L’accusa è chiara: troppo potere nelle mani di pochi, pochissimi. C’è un recinto digitale in cui lo steccato è formato dalle regole decise dai grandi monopolisti e il cui accesso è consentito solo a chi è disposto ad accettarle e a lasciare fuori le proprie. Parliamo di Internet e dei suoi servizi: e-commerce, social network, motori di ricerca e telefonia con la sua galassia di app. La conseguenza è la fine del libero mercato e la creazione di un oligopolio che controlla ogni aspetto del mondo digitale, condizionandolo e azzerando la concorrenza. Apple, Google, Facebook e Amazon: è stato permesso loro per anni di crescere senza limiti pensando che l’unica unità di misura della concorrenza fosse il prezzo dei servizi (concezione soprattutto statunitense). Oggi, con le elezioni alle porte, gli Usa sembrano aver capito che la concorrenza non si misura solo in dollari ma in potere. E che la battaglia a Big Tech può portare voti.
Così ieri i quattro amministratori delegati delle più grandi aziende digitali del mondo sono andati in audizione di fronte al panel Antitrust della Commissione Giustizia della Camera dei rappresentanti per rispondere alle domande dei deputati americani. È stato il punto di arrivo di un anno di investigazioni che ha prodotto 1,3 milioni di pagine di documenti e centinaia di ore di audizioni e incontri. Serviranno a capire se i mezzi a disposizione della legge sono sufficienti per contenere lo strapotere dei quattro giganti o se sarà necessario introdurre una nuova regolamentazione. L’accusa, mossa dal presidente democrat David Cicilline è quella di essere diventati degli “imperatori” dell’economia online attraverso pratiche concorrenziali scorrette e la fagocitazione delle piccole e medie imprese. “Hanno troppo potere – ha detto – e sulla scia del Covid-19 diventeranno ancora più potenti” tra smart working e acquisti online. Poi l’elenco: possono addebitare commissioni esorbitanti, imporre contratti oppressivi ed estrarre dati preziosi da persone e aziende che fanno affidamento su di loro. “Scoraggiano l’imprenditorialità, distruggono i posti di lavoro” ha concluso.
Per fare un esempio: Facebook, Amazon, Apple, Alphabet (la holding di Google) insieme a Microsoft valgono oltre il 20%dell’intero indice S&P 500 (che raggruppa le prime 500 aziende Usa quotate) e da inizio anno, nonostante il Coronavirus, hanno aumentato il loro valore di circa il 35% mentre le altre perdevano circa il 5 per cento. “Se il Congresso non riesce a portare correttezza e onestà tra le Big Tech, cosa che avrebbe dovuto fare anni fa, lo farò io con dei decreti” ha twittato ieri il presidente Usa, Donald Trump.
Facebook Non solo privacy: Il “grande fagocitatore” di rivali per restare l’unico
Un monopolio dei social network: Facebook è il grande fagocitatore, compra tutto quello che può fargli concorrenza, lo ingloba e lo fa diventare prezioso. In quindici anni, il fondatore e amministratore delegato Mark Zuckerberg (in foto) oltre a raggiungere un bacino di oltre 2 miliardi di persone nel mondo ha acquisito almeno una ottantina di aziende, incluse le ormai famosissime Instagram e Whatsapp. La mossa viene vista come un modo per raggiungere con Facebook (sotto mentite spoglie) anche utenti che magari di Facebook non vorrebbero saperne. La principale conseguenza è che il social network domina il mercato della pubblicità online – pur con tutte le criticità sulla privacy che da mesi ha dovuto affrontare e a cui sta cercando di porre rimedio – controllandone insieme a Google almeno il 60 per cento. Inoltre, alcuni legislatori britannici hanno rilevato delle e-mail che mostravano che Facebook utilizzava un’app di analisi per raccogliere dati dettagliati sui concorrenti al fine di eliminarli e che questo avrebbe aiutato Facebook, poi, a decidere di acquistare WhatsApp. Sorvolando la prima parte della seduta, in cui per chieder conto della gestione dei contenuti un membro del congresso cita un caso di Twitter, la seconda domanda si concentra sull’acquisizione di Instagram da parte di Facebook. “È vero o no che lei aveva parlato dell’acquisizione di Instagram come l’occasione per neutralizzare un potenziale competitor?” chiede uno dei deputati. Zuckerberg ammette di averlo detto ma, spiega, l’acquisizione non era stata contestata al tempo. Il punto, per il co-fondatore, è che Instagram è diventata così grande e importante grazie ai suoi investimenti, necessari per permettere a Facebook di essere competitiva nel campo delle foto e dei video. Su Whatsapp, stessa difesa: le acquisizioni sono tutte nell’ottica di permettere la comunicazione tra le persone attraverso ogni canale possibile. È “il miglioramento del servizio” che però si trasforma in monopolio. È lo spazio per gli altri? C’è, secondo Zuckerberg, e lo dimostra ladiffusione della cinese Tik Tok nonché, paradosso, la concorrenza che i 4 big si fanno tra loro.
Amazon La corsa per diventare produttore
La difesa di Amazon arriva poco dopo una indagine del Wall Street Journal che nei giorni scorsi ha confermato una delle accuse che la piattaforma di e-commerce ha sempre rigettato nei mesi scorsi: i dipendenti di Amazon avrebbero “utilizzato i dati sui venditori indipendenti sulla piattaforma della società per sviluppare prodotti concorrenti”, nonostante la policy della società lo vieti. Insomma, Amazon secondo le accuse non solo domina il mercato del retail delle vendite online con il 47% ma utilizzerebbe la piattaforma per capire quali prodotti stanno funzionando per i venditori indipendenti così da poter aiutare i maggiori partner (o Amazon stesso) a sviluppare prodotti simili e contemporaneamente dare meno visibilità agli altri. Uno dei rilievi mossi è che non sarebbero chiari i parametri su cui si basa l’algoritmo che fa comparire prodotti e venditori nella cosiddetta buy box (che in pratica “suggerisce” l’acquisto) dando loro maggiore, o minore, evidenza. Il fondatore, Jeff Bezos (in foto), noto per parlare molto poco in pubblico e per essere l’uomo più ricco del mondo (170 miliardi di dollari di patrimonio), ha avviato la propria difesa con la storia della sua vita, dal New Mexico come figlio di una madre single fino al liceo e poi con un padre adottivo emigrato da Cuba a 16 anni. Parla di sè come un “inventore da garage” che ha avuto l’idea di una libreria online nel 1994 e che per anni non ha visto profitti. Spiega che Amazon opera in un “enorme e competitivo” mercato al dettaglio globale e che la società rappresenta meno del 4 per cento della vendita al dettaglio negli Stati Uniti, negando quindi che possa rappresentare alcun monopolio. È il suo maggior argomento contro chi chiede che la società vada smembrata: Walmart, per dire, campione della grande distribuzione americana, sarebbe grande il doppio. Non riesce però a contestare le osservazioni della dem Pramila Jayapal che sottolinea come Amazon abbia di fatto accesso ad una mole di dati su venditori terzi immensa e di tale dettaglio da poter tagliare fuori dalla competizione qualsiasi altro venditore. “Un vantaggio competitivo senza paragoni”.
Apple Le Commissioni che soffocano gli sviluppatori
Iniziamo dalle accuse. Apple, entità enorme ma spesso silenziosa, negli ultimi tempi ha avuto un bel da fare con le accuse contro il suo app Store. A denunciarla sono stati alcuni sviluppatori consapevoli che l’Apple store sia l’unico mezzo per raggiungere gli utenti iOS, ovvero coloro che utilizzano i dispositivi dell’azienda con la mela nel simbolo. Non sarebbe un problema, se non fosse che per farlo debbano ad Apple fino al 30 per cento delle entrate. Questo, ad esempio, ha portato Spotify a segnalare l’azienda alla Commissione Europea visto che la quota da pagare a Apple imporrebbe alla famosa app di musica in streaming di aumentare il prezzo del suo servizio, portandolo ad una quota superiore a quella della concorrente Apple Music. Per gli stessi motivi sta protestando anche l’app di e-book Kobo. Inoltre, nei mesi scorsi sono stati sollevati dubbi sulle modalità di selezione delle app ammesse allo store. Per esempio sono bloccate quelle che non utilizzano il metodo di pagamento dell’azienda (secondo Apple, però, l’84 per cento delle app sullo store sono gratuite), obbligo confermato dallo stesso ad di Apple, Tim Cook (in foto). La possibilità di scegliere un altro metodo, infatti, consentirebbe agli sviluppatori di evitare la commissione sulle transazioni chiesta da Apple. A denunciarlo pubblicamente, ad esempio, sono stati gli sviluppatori della app di posta elettronica “Hey”.
“Il nostro obiettivo è raggiungere il meglio – ha risposto Cook nel corso dell’audizione – non certo la maggior quantità”. Ha ribadito di non avere “una posizione dominante in nessun mercato o in nessuna categoria di prodotto con cui facciamo affari“ e che “l’innovazione degli altri ci sta bene”. La promessa: “La scelta delle app ammesse sulla piattaforma sarà guidata solo da criteri di sicurezza e qualità”. Le polemiche e le accuse di essere un sistema chiuso ed “elitario”, però, restano.
Google Il dominio di tutto e l’insondabile gestione dei dati
Un po’ come Facebook, e forse anche di più, Google è ovunque: per dirla con le parole del procuratore generale del Texas, Big G. domina “il lato acquirente, il lato venditore, il lato asta e il lato video con YouTube”. Questo fa sì che domini anche l’intero comparto pubblicitario online. La grande incognita, su cui decine di stati americani stanno indagando, è la modalità di raccolta e utilizzo dei dati degli utenti e, anche in questo caso, quali siano i processi che portano ad esempio a favorire, nelle ricerche legate allo shop ma non solo, determinati risultati (magari dei prodotti sponsorizzati) rispetto ad altri. Inoltre, è l’accusa del comitato Antitrust, Google avrebbe “rubato contenuti da altre aziende” (come Yelp) e le avrebbe fatte proprie.
Nel suo intervento di ieri, il Ceo Sundar Pichai (in foto) si è difeso sostenendo che il successo continuo di Google non può essere garantito per sempre. “Google opera in modo altamente competitivo e in mercati globali dinamici, in cui i prezzi sono zero o in calo e in cui i prodotti stanno costantemente migliorando – ha detto – Il panorama competitivo odierno non assomiglia per niente a 5 anni fa, figuriamoci 21 anni fa, quando Google ha lanciato il suo primo prodotto (il motore di ricerca, ndr)”. Il punto è, secondo Pichai, che le persone hanno più modi di cercare informazioni che mai e che sempre più “ciò accade al di fuori del contesto di un solo motore di ricerca”. Cita Alexa, Twitter, WhatsApp, Snapchat o Pinterest. “Quando cerchi prodotti online si potrebbe visitare Amazon, eBay, Walmart o uno qualsiasi dei numerosi fornitori di ecommerce, in cui si concentra la maggior parte delle domande sullo shopping online. Allo stesso modo, in aree come i viaggi e l’immobiliare: Google deve affrontare una forte concorrenza per le query di ricerca di molte imprese che si espandono in queste aree”. E i dati? “Vengono utilizzati solo per migliorare il prodotto, come fanno tutte le aziende” è la risposta. Poi, rispondendo alle sollecitazioni, fornisce qualche numero: dall’advertising arrivano circa 300-400 miliardi di dollari.