Stato d’emergenza: perché non è dittatura

Lo stato di emergenza (e la sua proroga) può essere dichiarato solo quando un evento straordinario è in atto?

La delibera con cui viene dichiarato lo stato di emergenza può essere emanata solo al verificarsi di eventi calamitosi, ma anche nella loro imminenza come nel caso del Covid: la dichiarazione di emergenza è del 31 gennaio quando erano 2 i contagiati e zero i decessi che poi nelle settimane successive avrebbero superato le 35mila unità. A ieri i nuovi casi positivi erano in aumento di 289 unità, mentre i decessi sono stati 6.

La proroga dello stato di emergenza è illegittima perché sono cessati i presupposti iniziali?

In Italia risultano prorogati decine di stati di emergenza collegati a eventi anche risalenti nel tempo, come il terremoto in Emilia-Romagna del 2012, quello del Centro Italia del 2016, ma anche relativo al crollo di Ponte Morandi di due anni fa. Risultano prorogati, da ultimo con il decreto Rilancio, anche l’emergenza idrica in Veneto, l’alluvione dell’Emilia del 2018. La legge istitutiva della Protezione civile, ma anche il nuovo codice di Protezione civile prevedono la possibilità di proroga dello stato di emergenza i cui presupposti risiedono nell’esigenza di completare le attività già avviate alla luce di una situazione di allarme ancora attuale, ma non necessariamente sovrapponibile a quella iniziale.

Con la proroga dello Stato di emergenza il premier avrà super poteri e rischiamo derive autoritarie?

Il potere con cui è intervenuto il premier non deriva dalla dichiarazione dello stato di emergenza, ma da appositi decreti convertiti in legge dal Parlamento. Con il decreto di marzo 6/2020 è stato autorizzato ad adottare “ogni misura di contenimento e di gestione adeguata e proporzionata all’evolversi della situazione epidemiologica”. Dal successivo decreto sono state elencate puntualmente le regole per evitare il diffondersi del contagio.

Con la proroga il premier conserva il potere di incidere sulle libertà individuali abusando dello strumento del Dpcm che è norma di rango secondario?

I Dpcm sono stati emanati in attuazione di norme di rango primario (decreti legge) e hanno o hanno avuto un’efficacia limitata nel tempo in modo da graduare le misure sulla base dell’evolversi della situazione epidemiologica.

Le ordinanze di Protezione civile sono strumenti extra ordinem che comprimono le prerogative delle autorità competenti?

Le ordinanze di assistenza alla popolazione sono adottate nei limiti indicati nella deliberazione dello stato di emergenza e nel rispetto dei principi generali dell’ordinamento giuridico e delle norme dell’Ue. Sono inoltre emanate d’intesa con Regioni e Province autonome territorialmente interessate. Se derogano alle leggi vigenti devono essere specificamente motivate.

Caos commissioni. Voti segreti e blitz, saltano gli accordi

La giornata idilliaca della maggioranza giallorosa si interrompe bruscamente all’ora di cena. Nemmeno il tempo di festeggiare il voto sullo scostamento di Bilancio in Senato. Nel voto segreto per il rinnovo dei presidenti di commissione, la maggioranza va in frantumi: i franchi tiratori di M5S, Pd e Italia Viva al Senato affossano Piero Grasso (Leu) alla Giustizia e Pietro Lorefice (M5S) all’Agricoltura per confermare la presidenza ai leghisti Gianpaolo Villardi e Andrea Ostellari. Uno smacco pesante – soprattutto sulla Giustizia dove passeranno dossier roventi – che fa esultare Matteo Salvini: “La maggioranza non c’è più”. Leu a fine giornata resta a bocca asciutta, senza un presidente e Roberto Speranza in serata abbandona il Consiglio dei ministri chiedendo un “chiarimento di maggioranza”: “È inaccettabile” dice.

La giornata si era aperta con l’accordo sul rinnovo dei presidenti delle 28 commissioni parlamentari dopo un mese di trattativa: 14 presidenti al M5S, 9 al Pd, 4 a Italia Viva e uno a LeU. Ma deputati e senatori del M5S, quando vedono la lista dei prescelti, restano a bocca aperta: oltre ai soliti – e indigeribili – Raffaella Paita (Trasporti) e Luigi Marattin (Finanze) di Italia Viva, non riescono ad accettare altre tre pedine del Pd: la Commissione Esteri della Camera a Piero Fassino, l’Ambiente a Piero De Luca (figlio del governatore campano Vincenzo) e l’ex governatore abruzzese Luciano D’Alfonso alle Finanze di Palazzo Madama. Tutti nomi su cui il M5S, in altri tempi, avrebbe fatto le barricate. E infatti, le chat pentastellate diventano roventi.

Gli obiettivi sono due: i capigruppo di Montecitorio e Palazzo Madama, Davide Crippa e Gianluca Perilli, ma anche il capo politico Vito Crimi, rei di “essere stati troppo mosci alle trattative”: “Siamo maggioranza assoluta in Parlamento, ma nelle commissioni ora sembriamo un partitino del 5%, peraltro appiattito sul Pd” sibila un senatore pentastellato. Il peso di una leadership in transizione perenne si fa sentire. La rabbia per l’accordo sulle commissioni diventa anche il pretesto per far riemergere antichi veleni messi sotto al tappeto: peones e dissidenti uniscono le forze per sparare a pallettoni contro Crimi e c’è chi invoca un voto, già a settembre, per sostituire i capigruppo. Perilli parla di “normale dissenso” ma non può prevedere la lettera dei deputati della commissione Esteri a Montecitorio data in pasto alle agenzie prima di cena contro la nomina di Fassino: “Esprimiamo dissenso unanime sulla decisione di lasciare la presidenza e chiediamo che la decisione venga rivista”. A quel punto la situazione esplode.

Oltre ai malumori su Fassino, si minaccia una lettera di 100 parlamentari contro De Luca, ma il vero dramma si consuma alla Finanze della Camera: sul renziano Luigi Marattin non ci sono i numeri perché considerato il cavallo di Troia per accettare il Mes. In votazione a scrutinio segreto sarebbe impallinato dai franchi tiratori e allora i vertici del M5S prevengono l’imboscata che può far saltare tutto: sostituiscono, per una notte, 10 dei 15 componenti dissidenti della commissione. Tra questi ci sono i deputati Caso, Martinciglio, Cancelleri, Grimaldi, Raduzzi, Maniero e Giuliodori. Alcuni, delusi, domani lasceranno la Commissione per protesta. “La sostituzione è insopportabile – dice al Fatto un deputato di peso – siamo diventati come Renzi che eliminava chi votava contro. Marattin è il contrario di tutto ciò in cui abbiamo creduto”. I malumori riguardano anche il peso politico: di quattro commissioni economiche, al M5S rimane solo la Bilancio del Senato con Luigi Pesco mentre le altre tre se le spartiscono Pd e Italia Viva. Alla fine della giornata, al Senato, il M5S conferma sei commissioni ma perde la Politiche Ue a favore del Pd Dario Stefàno e i dem esultano per Dario Parrini (Affari Costituzionali), Roberta Pinotti (Difesa) e Luciano D’Alfonso (Finanze). Ma alla Camera si va avanti fino a notte: De Luca viene sostituito con Alessia Rotta (Ambiente), Paita e Fassino incassano il via libera, mentre in commissione Giustizia, assegnata al M5S, vince il ballottaggio grazie ai voti del centrodestra l’ex M5S oggi renziano, Catello Vitiello (“si dimetterà” dice Maria Elena Boschi e lui poco dopo procede): quando andiamo in stampa, Marattin è ancora in bilico.

La maggioranza va a quota 170. Conte incassa il sì (e nuovi voti)

Giuseppe Conte sorride dentro l’aula, e a Giorgia Meloni proprio non va bene: “Non c’è niente da ridere”. Non ci poteva essere miglior foto della distanza tra il presidente del Consiglio e il centrodestra con cui doveva essere dialogo sui conti e invece nulla, neanche un caffè. Ma tanto l’avvocato che fa il premier almeno per ora può tirare dritto.

Nel mercoledì in cui la maggioranza si fa malissimo sulle commissioni e il segretario del Pd Zingaretti a Sky semina altri sospiri (“Sui migranti non abbiamo raggiunto i risultati che volevamo”) le Camere dicono sì allo scostamento di bilancio da 25 miliardi, e in Senato i voti favorevoli sono addirittura 170, dieci in più della maggioranza assoluta, necessaria per sorpassare l’ostacolo. Fanno quasi a gara per salire sul carro di Conte, a Palazzo Madama, e tra i sì spicca quello di Sandra Lonardo, ex forzista nonché moglie dell’eterno Clemente Mastella, contiana di nuovo conio. Con lei a dare una mano anche cinque ex grillini tra cui Saverio De Bonis, finora ostile alla maggioranza, e nomi di riguardo come i senatori a vita Mario Monti ed Elena Cattaneo. A dire no Emma Bonino, Matteo Richetti di Azione e due ex 5Stelle, Carlo Martelli e Alfonso Ciampolillo. Astenuto in blocco tutto il centrodestra, che si attendeva un segnale da Conte. Ieri mattina i tre leader della coalizione, Salvini, Meloni e Berlusconi, avevano mandato una lettera al Sole 24 Ore con le loro proposte per lo scostamento. “Invece in Senato ci ha risposto direttamente il ministro dell’Economia Gualtieri, dicendo in pratica che erano misure già prese” sostengono dal centrodestra.

Di certo i ponti che nelle settimane scorse Conte aveva provato a gettare verso le opposizioni, dietro calda esortazione del Quirinale, sono stati ritirati. Lo conferma il discorso del premier alla Camera, dove ieri mattina ha sostenuto le ragioni della proroga dello stato di emergenza fino al 15 ottobre. “Il governo sta operando questa valutazione sulla base di mere istanze operative – sostiene il premier – non certo perché si vuole fare un uso strumentale per atteggiamento liberticida, reprimere il dissenso o ridurre la popolazione in uno stato di soggezione: affermazioni gravi che non hanno nessuna corrispondenza nella realtà”. E sembra pungere innanzitutto Meloni, che ovviamente non si tira indietro: “Lo stato di emergenza consolida il governo, siete dei pazzi irresponsabili ma noi non saremo conniventi e non vi daremo tregua”. Chissà se si potrà riaprire qualche canale sulla partita dei soldi del Recovery Fund. Ma pare quasi impossibile ora. Conte si sente forte dopo la vittoria nel Consiglio europeo e ha occhi e orecchie solo per la sua maggioranza, che comunque non ne vuole sapere di starsene tranquilla. Così tra mille rogne di giornata rispunta il Mes. Perché se il diavolo è nei dettagli, il fondo salva-Stati pare riemergere nella risoluzione di maggioranza per lo scostamento: “Si impegna il governo a prevedere l’utilizzo, sulla base dell’interesse generale del Paese e dell’analisi dell’effettivo fabbisogno, degli strumenti già resi disponibili dall’Unione europea per fronteggiare l’emergenza sanitaria e socio-economica in atto”.

Logico che la capogruppo di FI in Senato, Anna Maria Bernini, lo faccia subito notare: “Se le parole hanno ancora un senso, significa che la maggioranza sta chiedendo al governo di usare subito i fondi del Mes”. Ed è comprensibile il nervosismo di alcuni 5Stelle, in una giornata in cui i grillini litigano fortissimo tra loro sulle commissioni.

A margine voci di governo, da dove riprendono a parlare di rimpasto “inevitabile” per settembre dopo le Regionali. “Pd e Iv vogliono la testa della ministra dell’Istruzione Azzolina, non si fermano” sussurra un grillino di governo. E lui di ridere proprio non ha voglia.

Il Protocazzaro

E niente, non si riesce a stargli dietro. Questo Fontana è un’iradiddio: spara più balle delle macchinette automatiche lanciapalle con cui si allenano i tennisti. Di questo passo il record del Cazzaro è in serio pericolo. Riavvolgiamo il nastro.

A mia insaputa. “Non sapevo nulla della procedura e non sono intervenuto in alcun modo” (8.6). Falso. Il suo assessore Raffaele Cattaneo dichiara a verbale di aver informato Fontana della fornitura di 75mila camici per 513mila euro affidata dalla regionale Aria Spa alla Dama Spa (l’azienda di suo cognato e di sua moglie, Andrea e Roberta Dini) fin da subito, cioè dal 16 aprile. E lui intervenne per trasformare il contratto oneroso in donazione solo il 20maggio, quando Report aveva scoperto tutto.

Date ballerine. “Solo il 12 maggio sono stato informato che la fornitura di camici da Dama era a titolo oneroso” (in Consiglio Regionale, 27.7). Falso: oltre alla smentita del suo assessore, c’è quella dell’ex ad di Aria Spa, Filippo Bongiovanni: “Comunicai la fornitura di Dama alla segreteria di Fontana il 10 maggio”.

Donazione lucrosa. “Quando è saltata fuori questa storia e ho visto che mio cognato faceva questa donazione, ho voluto partecipare anch’io. Fare anch’io una donazione” (La Stampa, 26.7). “Ho voluto alleviare l’onere dell’operazione, partecipando personalmente alla copertura di parte del mancato introito. È stata una decisione spontanea. Col mio legame avevo solo arrecato svantaggio a un’azienda legata alla mia famiglia” (in Consiglio Regionale, 27.7). Ma era il cognato che voleva fare la donazione o è lui che gliel’ha imposto e poi ha tentato di risarcirlo con i 250mila euro che voleva bonificare dal suo conto svizzero, ma furono bloccati per sospetto riciclaggio? E che senso ha risarcire qualcuno per i mancati introiti di una donazione, per definizione gratuita e senza introiti? Che cos’era, beneficenza a pagamento?

Regione indenne. “Regione Lombardia non ha speso un euro per la fornitura dei camici” (in Consiglio Regionale, 27.7). Sì, ma non grazie a lui che avallò la fornitura da 513mila euro: grazie a Report che scoprì lo scandalo e al Fatto che lo raccontò in anteprima, inducendo tutti alla precipitosa retromarcia. In ogni caso la Regione ha subìto un bel danno: ha firmato un contratto per 75mila camici, ma la ditta dei congiunti di Fontana ne ha consegnati solo 49mila. Gli altri 26mila Dini, quando seppe che non ci avrebbe più guadagnato, li tenne per sé e tentò di venderli a prezzo maggiorato a una clinica di Varese: la Gdf li ha trovati e sequestrati ieri perquisendo l’azienda come corpo del reato di frode in pubblica fornitura.

Già, perché il contratto Aria-Dama resta valido: la Regione non l’ha mai tramutato in donazione, dunque Dama è inadempiente.
Camici utilissimi. “In quel frangente avremmo acquistato camici e mascherine da chiunque, mi creda” (al Foglio, 29.7). Purtroppo lo smentisce Bongiovanni: “Quei camici alla Regione non servivano più”.

Nassau vende moda. “Escludo che mia madre sia mai stata alle Bahamas, non ho idea di come sia venuta fuori questa storia. A quanto ne so quei soldi sono sempre rimasti a Lugano… I risparmi di una vita dei miei genitori” (ibidem, 29.7). “Quello all’estero era un conto che avevano i miei genitori, una cosa purtroppo di moda a quei tempi” (a Repubblica, 28.7). Infatti dal Varesotto partivano ogni giorno voli charter per le Bahamas, il famoso ponte aereo Varese-Nassau, dove le dentiste (come mamma Fontana, la più cara del mondo) e gli impiegati alla mutua (come babbo Fontana, il più pagato del mondo) portavano i risparmi: nel caso di specie, 5,3 milioni. Peccato non aver saputo di quella simpatica moda, sennò ne avremmo approfittato tutti.

Macché evasori. “Evasione fiscale? Ma che dice? I miei hanno sempre pagato tutte le tasse, mia madre era super fifona, figurarsi evadere… Non so davvero dirle perché portassero fuori i loro risparmi” (ibidem). E perché Fontana, avvocato dal 1980, vice-pretore onorario (cioè magistrato) dal 1983, politico della Lega Nord dal 1990, non gliel’ha mai domandato? Secondo lui, perché mai una coppia di italiani, se vuol pagare le tasse, nasconde i soldi su due trust alle Bahamas? Per esotismo? Se i soldi fossero stati legalmente esportati pagando le tasse, che bisogno c’era dello schermo dei due trust a Nassau? E perché Fontana, dopo averli ereditati, redasse la voluntary disclosure con la legge del 2014 per rimpatriare i capitali illecitamente esportati? E perché, se li fece rientrare in Italia, li lasciò su un conto all’Ubs di Lugano?

Conto dormiente. “Comunque era un conto non operativo da almeno la metà degli anni 80” (ibidem). Balla pure questa: quel conto, fra il 2009 e il 2013 (quando sua madre aveva 86-90 anni e lui ne era contitolare e beneficiario), movimentò centinaia di migliaia di euro. Faceva tutto la vecchina o vi operava pure lui nel sonno?
Tutto dichiarato. “Quel conto è dichiarato, pubblico, trasparente, riportato nella mia dichiarazione patrimoniale sui siti regionali fin dal primo giorno del mio mandato” (ibidem). Peccato che nel 2017 l’Anac abbia multato Fontana per aver omesso nel 2016 la dichiarazione patrimoniale obbligatoria dei 5,3 milioni scudati in Svizzera nel 2015. A risentirci alla prossima balla.

Ora o mai più: Processo agli imperatori del web

L’accusa è chiara: troppo potere nelle mani di pochi, pochissimi. C’è un recinto digitale in cui lo steccato è formato dalle regole decise dai grandi monopolisti e il cui accesso è consentito solo a chi è disposto ad accettarle e a lasciare fuori le proprie. Parliamo di Internet e dei suoi servizi: e-commerce, social network, motori di ricerca e telefonia con la sua galassia di app. La conseguenza è la fine del libero mercato e la creazione di un oligopolio che controlla ogni aspetto del mondo digitale, condizionandolo e azzerando la concorrenza. Apple, Google, Facebook e Amazon: è stato permesso loro per anni di crescere senza limiti pensando che l’unica unità di misura della concorrenza fosse il prezzo dei servizi (concezione soprattutto statunitense). Oggi, con le elezioni alle porte, gli Usa sembrano aver capito che la concorrenza non si misura solo in dollari ma in potere. E che la battaglia a Big Tech può portare voti.

Così ieri i quattro amministratori delegati delle più grandi aziende digitali del mondo sono andati in audizione di fronte al panel Antitrust della Commissione Giustizia della Camera dei rappresentanti per rispondere alle domande dei deputati americani. È stato il punto di arrivo di un anno di investigazioni che ha prodotto 1,3 milioni di pagine di documenti e centinaia di ore di audizioni e incontri. Serviranno a capire se i mezzi a disposizione della legge sono sufficienti per contenere lo strapotere dei quattro giganti o se sarà necessario introdurre una nuova regolamentazione. L’accusa, mossa dal presidente democrat David Cicilline è quella di essere diventati degli “imperatori” dell’economia online attraverso pratiche concorrenziali scorrette e la fagocitazione delle piccole e medie imprese. “Hanno troppo potere – ha detto – e sulla scia del Covid-19 diventeranno ancora più potenti” tra smart working e acquisti online. Poi l’elenco: possono addebitare commissioni esorbitanti, imporre contratti oppressivi ed estrarre dati preziosi da persone e aziende che fanno affidamento su di loro. “Scoraggiano l’imprenditorialità, distruggono i posti di lavoro” ha concluso.

Per fare un esempio: Facebook, Amazon, Apple, Alphabet (la holding di Google) insieme a Microsoft valgono oltre il 20%dell’intero indice S&P 500 (che raggruppa le prime 500 aziende Usa quotate) e da inizio anno, nonostante il Coronavirus, hanno aumentato il loro valore di circa il 35% mentre le altre perdevano circa il 5 per cento. “Se il Congresso non riesce a portare correttezza e onestà tra le Big Tech, cosa che avrebbe dovuto fare anni fa, lo farò io con dei decreti” ha twittato ieri il presidente Usa, Donald Trump.

 

Facebook Non solo privacy: Il “grande fagocitatore” di rivali per restare l’unico

Un monopolio dei social network: Facebook è il grande fagocitatore, compra tutto quello che può fargli concorrenza, lo ingloba e lo fa diventare prezioso. In quindici anni, il fondatore e amministratore delegato Mark Zuckerberg (in foto) oltre a raggiungere un bacino di oltre 2 miliardi di persone nel mondo ha acquisito almeno una ottantina di aziende, incluse le ormai famosissime Instagram e Whatsapp. La mossa viene vista come un modo per raggiungere con Facebook (sotto mentite spoglie) anche utenti che magari di Facebook non vorrebbero saperne. La principale conseguenza è che il social network domina il mercato della pubblicità online – pur con tutte le criticità sulla privacy che da mesi ha dovuto affrontare e a cui sta cercando di porre rimedio – controllandone insieme a Google almeno il 60 per cento. Inoltre, alcuni legislatori britannici hanno rilevato delle e-mail che mostravano che Facebook utilizzava un’app di analisi per raccogliere dati dettagliati sui concorrenti al fine di eliminarli e che questo avrebbe aiutato Facebook, poi, a decidere di acquistare WhatsApp. Sorvolando la prima parte della seduta, in cui per chieder conto della gestione dei contenuti un membro del congresso cita un caso di Twitter, la seconda domanda si concentra sull’acquisizione di Instagram da parte di Facebook. “È vero o no che lei aveva parlato dell’acquisizione di Instagram come l’occasione per neutralizzare un potenziale competitor?” chiede uno dei deputati. Zuckerberg ammette di averlo detto ma, spiega, l’acquisizione non era stata contestata al tempo. Il punto, per il co-fondatore, è che Instagram è diventata così grande e importante grazie ai suoi investimenti, necessari per permettere a Facebook di essere competitiva nel campo delle foto e dei video. Su Whatsapp, stessa difesa: le acquisizioni sono tutte nell’ottica di permettere la comunicazione tra le persone attraverso ogni canale possibile. È “il miglioramento del servizio” che però si trasforma in monopolio. È lo spazio per gli altri? C’è, secondo Zuckerberg, e lo dimostra ladiffusione della cinese Tik Tok nonché, paradosso, la concorrenza che i 4 big si fanno tra loro.

 

Amazon La corsa per diventare produttore

La difesa di Amazon arriva poco dopo una indagine del Wall Street Journal che nei giorni scorsi ha confermato una delle accuse che la piattaforma di e-commerce ha sempre rigettato nei mesi scorsi: i dipendenti di Amazon avrebbero “utilizzato i dati sui venditori indipendenti sulla piattaforma della società per sviluppare prodotti concorrenti”, nonostante la policy della società lo vieti. Insomma, Amazon secondo le accuse non solo domina il mercato del retail delle vendite online con il 47% ma utilizzerebbe la piattaforma per capire quali prodotti stanno funzionando per i venditori indipendenti così da poter aiutare i maggiori partner (o Amazon stesso) a sviluppare prodotti simili e contemporaneamente dare meno visibilità agli altri. Uno dei rilievi mossi è che non sarebbero chiari i parametri su cui si basa l’algoritmo che fa comparire prodotti e venditori nella cosiddetta buy box (che in pratica “suggerisce” l’acquisto) dando loro maggiore, o minore, evidenza. Il fondatore, Jeff Bezos (in foto), noto per parlare molto poco in pubblico e per essere l’uomo più ricco del mondo (170 miliardi di dollari di patrimonio), ha avviato la propria difesa con la storia della sua vita, dal New Mexico come figlio di una madre single fino al liceo e poi con un padre adottivo emigrato da Cuba a 16 anni. Parla di sè come un “inventore da garage” che ha avuto l’idea di una libreria online nel 1994 e che per anni non ha visto profitti. Spiega che Amazon opera in un “enorme e competitivo” mercato al dettaglio globale e che la società rappresenta meno del 4 per cento della vendita al dettaglio negli Stati Uniti, negando quindi che possa rappresentare alcun monopolio. È il suo maggior argomento contro chi chiede che la società vada smembrata: Walmart, per dire, campione della grande distribuzione americana, sarebbe grande il doppio. Non riesce però a contestare le osservazioni della dem Pramila Jayapal che sottolinea come Amazon abbia di fatto accesso ad una mole di dati su venditori terzi immensa e di tale dettaglio da poter tagliare fuori dalla competizione qualsiasi altro venditore. “Un vantaggio competitivo senza paragoni”.

 

Apple Le Commissioni che soffocano gli sviluppatori

Iniziamo dalle accuse. Apple, entità enorme ma spesso silenziosa, negli ultimi tempi ha avuto un bel da fare con le accuse contro il suo app Store. A denunciarla sono stati alcuni sviluppatori consapevoli che l’Apple store sia l’unico mezzo per raggiungere gli utenti iOS, ovvero coloro che utilizzano i dispositivi dell’azienda con la mela nel simbolo. Non sarebbe un problema, se non fosse che per farlo debbano ad Apple fino al 30 per cento delle entrate. Questo, ad esempio, ha portato Spotify a segnalare l’azienda alla Commissione Europea visto che la quota da pagare a Apple imporrebbe alla famosa app di musica in streaming di aumentare il prezzo del suo servizio, portandolo ad una quota superiore a quella della concorrente Apple Music. Per gli stessi motivi sta protestando anche l’app di e-book Kobo. Inoltre, nei mesi scorsi sono stati sollevati dubbi sulle modalità di selezione delle app ammesse allo store. Per esempio sono bloccate quelle che non utilizzano il metodo di pagamento dell’azienda (secondo Apple, però, l’84 per cento delle app sullo store sono gratuite), obbligo confermato dallo stesso ad di Apple, Tim Cook (in foto). La possibilità di scegliere un altro metodo, infatti, consentirebbe agli sviluppatori di evitare la commissione sulle transazioni chiesta da Apple. A denunciarlo pubblicamente, ad esempio, sono stati gli sviluppatori della app di posta elettronica “Hey”.
“Il nostro obiettivo è raggiungere il meglio – ha risposto Cook nel corso dell’audizione – non certo la maggior quantità”. Ha ribadito di non avere “una posizione dominante in nessun mercato o in nessuna categoria di prodotto con cui facciamo affari“ e che “l’innovazione degli altri ci sta bene”. La promessa: “La scelta delle app ammesse sulla piattaforma sarà guidata solo da criteri di sicurezza e qualità”. Le polemiche e le accuse di essere un sistema chiuso ed “elitario”, però, restano.

 

Google Il dominio di tutto e l’insondabile gestione dei dati

Un po’ come Facebook, e forse anche di più, Google è ovunque: per dirla con le parole del procuratore generale del Texas, Big G. domina “il lato acquirente, il lato venditore, il lato asta e il lato video con YouTube”. Questo fa sì che domini anche l’intero comparto pubblicitario online. La grande incognita, su cui decine di stati americani stanno indagando, è la modalità di raccolta e utilizzo dei dati degli utenti e, anche in questo caso, quali siano i processi che portano ad esempio a favorire, nelle ricerche legate allo shop ma non solo, determinati risultati (magari dei prodotti sponsorizzati) rispetto ad altri. Inoltre, è l’accusa del comitato Antitrust, Google avrebbe “rubato contenuti da altre aziende” (come Yelp) e le avrebbe fatte proprie.
Nel suo intervento di ieri, il Ceo Sundar Pichai (in foto) si è difeso sostenendo che il successo continuo di Google non può essere garantito per sempre. “Google opera in modo altamente competitivo e in mercati globali dinamici, in cui i prezzi sono zero o in calo e in cui i prodotti stanno costantemente migliorando – ha detto – Il panorama competitivo odierno non assomiglia per niente a 5 anni fa, figuriamoci 21 anni fa, quando Google ha lanciato il suo primo prodotto (il motore di ricerca, ndr)”. Il punto è, secondo Pichai, che le persone hanno più modi di cercare informazioni che mai e che sempre più “ciò accade al di fuori del contesto di un solo motore di ricerca”. Cita Alexa, Twitter, WhatsApp, Snapchat o Pinterest. “Quando cerchi prodotti online si potrebbe visitare Amazon, eBay, Walmart o uno qualsiasi dei numerosi fornitori di ecommerce, in cui si concentra la maggior parte delle domande sullo shopping online. Allo stesso modo, in aree come i viaggi e l’immobiliare: Google deve affrontare una forte concorrenza per le query di ricerca di molte imprese che si espandono in queste aree”. E i dati? “Vengono utilizzati solo per migliorare il prodotto, come fanno tutte le aziende” è la risposta. Poi, rispondendo alle sollecitazioni, fornisce qualche numero: dall’advertising arrivano circa 300-400 miliardi di dollari.

 

 

Grosso guaio (di omonimi) in Toscana

È tutta una questione di nomi. O meglio, di cognomi. Dopo cinquant’anni di governi rossi, la storica partita per le Regionali in Toscana potrebbe non giocarsi sulla sanità, sulle infrastrutture e sull’occupazione ma sui cognomi dei candidati a governatore. Sì, perché oltre ai noti Eugenio Giani (centrosinistra), Susanna Ceccardi (centrodestra), Irene Galletti (M5S) e Tommaso Fattori (sinistra), si sono aggiunti altri due candidati che, per puro caso, hanno lo stesso cognome dei due leader del centrodestra nazionale: l’ex consigliere regionale della Lega Roberto Salvini che correrà con una lista civica (“Patto per la Toscana”) dopo essere stato espulso dal partito per un’uscita choc (“vanno rimesse le donne in vetrina per far ripartire il turismo”) e la 34enne Elisa Meloni con Volt, il movimento europeista che esordisce alle Regionali con tinte ambientaliste.

Una coincidenza che potrebbe costare cara alla candidata leghista Ceccardi visto che già nel 2015 l’omonimo di Matteo aveva strappato la poltrona alla rampante candidata al consiglio regionale: Salvini (Roberto), commerciante semi sconosciuto di Pontedera (Pisa), era stato eletto con ben cinque mila preferenze, mille in più di Ceccardi che nel suo feudo pisano era rimasta fuori dal consiglio. A favorire il 68enne leghista – che ha sempre assicurato di avere un grosso bacino di voti tra “cacciatori e falegnami” –­era stato sicuramente il cognome, che si poteva confondere con il leader leghista.

Questo effetto potrebbe essere replicato ancora di più grazie alla riforma elettorale passata in consiglio regionale lo scorso 24 giugno con i voti della maggioranza: la scheda elettorale quest’anno sarà diversa rispetto a quella di cinque anni fa con i nomi dei candidati graficamente più grossi. Il Pd infatti cerca di puntare sulla notorietà del proprio candidato Eugenio Giani, soprattutto nell’area di Firenze e provincia.

E così adesso il centrodestra è terrorizzato che la giovane Elisa Meloni e Roberto Salvini possano portare via voti a Ceccardi. Per questo, i leghisti stanno provando a metterci una pezza: cercare un “Giani” (ce ne sono molti in Toscana), aiutarlo a raccogliere le firme necessarie e farlo candidare per recuperare lo svantaggio. L’idea era nata “scherzando” – raccontano dal Carroccio – ma un tentativo è stato fatto. Non è detto che ci riusciranno, ma è la dimostrazione del fatto che la preoccupazione nel centrodestra è reale. Secondo l’ultimo sondaggio dell’istituto Noto il distacco tra Giani e Ceccardi è risicato: al momento il candidato renziano ha quattro punti di vantaggio su Ceccardi (44-40%) mentre alla giovane Meloni è attribuito un buon 2% dei consensi, conosciuta da 4 toscani su 10. Roberto Salvini invece veleggia intorno all’1%. Numeri che possono fare la differenza in un’elezione che si giocherà sul filo del rasoio.

Guerra tra 5S e Casaleggio. Si rompe l’asse con Milano

Dopo la due giorni di Milano è davvero guerra, a 5Stelle. E chi la vince difficilmente farà prigionieri, perché in gioco ci sono la piattaforma web Rousseau, la regola dei due mandati e la guida politica, insomma più o meno tutto quello che conta per il Movimento. La posta in palio della sfida tra Davide Casaleggio e un’ampia fetta del M5S, composta da diversi big e da gran parte dei parlamentari, quelli che martedì hanno preteso e ottenuto dal capo politico reggente Vito Crimi una riunione alla Camera, tutta su Rousseau e su Casaleggio. E sono stati urla e sfoghi.

Troppa la rabbia per la contromossa dell’erede di Gianroberto, che sabato e domenica nel Villaggio Rousseau aveva radunato molti maggiorenti e soprattutto lanciato un percorso per decidere nuovi metodi per la selezione dei candidati. Una breccia per riscrivere le regole, ribadendo di fatto che il vincolo dei due mandati non si può toccare. Fino a convocare domenica un nuovo evento “aperto e inclusivo” per il 4 ottobre, l’11° anniversario della fondazione del Movimento, che quest’anno arriverà un soffio dopo le Regionali.

Una mossa per anticipare quegli Stati generali a 5Stelle che non hanno ancora una data e una fisionomia. Lentezza da sfruttare, per svuotarli di significato. Così almeno proverà a fare Casaleggio, deciso portare dalla sua parte gran parte dei 170 mila e rotti iscritti piattaforma web Rousseau. Il suo potenziale esercito, per battere big ed eletti che gli vogliono togliere le chiavi della piattaforma e abbattere il vincolo dei due mandati, prima per i sindaci e poi per tutti. Ma i parlamentari ormai sono sulle barricate, non vogliono più saperne di continuare a versare 300 euro al mese “per una piattaforma gestita da un privato” come sibila un senatore. Concetti echeggiati martedì sera di fronte a un imbarazzato Crimi, che a Milano c’era, e che di fronte agli eletti ha provato a salvare la casa madre: “Rousseau è la colonna vertebrale del Movimento”.

Ma a partire dalla romana Francesca Flati per passare all’ex sottosegretario Gianluca Vacca, fino a Gilda Sportiello, vicina al presidente della Camera Roberto Fico, sono arrivate tutt’altre parole. “C’è un problema di conflitto di interessi” ha scandito Sportiello: e sono arrivati applausi, anche da grillini di governo come il sottosegretario al Mef, Alessio Villarosa (molto nervoso).

Lo avranno sicuramente raccontato a Casaleggio, che nella due giorni del Villaggio Rousseau a Milano ha contato amici e ostili. “Davide ha fatto caso a chi è venuto di persona” conferma una fonte qualificata. Luigi Di Maio è stato nella sede dell’associazione Rousseau per tutta la domenica, per due diversi eventi online. “Un modo per presidiare e sminare polemiche, non certo per schierarsi” riassume un 5Stelle di peso. Ed è salita anche la sindaca di Roma Virginia Raggi, che ha bisogno di sostegno trasversale per potersi ricandidare. Ergo, spera che Casaleggio dia il suo sì alla deroga sui due mandati almeno per i sindaci, già invocata da Alessandro Di Battista: l’unico big rimasto vicino al figlio di Gianroberto assieme a Crimi. Di Battista non poteva essere al Villaggio Rousseau, causa secondo figlio in arrivo. Sarebbe andato, anche se in tanti continuano a ripetergli di abbandonare Casaleggio.

Si è visto invece qualche ministro, come Nunzia Catalfo e Paola Pisano, e qualche altro big come il milanese Stefano Buffagni. Gli altri, collegati da fuori. Oppure assenti. “Non hanno chiamato i capigruppo e hanno ignorato i parlamentari” hanno lamentato tra le altre cose i deputati nella riunione con Crimi. Ma tanto ormai indietro non si torna. “Convocando l’evento del 4 ottobre, Casaleggio ha tirato una linea, o di qua o di là” raccontano. Il 4 ottobre può essere uno spartiacque. Da Roma lo sanno, e tirano altri dardi. “Gli utenti collegati per la due giorni erano pochissimi, se mi fossi fatto la doccia in diretta ne avrei raccolti di più” morde un veterano.

E Beppe Grillo? “I rapporti con Davide non sono idilliaci” dicono. Pare non lo siano mai stati. Casaleggio junior avrebbe voluto votare un nuovo capo del M5S entro l’estate. Ma in una tesa riunione in aprile tutti i big, Di Maio in primis, dissero no. Dalla loro avevano anche un parere autografo del Garante, di Grillo. E fu l’inizio della guerra, che potrebbe deflagrare nella lotta per il controllo del simbolo. Sarebbe il passo che spezzerebbe in due i Cinque Stelle. Senza ritorno.

Paziente 70enne trovato positivo dopo un ricovero al Sant’Eugenio

È entrato che era negativo al Covid, è stato dimesso da positivo asintomatico. Il suo compagno di stanza, un 70enne malato oncologico, ora è in isolamento in attesa del secondo tampone. C’è preoccupazione all’ospedale Sant’Eugenio di Roma per il caso di un uomo di mezza età, fino a martedì ricoverato nel reparto di Medicina 2, che sembra aver contratto il virus nel suo periodo (circa una settimana) di permanenza al nosocomio in zona Eur. Al momento del ricovero, il test era risultato negativo. Tutto il contrario di quanto avvenuto al momento delle dimissioni, quando il tampone ha dato esito positivo. Sono subito scattati i protocolli, l’uomo è in isolamento domiciliare.

Secondo il racconto di alcuni testimoni, l’uomo riceveva ogni giorno le visite dei familiari e di diversi amici, e in più occasioni i sanitari avrebbero esortato il paziente a incontrare queste persone fuori dalla stanza dove si trovava “per evitare assembramenti”. Una procedura che, se confermata, rappresenterebbe una violazione dei protocolli, dovendo le visite essere rigorosamente contingentate. Il Fatto ha provato a contattare la competente Asl Roma 2 e lo stesso ospedale Sant’Eugenio, ma non sono arrivate risposte. C’è apprensione anche per le sorti del compagno di stanza, anch’egli 70enne, che aveva subito un intervento chirurgico ed era ricoverato per un’infezione alle vie urinarie. L’uomo è stato posto in isolamento in un reparto ad hoc: il primo tampone ha dato esito negativo, ma i medici sono in attesa del test di conferma.

Il protocollo prevede la chiusura momentanea del reparto per procedere alla sanificazione e il test sierologico sul personale sanitario e sulle persone che possono essere venute a contatto con il positivo. Segnalazioni su quanto avvenuto al Sant’Eugenio sono arrivate anche al ministero della Sanità e al dipartimento nazionale della Protezione civile. Per ora non si registrano comunicazioni da parte della Regione Lazio.

Elezioni Puglia, no a parità di genere: tocca al governo

L’ultimo atto della consiliatura pugliese è una discreta figuraccia per la Regione in generale e per il presidente Michele Emiliano in particolare. La Puglia finisce “commissariata” dal governo, che inserirà nella legge elettorale regionale la doppia preferenza di genere prevista dalle norme nazionali: come successe già nel 2015, ai tempi di Nichi Vendola, nella notte tra martedì e mercoledì, ultimo giorno utile, la maggioranza di centrosinistra non è riuscita a portare a casa la modifica. Ora, come da diffida formale inviata da Palazzo Chigi, il 23 luglio, il tempo è scaduto: ci pensa Roma. Breve riassunto. La legge nazionale prevede che le liste elettorali, anche locali, rispettino il principio 60%-40% nell’alternanza di genere e che, laddove ci sia la preferenza, se ne esprima una per sesso: la ratio è garantire la rappresentanza femminile. Nonostante la legge sia lì da quasi un decennio, a fine giugno il governo ha “invitato” le Regioni inadempienti a darsi una mossa: Piemonte, Calabria, Friuli-Venezia Giulia, Valle d’Aosta, la provincia di Bolzano, Liguria e Puglia appunto. Le ultime due, che votano a settembre, dovevano provvedere subito: l’ha fatto solo la Liguria.

La cosa non è avvenuta senza teatro. Un’ultima notte di sceneggiate conclusa con la maggioranza che, attorno alle due, abbandona il consiglio regionale ponendo fine alla farsa. In sostanza, la legge proposta da Pd e M5S (che è all’opposizione) non piaceva al centrodestra: prevedeva l’esclusione di chi non rispettasse il criterio 60-40. FdI, Forza Italia e Lega volevano una più affrontabile sanzione pecuniaria o, in subordine, la doppia preferenza subito e il 60-40 dal 2025. La maggioranza si è messa a proporre emendamenti, imitata dalla destra. Uno, che mirava a rendere incandidabile il virologo Lopalco (che Emiliano vuole in lista), è stato approvato grazie a 8 franchi tiratori: è stato l’ultimo atto e il Pd ha fatto mancare il numero legale.

Metà delle aziende ha usato la Cig Perso 1/3 di reddito

Le misure d’urgenza approvate negli scorsi mesi hanno impedito che il sistema produttivo italiano franasse durante il lockdown. Tanto che a marzo e aprile, con il Paese praticamente bloccato per contenere la pandemia, il 51% delle imprese ha fatto ricorso alla cassa integrazione. L’ammortizzatore sociale ha coperto 4 lavoratori dipendenti su 10 consentendo alle imprese un risparmio medio di 1.100 euro per dipendente. Ma le aziende più grandi del settore dei servizi hanno risparmiato anche fino a 24.000 euro. È nel rapporto pubblicato dalla Direzione centrale Studi e Ricerche dell’Inps in collaborazione con la Banca d’Italia sull’uso della cassa integrazione Covid che si conferma anche quanto denunciato dal presidente dell’Inps Pasquale Tridico e dal presidente dell’ufficio parlamentare di Bilancio Giuseppe Pisauro sui “furbetti” della Cig: l’hanno richiesta il 20% delle imprese nella manifattura e il 30% nei servizi anche se non hanno registrato cali produttivi o di fatturato.

Non si tratta di un illecito, visto che né il Cura Italia né il decreto Rilancio hanno previsto paletti per richiedere la Cig, ma di un’azione scorretta mentre il governo ha ottenuto il via libera a un nuovo scostamento di bilancio da 25 miliardi per prorogare con il prossimo dl Agosto proprio le misure a sostegno di imprese e lavoratori che conterrà alcuni ritocchi per evitare queste situazioni. E, secondo il rapporto Inps-Bankitalia, sono quest’ultimi ad aver pagato a caro prezzo le conseguenze della Cig. La misura ha infatti riguardato quasi il 40% dei dipendenti del settore privato che hanno perso in media oltre un quarto del proprio reddito mensile. In base ai dati aggiornati al 15 luglio, ogni lavoratore in Cig Covid ha subìto una riduzione oraria di 156 ore, il 90% dell’orario mensile di lavoro a tempo pieno. Nonostante siano state le meno colpite dal virus a livello sanitario, è dalle Regioni del Sud che è arrivato il maggior numero di richieste di acceso alla cassa.