Fontana & Co. chiedevano soldi, solo pigolii per il lockdown

Con un sospiro, non con uno sparo: descriveremmo così, se è lecito violentare il celebre verso di T. S. Eliot, i toni usati da Regione Lombardia per suggerire al governo di chiudere la Val Seriana all’inizio di marzo: l’audio, pubblicato ieri dal CorSera, di una riunione del 4 marzo tra il ministro Speranza, il presidente Fontana e l’assessore Gallera ne è l’ulteriore conferma. La Giunta lombarda voleva soldi a fondo perduto per le imprese, quanto al lockdown “decidete voi”. Com’è noto, invece, la Regione incolpa il governo di non essersi mosso come a Codogno nonostante i suoi pressanti inviti, il governo risponde che la Giunta aveva i poteri per disporre da sola la chiusura: formalmente hanno ragione entrambi, ma gli accorati appelli per il lockdown di Fontana erano più timidi pigolii. Per apprezzare le novità, però, serve un breve riepilogo dei fatti.

Quando inizia l’epidemia di Covid nel Bergamasco? Ufficialmente il 23 febbraio, quando all’ospedale di Alzano Lombardo vengono scoperti i primi due positivi: entrambi vengono trasferiti a Bergamo e il piccolo ospedale della cittadina viene chiuso. Solo per poche ore, però: un grosso errore, seguito dai vari “Bergamo non si ferma” (Confindustria, il sindaco Gori, etc).

È il 25 febbraio quando il governo dichiara la chiusura totale dei 10 comuni del Lodigiano, mentre solo tra il 2 e il 3 marzo arriva a Palazzo Chigi un report dell’Istituto superiore di sanità sui contagi nei comuni di Alzano e Nembro. Richiesto di “un parere più approfondito”, il presidente Brusaferro risponde per iscritto giovedì 5 marzo a tarda sera e propone di estendere la zona rossa ai due paesi: il giorno prima, come detto, c’era stata la riunione rivelata dal Corriere e quello stesso 5 marzo arrivano in Val Seriana poliziotti e carabinieri pronti a chiudere tutto. Restano lì due giorni e non succede niente: l’8 marzo il governo dichiara l’intera Lombardia e altre 14 province “zona arancione”; l’11 marzo tutta Italia è zona arancione; solo il 22 marzo invece si decide di chiudere tutte le attività economiche non essenziali. Solo allora (anche) Bergamo s’è fermata.

“Dagli Usa in piena crisi si vola senza precauzioni”

“Eravamo tutti vicini, seduti l’uno di fianco all’altro. Quasi nessuno aveva la mascherina sul volto. Otto ore di aereo così. E siamo partiti dagli Stati Uniti, il Paese con più contagiati al mondo”. Il volo Alitalia AZ609 è decollato giovedì da New York alle 17, le 23 italiane, ed è atterrato a Fiumicino alle 7 di ieri mattina. Isabella De Martini, neurologo, ha appena varcato le porte automatiche degli arrivi: “Fino a poche settimane fa – dice al telefono – le compagnie erano obbligate a tenere dei posti liberi per garantire il distanziamento anti-Covid, e ora che negli Usa i contagi sono esplosi non lo sono più”.

Il contatore del Center for Desease Control del governo ieri indicava che nei 50 Stati i positivi erano 4.405.932 e le vittime ammontavano a 150.283. “Lì muore una persona al minuto – prosegue De Martini, già deputata europea tra le file del centrodestra – e noi proprio sui voli che arrivano da lì non teniamo i passeggeri distanziati. È illogico. Infatti ho protestato con il personale di bordo, che mi ha risposto: ‘Enac (l’Ente nazionale per l’aviazione civile, ndr) dice che va bene così’. E poi in Italia ci si lamenta per qualche centinaio di migranti che arrivano sui barconi e che sono più controllati perché isolati nei centri di accoglienza”.

“Dal 15 giugno il distanziamento non è più in vigore – spiega l’ufficio stampa di Alitalia –. È venuto meno dopo un’ordinanza dell’Enac. Sono decisioni che non spettano alle compagnie”. Le misure “sono state rinnovate, con alcune modifiche, con il Dpcm del 14 luglio”, spiegano al Fatto gli uffici dell’ente, e “prevedono sia l’obbligo della mascherina, sia il distanziamento a cui si può derogare se il vettore osserva tutte le condizioni previste dagli allegati tecnici”. Una serie di specifiche che fanno sì che la distanza tra i passeggeri esista solo sulla carta, tra cui che “l’aria a bordo sia rinnovata ogni tre minuti”, gli impianti siano “dotati di filtri Hepa”, e che “siano disciplinate individualmente le salite e le discese dall’aeromobile e la collocazione al posto assegnato al fine di evitare contatti stretti tra i passeggeri”. “Invece al momento di sistemare i bagagli nelle cappelliere, eravamo tutti gomito a gomito. Ed è ancora più incredibile se si pensa che negli aeroporti le distanze vengono fatte rispettare”. Inoltre i sedili liberi c’erano. “Mi hanno spiegato – prosegue De Martini – che sul volo c’erano 140 persone su oltre 200 posti. Infatti in coda ho visto diverse file vuote. Così sono andata a chiedere che alcuni di noi fossero redistribuiti su quei sedili. La risposta: ‘Questi sono per noi, con le nuove disposizioni non possiamo girare per la cabina’”. Un liberi tutti, che stando al racconto, riguarda anche l’obbligo di mascherina. “Va tenuta durante tutto il viaggio, eccetto che durante il pasto – spiegano da Alitalia –. Hostess e steward sono tenuti a chiedere ai passeggeri di indossarla. Chi si rifiuta è passibile di denuncia”. “Ma c’era una quarantina di passeggeri albanesi che non l’avevano o la toglievano – conclude De Martini –. L’ho segnalato e mi è stato risposto ‘Noi diciamo loro di tenerla, ma non capiscono perché non parlano italiano né inglese’”. Da ieri anche i Frecciargento e Frecciarossa di Trenitalia e i treni Italo, quindi quelli a lunga percorrenza e per i quali è prevista la prenotazione del biglietto, possono viaggiare al 100% della capienza. Secondo le compagnie si sono realizzate le condizioni, simili a quelle previste per gli aerei, poste dal Dpcm del 14 luglio: tra queste la misurazione della temperatura prima del viaggio, l’autodichiarazione dei passeggeri di non aver avuto contatti con infetti e l’obbligo della mascherina. Una decisione che Walter Ricciardi, consigliere del ministro Speranza ha definito “errata”. E che desta “molta preoccupazione” tra i membri del Comitato tecnico scientifico.

Mattarella avvisa i No-Covid (e avalla l’emergenza)

In condizioni normali sarebbero sembrate frasi di senso comune, ovvie, prive di sostanza politica. Invece in un Paese in cui il leader delle opposizioni rifiuta di indossare la mascherina in un convegno del Senato sul Covid – dove peraltro diversi relatori negano l’esistenza stessa del virus – le parole di Sergio Mattarella hanno un peso specifico e un senso molto chiaro. Durante la cerimonia del Ventaglio al Quirinale, il presidente della Repubblica esprime un principio talmente limpido e lineare che arriva come uno schiaffo a chi sostiene il contrario: la libertà non c’entra nulla con il diritto a far ammalare gli altri. “Talvolta – le parole esatte del capo dello Stato – viene evocato il tema della violazione delle regole di cautela sanitaria come espressione di libertà. Non vi sono valori che si collochino al centro della democrazia come la libertà. Naturalmente occorre tener conto anche del dovere di equilibrio con il valore della vita, evitando di confondere la libertà con il diritto di far ammalare altri”.

Mattarella specifica: “Non entro nel dibattito politico, com’è dovere di chi ricopre ruoli di garanzia”. Ma il messaggio è inevitabilmente politico e non si fa fatica a individuare il primo destinatario: Matteo Salvini, che in questa settimana ha fatto l’occhiolino a “negazionisti” del virus e ribelli delle restrizioni.

L’intervento è in perfetto stile Mattarella: parole piane, discorsi senza enfasi, concetti molto pesanti. Il presidente della Repubblica è meravigliato dalla rapidità con cui sbiadisce la memoria collettiva dei mesi passati: “Sarebbe bene ogni tanto rileggere i prospetti quotidiani. Io li conservo a partire dai primi giorni di marzo. Non possiamo e non dobbiamo dimenticare quel che è avvenuto, le settimane in cui morivano, quotidianamente, centinaia di nostri concittadini. In cui medici e infermieri profondevano sforzi immani correndo rischi personali molto alti. In cui nei cimiteri non si trovava spazio per i feretri. Appena quattro mesi fa – era il 31 marzo – sono morti in quel solo giorno oltre 800 nostri concittadini”. Erano i giorni in cui persino Salvini si agitava sui social network: “Chiudere, chiudere, chiudere”. Prima di cambiare idea molte volte. “Imparare a convivere con il virus finché non vi sarà un vaccino – conclude Mattarella – non vuol dire comportarsi come se il virus fosse scomparso”.

Il resto dell’intervento è dedicato alla riapertura delle scuole, alla stampa (“C’è l’opportunità di rilanciare il giornalismo, opposto alle fabbriche di fake news”) e all’Europa (“La quantità e la qualità di risorse stanziate hanno una portata storica. Ora tocca all’Italia fare la sua parte”). Pure queste parole sono una replica implicita alle ultime convulsioni polemiche di Salvini, che ha attaccato i giornali (“Il Corriere della Sera è diventato peggio del Fatto”) e ridicolizzato l’accordo raggiunto da Giuseppe Conte in sede di Consiglio europeo. L’altro giorno il capo della Lega ha chiamato il Quirinale per esprimere il suo “sconcerto” dopo la proroga dello stato d’emergenza. Ieri – se Salvini ha saputo ascoltare – dal Colle è arrivata una risposta chiara.

“Volevamo chiudere altri dieci Comuni”. Ma la richiesta non c’è

La zona rossa nel Lodigiano non doveva fermarsi a dieci Comuni, ma allargarsi a 20 paesi per un totale di oltre 70mila abitanti. Una cintura molto più ampia che avrebbe comunque escluso la città di Lodi. Questo emerge da un audio del 23 febbraio, pubblicato in esclusiva dal Fatto il 17 giugno scorso, registrato durante una riunione in videoconferenza alla presenza anche del governatore Attilio Fontana, dei vertici della protezione civile e del prefetto di Lodi, Marcello Cardona. L’audio è chiarissimo, ci ritorneremo. Ora ciò che conta è capire se quella decisione arrivò mai sui tavoli romani visto che l’ampliamento non si è mai verificato. Per quanto risulta al Fatto, che ha consultato fonti interne a Palazzo Chigi e al Viminale, al governo non arrivò mai alcuna richiesta di allargamento della zona rossa da parte della Regione. Il che contrasta con la dichiarazione resa dall’assessore Giulio Gallera il 17 giugno dopo la pubblicazione dell’articolo. Allora Gallera disse all’Ansa: “La lista veniva comunicata immediatamente al governo. Poco dopo, la risposta del governo evidenziava l’impossibilità di accogliere la richiesta della Lombardia nella sua totalità perché il blocco di un’area così vasta avrebbe comportato l’impiego di un numero troppo elevato di forze dell’ordine”.

Durante l’audio del 23 febbraio, registrato a 48 ore di distanza dalla scoperta del primo malato Covid a Codogno, Fontana snocciola i nomi dei nuovi Comuni: sono dieci in più della provincia di Lodi rispetto a quelli che saranno cinturati. A quel punto il prefetto Cardona dice: “Adesso appena Attilio mi formalizza questi comuni (…) lavoriamo sui nuovi check perché li dobbiamo mettere su carta”. Appare evidente che quell’atto formale non arrivò mai e la prima zona rossa si limitò a dieci comuni. In quel momento la città di Lodi resta esclusa e questo nonostante l’ospedale abbia già ricoverati due pazienti Covid. Altri casi in quelle ore si materializzarono in diversi comuni non compresi nella cintura. Va da sé che il contagio era già tracimato. Era dunque una scelta corretta quella di allargare la zona rossa. Eppure la Regione non formalizzò mai la richiesta. Non lo fece con la presidenza del Consiglio e neppure, per quanto risulta al Fatto, con i vertici della Protezione Civile. E questo nonostante durante l’audio sempre il prefetto Cardona dica: “Comunico poi al dipartimento della Pubblica sicurezza che è già preavvisato, l’ho già detto e l’ho già comunicato anche al ministro dell’Interno che ci sarà un ulteriore allargamento”. Evidentemente il prefetto parlò informalmente con Roma come si comprende dall’audio. Un colloquio al quale la giunta regionale guidata da Fontana non fece seguire una richiesta formale.

Ora bisognerà capire per quale motivo quella richiesta non arrivò mai. La Regione decise che l’allargamento non era più necessario? Per quanto risulta al Fatto, la documentazione sulla zona rossa del Lodigiano è stata acquisita dalla Procura di Bergamo che indaga sulla mancata apertura della zona rossa attorno ai Comuni di Alzano Lombardo e Nembro. Una scelta sciagurata sulla quale governo e Regione si rimpallano le responsabilità. Non meno grave quello che è accaduto in provincia di Lodi. Qui il capoluogo non distante dal focolaio di Codogno e via di comunicazione per Milano è rimasto aperto fino all’8 marzo. E questo nonostante la Regione fosse stata allertata dai membri della sua task force come Massimo Vajani, presidente dell’Ordine dei medici di Lodi. “Più volte – dice al Fatto – ai tavoli con la Regione ai quali ho partecipato ho sottolineato che la città di Lodi doveva essere considerata zona rossa, nessuno mi ascoltò”.

Il complotto della realtà

Ieri, oltre a lodare il Corriere della Sera col più lusinghiero degli elogi (“È peggio del Fatto Quotidiano”), il Cazzaro Verde ha proseguito nella deriva psicoalcolica che contraddistingue le sue estati al Papeete Beach. È tornato a gridare al complotto per il via libera del Senato al processo Open Arms, vaneggiando di “giustizia politica alla Palamara” (che mai s’è occupato di inchieste sulla sua persona). Se l’è presa con l’altro Matteo perché “cambia idea tre volte al giorno”: e il fatto che avesse creduto alla sua promessa di salvarlo la dice lunga sul suo acume, visto che la parola dell’Innominabile è un optional anche per i parenti stretti. Poi ha annunciato di avere già studiato (verbo insolito, per lui) il modo di trascinare alla sbarra accanto a sé il premier Conte, che “sul divieto di sbarco a Open Arms era in totale accordo con me, come tutto il Consiglio dei ministri”, dunque fu suo “complice”. Purtroppo il Consiglio dei ministri non si riunì mai per discuterne, visto che lui l’8 agosto aveva rovesciato il governo.

Il 9 agosto i legali di Open Arms chiesero al Tribunale dei minori di Palermo di far sbarcare i minorenni dalla nave carica di migranti. Il 12 il Tribunale chiese spiegazioni al governo. Il 13 Conte ordinò a Salvini di far sbarcare almeno i minori, invano. Il 14 il Tar Lazio sospese il divieto di sbarco. La nave fece rotta sull’Italia, ma senza ricevere l’indicazione del porto sicuro da Salvini. Che quello stesso giorno attaccò il premier perché era di parere opposto al suo: “Conte mi ha scritto per lo sbarco di alcune centinaia di migranti a bordo di una nave Ong. Gli risponderò garbatamente che non si capisce perché debbano sbarcare in Italia”. Il 15 Conte pubblicò una nuova, durissima lettera a Salvini (per i giudici, la prova che il ministro fece tutto da solo contro le indicazioni del premier): “Ti ho scritto ier l’altro una comunicazione formale, con la quale, dopo avere richiamato vari riferimenti normativi e la giurisprudenza in materia, ti ho invitato, ‘nel rispetto della normativa in vigore, ad adottare con urgenza i necessari provvedimenti per assicurare assistenza e tutela ai minori’… Con mia enorme sorpresa, ieri hai riassunto questa mia posizione attribuendomi, genericamente, la volontà di far sbarcare i migranti a bordo. Comprendo la tua ossessiva concentrazione nell’affrontare il tema dell’immigrazione riducendolo alla formula ‘porti chiusi’. Sei… proteso a incrementare i tuoi consensi. Ma parlare come Ministro dell’Interno e alterare una chiara posizione del tuo Presidente del Consiglio, scritta nero su bianco, è questione diversa. È un chiaro esempio di sleale collaborazione, l’ennesimo, che non posso accettare”.

Poi rivendicava la linea di “maggiore rigore rispetto al passato” contro l’immigrazione clandestina e i successi in Ue sulle redistribuzioni: “Francia, Germania, Romania, Portogallo, Spagna e Lussemburgo mi hanno appena comunicato di essere disponibili a redistribuire i migranti… Siamo agli sgoccioli di questa nostra esperienza di governo… ho sempre cercato di trasmetterti i valori della dignità del ruolo che ricopriamo e la sensibilità per le istituzioni che rappresentiamo. La tua foga politica e l’ansia di comunicare, tuttavia, ti hanno indotto spesso a operare ‘slabbrature istituzionali’, che a tratti sono diventate veri e propri ‘strappi istituzionali’”. Era l’antipasto del liscio e busso che Conte gli avrebbe riservato in Senato cinque giorni dopo. Infatti Salvini cedette e sbarcarono tutti.

Ecco: l’unico complotto in corso contro Salvini è quello della realtà dei fatti che, appena apre bocca, s’incaricano puntualmente di smentirlo. Sempre e su tutto. Partecipa a un convegno sul Covid e fa il negazionista, violando la legge sulle mascherine nei luoghi chiusi affollati: e subito i contagi risalgono, tant’è che pure Zaia gli ricorda che il virus è tutt’altro che estinto. Tuona, in ottima compagnia, contro la “svolta autoritaria” per la proroga dello stato di emergenza: e ieri, non bastando le sapienti lezioni di Zagrebelsky e di altri giuristi veri, Mattarella ricorda a chi sproloquia di libertà violate che “libertà non è fare ammalare gli altri: non dobbiamo rimuovere” il Covid-19 e i suoi danni “per rispetto dei morti, dei sacrifici affrontati dai nostri concittadini: altrove il rifiuto di quei comportamenti provoca drammatiche conseguenze”. Ancora una volta la realtà dei fatti contro le balle della propaganda. E siccome il pugile suonato è pure sfigatissimo, viene sbugiardato persino dai dati Istat sul calo del Pil: dati terribili per tutt’Europa, ma meno peggiori in Italia che in altri Paesi, come la Spagna e la Francia, portati a modello perché più bravi a riaprire prima. Il 21 aprile, con più di 400 morti al giorno, il Cazzaro Verde chiedeva di riaprire tutto, visto che “in Austria hanno aperto un sacco di negozi e attività commerciali, in Germania idem, in Spagna e in tanti altri Paesi”. Il 28 aprile gli fece eco l’altro Matteo, noto economista pure lui: Francia, Germania, Spagna “stanno ripartendo più velocemente di noi e ci strappano fette di mercato”, basta “tenere il Paese agli arresti domiciliari”. Ora i dati Istat dicono che nel secondo trimestre 2020 (dalla fine del lockdown all’inizio della fase 3), l’Italia ha perso il 12,4% del Pil, contro il 13,8 della Francia e il 18,5% della Spagna. Nulla si sa della Svizzera e delle Bahamas, ma basta chiedere a Fontana.

Baldorie dal sottosuolo: è qui la Festa (degli gnomi)

Attenti al puffo. Gli extraterrestri non abitano l’ignoto spazio remoto, è noto, ma nel profondo dei boschi. Quella sì che è vita! Sempre festosa, radiosa, favolosa, e covid-free. E di certo il Piccolo Popolo non ama i convenevoli della moderna vita borghese. Si manifesta e si rivela solo ai puri di cuore: ai bambini, e a chi non ha mai abiurato il proprio fanciullino interiore. A tutti loro, e a chi rispetta la natura e l’ambiente s’intende, è dedicata la Festa internazionale degli gnomi, che si svolge questo weekend a Roccaraso, in provincia de L’Aquila, nella località boschiva Coppo dell’Orso (organizzano Abruzzo Tu.Cu.R. e i Guardiani dell’Oca).

Previsto un pubblico di cultori della materia, appassionati del “fantasy immanente”. Lì sotto il livello dei funghi, nelle viscere del mondo nuovo, pulsano elfi, folletti, troll analogici, fauni bizzarri, fate leggiadre, nani irriverenti, spiritelli della notte. Sono loro i protagonisti assoluti della tre giorni, un rito collettivo che si ripete con successo da diversi anni. Un subcontinente di entità mitologiche visibili agli occhi di chiunque crede che tutto sia ancora possibile, o perlomeno verosimile.

Le creature del sottosuolo verranno a prendere gli ospiti per condurli negli angoli più magici della radura, magari a lume di lanterna: danzeranno, mangeranno, giocheranno insieme a loro. Sono i padroni di casa, i guardiani segreti dello sviluppo sostenibile. È il loro party, e non è gente da sbandierarlo sui social. Basta fare silenzio, soprattutto al calar delle tenebre, e forse saranno avvistati davvero. Sono presenze benevole e spontanee, ma selettive. Ci saranno spettacoli con i trampoli e itineranti nel bosco; fuochi e musiche a tema; pupazzi e teatro-circo; mercatini delle meraviglie e racconti-incontri ravvicinati del terzo tipo. E poi laboratori creativi, “melodie di Pan”, stand gastronomici, sentieri dell’ignoto, balli con gli unicorni, cuori di drago, incantesimi e altre mirabilia.

Il cielo stellato sopra e sotto di loro. Ogni fruscio trapunto di muschio potrebbe essere quello giusto. Che senso di pace a queste presunte “bassitudini”. Bando alle illusioni, però: il Piccolo Popolo si materializzerà soltanto per 72 ore lorde. Poi si ritirerà di nuovo, nel sottobosco dei nostri sogni più autentici.

Mick Jagger, la spinta, la denuncia, i soldi e “lasciate lo stronzo”

Sei aprile del 1967, io trentenne e senza una lira. Per me, e per molti come me, non era l’Italia del boom economico, dell’edonismo, delle feste, della celeberrima Via Veneto con la sua Dolce Vita, ma era l’Italia che ti obbligava a guadagnare ogni giorno un pezzetto di libertà.

Quella mattina, presto, ricevo una telefonata da un amico: “C’è Mick Jagger all’hotel Parco dei Principi”.

“Embè? A me piacciono i Beatles”.

“Vai, probabilmente sarai l’unico a immortalarlo”.

Mi piazzo lì fuori, e dopo poco, credo verso le 11.30, esce proprio lui, mi vede, preparo lo scatto, ma non ho il tempo: mi spinge addosso a un taxi parcheggiato. Sbatto la testa sull’automobile, mentre la macchina fotografica si schianta a terra: in pezzi lei, a pezzi io, non sapevo più come lavorare.

Così chiamo l’avvocato, e dopo due ore, bravissimo lui, riesce a ottenere il sequestro dell’attrezzatura per il concerto della sera. Panico totale tra gli organizzatori. Aspetto ancora un po’, e arriva la telefonata dell’avvocato che in qualche modo, per la mia vita, ha significato un prima e un dopo: “Umbe’, hanno deciso di liquidare la questione: a te danno 2.500 sterline, con me saldano la parcella con altre 800”.

Tre anni dopo so che c’è una festa, una delle tante organizzate a Roma, con il principe Dado Ruspoli protagonista insieme al pappagallo, sempre sulla sua spalla; Jagger ogni tanto tornava a Roma, affascinato dalla nobiltà romana, dalla sua leggerezza, dalla sua disinvoltura, e proprio quella sera me lo ritrovo davanti, non proprio lucidissimo. Appena mi vede alza la mano verso i suoi bodyguard e con un inglese arruffato detta la linea: “Lasciatelo stare, non gli impedite nulla: quello è uno stronzo costoso”.

Alla fine mi ha pure sorriso, io anche: grazie alle sue 2.500 sterline sono riuscito ad aprire il mio primo conto in banca.

Alla corte dell’amaro Machiavelli

“Ognuno vede quel che tu pari, pochi sentono quel che tu sei” scrisse ne Il Principe messer Niccolò amaro, così lo chiamava Gadda. La più pop e abusata tra le citazioni di Machiavelli gli si cuce però addosso: emblema del Rinascimento con Da Vinci, lo scrittore, filosofo, statista, politico fiorentino (anche a lui toccò il lockdown nella villa di famiglia dell’Albergaccio quando nel 1513 cadde la Repubblica di Soderini, cui era fedele, e i Medici tornarono a Firenze), è nei secoli chiacchieratissimo.

“Di lui si è detto tutto e il contrario di tutto: genio del male, amico dei tiranni o scaltro denunciatore delle loro prepotenze per farli rovesciare dal popolo”, sottolinea il documentarista Marcello Simonetta in Tutti gli uomini di Machiavelli (Rizzoli). Se fosse stato su Facebook se la sarebbe passata male: pochi amici e molti ban. Di natura proteiforme e antropopessimista (“gli uomini sono ingrati, volubili, simulatori e dissimulatori, fuggitori de’ pericoli, cupidi di guadagno”, diceva, ed è dunque facile dedurre come valuterebbe l’odierna classe dirigente), sarebbe risultato a molti indigesto. L’intelligenza spaventa.

L’ambizione di questo saggi, frutto dell’analisi di centinaia di documenti, molti inediti, è restituire un “profilo umano, beffardo, tagliente, simpatico e appassionato” di Machiavelli attraverso il legame con 23 suoi contemporanei. Tra gli amici più fedeli spicca Francesco Vettori. Il loro rapporto dimostra che la competizione può trasmutare in complicità. Scelto nel 1507 al posto di Machiavelli come rappresentante della Repubblica fiorentina presso l’imperatore Massimiliano I, che minacciava d’invadere l’Italia, Vettori, digiuno d’esperienza diplomatica, si troverà in crisi. A Machiavelli, diplomatico navigato, verrà chiesto di soccorrerlo. In terra straniera diverranno intimi. Francesco è patrizio, Niccolò si è fatto da sé, ma hanno entrambi la battuta rapida e pungente e il gusto per la burla.

Anche le esistenze più impegnate abbisognano però di svago. È con Filippo Strozzi, banchiere, depositario del Comune di Firenze e della Camera apostolica, che Machiavelli condivide affinità letterarie ma anche il piacere dei bagordi e dei bassi istinti. Ricchissimo (Niccolò a sghei non se l’è mai passata bene), sposato con un’erede dei Medici, Filippo è seduttore insaziabile e Niccolò ci va a nozze. Inclini a trasgredire e rovesciare le regole sociali, animati da un’insofferenza all’autorità, i due se la intendono specie quando si tratta di donne.

Di alcuni soggetti invece Machiavelli, che a lettura terminata risulterà assai meno machiavellico di altri, non si fidava perché l’Italia di quel periodo era un intreccio alla Dinasty tra famiglie fiorentine e cardinalizie romane e francesi in un’eterna corsa al potere e al si salvi chi può. Tra loro c’è Piero Ardinghelli, notaio, cancelliere di Giuliano de’ Medici e del cardinale Giulio de’ Medici. Desideroso di presentare la bozza de Il principe, dedicato a Lorenzo de’ Medici, a Giuliano (voleva rientrare nelle loro grazie), Machiavelli temeva che se non gli avesse portato di persona il manoscritto Ardinghelli “si facesse onore di questa ultima mia fatica”. Fu poi una missiva di Ardinghelli, che mise nero su bianco il veto del cardinale Giulio “a non s’impacciare con Niccolò” (a non assumerlo), a far sfumare la ripresa della sua attività politica.

Anche il letterato Filippo de’ Nerli, di cui sempre si legge “Machiavelli lo nominò suo esecutore testamentario”, non esce intonso. De’ Nerli definisce Niccolò “amicissimo” ma getta ombre sul suo ruolo di cattivo maestro nel circolo culturale degli Orti Oricellari, alimentando dubbi sulla sua responsabilità nell’organizzazione della rivolta del 1522 contro i Medici. Senso d’inferiorità o invidia? Se a Machiavelli spediva missive dense di complimenti, al di lui cognato Francesco del Nero diceva il contrario, criticandolo per la liaison extraconiugale con la cortigiana Barbara Salutati. Sparlare e moraleggiare è un’abitudine senza tempo.

Simonetta chiude la carrellata dei satelliti intorno al buco nero Machiavelli con la passione romantica che nutrì per la Salutati, appunto, conosciuta per cultura e capacità canore, e incontrata quando aveva ormai 50 anni. Lui la venerava, in barba alla moglie Marietta Corsini che partorì dieci figli, mentre gli amici, lo testimoniano varie epistole, lo sfottevano à gogo. Machiavelli le dedicò sonetti, madrigali e canzoni, ma, sorprendente!, la mise a conoscenza del cifrario che regolava la comunicazione con Vettori e Strozzi, consiglieri di Papa Clemente VII. Se non è amore questo…

Il dem Ricci dedica a Craxi i giardini di Pesaro

APesaro la dedica a Bettino Craxi esce dalla porta e rientra dalla finestra. Merito del sindaco Pd, Matteo Ricci, che ha deciso di intitolare al socialista i giardini pubblici di viale Matteotti. L’ex renziano Ricci ha il pallino di Craxi da mesi, aveva proposto il suo ingresso nella toponomastica cittadina già a febbraio, ma il primo tentativo era stato respinto con perdite: l’idea di chiamare “via Craxi” una nuova strada tra i rioni Cattabrighe e Vismara era stata bloccata dalle proteste dei consigli di quartiere.

Stavolta il sindaco ha fatto da sé, senza consultare nessuno: i giardini Craxi saranno inaugurati oggi pomeriggio alle 17, alla presenza del figlio Bobo, di Claudio Martelli, del segretario nazionale del Psi Enzo Maraio e dell’assessore socialista Riccardo Pozzi, primo sponsor dell’iniziativa.

Quella di Ricci è a suo modo un’iniziativa coraggiosa: in tempi di cancel culture, mentre statue e simboli vengono rimossi perché non rispettano valori condivisi, dedicare un parco pubblico a un uomo che ha vissuto gli ultimi anni in fuga dalla giustizia italiana – latitante in Tunisia ad Hammamet – è un’operazione che richiede un certo grado di spregiudicatezza. E ci vuole ancora più coraggio, pure una certa fantasia, per accostare il nome del socialista Craxi a quello del socialista Matteotti: il primo eroe di Tangentopoli, il secondo eroe antifascista. Pesaro non è la prima città a dedicare una via o un parco a Bettino: sono già un centinaio i comuni che hanno rotto questo tabù, compresa la “Stalingrado d’Italia” Sesto San Giovanni. Raramente però è stata un’operazione indolore, senza polemiche.

A Pesaro, Ricci è riuscito a mettere d’accordo (contro di lui) sia la destra che la sinistra. Secondo Lega, FdI e persino Forza Italia “l’intitolazione dei giardini a Craxi è un blitz vergognoso e antidemocratico”. Secondo i bersaniani di Articolo Uno invece è una provocazione: “Il sindaco mette continuamente a dura prova la nostra pazienza”.

Vincono Pd e Iv, salta il taglio dei mandati Malagò resta a capo di Coni e Olimpiadi

Èmorto il re, anzi, lunga vita al re. E il re dello sport italiano è senza dubbio Giovanni Malagò. Il ministro Spadafora voleva detronizzarlo, abbassando il limite di mandati al Coni per renderlo incandidabile, ma dopo le riunioni di maggioranza il tetto, che nella bozza della riforma era fissato a due, è tornato a tre, come stabilito dall’ex (fidato) ministro Luca Lotti. Così quando lo sport andrà al voto, dopo i Giochi di Tokyo 2021, Malagò potrà essere rieletto per altri quattro anni. Alla guida del Coni, e pure delle Olimpiadi 2026: salta anche l’incompatibilità con gli incarichi negli enti privati in controllo pubblico, come la Fondazione Milano-Cortina, di cui è presidente.

I suoi pretoriani hanno la casacca di Pd e Italia Viva, che lo hanno difeso ottenendo le modifiche. E i 5Stelle? “Era una battaglia che non si poteva fare”, spiegano rassegnati. La riduzione dei mandati creava una disparità con le Federazioni difficile da difendere. E metteva a rischio tutta la riforma su cui il M5s lavora da un anno, dalla normativa sui lavoratori cara al deputato Valente alla democrazia degli statuti federali su cui insiste Mariani. La delega, approvata con la Lega ma scritta col Pd, doveva essere oggetto di compromesso. E il compromesso ora ha le sembianze di Malagò.

Resta al suo posto, il Coni avrà il suo personale e autonomia, anche se perderà parte del patrimonio immobiliare (tra cui lo Stadio Olimpico e quasi tutto il parco del Foro Italico), nonché il prezioso registro Coni con i dati delle società sportive. Sarà una delle tante competenze del nuovo Dipartimento Sport di Palazzo Chigi, una specie di dicastero, che potrà avvalersi della partecipata Sport e salute: la sua definizione era obiettivo del ministro e sarà uno degli effetti principali della riforma.

Se Malagò salverà la poltrona, ballano i presidenti di Federazioni, alcuni in carica da decenni: Lotti, fissando il limite a tre, gli aveva regalato un mandato extra, Spadafora lo ha cancellato e su questo non indietreggia, come sull’incompatibilità per chiudere le porte girevoli tra sport e parlamento. Ma fatta la legge, anzi la bozza, i dirigenti hanno trovato l’inganno: tutti quelli a rischio, dal nuoto al tennis, hanno subito convocato le elezioni, per farsi rieleggere prima che la riforma entri in vigore. A Palazzo Chigi studiano soluzioni, come rinviare il voto o far decadere chi a fine 2021 risulterà in carica per più di 13 anni, tutte difficilmente percorribili. Spadafora vorrebbe andare in Consiglio dei ministri prima della pausa estiva, i parlamentari puntano a rimandare, qualcuno ipotizza un eccesso di delega. La riforma non è ancora certa. Il ventennio di Malagò sì.