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Liti temerarie: solidali col Fatto, ma serve legge

Leggo che un lettore propone di aprire una raccolta fondi per sostenere il Fatto e il direttore Travaglio durante gli eventuali processi motivati dalle querele pretestuose dell’Innominabile. Pur comprendendo le motivazioni del gesto da parte del lettore, e ove occorra allineandomi nel sostegno a Travaglio e al Fatto, io credo che sia ora di porre fine a questo andazzo e ai pretesti che molti politici utilizzano per tappare la bocca ai giornalisti scomodi. La mia proposta è una raccolta di firme per arginare il fenomeno delle liti temerarie: in questo modo i querelanti seriali si darebbero una buona calmata e anche i tribunali civili verrebbero alleggeriti di gran parte del lavoro.

Tiziana Gubbiotti

 

Il Parlamento discuta seriamente sul fine vita

Lunedì la Corte d’Assise di Massa Carrara ha assolto Marco Cappato e Mina Welby, imputati del reato di istigazione e aiuto nel suicidio di Davide Trentini. In Parlamento, diversi politici della maggioranza si stanno adoperando per discutere un testo unificato sul suicidio assistito e sull’eutanasia. Del resto, sollecitazioni sono giunte già, due anni fa, dalla Corte costituzionale. La dialettica politica su una dirimente e delicatissima tematica eticamente sensibile non dovrebbe spaventare più di tanto, a condizione che sia condotta nel rispetto reciproco.

Marcello Buttazzo

 

Quanti pasticci e fretta per tornare a scuola

Sulla scuola si rischia grosso. Con un virus ancora aggressivo, sarebbe stato utile non combinare pasticci all’italiana in fretta e furia. La mia proposta in istituto superiore e con il sindaco della mia città è stata quella di continuare fino a gennaio con la didattica a distanza, per medie e superiori, e distribuire gli spazi lasciati liberi da questi istituti alle elementari e altre scuole di grado inferiore, che hanno maggiore esigenza di relazioni in presenza. Ma niente da fare. Bisognava dimostrare un improbabile ritorno alla normalità. Di quale normalità non si comprende: con ingressi, uscite, ricreazioni contingentate, classi divise a frequenza settimanale alternata in presenza, protocolli di igiene serrati, percorsi obbligati, segnaletiche, addirittura mini-banchi singoli a rotelle, adatti agli appunti di una conferenza, non certo a ore di lezioni. Quale normalità con queste limitazioni? Semmai ulteriori fonti di ansia per tutti, docenti anziani a rischio salute e sanzioni; ansia per le famiglie preoccupate per i figli; ansia per eventuali nuovi focolai. Serviva una politica di cauto attendismo, non di frettolose, tardive e pasticciate soluzioni logistiche, spacciate per efficienza.

Prof. Livio Braida, Itc Antonio Zanon, Udine

 

DIRITTO DI REPLICA

A causa di numerose e gravi falsità riportate, le Gallerie degli Uffizi smentiscono categoricamente, a partire dal titolo offensivo e dalla foto scorretta, i contenuti dell’articolo “Belli gli Uffizi, ci si ammucchia”, pubblicato a firma di Luca Ricci sul Fatto Quotidiano di ieri. È totalmente infondata l’affermazione secondo cui all’ingresso “nessuno si degna di misurare la febbre”: come riportato in tutti i comunicati stampa pubblicati dal museo a proposito delle misure anti-Covid adottate, i termoscanner all’accesso sono fotocellule non immediatamente visibili al visitatore. Sarebbe stata sufficiente una piccola verifica per evitare di scrivere questo sfondone. È totalmente infondata anche l’asserzione “agli Uffizi ci si ammucchia”, tesi centrale del pezzo, così come destituita di ogni fondamento, oltre che insultante nei confronti del personale, è pure la frase sui custodi “che non controllano alcunché”: in Galleria non ci si ammucchia affatto – provare per credere – proprio perché i custodi sono sempre pronti a intervenire al minimo accenno di assembramenti non consentiti da parte dei visitatori. Se proprio si intendesse sostenere il contrario, occorrerebbe esibire idonea documentazione video-fotografica: al contrario, a corredo dell’articolo, viene usata in modo scientemente distorto e fuorviante una foto di repertorio scattata a museo chiuso, la mattina del 3 giugno scorso, prima dell’apertura al pubblico.

Tommaso Galligani, ufficio stampa Gallerie degli Uffizi

 

Cari Uffizi, maestri di bellezza, il termoscanner lo davo per scontato ma in genere è utilizzato negli aeroporti e nelle stazioni, dove il flusso di persone è costante e bisogna misurare un tanto al chilo (sì, lo so, c’è il riconoscimento facciale, ma può scappare qualcuno): avrei preferito una misurazione ad personam, certamente più accurata. Per quanto riguarda gli assembramenti, non essendoci nessuna parcellizzazione dello spazio nelle sale è chiaro, perfino ovvio, che la gente si ammucchi e schiacci sulle opere. La gente si muove liberamente all’interno del museo, e mi pare sia inutile scaglionare e contingentare all’ingresso se poi non si scagliona e contingenta anche sopra. Quanto ai guardiani, massimo rispetto per loro, non è mai colpa del singolo ma della situazione che si è costretti a gestire. Fotodocumentare poi perché? Non era mia intenzione, perché volevo solo farmi un giro nel museo più bello del mondo, attratto dalla vostra comunicazione social. Viva la bellezza, sempre.

Luca Ricci

Chi subisce una censura va difeso, a prescindere dal suo conto in banca

Siccome Bocelli “non ha conosciuto nessuno andato in terapia intensiva e dopo i maxi festeggiamenti per la Coppa Italia a Napoli non è successo niente” il Covid-19 non può essere così grave. In breve, la mia visione soggettiva è la realtà oggettiva. Se io non lo vedo, non c’è. (E. Ambrosi, FQ, 30 luglio)

A proposito: come fa Bocelli a cantare, se è sordo?

Censure e no. Rai Cinema ha tolto il proprio logo dal film di Franco Maresco La mafia non è più quella di una volta, per via di “elementi non condivisi che seminavano dubbi e illazioni potenzialmente offensivi nei confronti del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella’’. L’avvocato di Maresco, Ingroia, in una conferenza stampa denuncia l’intervento “tecnicamente censorio’’. Se adesso la Rai non manderà in onda il film, Maresco si dice pronto all’azione legale. Maresco: “Non c’è più la libertà intellettuale di Angelo Guglielmi, so che non lavorerò più con la Rai”. Nel 2006, durante la conferenza-stampa per un nuovo programma su La7, Maresco disse: “Dal punto di vista mediatico, hanno presentato Santoro o Guzzanti, persone benestanti con un potere visibile che corrono pochi rischi, come se fossero dei martiri. Siccome abbiamo un presidente del Consiglio un po’ limitato, sono diventati ‘eroi della censura’ e ‘martiri della persecuzione’, senza avere né la vocazione né la sostanza degli eroi”. Come se chi subisce una censura non andasse difeso sempre, indipendentemente dal suo conto in banca, perché difendendo la vittima si difende la libertà di espressione di tutti, anche la tua, e il diritto di tutti di godere liberamente della libera espressione altrui. L’articolo del 2006 di Repubblica contiene un altro paragrafo che, col senno di poi, è particolarmente gustoso, alla luce del discorso sulla censura: “Non credo che ‘Viva Zapatero!’ dovesse uscire al cinema. Quello non è cinema,” aggiunge Daniele Ciprì. “È un modo per approfittare del momento e fare un po’ di soldi, credo non ne abbia neanche fatti tanti”. “Magari sarà anche un film divertente”, aggiunge Maresco, “ma credo ci sia una sopravvalutazione intorno a qualcosa che andrebbe ridimensionato”. Tre note a margine: 1) Accusare altri di “voler fare soldi” è sempre ipocrita, se non si passa il tempo a regalare banconote ai passanti; 2) Se il successo commerciale misurasse la qualità, i McDonald’s sarebbero ristoranti stellati. 3) Se un concorrente viene ridimensionato, non diventi più bravo tu. Maresco, comunque, è bravissimo. Sa fare tutto: soggetto, sceneggiatura, regia, montaggio, colonna sonora. In questo ha fatto perfino i buchi ai lati della pellicola. Piuttosto: che ne è del grande cinema italiano di serie B? Dove sono oggi i Lucio Fulci, i Mario Bava, i Bernardo Bertolucci?

A un certo punto, alla presidente del Senato è sfuggita pure una bestemmia: “Siete qua come pupazzi o volete parlare, per Dio!” (I. Proietti, FQ, 20 giugno)

Va bene tutto, ma da quando “per Dio” è una bestemmia? È una semplice imprecazione, come “per Giove!” o “Per Bacco!” Una bestemmia è “p**** d**!”, e se l’avete decifrata andate subito a confessarvi, perché significa che siete maliziosi: io intendevo “porco due!”, la classica “bestemmia aggirata” della nostra infanzia. Ne ricordate altre? Scrivetemele (lettere@ilfattoquotidiano.it). Comincerei con “Dio svizzero!”, una delle più assurde. Attendo fiducioso, mangiandomi le unghie come un papà in attesa del suo primo bebè.

 

Nudi e costretti a mangiare con le mani “Quello ha le sembianze di Cucchi”

“Che poi quello che mi ricordo l’anno scorso, quando c’erano gli altri colleghi che sono stati trasferiti, sai a Zelig? Quando quello diceva: vatti a fare 5 minuti di vergogna, quando si metteva nell’angolo 5 minuti”. Non erano comiche quelle che andavano di scena al terzo piano del blocco C del carcere di Torino. Ma una sorta di tragedia, quasi ordinaria, se si leggono le parole di denuncia inviate da un professore che insegna dentro alle Vallette agli inquirenti: “Il blocco C è il girone infernale. Gli schiaffi allegri non sono finiti. Più di un detenuto italiano di mezza età e con alti livelli di istruzione mi riferiscono tra le lacrime che lì si perde la dignità”.

La testimonianza dell’insegnante compare nelle 5800 pagine di atti dell’indagine sulle presunte torture messe in atto da 21 agenti, svolta dal Nucleo investigativo della polizia penitenziaria e coordinata dall’aggiunto Enrica Gabetta e Francesco Saverio Pelosi. Ex direttore ed ex comandate della penitenziaria delle Vallette sono indagati per favoreggiamento, altri due sindacalisti per aver rivelato segreti d’ufficio. In totale sono 25 le persone coinvolte – difese dagli avvocati Luca Bruno, Enrico Calabrese e Loredana Gemelli – e almeno 10 le parti lese. Dalle intercettazioni registrate negli ultimi due anni si comprende come, per alcuni poliziotti, si trattasse soltanto di un “gioco”. Per la Procura invece quegli agenti avrebbero commesso violenze e sevizie in maniera continuata e costante: ecco perché viene contestata la tortura. Diceva un agente alla fidanzata: “E niente, mo’ ce ne rientriamo, andiamo a dare i cambi che oggi mi sto divertendo?”. Rispondeva lei: “Ah sì? A menà?”. La replica: “No, oggi stile Israele anni 40”. C’è anche un altro aspetto inquietante: i trattamenti sanitari obbligatori. Un giovane carcerato, che frequenta con profitto il secondo anno di liceo, viene obbligato a fare un Tso. Per raggiungere l’ambulanza che lo aspetta fuori dal Lorusso e Cutugno, gli agenti lo avrebbero obbligato a percorrere, a piedi nudi, in mutande e con un bavaglio in bocca, l’intera sezione. Una scena che, scrivono gli inquirenti, lasciò le insegnanti che assistettero “molto turbate”. Fuori dall’ospedale Molinette, dove il ragazzo verrà portato, un’insegnante sentirà dire da un agente: “Se fosse per me l’avrei sciolto in un bidone di acido”.

La notte tra il 24 e il 25 dicembre un altro detenuto viene sgridato perché il lenzuolo è sistemato male. Un agente “ubriaco” lo sbatte contro la porta e lo prende a pugni in un occhio. Nessuno porta il ferito in infermeria. Scrive la Procura: “Più persone assistono al fatto e nonostante i numerosi tentativi di farsi accompagnare in infermeria, soltanto dopo tre ore verrà portato dal medico”. La vittima denuncia. Pochi giorni dopo qualcuno darà fuoco alla sua cella. La punizione che invece avrebbero inflitto alcuni poliziotti a un anarchico di 24 anni appena arrivato in cella, che aveva imbrattato il muro con una scritta, sarebbe stata quella di privarlo della forchetta. In un clima nero, dove le violenze sarebbero state quasi all’ordine del giorno – con 166 “incidenti” avvenuti tra il primo gennaio e il 2 ottobre 2018, molti dei quali etichettati come “cadute dalle scale” – tra i detenuti delle Vallette qualcuno si salvava grazie alla solidarietà. Nel caso di un uomo che sarebbe stato picchiato più volte dagli agenti, fu il compagno di cella medico a rendersi conto della gravità del caso e a denunciare, dopo aver visto i lividi sulla sua schiena. Restano poi una serie di misteri. Come il giovane ricoverato in coma in ospedale il 12 dicembre 2019, entrato alle Vallette quando pesava 80 chili. Dopo pochi mesi ne aveva persi 30. La Garante dei detenuti lo scorso dicembre scriveva: “Il giovane racconta degli svenimenti e si presenta in sedia a rotelle. Riferisce di non riuscire a ingoiare più nulla. Ha le labbra completamente aride e di colore scuro. Fatica a esprimersi per l’assunzione massiccia di Valium. Ha le stesse sembianze di Stefano Cucchi”. E, prima del coma, il 4 dicembre, la garante aveva addirittura chiesto “un intervento urgente esprimendo timore per un imminente evento critico”.

Roma, lo schiaffo del poliziotto. La questura: “Indagine interna”

Prima i carabinieri di Piacenza, poi due episodi emersi a Roma che riguardano agenti di polizia. Non sono tempi sereni per le forze dell’ordine, con i vertici alle prese con le indagini ispettive interne. La questura ne ha aperta una dopo l’articolo di ieri del Fatto su un video che mostra un poliziotto colpire un uomo di 39 anni durante una perquisizione. “Sono state promosse attività ispettive interne volte a ricostruire l’esatta dinamica e accertare le eventuali responsabilità connesse”, scrive la questura in una nota, sottolineando la propria “volontà di fare piena luce sulla dinamica” del fatto. Nei prossimi giorni sarà inviata ai pm di Roma un’informativa. Sul caso ieri è intervenuto anche il Dipartimento di Pubblica sicurezza: in un comunicato ha sottolineato “la piena e convinta fiducia nell’attività intrapresa dal questore finalizzata ad accertare le responsabilità degli operatori che, qualora fossero confermate, determinerebbero severe sanzioni per gli autori”.

Per capire bene la vicenda, però, bisogna fare un passo indietro e tornare al 13 aprile scorso. Sono le 2 di notte quando, in pieno lockdown, Emanuele, 39 anni, romano, viene fermato da alcuni agenti di polizia che gli trovano alcune bustine di sostanza che definiscono metanfetamina. Si decide dunque per la perquisizione in casa. Tutto viene ripreso dalle telecamere presenti nell’appartamento. Compreso lo schiaffo da parte di un poliziotto che però è fuori dalla visuale della telecamera. Si sente l’agente chiedere: “Questo è shaboo?”, cioè la droga usata soprattutto dai filippini. Emanuele tergiversa. Viene colpito in pieno volto e cade a terra. Non ci sono lesioni refertate. Dopo la perquisizione Emanuele viene portato in commissariato. Secondo il verbale, sarebbero stati sequestrati 48 grammi di metanfetamina, circostanza che la difesa di Emanuele smentisce sostenendo che si tratti invece di una sostanza legale, acquistata online. Il processo è ancora in corso. Per tre volte l’avvocato del 39enne ha fatto ricorso al Tribunale del Riesame, sempre rigettato, dove però ha depositato anche i video: materiale che il 27 aprile i giudici trasmettono in procura. Non risulta che l’agente dello schiaffo sia stato ancora identificato. La difesa di Emanuele sottolinea anche altro: la falsità, si sostiene, di alcune circostanze riportate nel verbale di perquisizione del 13 aprile. Come il numero di agenti presenti (sono quattro quelli che verbalizzano, manca una donna che si vede nei video).

Ieri la questura ha avviato un’indagine interna anche su un’altra vicenda, quella rivelata da Leggo e che riguarda un 23enne, il quale ha raccontato di esser stato vittima di un pestaggio da parte di un poliziotto in borghese dopo un lite in strada in viale Marconi. Il ragazzo, dopo essere stato trasportato in ospedale, si è rivolto ai carabinieri e ha sporto denuncia.

Il virus si prende il centro rifugiati Veneto: 200 casi

Nessuno potrà entrare e nessuno potrà uscire. Sono tutti in isolamento per 15 giorni gli operatori e gli ospiti dell’ex caserma Serena di Casier (Treviso), centro di accoglienza per richiedenti asilo gestito dalla cooperativa Nova Facility (la stessa che si occupa dell’hotspot di Lampedusa) trasformatosi in un maxi focolaio Covid. L’Ulss trevigiana, al termine di uno screening di massa concluso in 24 ore, ha trovato 133 positivi su 315 tamponi eseguiti. L’indagine epidemiologica è partita dopo che un ospite aveva accusato sintomi influenzali: il tampone positivo e gli accertamenti sui contatti più stretti, anch’essi risultati infetti, hanno fatto sospettare la presenza di un focolaio. La verifica è terminata in tempi rapidi grazie alla collaborazione tra azienda sanitaria, prefettura, polizia e Cmuni di Treviso e Casier, riuscendo a circoscrivere il cluster, mentre è ancora in corso un’indagine sui contatti esterni di alcuni ospiti che lavorano fuori dalla struttura per escludere altre catene di contagio. È il focolaio più consistente dalla fine del lockdown.

Il caso mostra quanto sia facile per il nuovo Coronavirus diffondersi all’interno dei centri di accoglienza, dove spesso non vengono rispettate le misure di prevenzione. Anche in centri considerati modello come quello della coop trevigiana Nova Facility, presieduta dal 36enne Gian Lorenzo Marinese (fratello del presidente della Confindustria veneziana, Vincenzo Marinese), importante realtà dell’accoglienza in Veneto e non solo. Nova Facility si era aggiudicata l’appalto per la gestione del maxi centro di accoglienza di Cona, nel Veneziano, al posto della Edeco, travolta da scandali, rivolte di migranti e inchieste giudiziarie sulla malagestione in seguito alla morte della giovane richiedente asilo ivoriana Sandrine Bakayoko il 2 gennaio 2017. Marinese si è sempre presentato come un imprenditore attento alla dignità dei migranti, dichiarando di non voler gestire “centri di accoglienza al massimo ribasso”.

Il virus era già entrato nell’ex caserma Serena a metà giugno, quando un operatore addetto alla raccolta dei rifiuti rientrato dal Pakistan aveva manifestato sintomi influenzali e febbre a 38°. Era emerso che l’uomo, tornato in Italia a maggio dopo una permanenza forzata in Pakistan a causa del lockdown, avrebbe nascosto per giorni i sintomi iniziali del Covid assumendo antipiretici. Lo screening di massa effettuato a giugno aveva trovato un solo ospite positivo su 329 tamponi effettuati a migranti e operatori, risultati tutti negativi, e il dipendente pachistano era stato anche denunciato dalla cooperativa. Nonostante le misure prese il virus è tornato a diffondersi. Scatenando le ire del sindaco leghista di Treviso, Mario Conte, che ora chiede la chiusura del centro: “Questo focolaio genera un danno incalcolabile al nostro territorio”.

Il cluster trevigiano fa salire i dati del Veneto, che ieri sera contava 200 nuovi casi, un dato molto simile alla media giornaliera nazionale delle ultime settimane. In tutta Italia i numeri raddoppiano, ieri il bollettino quotidiano delle 18 contava 386 nuovi contagi notificati, ma evidentemente sono di più perché per il Veneto ce ne sono solo 112. Preoccupa la situazione dei centri di accoglienza in Sicilia, specie a Porto Empedocle, messi a dura prova dagli sbarchi in aumento anche se, per il momento, non si sono registrati focolai delle dimensioni di quello dell’ex caserma Serena. Ancora tentativi di fuga dalla quarantena, ieri a Cori (Latina).

I contagi risalgono del 23% Il Cts: “La curva preoccupa”

Una fiammata. Neanche tanto improvvisa. Una risalita dei casi che mostra plasticamente la realtà dei fatti: in Italia il SarsCov2 continua a circolare. Ieri il ministero della Salute ha registrato 386 nuovi contagi, in netto aumento rispetto ai 289 di mercoledì, a fronte di 61.858 tamponi effettuati (oltre 5 mila più di mercoledì). Una risalita in gran parte attribuibile ai dati che arrivano dal Veneto: 200 i casi comunicati ieri dalla Regione, sui quali influisce il cluster emerso tra i migranti del Centro di accoglienza situato nell’ex Caserma Serena di Casier, alle porte di Treviso con 133 tamponi positivi sui 315 effettuati (a fianco l’articolo di Andrea Tornago). Il ministero ne ha contati solo 112in Veneto, quindi il totale è almeno 474. A Casier c’è l’ultimo degli oltre 650 focolai attivi nel Paese, cresciuti negli ultimi tempi al ritmo di 100 alla settimana. È un trend in crescita in tutto il Paese, che risale oltre l’orizzonte delle ultime 24 ore.

Tra il 22 e il 28 luglio, ha comunicato ieri la Fondazione Gimbe, c’è stato un netto aumento dei nuovi casi: sono stati 1.736 contro i 1.408 dei 7 giorni precedenti (+23,3%). Solo in 6 Regioni, secondo l’osservatorio indipendente, il dato è in calo (Friuli Venezia-Giulia, Umbria, Provincia di Bolzano, Calabria, Liguria e Veneto), mentre cresce nelle restanti 15: in testa Emilia-Romagna (+70), Provincia di Trento (+65) e Campania (+56). Una risalita registrata anche in Lombardia, secondo il monitoraggio del consigliere regionale del Pd Samuele Astuti: nella settimana tra il 24 e il 30 luglio i nuovi contagi sono stati 427 contro i 399 dei 7 giorni precedenti. A pesare, osserva secondo Nino Cartabellotta di Gimbe, sono i messaggi contrastanti che arrivano da politica e istituzioni: “Da un lato negazionismo, minimizzazioni del fenomeno e deplorevoli comportamenti individuali, dall’altro la proroga dello stato di emergenza nazionale”, ha commentato il presidente della Fondazione. Che sottolinea anche un altro dato: il trend dei pazienti che finiscono in ospedali con i sintomi del Covid-19, in costante discesa da inizio aprile, ha fatto registrare un’inversione di tendenza (come già indicato martedì sul Fatto dal virologo Andrea Crisanti): 17 ricoveri in più (+2,3%).

I numeri “destano preoccupazione e richiedono la massima attenzione da parte di tutti”, fanno sapere dal Comitato tecnico scientifico che assiste il governo nel contrasto all’epidemia. Il sistema sanitario e il meccanismo creato per individuare i nuovi focolai “stanno funzionando bene e per il momento non ci sono criticità”, ma “il trend dei contagi è in crescita ed esiste il rischio che la situazione possa sfuggire di mano come avvenuto già in altri Paesi europei ed extraeuropei”.

A preoccupare, ha spiegato il ministro della Salute Roberto Speranza in Senato, è la situazione “nei Balcani, ma ci sono segnali non positivi che vengono anche da Paesi europei come la Francia, la Germania, la Spagna”. Ieri Madrid ha registrato altri 1.153 nuovi casi, il dato più alto dal primo maggio e l’aumento è concentrato in tre regioni: l’Aragona (424), la Catalogna (211) e quella della capitale (199). Una situazione tornata difficile e dettata dal fatto che il governo spagnolo, come quelli di altri Stati “hanno allentato la guardia”, ha spiegato Walter Ricciardi, consigliere del ministero e docente alla Cattolica.

“I focolai si sono modificati”, ha spiegato Francesco Vaia, direttore sanitario dello Spallanzani di Roma. Se prima erano concentrati tra gli “anziani e in Rsa, oggi abbiamo cittadini da Paesi non Schengen, penso alla comunità del Bangladesh 15 giorni fa e oggi ai Paesi dei Balcani e dell’Est, a bulgari e rumeni”. Per questo l’attenzione di Lungotevere Ripa è puntata sui flussi in entrata. L’Italia classifica i Paesi di provenienza in quattro categorie. Nella prima ci sono gli Stati dell’area Schengen (l’Ue, con Svizzera, Islanda e Norvegia) i cui cittadini possono circolare ma dai quali dal 24 luglio sono esclusi Bulgaria e Romania (che ieri ha registrato un nuovo record di 1.356 casi). Gli arrivi dagli Stati extra Ue è consentita per motivi di salute o lavoro ma per questi c’è l’obbligo di quarantena e solo per 12 nazioni è previsto il libero ingresso: Georgia, Canada, Uruguay, Thailandia, Corea del Sud, Giappone, Australia, Nuova Zelanda, Algeria, Tunisia, Marocco e Ruanda. Nell’ultima lista ci sono i 16 Paesi da cui sono vietati gli arrivi: Armenia, Bahrein, Bangladesh, Brasile, Bosnia, Cile, Kuwait, Macedonia del Nord, Moldova, Oman, Panama, Perù, Repubblica Dominicana, Serbia, Montenegro e Kosovo.

Il pugile suonato teme il sorpasso di Meloni (e Zaia)

“La vicenda Fontana? Rischia di farci perdere altri 2 punti nei sondaggi…”. Così una fonte leghista racconta il clima nel partito di Matteo Salvini. Dove, da diverse settimane, è scattato l’allarme rosso. Il calo di sondaggi, infatti, sembra inarrestabile. A preoccupare è soprattutto l’ascesa arrembante di Giorgia Meloni, che ormai si è messa in scia del Capitano. Pronta a mettere la freccia e via: sorpasso. “Se succede prima delle Regionali, è la fine…”, si dice in via Bellerio. I numeri, del resto, sono implacabili. Sabato scorso Nando Pagnoncelli sul Corriere ha fotografato il Carroccio al 23,1%, contro il 34,3 delle Europee del 2019 e il 35,9 del luglio di un anno fa. Fdi, invece, è passata dal 6,5% delle Europee al 18%. A soli 5 punti dagli ex lumbard. Significativi anche quelli di Youtrend, che fa la media di tutti sondaggi: la Lega per la prima volta dal 2018 è data sotto il 25, ovvero al 24,8%. Il salto all’indietro più grosso per Salvini è stato tra marzo e aprile, in pieno lockdown, proprio quando cresceva la popolarità di Giuseppe Conte. Segno che la strategia politica della Lega sull’emergenza Covid non ha funzionato. A terrorizzare Salvini, dicono, è l’effetto-Renzi: perdere tutto in pochi mesi, com’è accaduto al leader di Italia Viva.

Che fare, dunque? Nel Carroccio le idee sembrano poche e confuse, anche perché nel frattempo impazza il caso Fontana. I consiglieri forzisti e meloniani in Regione Lombardia da giorni si mordono la lingua. Ma pure nel Carroccio s’impreca a denti stretti. “Io ti difendo fino alla morte, ma tu evita di fare altre cazzate…”, avrebbe detto lo stesso Salvini al governatore in una rovente telefonata nei giorni scorsi. Il problema è soprattutto d’immagine. “Con questa storia rischiamo di vanificare anni di buon governo in regione”, si lascia andare un consigliere del Carroccio, che forse rimpiange Bobo Maroni.

Ma a turbare la serenità del leader leghista è pure l’inchiesta sui tre commercialisti vicini al partito indagati per peculato. Il nome di Salvini e della Lega nelle carte dell’indagine sulla Film commission non ci sono, ci sono però quello di tre noti professionisti (Alberto Di Rubba, Andrea Manzoni e Michele Scillieri) che lavorano o hanno lavorato per il Carroccio e i cui nomi figuravano anche nell’inchiesta sui 49 milioni. oltre al prossimo processo su Open Arms, quindi, molti altri problemi non di poco conto, visto che tra poco più di un mese e mezzo si vota per le Regionali. In queste settimane nel Carroccio ci si è resi conto che la candidata in Toscana, Susanna Ceccardi, è debole, almeno quanto lo era Lucia Borgonzoni in Emilia. E questo spaventa in chiave tutta interna al centrodestra: se Raffaele Fitto in Puglia o Francesco Acquaroli nelle Marche dovessero farcela, e la Ceccardi no, sarebbe un’altra stoccata, forse decisiva, da parte della Meloni. Con Luca Zaia che in Veneto, invece, sta cercando di dirottare alcuni dei suoi dalla sua lista civica a quella della Lega, per non far sfigurare troppo il partito. Qui, infatti, c’è la coda di dirigenti leghisti per entrare nella lista Zaia, data tra il 38 e il 40%, con la Lega ferma al 15%. Il governatore, intanto, ieri ha attaccato i negazionisti a cui il suo segretario ha fatto l’occhiolino in Senato. “Qui abbiamo visto gente morire e senza lockdown avremmo avuto 2 milioni di veneti infettati e terapie intensive al collasso”.

Ma cattive notizie arrivano pure dal Sud. A Sorrento, il sindaco Giuseppe Cuomo, autentica macchina da voti, passato alla Lega in novembre, ha scelto di non candidarsi in Regione nonostante il pressing del Capitano, che sta cercando di risollevare i numeri del Carroccio in Campania. Salvini è già sceso due volte in costiera per convincerlo, senza successo.

L’ultima Di SalvinI: il processo “politico”

“Ma sì, mandatemi a processo. Mi fate un favore ché l’unico tribunale è quello del popolo”. Matteo Salvini fa di necessità virtù. Quando è ormai chiaro che il pallottoliere gli è contro e lo condanna ad affrontare le accuse dei magistrati di Palermo per la gestione a bordo dei migranti della Nave Open Arms, va al contrattacco. Tentando almeno di capitalizzare un po’ di consenso attorno al processo per sequestro di persona e non solo, che sulla carta potrebbe costargli 15 anni. Anche per via del coinvolgimento di minori, trattenuti pure loro per giorni a bordo prima dello sbarco, in quei giorni roventi dell’agosto del 2019.

“Grazie a tutti coloro che mi manderanno a processo, perché mi fate un gran regalo e io in quel tribunale ci vado a testa alta”, dice prima che l’aula di Palazzo Madama emetta la sentenza che dà il via libera al processo: con lui si schiera l’intero centrodestra che grida al processo politico trovando man forte pure da altri che siedono in altri banchi. Come l’eterno Pier Ferdinando Casini che parla di uso improprio della magistratura. O Riccardo Nencini del Psi che accusa la sua maggioranza (che lo ha appena fatto eleggere presidente della Commissione Cultura), di essere giustizialista e giacobina nei confronti di Salvini. Nonostante questi alti lai, i voti per garantire l’impunità al segretario del Carroccio si fermano però a 141 quando ne servirebbero almeno 160. Dicono invece sì al processo Pd, LeU, M5S e anche Italia Viva. Che ha sciolto la riserva all’ultimo istante, con la scusa di volere leggere le carte inviate da Palermo. Per poter decidere nel merito e scansare l’accusa di esser complice di un processo politico a carico del leader leghista.

In realtà i renziani la pratica Open Arms la conoscono al centimetro da tempo: prima che arrivasse in aula, infatti, è stata per mesi all’esame della Giunta per le autorizzazioni a procedere che l’ha licenziata nel maggio scorso. Quando alla fine era stata approvata la relazione dell’azzurro Maurizio Gasparri, che chiedeva di dire no al processo a Salvini, anche grazie alla posizione assunta dai tre senatori di Italia Viva. Che dopo aver letto tutte le carte e visto pure il dossier fotografico a esse allegato dai magistrati (una serie di immagini dei migranti ammassati per giorni sullo scafo sotto il solleone agostano in condizioni al limite dell’umano) avevano deciso di astenersi “in mancanza degli elementi istruttori richiesti” perché “numerosi sono dunque i dubbi che ancora oggi residuano in riferimento al caso Open Arms”. La cosa aveva fatto ben sperare il leghista, che peraltro ha già sul groppone le imputazioni a Catania per il caso della Nave Gregoretti.

Forse per questo quando Renzi ieri mattina ha preso la parola in aula per dire sì al processo a Salvini, che come ministro dell’Interno avrebbe agito non per tutelare un interesse pubblico, ma per “aumentare i follower su Facebook”, al Capitano è andato il sangue agli occhi. E lo ha apostrofato così: “È triste vedere il senatore Renzi passare dall’avere come modello De Gasperi a comportarsi come uno Scilipoti qualunque, ma ognuno sceglie il destino che lo aspetta”, ha detto alludendo ai calcoli politici dell’altro Matteo mascherati con parole degne delle “supercazzole di Amici miei, che sono più seri di qualche senatore presente in questa Assemblea”. Ma Renzi non è stato l’unico bersaglio dell’arringa salviniana. Con un certo gusto sadico, ha infierito pure su Pietro Grasso che poco prima, nel suo intervento in aula, aveva messo in fila tutti gli elementi in punto di diritto che rendono inevitabile il processo per Salvini: la situazione di eccezionale gravità e urgenza a bordo della Open Arms che da sola giustificava l’ingresso dell’imbarcazione nelle acque territoriali italiane; il mancato accordo degli altri ministri e del presidente del Consiglio rispetto alla sua gestione del caso che coinvolgeva anche diversi minori. Inchiodando l’allora titolare del Viminale anche dalla modifica delle norme che aveva preteso in materia di soccorso in mare, quando aveva avocato a sé la responsabilità per l’indicazione del “porto sicuro” (o place of safety, Pos).

“Quindi, nessuna collegialità, ma l’azione solitaria del ministro che ha trasformato un atto dovuto (come lo sbarco dei minori), previsto dalle Convenzioni internazionali, in uno strumento – anche questo – di contrasto all’immigrazione” è stata la ricostruzione dell’ex magistrato. Vittima a quel punto del dileggio salviniano: “Quanto successo, è agli atti, mancato presidente Grasso”, ha infierito Salvini alludendo alla sua sfumata elezione al vertice della Commissione Giustizia poco prima di ricordare che tornerà a casa dai suoi figli a testa alta per aver fatto l’interesse nazionale contro i “tifosi dei porti aperti che hanno le mani sporche di sangue”. Il che ha fatto scattare Anna Rossomando del Pd: “Ma di quale ragion di Stato parla? E di quali rosari vaneggia? Su Open Arms, un’imbarcazione con due bagni alla turca omologata per 19 persone, erano stipati 150 esseri umani. Bambini e adulti inermi come una donna gravemente ustionata e un uomo con una pallottola in un piede. Altro che lotta agli scafisti”.

Fontana, le chat e i camici. La verità sulla finta donazione

Dal contratto di vendita con Aria, la centrale acquisiti della Regione Lombardia, alla tentata donazione per evitare il conflitto d’interessi e tutelare l’immagine dell’illustre cognato nonché governatore lombardo, Attilio Fontana. Sta tutta in questo brusco testa coda la vicenda che vede coinvolto Andrea Dini, patron della Dama Spa nonché fratello della moglie di Fontana. Un inciampo sul quale la Procura di Milano ora spinge sull’acceleratore per arrivare in tempi brevissimi alla chiusura delle indagini. Quattro al momento gli indagati che rischiano il processo. Tra questi i due cognati, Dini e Fontana, e il direttore generale di Aria, Filippo Bongiovanni. Tutti, a vario titolo, accusati di turbata libertà nella scelta del contraente e frode in pubbliche forniture relativa alla mancata consegna di 75mila camici al costo di 513mila euro.

La testimone: “Dini mente, camuffano la vicenda”

Questo il bandolo che si tira dietro un filo ancora tutto da seguire e che, al momento senza rilevanza penale, riguarda il conto svizzero di Fontana emerso dopo uno scudo fiscale e precedentemente nascosto dietro a due trust nel paradiso off-shore delle Bahamas gestiti da una fondazione con sede nel Liechtenstein, il tutto riferito alla defunta madre del politico leghista. Tra bonifici esteri, eredità scudate, email, chat e verbali d’interrogatori ecco come si è sviluppato il camicegate che rischia di mandare a giudizio il presidente della regione più colpita dal Covid. E l’emergenza pandemica è proprio il volano che dà vita a tutta la vicenda. Ripartiamo allora dal verbale di Emanuela Crivellaro presidente della onlus varesina “Il ponte del sorriso” e testimone chiave della vicenda. La donna (non indagata), già in contatto con la famiglia Dini, viene sentita a sommarie informazioni il 18 giugno, epoca in cui lo scandalo è stato in parte raccontato dai giornali. L’atto è trascritto nel decreto di perquisizione del 28 luglio con il quale la Procura ha sequestrato i 26mila camici mancanti. “Il 9 aprile Dini mi disse che era in trattativa con la Regione. Io cercavo altri camici, ma lui mi ha detto che doveva venderli alla Regione, aggiungendo che il contratto era in esclusiva. Ho perfettamente capito che si trattava di una vendita”. Il 16 aprile Aria accetterà l’offerta di Dama. Di donazione manco l’ombra. Il 7 giugno Il Fatto anticipa i contenuti del servizio di Report sui camici e riporta la spiegazione di Dini, ovvero che quella doveva essere fin dall’inizio una donazione ma che in azienda, dove lui era stato assente, avevano frainteso formalizzando l’offerta commerciale. In quel momento, spiega la donna ai pm, “ho capito che Dini stava mentendo sia in ordine al fatto che durante l’emergenza Covid non era in azienda e che fosse stato fatto tutto a sua insaputa, sia che si trattasse di una donazione. Ho capito che stavano cercando di camuffare la vicenda come donazione, anche perché io sapevo che lui si era occupato di tutto: dalle certificazioni al contratto con la Regione”. Fontana che fa? Secondo la testimonianza dell’assessore all’Ambiente Raffaele Cattaneo, a capo della task force per recuperare i dispositivi di protezione, il governatore fu avvertito del rapporto commerciale tra Dama e Regione poco prima del 16 aprile e non il 12 maggio come spiegato dallo stesso presidente. Nulla succede fino al 13 maggio quando Report lo intervista. Sei giorni dopo, il 19 maggio, secondo i pm, Fontana chiede al cognato di recedere dal contratto e donare i camici. Vi è un problema di immagine da tutelare. Nelle stesse ore contatta la fiduciaria che gestisce il suo conto svizzero per operare un bonifico da 250mila euro a favore della Dama. Un vero e proprio risarcimento del danno economico subito dal cognato.

L’sms sui camici mancanti: “Li vendiamo a 9 euro”

E si arriva così al 20 maggio, data cruciale. Alle 8.58 Dini invia un messaggio a Emanuela Crivellaro proponendole di favorire a terzi la vendita di camici. Si legge: “Ciao, abbiamo ricevuto una bella partita di tessuto per camici. Li vendiamo a 9 euro e poi ogni 1000 venduti ne posso donare 100 al Ponte del Sorriso”. La donna risponde: “Ma grazie. Bellissimo”. Solo due ore dopo Dini formalizza con Aria il suggerimento ricevuto da Fontana il giorno prima. Invia così a Bongiovanni una email in cui si spiega come la fornitura diventerà una donazione e si concluderà con i camici già consegnati, e cioè 49mila. Gli altri 26mila, Dini, secondo la testimone, tenterà di venderli. Bongiovanni non obietta e ringrazia. Sul perché di un tale atteggiamento spiegherà ai pm: “In quel momento i camici non ci servivano più”. Ancora la Crivellaro a verbale: “Il 20 maggio Dini mi ha chiamato per spiegarmi che i camici non sarebbero stati 100 ogni 1000 da chiunque venduti, ma 100 solo se li avessi venduti io”. A quel punto la donna contatta due aziende sanitarie e la struttura “Le Terrazze” per informarli “della notizia”. Conclude: “Ho ricollegato il servizio di Report in cui si parlava di un prezzo di 6 euro a camice all’sms in cui (Dini, ndr) vendeva a 9 euro e faceva però il regalo dei 100 camici ogni mille, ho pensato che avesse necessità di venderli perché la fornitura in Regione si era interrotta forzatamente”. Il 22 maggio in Procura arriva la segnalazione dell’Antiriciclaggio sul bonifico che fa partire l’indagine. Nel frattempo la direzione di Aria entra in fibrillazione per capire come trasformare in donazione un contratto già in essere.

Bongiovanni e l’atto per far passare la donazione

Dal 22 maggio al 3 giugno sono continue le email interne ad Aria. Al carteggio partecipano in molti, dall’ufficio legale al dg Bongiovanni fino al presidente di Aria Spa, Francesco Ferri. Alla fine Bongiovanni firma una bozza di determina nella quale si recepisce il passaggio alla donazione. Bozza bocciata dall’ufficio legale di Aria il 5 giugno. Questa la vicenda che, nei piani della Procura, si avvia a una rapidissima conclusione perché, scrivono i magistrati, “la scansione cronologica dei fatti porta a ritenere che si sia trattato di un preordinato inadempimento per effetto di un accordo retrostante”.

Aspi, trattativa ferma sul prezzo “I Benetton ora perdono tempo”

La sensazione degli uomini che seguono il dossier è unanime: i Benetton, attraverso Atlantia, “stanno solo perdendo tempo” e non sembrano voler arrivare a un accordo per l’ingresso della pubblica Cassa depositi e prestiti nella controllata Autostrade per l’Italia, primo passo per l’uscita della famiglia dal concessionario. Era questo l’accordo col governo per chiudere il capitolo del disastro del Ponte Morandi di Genova.

Ieri è stata un’altra giornata, la seconda, di trattative infruttuose tra gli uomini di Atlantia e quelli di Cdp. La holding controllata dai Benetton ha cambiato idea tre volte in dieci giorni. L’ipotesi iniziale era che Cdp entrasse con un aumento di capitale riservato prendendo il controllo con altri investitori e poi Aspi venisse “scissa” da Atlantia e quotata. In questo modo il prezzo dell’ingresso di Cdp (e quindi il valore di Autostrade) sarebbe stato il frutto di una trattativa. Atlantia ha chiesto, per “motivi fiscali” di cambiare l’operazione, tanto più che i fondi azionisti hanno alzato le barricate. A quel punto Cdp ha mandato una bozza di accordo che prevede l’ingresso in Aspi e la sua quotazione quasi insieme, in modo che il prezzo lo faccia direttamente la Borsa (col rischio concreto che Atlantia, e quindi anche i Benetton, ne esca senza perdite a bilancio perfino con una plusvalenza). La holding però ha cambiato ancora le carte proponendo a Cdp di scindersi in due holding, di cui una avrà in pancia Autostrade. A quel punto Cdp dovrà pagare un “prezzo di controllo” per avere in mano Aspi direttamente sul mercato. Una proposta che farebbe la fortuna dei Benetton e che per via Goito è inaccettabile. “I Benetton stanno facendo melina”, racconta chi lavora al dossier. Altro punto di scontro è la manleva che Cdp vuole da Atlantia per evitare di rispondere del contenzioso giudiziario e degli eventuali effetti delle scarse manutenzioni. Oggi al ministero delle Infrastrutture inizia la trattativa sulla nuova concessione, da cui dipenderà il valore (e quindi il prezzo) di Aspi. Ma i Benetton lanciano segnali preoccupanti.