Reddito di emergenza, rischio beffa

Sarebbe la beffa finale, dopo i ritardi e le complicazioni che ne hanno segnato l’introduzione. Oggi scade il termine per presentare le domande del Reddito di emergenza, la misura decisa con il decreto “Rilancio” per soccorrere la vasta platea di chi era rimasto fuori dagli aiuti per fronteggiare l’emergenza Covid. Ieri il Forum Disuguaglianze e Diversità dell’ex ministro Fabrizio Barca e dall’Asvis di Enrico Giovannini hanno lanciato un appello al governo affinché proroghi la scadenza. Sono i due soggetti che – insieme a Cristiano Gori, docente di Politica sociale all’Università di Trento – ne avevano chiesto l’introduzione nel marzo scorso, poco dopo l’avvio del lockdown.

Il Rem per chi non è coperto da nessun altro sussidio – si va dai 400 euro per le persone sole fino a un massimo di 800 euro (dipende dai familiari a carico) – è arrivato in estremo ritardo a maggio inoltrato (due mesi dopo l’inizio dell’emergenza) e per soli due mesi (giugno e luglio): la platea stimata dal governo è di 870 mila nuclei familiari (2 milioni di persone), ma a fine giugno lo avevano ricevuto solo 518mila beneficiari. Da qui la richiesta di prorogare la scadenza, tanto più che il governo ha avviato una campagna informativa solo il 20 luglio, a dieci giorni dal termine. “Grazie a questo, nelle ultime settimane, un numero crescente di persone ha fatto richiesta della prestazione – spiegano le associazioni – per questo serve prorogare la scadenza al 15 settembre, così da consentire a chi ne è venuto a conoscenza più tardi di poter ricevere questo sostegno straordinario: i fondi sono già stati stanziati quindi non costerebbe nulla allo Stato”.

Il Rem ha avuto non poche difficoltà. La proposta di Barca e compagnia era di usare direttamente il Reddito di cittadinanza, eliminando buona parte dei vincoli all’accesso per una fase temporanea. Il governo ha invece scelto di introdurre un nuovo strumento, vincolato all’Isee. Una procedura più complessa che richiede almeno un mese dalla richiesta per ottenere il pagamento. Alla partenza, la mancata convenzione con i Caf ha chiuso quel canale per fare la domanda. Anche per questo la percentuale di domande rigettate è stata molto alta (intorno al 50%).

“Una proroga è assolutamente necessaria – spiega Cristiano Gori –. L’emergenza Covid non è affatto finita. Proprio perché si è partiti con molte complicazioni non è il momento di fermare uno strumento che si ricollega alle diverse esperienze internazionali, moltissimi Paesi hanno introdotto misure simili”. Per Gori non ha nessun senso fare oggi un bilancio della misura. “Ai cittadini non interessa, oggi serve che questo cerotto, pensato per la fase emergenziale, che non è finita, funzioni al meglio e arrivi rapidamente ai beneficiari. Poi, in autunno, si aprirà la discussione su come ripensare gli aiuti alla povertà nell’era del Covid”.

Presidente e dg di Anpal litigano pure alla Camera

L’ultimo round del lungo scontro interno ad Anpal, l’agenzia che ha il compito di coordinare le politiche per la ricollocazione dei disoccupati, è andato in scena ieri alla Camera. Sentiti dalla commissione Lavoro a distanza di pochi minuti l’uno dall’altra, il presidente Mimmo Parisi e la direttrice generale Paola Nicastro sono tornati a litigare: questa volta il problema è l’app “Restoincampo”, piattaforma che dovrebbe servire per creare posti di lavoro in agricoltura.

Lanciata a giugno, come ha spiegato Nicastro ai deputati, è costata circa 180 mila euro. Di questa cifra però Parisi non sapeva nulla: “Ero rimasto che sarebbe costata zero”. Andiamo con ordine. Un anno fa la Regione Lazio ha avviato a Latina l’app “Fair Labor” per contrastare il caporalato. Un servizio di incrocio tra domanda e offerta di lavoro nei campi: le imprese mettono gli annunci, i lavoratori si candidano.

Nella scorsa primavera, con il lockdown appena iniziato, le aziende agricole italiane hanno lamentato una presunta scarsità di manodopera dovuta al blocco dei Paesi dell’Est Europa. La ministra Teresa Bellanova, provando a rispondere al problema, ha tra le altre cose proposto il lancio di una app dedicata al lavoro agricolo. L’Anpal ha ottenuto la possibilità di usare la piattaforma che già era in uso alla Regione Lazio. Insomma, era già pronta: ecco perché a Parisi risultava che si sarebbe trattato di un’operazione gratuita o quasi. La dg Nicastro, tuttavia, ha detto in commissione – dove è intervenuta per prima – che in realtà sono serviti 180mila euro per personalizzare e rendere nazionale quella app. Parisi s’è detto sorpreso e ha fatto capire che il cda dell’agenzia non è stato messo al corrente del progetto: “Il direttore generale non ha limiti di spesa…”. Non uno spot per i buoni rapporti tra colleghi.

Il paradosso è che Parisi era stato chiamato dall’Università del Mississippi proprio per sviluppare in Italia una app che aiutasse i percettori del reddito di cittadinanza a trovare lavoro: a quel fine erano stati stanziati 25 milioni di euro, ma di quei soldi – ha ammesso ieri Parisi – non s’è mosso ancora un centesimo. L’applicazione “Italy Works” a oggi esiste solo sulla carta e Anpal usa ancora il suo vecchio sistema, al quale sono iscritti 110mila utenti e nel quale sono pubblicate 2.500 offerte (il 10% ha portato ad assunzioni). L’unica nuova piattaforma sviluppata, dunque, è proprio “Restoincampo”, sulla quale però Parisi dice di non aver toccato palla…

Non di sole applicazioni, però, si litiga ad Anpal. C’è la questione dei precari “storici”, che Parisi ha promesso di stabilizzare tutti entro dicembre: peccato che il piano industriale sostenga che le risorse bastano solo per 500 assunzioni (su una platea di oltre 650). Poi c’è l’imbarazzante questione, ancor più per un manager in quota grillina, dei continui viaggi non proprio francescani negli Usa e dei relativi costi: Parisi si fa forte di un parere dell’Anticorruzione secondo il quale la società in house Anpal servizi non sarebbe obbligata a pubblicare le rendicontazioni delle spese perché Parisi non percepisce compensi come amministratore unico (ruolo che somma a quello di presidente).

Infine, quanto al bilancio dell’agenzia, il presidente ha ammesso che sì, lo ha approvato il 13 luglio con solo il suo voto favorevole, ma solo perché due giorni dopo scadevano i termini di legge. Se non altro, l’uomo del Mississippi aveva un dato incoraggiante: i beneficiari del Reddito di cittadinanza che hanno trovato lavoro sono 196mila e, di questi, 100mila hanno un contratto in essere, anche se non è chiaro quanti siano stati mediati dai centri per l’impiego.

”Ora basta giochi di palazzo e scissioni. Dobbiamo parlarci”

Paola Taverna, il giorno dopo: “Quanto successo sulle commissioni conferma che noi 5Stelle siamo persone impegnate nella politica per il bene del paese, attenti ai cittadini, poco avvezzi ai giochi di Palazzo. Però ragioniamo su quanto accaduto”. La vicepresidente del Senato, veterana del M5S, sa che il punto è il futuro del Movimento.

Il M5S esplode: ma nei Palazzi ci state da 7 anni.

Innanzitutto voglio ricordare che proprio mercoledì è stato approvato lo scostamento di bilancio con un’ampia maggioranza, qui in Senato con 170 voti. Dopodiché c’e stato un problema nella elezione del presidente della commissione Agricoltura, qui a Palazzo Madama, ma i nostri senatori sono rimasti compatti.

Alla Camera stanno raccogliendo firme contro il Direttivo, e c’è quasi una rivolta contro il capo politico reggente Crimi. Perché?

Non so nel dettaglio cosa stia succedendo a Montecitorio, e mi dispiace. Vito sta facendo un buon lavoro. Però che nel M5S ci sia bisogno di parlarsi è evidente, e non da oggi.

Molti deputati protestano per la sostituzione di loro colleghi ieri nella commissione Finanze. “È contro la Carta” dicono.

Secondo me sarebbe stato più corretto eleggere un presidente maggiormente condiviso.

Quindi ora che si fa?

Vanno fatti gli Stati Generali: è il momento di diventare operativi per costruirli.

Come vorrebbe farli, con un percorso sul web con i territori o serve un’assemblea in carne e ossa?

Se i tempi lo consentono, serve una riunione vera. È più veritiero uno sguardo che mille parole scritte dietro una tastiera. Quanto al percorso sui temi sul web, va fatto nella maniera più condivisa possibile con la base, magari con quesiti sui vari argomenti.

Dovete decidere anche la guida politica.

Mi sembra, leggendo anche le posizioni dei colleghi, che la preferenza per un organo collegiale sia largamente diffusa. Penso che su questo vadano direttamente consultati gli iscritti con un semplice quesito sul web. Anche perché della governance ormai si discute da tempo. Si può fare anche prima degli Stati generali, così da poterci concentrare sui temi.

È fondamentale anche il tema del vincolo dei due mandati, no?

Certamente, e questo vale principalmente per i nostri amministratori. Il nodo va sciolto anche per le sindache Raggi e Appendino.

Lei è per abolirlo?

Sono in chiaro conflitto di interessi. Aspetto che si esprimano gli iscritti.

Ormai è guerra aperta tra Davide Casaleggio e tanti big ed eletti, innanzitutto sulla gestione di Rousseau. Dove può portare?

Io sono facilitatrice per l’attivismo. Rousseau nasce con Gianroberto Casaleggio come uno strumento per consultare la base e realizzare la democrazia diretta, ma sono sempre più convinta che il confronto fisico con gli attivisti debba tornare centrale. Abbiamo investito troppo poco sui territori. Chi si alza la mattina per allestire un gazebo o fa volantinaggio ha bisogno di molte più attenzioni.

Sembrate lacerati, divisi in fazioni.

Il M5S è un puzzle. Ogni pezzo va con gli altri, altrimenti non si compone il quadro. Lo sto dicendo a tutti.

Rischiate una scissione?

Sembrerei stupida se non mi fossi posto il problema. Di certo è il percorso meno auspicabile per il Movimento.

Liti nelle commissioni, ma Conte in aula prende 170 voti. Cosa fa la differenza?

L’unità della maggioranza sul governo è concreta. La convivenza di quattro forze politiche nella dinamica parlamentare è molto più soggetta alle singole persone.

Settimane fa lei sul Fatto si era augurata che il premier vi desse una mano. Ora è più urgente che lo faccia?

Questo lo deciderà lui. Io sono contenta di poter giovarmi delle sue competenze sia per il governo che per il M5S.

In tanti vogliono salire sul carro del premier. Molti anche da Forza Italia…

Il Gruppo Misto ormai è quasi il terzo partito in Senato. Dopodiché io non immagino una maggioranza diversa da quella attuale in questa legislatura.

Se le Regionali andassero male, dopo i mancati accordi tra Pd e M5S, il governo potrebbe ballare.

Ho sempre detto che le elezioni locali vanno distinte da quelle nazionali, e questo esecutivo arriverà a fine legislatura. Detto questo, il Pd poteva proporci nomi di discontinuità nelle Regioni. Ma non lo ho fatto.

Vendette, tranelli e addii Cinque Stelle e renziani indiziati speciali del caos

Due parole, nessuna aggiunta. Poco dopo le 19 di mercoledì sera, un senatore che frequenta il Palazzo da almeno trent’anni riceve un messaggio che in realtà è una citazione per pochi: “Fuori uno”. Come la prima pagina del manifesto del 15 dicembre 1971 che celebrava i franchi tiratori nella Dc in grado di affossare Amintore Fanfani per la corsa al Quirinale. Più modestamente, il nuovo silurato è un senatore qualunque: Pietro Lorefice del Movimento 5 Stelle, candidato alla Commissione Agricoltura di Palazzo Madama. Al suo posto – con 13 voti a 10 – viene confermato il leghista Gianpaolo Villardi. L’opposizione ha 9 esponenti contro i 14 dei giallorosa: mancano cinque voti. Qualcuno ha tradito. Il primo indiziato è Ernesto Magorno di Italia Viva ma – è matematica – anche qualche 5Stelle alla fine ha sostenuto Vallardi. Ma dell’Agricoltura interessa a pochi: il giochino si potrebbe replicare in commissioni dove la maggioranza rischia di non reggere. E, infatti, è solo l’inizio della notte dei lunghi coltelli sul rinnovo delle commissioni.

Il patatrac, un’ora dopo, si ripete nella “Giustizia” di Senato (fuori Pietro Grasso, confermato il leghista Andrea Ostellari) e Camera dove viene eletto al ballottaggio l’ex M5S, oggi in Italia Viva, Catello Vitiello. Lo scarto al Senato è sempre il solito: due voti (13 a 11). E il dito viene subito alzato contro l’italo-vivo Giuseppe Cucca (convertito al garantismo sulla via di Rignano) e l’ex 5S Mario Giarrusso. A Montecitorio, dove nel pomeriggio sono stati sostituiti dieci membri M5S della commissione Finanze che non avrebbero votato per Luigi Marattin (Iv), Vitiello viene eletto con 24 voti contro i 22 di Perantoni. Il blitz di Italia Viva e M5S è servito. È l’ora più buia della maggioranza: negli stessi minuti il ministro Roberto Speranza abbandona il Consiglio dei ministri perché LeU è rimasta senza una presidenza. I 5Stelle non aspettano altro per far saltare l’accordo: “Senza la Giustizia, non votiamo Marattin in Finanze”. Al ministro dei Rapporti col Parlamento, Federico D’Incà, va di traverso la cena: si precipita a Montecitorio per riparare il danno. Cosimo Ferri, deputato renziano della commissione Giustizia, si aggira per il quarto piano vantandosi coi colleghi: “Perantoni l’abbiamo fatto secco”. L’imboscata ha una firma riconoscibile. A quel punto, arrivano anche Ettore Rosato e la stessa Boschi che annuncia trafelata: “Vitiello si dimetterà”. E così è dopo un lungo litigio tra il capogruppo di Italia Viva e Ferri: “Hai esagerato, così fai saltare Marattin”, gli urla contro senza concedergli il beneficio del dubbio. Alle 2 si sblocca tutto: alla seconda votazione Perantoni viene eletto alla Giustizia e Marattin alle Finanze.

Ma nel day-after scatta la caccia ai franchi tiratori. Le tre imboscate non possono essere solo colpa dei renziani. Lo dice l’aritmetica: in diverse commissioni mancano i voti del M5S. Oltre alla Giustizia, anche in Esteri (eletto il Pd Piero Fassino), Lavoro (Debora Serracchiani) e nella stessa Finanze dove Marattin sarebbe stato salvato da Forza Italia che, nel segreto dell’urna ha coperto le mancanze 5S. Così a finire sulla graticola è il capo politico Vito Crimi e il direttivo di Camera e Senato: Davide Crippa e Gianluca Perilli accusati di essere stati troppo “deboli” nelle trattative. Il presidente della “Bilancio”, Giuseppe Donno, si dimette per protesta. Gli obiettivi sono soprattutto Crippa e Ricciardi, capo e vice a Montecitorio, e nel pomeriggio parte la raccolta firme per le dimissioni. Martedì, in una riunione congiunta, arriverà il redde rationem. In serata Crippa fa sapere che “il movimento è unito”. Ma in realtà salta all’occhio un fatto: i parlamentari che giovedì sparano contro i vertici sono tutti fedeli di Luigi Di Maio, da Mattia Fantinati a Giuseppe Donno fino ad Alessio Villarosa. Il ministro degli Esteri, mercoledì sera si è presentato serafico nel cortile di Montecitorio, mentre nelle commissioni scoppiava la guerra: “Io ormai non gestisco più niente, parlatene con Crimi”, avrebbe detto ai suoi. Come dire: dopo di me, il diluvio. E giovedì sera, secondo una fonte di governo, proprio Crimi interviene sulla chat dei ministri: “Non capisco cosa sta succedendo, è paradossale”.

Scusate il ritardo

Non ci volevo credere. Ma, a furia di leggere gli interventi di Stefano Folli e Michele Ainis su Repubblica, e soprattutto quelli di Sabino Cassese su Corriere, Foglio, convegni, tutte le tv, Protestantesimo, Radio Maria e segnale orario, mi sono convinto: siamo in piena svolta autoritaria, tacere ancora sulle continue violazioni della Costituzione di un potere abusivo che conculca le libertà dei cittadini sarebbe complicità. C’è un presidente che si crede il Re Sole e, con la scusa dell’emergenza, calpesta la volontà degli elettori e del Parlamento. Concede la grazia alle spie della Cia latitanti dopo la condanna per aver sequestrato l’imam Abu Omar a Milano, deportandolo in Egitto per farlo torturare: e così viola la sentenza della Corte costituzionale che limita la grazia a “motivi umanitari” per chi ha già scontato una parte della pena (e le spie Cia, mai estradate, non hanno mai visto la cella). Traffica col suo consigliere giuridico, su richiesta del suo amico Mancino, per deviare l’indagine sulla trattativa Stato-mafia. Fa trascinare al Csm i pm di Palermo con accuse infondate. E li trascina alla Consulta per la pretesa, contraria alla legge, di bruciare i nastri delle sue telefonate con Mancino senza farli ascoltare ai difensori. Attacca la stampa che osa occuparsi dello scandalo e invoca leggi per imbavagliarla sulle intercettazioni. Mette nel mirino altri pm insensibili alla “ragion di Stato”: Woodcock, De Magistris, Nuzzi, Verasani, Apicella, Forleo, Robledo. Entra a gamba tesa al Csm per impedire a Lo Forte di diventare procuratore di Palermo e mandarci il meno anziano e titolato Lo Voi. Il tutto in piena èra Palamara, che fa comodo a tutti.

Sabota il governo Prodi2 auspicando larghe intese con B. Salva B. dalla sfiducia chiesta da opposizioni e finiani, rinviando il voto di un mese e consentendo a B. di acquistare 30 deputati. Un anno dopo B. cade lo stesso e lui, anziché far scegliere agli italiani il governo che dovrà ricostruire il Paese, impone al Pd di appoggiare Monti con B. Poi invita i cittadini a non votare il M5S, che invece vince le elezioni: allora fa di tutto per tenerlo fuori dal governo, con le larghe intese fra gli sconfitti. A costo di farsi rieleggere contro ogni prassi costituzionale e ogni sua promessa, per sbarrare la strada a Rodotà, che la Carta la conosce e minaccia di applicarla davvero. Diffida i pm dallo “scontro” con la politica e le imprese, predicando il “dialogo” mentre emergono gravissimi delitti nelle banche, nelle grandi opere, all’Expo, al Mose, all’Ilva, alla Fiat, all’Eni. Impartisce ordini al Parlamento che l’ha appena rieletto, minacciando di dimettersi anzitempo se non cambierà la Costituzione su cui ha giurato da presidente ben due volte.

Delegittima la magistratura e le sue sentenze riabilitando il pluripregiudicato latitante Craxi. E, appena B. viene condannato definitivamente per frode fiscale, gli fa balenare una grazia condizionata alle sue dimissioni dal Senato (inutili perché la legge vieta ai pregiudicati di sedere in Parlamento): grazia illegittima perché tutt’altro che umanitaria, sempre alla luce della nota sentenza della Consulta che lui finge di ignorare. Poi, per salvare Letta, benedice la scissione da FI del Ncd di Alfano, Schifani &C. Ma Letta cade lo stesso e allora avalla il ribaltone dell’Innominabile, ma a patto che si metta d’accordo col pregiudicato B. per scassare la Costituzione. E depenna dalla lista dei ministri il nome più nobile: Nicola Gratteri alla Giustizia, perché “quel ministero non fa per i magistrati” (per i delinquenti invece sì). I suoi ordini categorici e imperativi per tutti (che i suoi corazzieri e turiferari chiamano eufemisticamente “moniti”) non risparmiano nessuno dei poteri che dovrebbero controllare lui, non essere controllati da lui: Parlamento, governo, partiti di maggioranza e opposizione, elettori, magistrati, Consulta, giornalisti, sindacati, movimenti di piazza, persino gli storici (quelli che osano sostenere l’esistenza di un “doppio Stato”: quello che combatte mafia e terrorismo, e quello che li fomenta, fiancheggia e copre) e i produttori-sceneggiatori-registi di film (quelli che sostengono, sugli anni di piombo, idee diverse dalle sue). Mancano solo i panettieri e i trapezisti. Firma circa 200 decreti senza che nessuno gridi alla tirannide. Non respinge alle Camere una sola delle decine di leggi-vergogna di B.&C. perché non ne ha il potere (invece ce l’ha: vedi l’art. 74 della Costituzione e i celebri “no” dei suoi predecessori Scalfaro e Ciampi).

Ecco con chi ce l’hanno oggi Folli, Ainis e Cassese quando agitano la svolta autoritaria: dicono Conte, ma pensano a Napolitano, tentando di recuperare il tempo perduto. Già allora volevano denunciare i superpoteri illegittimi, ma non potevano. Folli era troppo impegnato a incensare Re Giorgio sul Sole 24 Ore. Cassese a fare la chioccia al principe ereditario Giulio e a candidarsi al Quirinale nel nome del padre. Ainis a fare uno dei 35 “saggi” ricostituenti (poi saliti a 42+7) scelti da Napolitano&Letta per cestinare la Carta del 1948. Combattevano la tirannide in gran segreto e in silenzio. Come Fantozzi quando si martella il dito montando la tenda in piena notte, temevano di svegliare qualcuno: allora si son tappati la bocca e hanno corso nel bosco fino all’altroieri, quando sono finalmente usciti e hanno cominciato a strillare. Con appena dieci anni di ritardo. Ma che sarà mai.

Scie leghiste, a volte ritornano

Scie chimiche no o scie chimiche sì? Questo è l’ultimo dilemma in casa leghista. Gian Marco Centinaio durante il suo recente intervento in Senato con tono perentorio e fare risoluto rivolgendosi alla collega del M5S Elisa Pirro: “Io lezioni da chi parla ancora di scie chimiche e dice che la terra è piatta, non le prendo”. Bene. Pur tuttavia, che le scie chimiche fossero una priorità della politica si era capito già il 17 luglio 2013 in un’interrogazione con richiesta di risposta scritta. Oggetto: scie chimiche e geo-ingegneria. Si legge: “Una vasta parte della comunità scientifica internazionale ritiene che le scie rilasciate dagli aerei disperdano nell’aria sostanze tossiche, quali alluminio, bario e ferro e siano pertanto estremamente pericolose. Può la Commissione spiegare su quali basi scientifiche l’inalazione continuata di metalli pesanti e il depositarsi di essi sul suolo siano del tutto innocui per il mantenimento di elevati standard qualitativi di vita di 500 milioni di europei?”. Firmato: l’allora europarlamentare Matteo Salvini.

Avvisate Centinaio.

Il truce tiranno che vedono solo destre e Cassese

Colpisce e addolora la colpevole passività del popolo italiano dinanzi all’intollerabile attacco liberticida e antidemocratico sferrato da Giuseppe Conte con l’estensione dello stato d’emergenza, anti Covid-19, addirittura fino al 15 ottobre (imposto con l’arrogante voto della maggioranza sulle macerie morali del Parlamento). Mentre l’autoproclamato premier faceva strame della Costituzione e dei valori fondamentali di libertà e giustizia, purtroppo non venivano segnalati assembramenti, e neppure tumulti nelle pubbliche piazze. Nessun capannello di cittadini sgomenti davanti a mescite e pizzerie al taglio. Né si registrano episodi insurrezionali nei luoghi di lavoro e sulle pigre spiagge. Silenzio tombale nelle capitali estere e incurante indifferenza da parte della comunità internazionale. Quale altro cinico giro di vite, quale altro intollerabile sfregio dovrà dunque subire la Repubblica a opera del tiranno di Volturara Appula, perché il Paese tutto, dalle Alpi al Lilibeo, inarchi finalmente la schiena nell’ora del riscatto e della rinnovata Resistenza? Fortunatamente l’onore della Patria vilipesa fu tenuto alto da alcuni ardimentosi al cui sacrificio di redenzione vogliamo qui dare adeguata rimembranza. Il sacrificio di Matteo Salvini, novello Enrico Toti con il suo lancio della mascherina, gesto impavido che simboleggia il sacro diritto di ogni italiano a contrarre il virus quando gli pare e piace (sempre prima gli italiani). Del resto, chi siamo noi per ostacolare il normale sviluppo del contagio (a cui il leghismo lombardo ha offerto un doloroso tributo di cognati, camici sanitari e di soldi alle Bahamas)? Il nobile grido di dolore di Giorgia Meloni (“pazzi, irresponsabili, diteci che cavolo state facendo”), sempre intrepida e impetuosa quando si tratta di contrastare i detentori del potere più arcigno e illiberale. La sua solidarietà ai giornalisti ungheresi del sito anti-Orbán che si sono dimessi in massa dopo il licenziamento del direttore, lascia senza parole (infatti non se ne ha notizia). Menzione d’onore infine al giurista Sabino Cassese, davvero sublime nell’uso dell’antifrasi (ma anche della supercazzola leguleia) quando scrive (Corriere della Sera) di “delirio regolatorio”, e altre mascalzonate di Conte, che “hanno creato sconcerto e disorientamento”, e pur tuttavia “come unanimemente osservato la società ha risposto compostamente e in maniera ordinata, evitando così guai peggiori”. I soliti italiani mollaccioni.

Lfc, il prestanome ai pm “Ero solo una pedina”

Dieci ore di verbale per Luca Sostegni, il presunto prestanome nell’affare della vendita “gonfiata” per 800 mila euro alla partecipata regionale Lombardia Film Commission di un capannone nel Milanese e che è stato fermato lo scorso 15 luglio “Io facevo quello che mi dicevano, mi usavano come una pedina. Molte cose non le ho mai sapute se non adesso con l’indagine”, ha detto. L’indagine, coordinata dal procuratore aggiunto Eugenio Fusco e dal pm Stefano Civardi, vede indagati pure l’allora presidente di Lfc Alberto Di Rubba, in passato revisore contabile della Lega, e altri due commercialisti vicini al partito di Matteo Salvini, cioè Michele Scillieri e Andrea Manzoni. Il verbale subito secretato è solo il primo. Altri ne verranno. Sostegni, infatti, intercettato prima del fermo spiegava di volere scoperchiare il pentolone degli affari opachi dei commercialisti vicini al Carroccio. Promessa mantenuta già durante il verbale di convalida e ribadita ieri.

Sostegni, 62 anni, stava partendo per il Brasile. Secondo la Procura, ha avuto un ruolo di liquidatore e prestanome in un’operazione che alla fine avrebbe drenato fondi pubblici per 800 mila euro dispersi poi in vari rivoli e per la quale tra gli indagati figurano anche i tre commercialisti vicini alla Lega, considerati gli ideatori dell’operazione. E cioè, come detto, Scillieri, nel cui studio milanese a fine 2017 è stato registrato e domiciliato il movimento “Lega per Salvini premier”, Di Rubba e Manzoni, altro professionista di fiducia.

I principali indagati, tramite società di cui risultavano o intestatari o liquidatori o prestanome e tra di loro di loro collegate, hanno partecipato all’operazione immobiliare che si snoda dal 2016 al 2018 e che vede Fondazione Lombardia Film Commission, sotto la presidenza di Di Rubba, usare 800 mila euro del milione di contributi ricevuti dalla Regione, allora governata da Roberto Maroni, per acquistare l’immobile di Cormano (Milano) che la stessa immobiliare aveva comprato a metà prezzo da Paloschi Srl, di cui Sostegni era liquidatore. Parte del ricavato, 260 mila euro, sarebbe finito su un conto intestato a Fidirev, fiduciaria che controllava “Futuro partecipazioni”, altra società amministrata da Scillieri.

La Finanza cerca di ricostruire i flussi finanziari legati alla compravendita per capire chi siano i reali beneficiari degli 800 mila euro, di cui in gran parte si sono perse le tracce, posto che le persone che compaiono nell’inchiesta milanese sarebbero le stesse che avrebbero gestito la cosiddetta “cassa esterna” della Lega su cui indaga la Procura di Genova alla caccia dei 49 milioni di euro spariti.

Ecco tutte le consulenze all’ex socio del governatore

Un amore indissolubile. È quello che lega il presidente lombardo, Attilio Fontana, e il suo ex socio, l’avvocato Luca Marsico. Un legame cementato da anni di lavoro nello studio legale associato che i due hanno diviso fino a qualche anno fa al terzo piano dello stabile di via Felice Orrigoni 15, a Varese. Diviso in senso letterale, dato che la proprietà dell’immobile è equamente ripartita – 50 e 50 – tra l’ex sindaco diventato governatore e l’ex consigliere regionale, divenuto jolly spendibile in ogni società del Pirellone.

Un’attività gomito a gomito terminata poco prima delle elezioni regionali che incoronarono Fontana, quando Marsico cedette alla figlia le sue quote dello studio. E, siccome i buoni amici uno se li tiene vicini, non stupisce che Fontana abbia deciso di cooptare Marsico anche in Regione. Così, come rivelato da La Stampa, il 28 maggio scorso, quando al Pirellone sono alle prese con la crisi Covid e il fattaccio dei camici si sta consumando sotto traccia, Marsico riceve da Aler Milano – controllata regionale che gestisce le case popolari – una consulenza da 22 mila euro l’anno. Membro esterno del nuovo Organismo di vigilanza, durata dell’incarico tre anni. A siglare il contratto, il presidente di Aler, Mario Sala.

Una nomina che va ad aggiungersi a quella avuta dallo stesso Marsico da Regione Lombardia il 24 ottobre 2018 al “Nucleo di valutazione degli investimenti della Regione”. Un incarico ben remunerato (65 mila euro in quattro anni), per espressa volontà di Fontana. Tanto che per quella scelta il presidente finì indagato dalla Procura di Milano, sebbene sia stato poi archiviato. Nel fascicolo i pm contestarono due violazioni: la prima era che il presidente, proponendo alla giunta la nomina di Marsico, avesse violato il principio di imparzialità, scegliendo il suo socio tra i 60 candidati che avevano risposto all’“avviso pubblico”. La seconda era che lo stesso Marsico si sarebbe dovuto astenere dato il conflitto di interessi.

Il binomio Fontana-Marsico compariva anche nelle carte dell’inchiesta “Mensa dei poveri” che il 7 maggio scorso aveva portato a 43 arresti e 90 indagati, tra personaggi politici, amministratori e imprenditori, accusati di corruzione e turbata libertà degli incanti, finalizzati all’aggiudicazione di appalti pubblici. Un’inchiesta che ha scoperchiato i rapporti malati della politica varesotta. Un sottobosco gestito da Gioacchino Caianiello, alias il “Mullah”, il deus ex machina del partito di B. in Lombardia. È proprio Caianiello che, intercettato, “suggerisce” al neo eletto Fontana il modo per far arrivare soldi e incarichi a Marsico, il quale allora versava in cattive acque non essendo stato rieletto consigliere regionale (era stato proprio Caianiello a escluderlo dalle liste). “Mi propose: far andare Zingale (manager Afol, ndr) alla Direzione generale dell’assessorato della Formazione regionale, in modo tale che poi da lì potessero essere affidate consulenze a Marsico”, spiegherà Fontana ai pm. Un escamotage illegale, che però Fontana “non percepì come tale” e quindi omise di denunciare.

Pur senza Caianiello, Marsico ottenne – a settembre 2018 – una consulenza con Ferrovie Nord Milano (Fnm), altra controllata del Pirellone, del valore di 8 mila euro. Del resto, la famiglia Marsico in Fnm è di casa: anche il fratello di Luca, Marco, è dipendente di Trenord (società controllata di Fnm), nell’ufficio comunicazione.

Come ci sarebbe arrivato, lo spiega sempre Caianiello durante un’intercettazione: “Luca è venale! (…) Io feci assumere 5 anni fa il fratello alle Nord. Il fratello in Trenord oggi prende 2.600 euro netti al mese, e sai cosa fa? Porta in giro la pubblicità e ci sono i dirigenti che sono incazzati (…) Sono le due uniche assunzioni che sono state fatte con delibera presidenziale e non dal direttore del personale. Quando vennero da me Report che fecero il servizio – prosegue Caianiello – la prima domanda che mi fecero era su Marco Marsico, fratello di Luca, fanno il servizio, ma è stato tagliato”.

La donna della Onlus: “Il cognato di Fontana voleva vendere a me”

“Il 20 maggio Andrea Dini mi contattò per vendermi dei camici”. Il frammento di verbale è un passaggio fondamentale per la Procura di Milano nella ricostruzione della vicenda dei camici prima venduti e poi donati alla Regione dalla Dama, società del cognato del presidente Attilio Fontana. La frase è fissata in un interrogatorio di metà giugno fatto dalla titolare non indagata di una nota onlus di Varese che si occupa di aiutare i bambini ricoverati in ospedale. Durante il colloquio con i magistrati spiega ancora: “Eh, ho capito più tardi da dove arrivavano quei camici!”. Lo capirà dopo che sui giornali scoppia il caso che ha coinvolto, oltre ad Andrea Dini, lo stesso Fontana e il direttore generale di Aria, la centrale acquisiti della Regione, Filippo Bongiovanni. Tutti accusati a vario titolo di turbata libertà nella scelta del contraente e frode in pubbliche forniture. Alla fine quei camici la onlus non li acquisterà e Dini li terrà in magazzino.

Lo stralcio di verbale è contenuto nelle dieci pagine del decreto di perquisizione con il quale martedì sera la Finanza si è presentata nella sede della Dama per sequestrare i 26mila camici invenduti dei 75mila inizialmente promessi alla Regione da parte della società del cognato di Fontana. Il decreto firmato dai magistrati titolari dell’indagine spiega in modo chiaro la scansione cronologica dei fatti sotto indagine. Intanto una data: il 20 maggio. In quella giornata Dini fa due cose: l’ultima, come spiega la testimone, è quella di offrirle i suoi camici in vendita. Prima di questo invia l’ormai nota email al dg di Aria in cui, in sintesi, spiega che la fornitura inizialmente pattuita in 75mila camici per 513mila euro, si fermerà a 49mila camici e sarà trasformata, attraverso lo storno di alcune fatture, in donazione mai però formalizzata dalla Regione. Una scelta, quella di Dini, influenzata, secondo i pm, dalle pressioni dello stesso Fontana che chiedeva al cognato di recedere dall’offerta per tutelare la sua immagine di politico e presidente della Regione. Una richiesta che lo stesso Fontana avrebbe voluto ripagare con un bonifico di 250mila euro verso Dama tratto dal suo conto svizzero di Lugano. Torniamo però ai camici. Già prima del 16 aprile, data della firma del contratto con Aria, Dini aveva donato alcuni camici a questa onlus. Vi era dunque un rapporto tra i due soggetti. Rapporto immortalato da alcuni messaggi in parte trascritti nel decreto di perquisizione e nei quali lo stesso Dini scrive la sua offerta alla donna. Attenzione, però, mai scriverà la parola camici, ma solo un generico dispositivi di protezione, e mai formalizzerà un numero, solo si limita a informare la donna sul prezzo di vendita che sappiamo essere passato da 6 euro a camice (stando all’offerta fatta e accettata da Aria) a 9 euro. La vicenda così ricostruita si lega soprattutto al reato di frode in pubbliche forniture, accusa contestata anche a Fontana, legata appunto all’inadempienza rispetto al numero iniziale di camici. Confermando così, è la posizione della Procura, come quello con Aria fu sempre un rapporto commerciale e mai una donazione. Dopo il 20 maggio, si legge nel decreto, gli uffici di Aria entrano in fibrillazione. Sono decine le email intercettate dai magistrati e riversate nel documento nelle quali non Bongiovanni ma i suoi funzionari si interrogano su quale sia la strada giusta per passare da un contratto di fornitura a una donazione.

Per questo le comunicazioni interne coinvolgeranno anche l’ufficio legale di Aria. Oltre alla figura della presidente della onlus, l’indagine ha rilevato la presenza di altri soggetti scelti come intermediari per vendere i camici e che, stando alla ricostruzione della Procura, sarebbero stati pagati a provvigioni. A questi, secondo i pm, è riferito un secondo tentativo di vendita (smentito da Dini) a una struttura per anziani. Martedì sera, dunque, i camici mancanti sono stati trovati. Oltre a questo, la Finanza ha sequestrato documenti contabili relativi all’acquisto del materiale da cui ricavare i dispositivi di protezione. È stata poi fatta la copia dei messaggi contenuti nel cellulare di Dini. A una prima analisi della Procura è emerso che il cognato di Fontana non ha cancellato le chat, a dimostrazione della sua buona fede. Lo stesso Dini commentando il sequestro dei camici ha spiegato: “È una liberazione, hanno visto che sono qua”. Nel decreto, i pm non affrontano il ruolo di Fontana. Su di lui proseguono gli accertamenti sul conto svizzero scudato nel 2015 e fino ad allora gestito da due trust di Nassau riferibili alla defunta madre del presidente.