2,9 milioni di persone coinvolte di cui 750 mila minori. Questa è la fotografia del Reddito che, come ormai è opinione diffusa tra chi si occupa di politiche sociali, ha garantito una tenuta importante durante l’emergenza Covid.

A svelare la realtà delle cose ci ha pensato però l’audizione dell’Ufficio parlamentare di bilancio, lo scorso 28 luglio, che ha mostrato una realtà finora intuita ma non ancora rivelata. Oltre un quarto delle imprese beneficiarie della cassa integrazione “da Covid” non ne aveva bisogno e, seppur a norma di legge, ha usufruito di una misura indebita. “Oltre un quarto delle ore è stato tirato da imprese che non hanno subito alcuna riduzione di fatturato” è l’analisi dell’Upb, che però non ha fatto una stima dei costi complessivi.

 

La denuncia dell’Upb

Cassa integrazione, fondi bilaterali e cassa in deroga sono state richieste finora da circa 553 mila imprese. Le ore effettivamente “tirate”, cioè realmente utilizzate, sono 536 milioni e, secondo i dati aggiornati al 13 luglio 2020 (relative ai mesi di febbraio, marzo, aprile e, parzialmente, di maggio per quanto riguarda gli anticipi delle aziende) hanno prodotto una spesa di 10 miliardi (10 miliardi e 90 milioni, per l’esattezza) di cui 5,728 miliardi corrisposti direttamente dall’Istituto e 4,362 anticipati dalle aziende. La percentuale di ore utilizzate per Covid, ma senza cali di fatturato, è del 27% quindi, conferma l’Inps, si può quantificare in 2,7 miliardi l’ammontare di spesa che si sarebbe potuta risparmiare in presenza di un comportamento corretto. Oppure, aggiungiamo noi, in presenza di controlli più stringenti o di una verifica sindacale come chiedeva a marzo la Cgil. La Cig con causale Covid-19 è stata data, infatti, senza alcuna verifica, senza relazioni tecniche o accordi sindacali. L’estensione alle imprese con meno di 5 dipendenti ha reso ancora più ampia la platea e meno agevoli i controlli.

L’unica illegalità è quella in cui le imprese che ricorrono alla cassa integrazione continuino l’attività facendo lavorare i dipendenti in nero o, addirittura, in smart working. Dirlo o scriverlo è legato a una idea soviettista e “anti-imprese”? Neanche per sogno. Dai controlli a campione effettuati dall’Inps sono risultate ben 2.600 imprese (all’elenco in tabella vanno aggiunte almeno altre 300 matricole Inps bloccate dall’Istituto) che rientrano nella componente di illegalità.

Se i “furbetti” del Reddito costano quindi allo Stato circa 4,5 milioni di euro, i furbetti della Cig costano 2,7 miliardi, 600 volte in più. Con buona pace di Bonomi, Confindustria e di tutti quelli a cui piace vedere la povera gente restare povera e quella benestante diventare un po’ più ricca.

L’assalto del Pd alla scuola: “Ora vogliono il ministero”

I banchi, le mascherine, i test, le linee guida sul ritorno in classe… Al ministero dell’Istruzione guidato dalla pentastellata Lucia Azzolina, di questi tempi hanno molte preoccupazioni pratiche più una di ordine politico: il Pd che, seduto sulla riva del fiume che porta al ritorno dei ragazzi in aula, aspetta il passaggio del cadavere della suddetta Azzolina per prenderne il posto.

Ieri, ad esempio, sono state approvate le linee guida per la scuola dell’infanzia. Poche regole che ricalcano quanto anticipato nei mesi scorsi. Erano però molto attese per diversi motivi: la fascia d’età 0-6 è la più critica per gli enti locali che gestiscono i servizi di nidi e asili, ma anche per i genitori che lavorano. La loro stesura era in carico alla viceministra del Pd, Anna Ascani. Se, però, l’interessata ne ha dato l’annuncio in modo equilibrato, senza l’autocelebrazione così in voga tra i politici, dal Pd sono piovute lodi sperticate, quasi si trattasse di una svolta epocale: da un lato, quindi, il tentativo di non lasciarsi coinvolgere più di tanto in una situazione, il rientro a scuola, a forte rischio boomerang; dall’altro l’esaltazione di una operazione da rivendersi al momento opportuno.

E qui si torna a quella preoccupazione che circola al ministero dell’Istruzione, dove temono che dalle parti del Pd stiano solo aspettando di dichiarare l’inizio dell’anno scolastico una débâcle per far saltare la ministra e occupare un dicastero fondamentale, che dà e toglie voti, come ha insegnato proprio ai dem (Renzi all’epoca) la Buona Scuola, legge che gli ha inimicato quasi l’intera categoria dei docenti. Non solo: quel ministero vedrà crescere nei prossimi anni la sua dotazione economica, anche grazie al Recovery Fund.

Non è bastato ad Azzolina l’endorsement del ministro dem della Ricerca, Gaetano Manfredi, che mercoledì si era “augurato” (proprio così) una ripartenza “con la collaborazione di tutti e il sostegno del governo”. Né l’ha tranquillizzata del tutto, ieri, il fatto che il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, abbia ripetuto lo stesso concetto: la riapertura delle scuole è un obiettivo primario “da perseguire in un clima che auspico di collaborazione e di condivisione”.

D’altronde i segnali di scarsa collaborazione da parte Pd non sono mancati. Qualche giorno fa, ad esempio, dopo un incontro molto tranquillo a Firenze coi tecnici del ministero e della Regione e gli assessori all’Istruzione (erano state prospettate solo criticità risolvibili), la vicesindaca Cristina Giachi – in quota Nardella – se n’è andata dai cronisti per sostenere che “sono più le incognite che le certezze”.

E ancora: che si facesse molto rumore sui banchi, per dire, e così poco sulla questione dei trasporti a cui sta lavorando la ministra Paola De Micheli: ad oggi, infatti, non si vedono proposte né soluzioni per quando la riapertura degli istituti riverserà contemporaneamente in strada più di venti milioni di italiani. Un ostacolo che preoccupa molto enti locali e Regioni, ma di cui si parla molto poco. Ovviamente sono dossier complessi che richiedono attenzione e coinvolgimento di molti attori e dunque sarà il tempo – quel poco che resta – a dire se il silenzio sia sintomo di una situazione sotto o fuori controllo o se gli appelli alla collaborazione significano davvero l’abbandono delle tattiche di piccolo cabotaggio.

Dalle parti di Azzolinaricordano ancora – e si era nel pieno dell’emergenza – la guerriglia del Pd sui concorsi dei docenti precari da 36 mesi: i dem si erano “schierati” con i sindacati senza esporsi eccessivamente. Attendisti. Tanto da portare il nodo del concorso all’autunno, quando si potrà riprendere a lottare, da dentro o da fuori.

“Affaire” camici, il cognato ha gli utili in calo dal 2016

Non solo camici, ora l’inchiesta della Procura di Milano sul governatore Attilio Fontana e sul cognato Andrea Dini, apre un altro filone di carattere tutto contabile. Salgono così a tre i rami dell’inchiesta in cui risulta indagato anche il presidente della Regione Lombardia, accusato di frode in pubbliche forniture. E così, dopo il filone sulla fornitura mancata di 75 mila camici ad Aria, la centrale acquisiti del Pirellone, e dopo la via dei soldi che da Varese porta in Svizzera passando per due trust alle Bahamas controllati da una fondazione in Liechtenstein, ora i magistrati hanno acceso un faro sui conti di Dama, la società controllata da Dini e nella quale ha una partecipazione del 10% anche la moglie di Fontana. È Dama, e Dini in particolare, che già a partire dal 7 aprile si attiva con la Regione per concludere un contratto di fornitura di camici.

La firma arriva il 16 aprile. Dama avrebbe dovuto incassare, stando al contratto con Aria, 513 mila euro (denaro della Regione mai arrivato). Tanti o pochi per la società titolare del brand di abbigliamento noto in tutto il mondo Paul&Shark? Secondo il ragionamento che viene fatto in Procura, quei soldi non erano affatto pochi per la Dama, che negli anni ha visto i propri utili assottigliarsi. Questo, è l’ipotesi degli inquirenti senza contestazione penale al momento, avrebbe potuto accendere la miccia della trattativa con la Regione per la vendita dei camici anche se vi era il rischio di incappare in un conflitto d’interessi. Gli atti contabili di Dama sono stati acquisiti dalla Procura durante le perquisizioni. Ad avvalorare la tesi investigativa del cognato in difficoltà economica ci sarebbe anche il fulmineo risarcimento tentato da Fontana con il bonifico (poi non fatto) di 250 mila euro a favore di Dama per la fornitura di camici. Denaro che, secondo i pm, Fontana voleva movimentare dal suo conto svizzero scudato nel 2015, il 19 maggio, il giorno in cui chiede al cognato di trasformare la fornitura in donazione. Cosa che avverrà il giorno dopo con la email inviata al direttore generale di Aria, Filippo Bongiovanni, e in cui Dini blocca la fornitura a 49 mila camici e tenta di trasformarla in donazione. Restiamo però sui conti. Bilanci alla mano, l’ultimo disponibile è quello del 2018, si legge una curva discendente del saldo economico, anche se la società chiude sempre con un utile piuttosto elevato. Nel 2016, l’utile chiude in calo rispetto al 2015, passando da 36 milioni di euro a poco più di 20 milioni. Il trend, come confermato anche dalla Procura, non si ferma nemmeno per l’esercizio successivo. Nella relazione sulla gestione del dicembre 2017 firmata da Andrea Dini si legge: “Il bilancio al 31 dicembre 2017 evidenzia un risultato positivo di Euro 15.886.628; l’esercizio precedente riportava un risultato positivo di euro 20.782.154”. In due anni gli utili appaiono quasi dimezzati. L’anno successivo la musica pare non cambiare. Utili in calo e debiti complessivi per quasi 27 milioni di euro. Scrive sempre Dini nella relazione del 31 dicembre 2018: “In linea con i risultati del settore, la società ha registrato un aumento del fatturato (+2,5% rispetto al periodo precedente). (…) Nonostante la crescita registrata, il risultato netto d’esercizio, pari a Euro 11.308.937, risulta inferiore rispetto al dato dell’esercizio precedente, pari a Euro 15.886.628. Tale flessione è da imputare, tra l’altro, alla rilevazione di una significativa perdita relativa a un credito divenuto inesigibile”. Questo andamento, viene spiegato in Procura, si rileva anche nel 2019 per proseguire identico nel 2020 a causa del Covid-19.

C’è poi il piano fiscale relativo alla Voluntary disclosure fatta da Fontana nel 2015 per far riemergere i 5,3 milioni da un conto svizzero intestato alla defunta madre e appoggiato a due trust off-shore. Sul denaro scudato, ma mai riportato in Italia, lavora l’Agenzia delle entrate, che dopo la segnalazione dell’Antiriciclaggio sul tentato bonifico a Dini ha ripreso in mano il fascicolo. L’obiettivo è capire se il denaro sia solo eredità della madre o vi siano transitati anche i soldi del presidente. Ad esempio quelli guadagnati durante la sua attività di avvocato. Nel 2008, quando era sindaco di Varese ha difeso Laura Ferrari, moglie del numero due della Lega, Giancarlo Giorgetti, coinvolta in una truffa alla Regione. Lady Giorgetti, difesa dal futuro governatore, patteggiò davanti al tribunale di Busto Arsizio una pena di due mesi e 10 giorni poi tramutata in sanzione pecuniaria.

Renzi vuole “abbattere” il Soprintendente per lo stadio di Firenze

Non solo l’aeroporto di Firenze. Adesso anche lo stadio. Italia Viva vuole fare man bassa di grandi opere nella culla del renzismo e, dopo la norma del decreto Semplificazioni che fa rinascere la nuova pista nonostante la bocciatura dei giudici, i renziani fanno la prima mossa per sbloccare un’altra infrastruttura di cui in città si parla da 15 anni e bloccata dalle pastoie burocratiche: il nuovo stadio della Fiorentina.

E l’ex sindaco di Firenze, Matteo Renzi, decide di farlo alla sua maniera, senza tanti fronzoli, con una norma ad hoc per gli stadi di calcio: giovedì ha presentato un emendamento al Senato secondo cui “ove vi sia il via libera dell’ente territoriale di riferimento, il Comune, una società sportiva professionistica può far realizzare interventi di modifica di impianti sportivi senza la necessità dell’autorizzazione della competente Soprintendenza”. Ergo: il Comune di Firenze, guidato dal suo delfino Dario Nardella, con questa norma potrà fare carta straccia del parere del Soprintendente, Andrea Pessina, che ha sempre dato parere negativo al progetto di abbattimento del Franchi.

Il presidente italo-americano della Fiorentina, Rocco Commisso, infatti vorrebbe abbattere le due curve per costruire un nuovo stadio, ma secondo la Soprintendenza non si può, perché l’impianto, opera del 1929 dell’architetto Pier Luigi Nervi, ha un pesante vincolo architettonico. Ovviamente Pessina non è d’accordo con la nuova norma, ma ieri Renzi gli ha dato il benservito su La Nazione: “La Soprintendenza può mettere il veto su Raffaello o su Leonardo, ma non su uno stadio”. Come dire: tanto decidiamo noi.

Tra le righe dell’emendamento però si cela anche una sanguinosa – l’ennesima – faida politica tra renziani ed ex renziani. A Palazzo Vecchionon hanno preso bene la norma dell’ex sindaco che mette in difficoltà il suo successore davanti alla Soprintendenza. E così arriva la contromossa degli ex renziani rimasti nel Pd, Luca Lotti e Dario Parrini che presentano un altro emendamento, invece di sostenere quello del senatore di Scandicci. Il testo dem è molto più soft: “L’esigenza di preservare il valore testimoniale dell’impianto è considerata recessiva rispetto all’esigenza di garantire la funzionalità dell’impianto ai fini della sicurezza, nonché dell’adeguamento agli standard internazionali e della sostenibilità economico-finanziaria”. E in caso di divergenze di opinioni “decide la Presidenza del Consiglio dei ministri”. Insomma, così la Soprintendenza non sarebbe messa da parte. Il nuovo emendamento, che sarà discusso a inizio settembre, è stato presentato per due motivi: sia perché gli ex renziani nel Pd non vogliono dare soddisfazione al leader di Italia Viva, sia perché così com’è scritto, fanno sapere, “il testo di Renzi non passerà mai: non possiamo abbattere la Soprintendenza”.

La mossa del senatore di Scandicci e della coppia Lotti-Parrini apre un altro fronte in quel che rimane del renzismo a Firenze: il presidente Commisso, per alzare la posta con il Comune, ha già consegnato al sindaco di Bagno a Ripoli, l’ex renziano della prima ora Francesco Casini, la manifestazione di interesse per costruire il nuovo stadio fuori città. Uno smacco troppo grande per il Giglio magico che, da Renzi in poi, ha sempre sostenuto il progetto del nuovo impianto.

Nel frattempo, il senatore di Scandicci sta raccogliendo proseliti nel centrodestra con buoni risultati: il senatore fiorentino di FdI, Achille Totaro, si è già detto favorevole e da Italia Viva sono convinti che alla fine il testo sarà sostenuto anche dai senatori di Forza Italia. Un altro ostacolo, insormontabile, però potrebbe arrivare dal Mibact: il ministro dem Dario Franceschini sembra che non abbia preso bene entrambi gli emendamenti. La guerra arriverà presto in Parlamento.

Marattin, Paita e gli altri eletti coi voti di Forza Italia

“Molti sono stati eletti grazie a noi”. Millanterie o meno, poco importa. Mercoledì sera un capannello di senatori di Forza Italia si rallegrava dell’obiettivo raggiunto: il supporto azzurro alla maggioranza giallorosa non è arrivato sullo scostamento di Bilancio, quando tutti se lo aspettavano, ma in quello sui nuovi presidenti di Commissione. Ovvero in quel genere di elezione a scrutinio segreto in cui, oltre ai “cani sciolti”, i peones si sbizzarriscono con voti organizzati e geometrie variabili. Il risultato per la maggioranza è apocalittico: in almeno dieci commissioni (cinque alla Camera e cinque al Senato), l’opposizione “responsabile” di Forza Italia avrebbe messo una toppa, più o meno determinante, alla voragine creata da molti del M5S che non riuscivano a digerire i candidati di Pd e Italia Viva. A dirlo è il pallottoliere.

A Montecitorio le indiziate sono le commissioni Bilancio, Finanze, Ambiente, Trasporti e Giustizia. Nella prima il Pd Fabio Melilli si è dovuto sudare l’elezione andando al ballottaggio con il leghista Claudio Borghi: almeno quattro 5Stelle hanno teso l’imboscata. Poi c’è Raffaella Paita (Trasporti), eletta con 23 voti contro i 21 di Alessandro Morelli (meno voti rispetto alla maggioranza), ma alcuni 5 Stelle assicurano di non averla votata. Anche qui, Forza Italia ha avuto un peso importante. Per non parlare di Luigi Marattin, l’altra bestia nera renziana dei pentastellati. Nonostante le divisioni, è stato eletto con il più alto margine di tutte le commissioni: 8 voti. Almeno la metà sono azzurri. Sospetti incrociati – nel centrodestra – anche su Alessia Rotta all’Ambiente, eletta con quattro voti di scarto. Poi c’è il Senato: oltre ai due leghisti eletti, Gianpaolo Vallardi (Agricoltura) e Andrea Ostellari(Giustizia), Forza Italia è stato l’altro braccio della maggioranza sulla Bilancio andata all’ex governatore abruzzese Luciano D’Alfonso, la Politiche Ue dove molti 5 Stelle non hanno digerito il siluramento di Ettore Licheri per l’ex renziano pugliese, oggi nel Pd, Dario Stefàno (tre berlusconiani hanno sostituito i grillini) e infine nelle due commissioni andate a Italia Viva: la Sanità con Annamaria Parente (sei preferenze più del previsto) e l’Istruzione a Riccardo Nencini. Quest’ultimo è stato eletto contro il leghista Mario Pittoni 14 a 10, ritrovandosi in tasca due voti in più del previsto. Forse non era necessario, ma lo zampino di Forza Italia è arrivato lo stesso.

Basta flat tax, ora alla Scuola leghista si fa meditazione

C’è una Lega da Papeete e una da vacanza alternativa, immersa nel verde e nella meditazione. Il nome non è molto fantasioso – E…state felici, da fiera estiva di paese – ma organizzazione e location sono impeccabili: da domani la Scuola di formazione politica della Lega, ideata dal senatore Armando Siri, porterà una manciata di attivisti in una bella villa dalle parti di Todi, in Umbria. Il seminario è piuttosto insolito, perché alternerà il tempo libero a interventi dello stesso Siri non sulla flat tax (di cui è ritenuto l’ideologo leghista), quanto sulla condizione dell’essere umano.

Una svolta introspettiva, quasi mistica, di cui si ha miglior contezza scorrendo i titoli degli incontri: “Tu e il bambino che sei stato. Come fare pace con il bambino che sei stato e integrarlo al massimo delle sue doti nella tua vita di oggi”; “Come costruire l’Arca per superare il Diluvio”; “Oltre il tuo mondo. Conoscere e credere non sono la stessa cosa”. “I seminari – precisa la brochure dell’evento – sono interamente a cura di Armando Siri”.

Non è dato sapere quale folgorazione abbia spinto il senatore a questa svolta, ma si preannunciano giornate interessanti per i leghisti. La villa è un lussuoso casale che i siti specializzati affittano a circa 2.000 euro a settimana: la Lega ne chiede 850 ogni tre giorni a ciascun iscritto (si possono fare tre o sei giorni, massimo dieci ospiti), garantendosi un discreto margine. Nel presentare il seminario, la Lega si fa tour operator: “Per mesi siamo rimasti chiusi in casa, privati delle nostre libertà fondamentali. Ora è il momento di riprenderci i nostri spazi. Potrai trascorrere qualche giorno di vacanza, proseguendo al contempo il tuo percorso di formazione individuale”. E ancora: “Si alterneranno sessioni formative e momenti di relax, grazie anche alla piscina privata panoramica, alla sauna, ai pranzi e cene in compagnia, alla sala biliardo e alle serate di musica e karaoke”. Senza dimenticare la fortuna di trovare il proprio bambino interiore grazie al senatore Siri.

Il Senato ritarda il sequestro dei pc di Siri: l’ira dei pm

A Palazzo Madama si fa melina. Da un anno, infatti, i magistrati di Milano aspettano inutilmente di essere autorizzati a sequestrare due computer al leghista Armando Siri indagato per autoriciclaggio aggravato nell’indagine sui mutui sospetti che gli sono stati accordati quando era sottosegretario dalla Banca agricola di San Marino.

Finora però sono rimasti a bocca asciutta: a ottobre scorso la Giunta del Senato, nonostante le barricate del Carroccio, ha dato semaforo verde alla richiesta. Poi più nulla: la pratica Siri si è arenata sul tavolo del presidente del Senato Maria Elisabetta Alberti Casellati che non ha ancora dato la possibilità all’aula di decidere se il sequestro sia legittimo. Oppure se, come ha già escluso la Giunta a maggioranza, la richiesta dei magistrati sia viziata dal fumus persecutionis nei confronti del leghista. Che dato l’andazzo, può dormire sonni sereni.

Eppure i magistrati di Milano hanno fretta. Con una seconda richiesta hanno segnalato l’importanza di entrare in possesso, “il prima possibile”, dei documenti bancari conservati nel computer del senatore leghista. E pure delle sue conversazioni, sulla pratica di San Marino, con il suo collaboratore Luca Perini: messaggi in chat, mail, sms e mms ritenuti utili “al fine di una completa ricostruzione dei fatti di indagine, in particolare per verificare termini e caratteristiche degli accordi retrostanti le operazioni di finanziamento” della banca. Di cui Siri, per tutta risposta, invocando lo scudo garantito ai parlamentari dall’articolo 68 della Costituzione, ha invece chiesto la distruzione.

Anche Perini avrebbe avuto un ruolo in questa e anche in un’altra operazione anomala, al punto da far scattare l’ispezione della Banca centrale del Titano. Che ha acceso un faro sui mutui concessi in contrasto con la normativa della Serenissima Repubblica e le regole interne dell’Istituto di credito erogante: ne è seguita una rogatoria con la trasmissione degli atti a Milano che indaga con l’ipotesi di reato di autoriciclaggio aggravato.

Va detto che Siri si è sempre proclamato innocente sostenendo di aver agito del tutto legittimamente. Epperò il sospetto degli inquirenti è che il senatore sia stato trattato con i guanti bianchi. Perché le somme in questione sarebbero state accordate dalla Banca sanmarinese a condizioni di particolare favore e senza garanzie. Gli inquirenti di Milano hanno sottolineato come fossero state “generosamente elargite a un personaggio politico di primo piano” che poi le ha utilizzate per investimenti economici e “con il preciso intento di dissimularne l’origine”. Perché sempre secondo i pm Gaetano Ruta e Sergio Spadaro, Siri e Perini in concorso tra loro “avendo partecipato alla commissione dei delitti di appropriazione indebita e amministrazione infedele in relazione alle somme di 748.205 indebitamente corrisposte il 28 novembre 2018 a titolo di finanziamento dalla Banca di San Marino, impiegavano tale denaro per l’acquisto di immobili”, pagati con una curioso giro di assegni, poi intestati alla figlia di Siri.

L’ex sottosegretario, accusato di corruzione in un’altra inchiesta per una presunta mazzetta da 30 mila euro da Paolo Arata (già responsabile energia della Lega, sodale di Vito Nicastri, re dell’eolico ritenuto vicino al boss mafioso Matteo Messina Denaro), dopo aver ottenuto quel mutuo avrebbe dunque cercato, secondo gli inquirenti, di schermare l’operazione per ostacolare l’identificazione “della provenienza delittuosa della provvista”.

Alla festa del Papeete mancano gli invitati: Salvini si sveglia male

Doveva essere la prima uscita pubblica da quando è scoppiato il caso dei camici. Il primo incontro di Attilio Fontana col pubblico in carne e ossa. Quello leghista della festa di Cervia, dove ieri sera il governatore lombardo avrebbe dovuto essere ospite d’onore. L’attesa era enorme, anche da parte della stampa, ma a metà pomeriggio Fontana ha dato forfait, a causa di un leggero malore, dovuto forse alla diverticolite di cui soffre. “Il mio fisico mi ha avvertito: Attilio prenditi qualche giorno di riposo. Sono quindi costretto a disdire tutti gli impegni e con estremo rammarico non potrò esser presente questa sera (ieri, ndr) a Cervia per incontrare la famiglia della Lega”, ha fatto sapere il presidente lombardo. Matteo Salvini lo aspettava. “Sono contento che viene anche quel galantuomo di Fontana. Tra 2 anni e mezzo sono sicuro che sarà stra-rieletto”, diceva il Capitano ieri mattina all’Hotel Miami del Papeete Beach, per presentare la kermesse romagnola, quando ancora non si sapeva della disdetta.

Qualche maligno nel partito pensa però che forse questo malore sia cascato a fagiolo e abbia di fatto evitato domande scomode o nuovi scivoloni.

Il problema è che Fontana non è stato l’unico a dare buca, e se l’andazzo continua bisognerà trovare ogni sera dei sostituti.

Altro grande assente alla festa di Cervia sarà infatti Giancarlo Giorgetti, previsto per la sera di lunedì. Il motivo ufficiale è che quel giorno il leghista sarà a Genova per l’inaugurazione del Ponte Morandi. In realtà Giorgetti sembra non avere alcuna intenzione di farsi vedere alla festa della Lega romagnola che fa tanto Papeete. “Sto in vacanza su Marte”, ha risposto qualche tempo fa l’ex sottosegretario alla Presidenza del Consiglio a un giornalista che gli chiedeva notizie di sé. Segno di un isolamento sempre più impenetrabile e del malessere profondo di chi non riesce più incidere nel partito come una volta. Poi c’è chi dice che Giorgetti si sia voluto prendere una pausa col benestare di Salvini e che presto tornerà. Ironia della sorte, però, lunedì a sostituirlo sarà Alberto Bagnai, da poco nominato da Salvini a capo del Dipartimento economico del partito proprio al posto di Giorgetti. Uno che la pensa al suo opposto.

Per il leader, intanto, questo ritorno in riviera romagnola, a Milano Marittima, nel “suo” Papeete, non ha più il gusto fresco del mojito, ma quello amaro della sconfitta. Il leader leghista è arrivato giovedì nel tardo pomeriggio, proprio mentre il Senato votava per mandarlo a processo per Open Arms, in tempo per un bagno al tramonto e un aperitivo in spiaggia. Anche ieri, però, al risveglio, l’umore era pessimo, nonostante i sorrisi forzati e l’esibizione dei figli su Twitter. “Mi sono svegliato un po’ incazzato, convinto di aver subìto un’ingiustizia senza senso. Non volevo una medaglia per aver bloccato gli sbarchi, combattuto gli scafisti e ridotto i morti in mare, ma rischiare 15 anni di carcere mi sembra una follia”, afferma il leader leghista. Anche se, aggiunge, “in questi giorni mi hanno scritto più di 200 avvocati pronti a difendermi”. Chi lo conosce bene, però, sa che i processi lo spaventano, anche perché esiste il rischio, in caso di condanna, di non potersi ricandidare. E per gli effetti della legge Severino potrebbe anche decadere da senatore, come accadde per Berlusconi. “A Catania spero di non trovare un Palamara, un cugino di Palamara, un’amante di Palamara…”, sussurra. Anche se poi Salvini è convinto che tutta questa storia gli faccia riguadagnare i consensi perduti. “Alle Regionali recupero 10 punti e vinco”, dice. Nel frattempo se la prende con la stampa: “L’umore nero lo lascio al Corriere della Sera, che ormai è peggio del Fatto Quotidiano”, afferma.

Nemmeno il messaggio d’incoraggiamento del premier ungherese Viktor Orbàn lo rasserena.

Questa sera, però, il protagonista della festa della Lega sarà lui e potrà sfogarsi davanti al suo popolo. Martedì, invece, toccherà a Luca Zaia. Il leader in pectore che, per ora, non vuol essere leader. Per il resto, il tempo passa tra una nuotata in mare o in piscina, una grigliata di pesce, un drink analcolico, un giro in bicicletta e molto sole. Con lui tutta la truppa dei nuovi fedelissimi. Forse arriverà anche Francesca, chissà. Le cubiste, i dj set con l’inno di Mameli e i balli a torso nudo sono ormai un lontano ricordo.

La Borsa in vendita. Il governo punta alla cordata italiana

La decisione era già nota al governo italiano da giorni, ma da ieri è ufficiale: Borsa Italiana è sul mercato e ora parte la corsa a blindarla. La politica è già in agitazione. Il London Stock Exchange (LSE), di cui Piazza Affari fa parte dal 2007, ha confermato di aver avviato “discussioni esplorative” per la potenziale cessione della società che gestisce il mercato borsistico italiano o della quota nella controllata MTS, la piattaforma telematica riservata ai titoli di stato, vero snodo nevralgico visto che è lì che si scambiano i titoli della Repubblica italiana sul mercato secondario. Insomma, MTS garantisce la contrattazione del nostro debito pubblico e( peraltro vale metà degli utili di Borsa spa, 79 su 140 milioni nel 2019).

La notizia, come detto, era nell’aria. Se ne parla da mesi, da quando LSE ha deciso di acquistare Refinitiv, banca dati finanziaria in mano al fondo Blacsktone (45%) e a Reuters (55%). In piena Brexit tutti si aspettano che l’Antitrust europeo, che a giugno ha avviato un’indagine, imponga al gruppo londinese di cedere una controllata europea. LSE si è portata avanti, anche se non è ancora chiaro se deciderà di vendere solo la quota di Mts o tutta Borsa Italiana. La società è da mesi nel mirino sia di Deutsche Börse (Francoforte) che di Euronext, quest’ultima, con sede in Olanda, già controlla i listini di Parigi, Amsterdam, Bruxelles e Lisbona e al suo interno vede la presenza forte dello Stato, visto che la Cassa depositi francese ne ha l’8%.

L’Italia, ora, punta a blindare la società. Il governo può già fissare i paletti esercitando il Golden Power, i poteri speciali in caso di cambi di assetto azionario di aziende strategiche, tra cui nei mesi scorsi è stata inserita anche Borsa Italiana. La prossima settimana il tema verrà discusso a margine del Consiglio dei ministri. Il dossier coinvolge il ministero dell’Economia e Palazzo Chigi (in particolare il sottosegretario Riccardo Fraccaro). Ieri un gruppo di deputati 5 Stelle e della commissione Finanze hanno depositato una risoluzione “per impegnare il governo a intraprendere ogni iniziativa al fine di concertare un’offerta competitiva in grado di riportare Borsa Italiana all’interno dei confini del Paese”, coinvolgendo “eventualmente anche la Cassa Depositi e Prestiti”. Stessa linea auspicata dal presidente del Copasir, l’organo che vigila sull’intelligence, il leghista Raffaele Volpi: “Ritengo importante che sia il nostro Paese a decidere il destino di Borsa Italiana evitandone smembramenti e riacquisendone il controllo, potendone poi decidere alleanze e posizionamenti. Il governo non consenta ad altri di decidere su piattaforme finanziarie essenziali all’interesse del Paese”.

Un negoziato, seppure agli inizi, è in corso da mesi. Si tenta di costruire una cordata italiana coinvolgendo Cdp con investitori privati. Il dialogo è stato avviato sia con Deutsche Börse che con Euronext, anche se coi francesi è più avanti, anche a livello governativo. È difficile, infatti, che si punti a lasciar andare da sola Borsa italiana: il Tesoro preferisce la fusione con un grande attore europeo, visto che nel settore le economie di scala sono vitali e difficilmente Piazza Affari potrebbe reggere da sola. Ipotesi che non dispiace neanche ai 5Stelle, a patto però che ci siano accordi chiari e duraturi sulla governance, in modo da assicurare il controllo, anche se paritetico, agli azionisti italiani, evitando quel che accadde quando Borsa Italiana finì a LSE (il cda era in mano agli azionisti italiani che però, nel tempo, sono usciti consegnando il controllo agli inglesi). Non sarebbe male, per i grillini, neanche preparare un piano B: le trattative con francesi e tedeschi potrebbero pure andare male.

La gelata del Pil Ue: l’Italia va meno peggio, ma torna al ’93

L’economia italiana ha ricevuto un brutto colpo dalla crisi da Covid, ma meno di altri Paesi europei. È quello che emerge dai dati rilasciati ieri da Eurostat. Il Pil dell’eurozona è sceso del 12,4% nel secondo trimestre rispetto al primo: il peggior calo dalla creazione dell’euro. L’attività economica dell’Unione europea nel suo complesso è invece diminuita dell’11,9%.

Passando ai singoli Paesi, il Pil italiano è sceso del 12,4%. Peggio della Germania (-10,1%), ma meglio di Francia (-13,8%) e Spagna (-18,5%). Madrid risente molto del calo dei flussi turistici e deve affrontare una situazione già cupa per il virus, peggiorata ancor di più da quando il Regno Unito ha annunciato lo scorso fine settimana che chi rientrerà dalla Spagna dovrà rimanere in quarantena. Ma nella penisola iberica anche l’economia del Portogallo ha sofferto molto, registrando un calo congiunturale del 14,1%.

Sono dunque i Paesi mediterranei a subire di più la crisi, mentre sono molto meno colpiti quelli mitteleuropei e nordici, come l’Austria (-10,7%) e la Lituania (-5,1%). E anche questo spiega la volontà del blocco meridionale dell’Ue di varare ambiziosi strumenti comunitari in risposta alla recessione.

I dati dell’Italia sono migliori non solo rispetto ai “cugini” francesi e spagnoli, ma anche rispetto alle previsioni degli economisti. Le stime sul ribasso, infatti, si aggiravano intorno al 15% (bisogna ricordare anche il sorprendente rimbalzo della produzione industriale di maggio rispetto ad aprile: +42,1%).

A ridurre la caduta del Pil ha contribuito lo sforzo delle casse statali e il parallelo sostegno della Bce, che ha acquistato in modo massiccio titoli italiani, riducendo il costo di finanziamento del debito. Un intervento, quello della banca centrale, fuori dall’ordinario: l’economia italiana, già fragile, in questa crisi è diventata sicuramente più dipendente dall’appoggio di Francoforte.

Motivi per essere troppo ottimisti, però, ce ne sono pochini: secondo le ultime stime della Commissione europea, il Pil scenderà dell’11,25% su base annua e il rimbalzo l’anno prossimo sarà solo del 6%. L’attività economica tornerà ai livelli del 2019 solo nel 2021. Francia e Spagna dovrebbero perdere all’incirca la stessa percentuale di Pil, ma avranno probabilmente un rimbalzo più forte (7,6% per Parigi e 7% per Madrid).

Il rigido lockdown italiano sembra aver avuto effetti inferiori al previsto sull’attività economica. Ma i dati vanno presi con cautela. Per fare un confronto sul punto bisognerà attendere almeno i dati relativi alla Svezia, l’unico Paese in Europa a non aver imposto nessuna quarantena. I primi numeri, riportati dal Financial Times, dicono che durante la pandemia le imprese hanno ottenuto profitti ben al di sopra delle aspettative di mercato e le previsioni sul Pil, pur sempre negative, sono migliori di molti altri Paesi europei.

Tornando ai dati che abbiamo in mano, la situazione dell’Italia si fa decisamente meno positiva se osserviamo l’andamento del Pil reale (ossia depurato dell’inflazione). L’Istat scrive che “con il risultato del secondo trimestre il Pil fa registrare il valore più basso dal primo trimestre 1995, periodo di inizio dell’attuale serie storica”. Ma l’economista Frederik Ducrozet ha mostrato che i dati dell’Italia sono ancora più preoccupanti di così. Se infatti si raccordano le serie storiche fra di loro, l’attività economica reale dell’Italia è adesso ai livelli del 1993. Come se 27 anni fossero stati persi. C’è da dire che la crescita reale del Pil italiano negli ultimi anni è stata scarsa, ma il calo registrato a seguito della crisi è profondo.

La Spagna ha registrato nell’ultimo trimestre un ribasso peggiore di quello italiano, ma nel lungo periodo tiene meglio. Il livello del Pil reale spagnolo è infatti paragonabile a quello del 2002, una riduzione comunque enorme. La Germania è invece molto più resiliente, essendo tornata “soltanto” ai livelli di Pil reale di dieci anni fa.

Questi numeri mostrano tutte le asimmetrie fra i Paesi europei, ma anche il fatto che siamo arrivati alla crisi con un sistema economico troppo vulnerabile. Per affrontare questo crollo inaspettato dell’attività economica non basta elaborare nuovi strumenti. Bisogna correggere le fragilità del sistema.