Non si arrestano gli sbarchi. Nella notte tra martedì e mercoledì a Lampedusa sono giunti 314 tunisini. Ieri l’hotspot ospitava circa mille migranti quando i posti disponibili sono solo 95, ma i numeri sono in continuo aggiornamento. In mattinata un barchino con 45 persone è approdato sulla spiaggia tra Caucana e Casuzze, in provincia di Ragusa, a poca distanza dalla casa di Montalbano nella fiction tv. Si rischia di trasformare “una situazione sanitaria in una di ordine pubblico”, ha detto il governatore Nello Musumeci al Comitato Schengen. Il Piemonte da parte sua si opporrà “al trasferimento di migranti”, ha detto l’assessore alla Sicurezza, Fabrizio Ricca. Il Viminale, intanto, ha fatto sapere che dopo lo stop dovuto al Covid il 16 luglio sono ripresi i rimpatri in Tunisia. Tre finora i charter, un altro è in programma oggi. In tutto 80 le persone riportate nel Paese. “L’obiettivo è quello di disporre almeno di due unità navali” da destinare alla quarantena di chi sbarca. Finora sono cinque le manifestazioni di interesse arrivate per la gara bandita dal ministero dei Trasporti.
Covid-19, allarme in Spagna e Germania. Contagi ancora in crescita, età media in calo
Salgono oltre i mille al giorno i nuovi contagi di coronavirus in Spagna, 1.153 ne ha registrati la Sanità iberica nelle ultime 24 ore: record dal 1° maggio. La più colpita è la comunità di Aragona, segue la Catalogna. Qui però gli infetti sono stabili rispetto ai giorni precedenti, motivo per cui la Generalitat ha eliminato le restrizioni alla mobilità nella provincia di Lleida e reso più flessibili le misure a Barcellona città, pur mantenendo in vigore il divieto di riunioni con più di dieci partecipanti.
Al terzo posto per nuovi positivi c’è Madrid: nella regione della Capitale sono stati identificati due nuovi focolai, uno in una in una comunità religiosa, l’altro in una discoteca. È tra i più giovani infatti che si sta diffondendo il Covid-19 nella Capitale, che registra nella fascia di età sotto in 30 anni una crescita sette volte maggiore di contagi rispetto alla settimana scorsa.
Lo stesso vale per la Catalogna, dove il Tribunale supremo ha dato ragione agli esercenti e ha riaperto le palestre e i cinema, ma mantenendo l’ordine di chiusura imposto dalla Generalitat per le discoteche e i locali notturni.
Dalla Galizia arriva l’ordine di registrazione all’ingresso della regione per coloro che provengono da comunità e province spagnole con alto numero di contagi, mentre le spiagge del Sud e delle isole iniziano già a risentire delle raccomandazioni di Francia, Olanda e Germania di non viaggiare in Spagna a meno di necessità, così come della quarantena imposta ai viaggiatori di ritorno dal Paese iberico nel Regno Unito.
Anche in Germania cresce ancora la paura, mentre sale il numero dei nuovi casi di Covid-19, con quasi 700 nuovi infettati in un solo giorno e l’indice R0 arriva a 1,2. Numeri comunque ancora molto lontani dall’acme del contagio raggiunto ad aprile, quando i casi quotidiani viaggiavano intorno ai 6.000 al giorno, ma più alto delle poche centinaia di contagi registrati nel Paese fino alla settimana scorsa. Attualmente sono circa 6.500 i casi attivi di coronavirus in Germania. Anche qui si è abbassata l’età media degli infetti, il che ha portato il direttore dell’ufficio regionale dell’Organizzazione mondiale della Sanità, Hans Kluge, a lanciare l’allarme e a chiedere una maggiore responsabilizzazione per quanto riguarda l’apertura di bar e locali notturni. “Necessario, ha sottolineato, che le autorità comunichino meglio con i ragazzi e li coinvolgano di più nella prevenzione”. Nell’Europa dell’Est, resta sempre alta la curva in Romania, con 1.182 nuovi positivi e 30 morti. È l’ottavo giorno che Bucarest registra più di mille nuovi casi di Covid.
L’insostenibile processo alle ferie di Maria Elena
Ma quella fotoin bikini in barca a Ischia, assembrata a tutta la crème di Italia Viva, “era proprio opportuna? Ha visto quanti haters?” La graffiante domanda con cui Maria Teresa Meli, a pagina 8 del Corriere, cerca di mettere spalle al muro la sfuggente Maria Elena Boschi sulle sue vacanze è di quelle che lasciano col fiato sospeso. Degna del duello tv Frost vs. Nixon. Ma ci vuole altro per intimidire la tigre di Laterina, fresca di nuovo taglio: “Sono oggetto dell’odio dei leoni da tastiera da anni”, risponde Meb con cipiglio fiero. Lei però è altra cosa: “Non abbiamo mai ripagato con la stessa moneta chi ci ha aggredito. Siamo diversi e rivendichiamo questa diversità”. E poi i media pubblicano le foto sbagliate. “Quanto sarebbe bello se dedicassero lo stesso spazio alle mie foto con i ragazzi delle scuole di San Luca o a quelle con le vittime della tratta?”, si chiede la Meli (anzi, la Boschi). Purtroppo “c’è chi preferisce il gossip”. Ma a riequilibrare ci pensa il titolone del Corriere. “L’attacco per le ferie? Su di me anni di odio”. Pochi amici, ma quelli giusti.
Un’altra accusa per Lotti: c’è la rivelazione di segreto
Avrebbero riferito notizie “procacciate presso i componenti organi di polizia giudiziaria” o “pressando le scale di comando, affinché acquisissero dati sensibili poi rilevati a soggetti collegati al potere politico nazionale o direttamente agli amministratori” della Consip. È la nuova accusa per l’ex ministro Pd, Luca Lotti, e per il generale dei carabinieri, Emanuele Saltalamacchia, rinviati a giudizio ieri per rivelazione di segreto d’ufficio, in uno dei tronconi dell’inchiesta Consip. Il fatto è sempre lo stesso: quello di aver rivelato nel 2016 a Luigi Marroni, ex amministratore delegato dell’azienda che gestisce gli appalti pubblici, l’esistenza di un’indagine della Procura di Napoli. Per questo fatto, Lotti e Saltalamacchia sono già a processo in primo grado con l’accusa di favoreggiamento. Era infatti l’unico reato che avevano ravvisato i pm romani, i quali per quanto riguarda l’accusa di rivelazione di segreto avevano chiesto l’archiviazione. Rigettata dal gip Gaspare Sturzo. Ieri in udienza il sostituto procuratore Mario Palazzi ha chiesto il non luogo a procedere per Lotti e Saltalamacchia, ma il giudice Niccolò Marino ha respinto la richiesta, fissando al prossimo 13 ottobre l’udienza, in cui i giudici dell’ottava sezione collegiale potranno riunire in un unico processo le varie ramificazioni dell’inchiesta romana su Consip. In un processo stralcio l’ex comandante generale dei carabinieri Tullio Del Sette risponde anch’egli di rivelazione di segreto investigativo e favoreggiamento.
Il gup Marino nelle sue motivazioni, sposa in pieno la tesi già esposta dal collega Sturzo, spiegando che Saltalamacchia nell’Arma e Lotti nel governo Renzi ricoprivano “un ruolo di alta responsabilità pubblica”, e che “entrambi conoscevano e frequentavano Tiziano Renzi”, padre dell’ex premier Matteo. Il giudice aggiunge, che viste le dichiarazioni di Luigi Marroni e Luigi Ferrara (ex amministratore delegato ed ex presidente di Consip), la coppia Saltalamacchia-Lotti “avrebbe riferito notizie procacciate presso i componenti organi di polizia giudiziaria che stavano seguendo le indagini coperte da segreto, o pressando le scale di comando, affinché acquisissero dati sensibili poi rilevati a soggetti collegati al potere politico nazionale o direttamente agli amministratori della società pubblica che da questi erano stati nominati”.
L’ex ministro renziano e il generale, conclude il giudice Marino, “hanno abusato della loro qualità pubblica concorrendo nella rivelazione di segreto con coloro che possedevano informazioni sensibili”.
“Quando arriva una decisione del genere non si è né sorpresi, né delusi – ha commentato Lotti –. Sapevo che il processo doveva iniziare, c’è un secondo capo di imputazione per il quale la Procura per tre volte aveva chiesto l’archiviazione. Queste decisioni non si commentano. Affronterò il processo con la tranquillità e con la serenità di chi sa che si difenderà per raccontare la verità dei fatti. Non è cambiato niente”.
Intanto continuano gli interrogatori dei magistrati Paolo Ielo e Mario Palazzi. La Procura di Roma ha infatti dato seguito alle indagini indicate dal gip Gaspare Sturzo, che lo scorso febbraio, tra le altre cose, ha rigettato (accogliendola invece per due episodi) la richiesta di archiviazione nei confronti, fra gli altri, del padre di Matteo Renzi.
Tiziano Renzi è stato indagato per traffico d’influenze illecite, la Procura ne ha chiesto l’archiviazione rigettata in parte dal gip che ha disposto nuove indagini. Così sono in corso ulteriori accertamenti e interrogatori, che riguardano anche altre posizioni. Nei giorni scorsi è stato risentito Luigi Marroni, il teste chiave del processo. Non solo. Come già raccontato dal Fatto, sono stati convocati nei mesi scorsi alcuni dirigenti Consip, come pure l’ex tesoriere del Pd, Francesco Bonifazi, sentito come persona informata.
“Adesso questo lo uccido” Poi lo schiaffo del poliziotto
Uno schiaffo in pieno volto. Ed Emanuele, 39enne romano, viene scaraventato a terra. Non è una lite qualsiasi quella che stiamo per raccontare, ma è la storia di una perquisizione un po’ troppo irruenta. Chi alza le mani infatti è un agente di Polizia che in quel momento, con altri colleghi, stava perquisendo la casa di Emanuele trovato in strada con alcune bustine di stupefacente. Quello schiaffo poteva rimanere nelle semplici accuse di un uomo finito ai domiciliari, ma un video ripreso dalle telecamere installate in casa di Emanuele, lo mostra nella sua violenza. Il video oggi sarà pubblicato sul fattoquotidiano.it. Intanto le immagini sono finite al vaglio del pm capitolino Claudia Terracina.
Non ci sono però solo i video. La difesa di Emanuele parla pure di verbali in cui sono state riportate circostanze ritenute false: manca un’agente presente durante la perquisizione, all’uomo inoltre non sarebbe stato consentito di chiamare un avvocato.
Il fermo alle 2 di notte in pieno lockdown
È la notte del 13 aprile. Siamo in pieno lockdown con le restrizioni imposte dal governo. Emanuele, così scrive nell’autocertificazione, ha intenzione di andare in un Amazon Locker, dove ritirare delle batterie mini-stilo ordinate online. Lo notano in zona Portuense due poliziotti del commissariato Colombo, che poi chiedono l’ausilio di un’altra volante. Si legge nel verbale d’arresto in flagrante: “Visto il tardo orario e le prescrizioni in vigore per l’emergenza Covid, decideva di sottoporre l’uomo al controllo. Lo stesso, alla vista degli operanti, aumentava l’andatura nel tentativo di non farsi fermare, dando l’impressione di volersi occultare tra le auto in sosta”.
Emanuele viene fermato e “dopo pochi minuti – continua il verbale – consegnava spontaneamente agli operanti due bustine in cellophane trasparente contenenti della probabile sostanza stupefacente delle sembianze organolettiche tipiche della metanfetamina”. Nella borsa trovano altre tre bustine. Si decide dunque per la perquisizione in casa. Gli agenti entrano, cercano in cucina e in camera da letto. Il tutto ripreso dalle telecamere presenti nell’appartamento. Durante le operazioni, in un video visionato dal Fatto, si sente la voce di un agente che, mentre si trova in camera da letto, dice: “A chist’ uccir, u arrest proprio”. È in salone invece che viene ripreso lo schiaffo da parte di un agente che però è fuori dalla visuale della telecamera. Il volto non è visibile, il gesto sì. Si sente il poliziotto chiedere: “Questo è shaboo?”, cioè la droga usata soprattutto dai filippini. Emanuele tergiversa. E viene colpito in pieno volto. Non ci sono lesioni refertate. Si vede che cade a terra, poi dice: “Lo shaboo non so neanche che cos’è”. Il poliziotto quindi più volte ripete: “Questo che cos’è? Muoviti”. E ancora: “Non te lo ripeto più, che cos’è quello?”. Il ragazzo poco dopo dice: “È crystal”, metanfetamina in cristalli.
Il guai e l’altro processo ancora in corso
Dopo la perquisizione Emanuele viene portato in commissariato. In un verbale di sequestro la sostanza viene quantificata in 48 grammi di metanfetamina. Quantitivo e tipologia su cui ora si discute in tribunale. Emanuele, ai domiciliari, è infatti a processo perché “illecitamente deteneva per la cessione a terzi” lo stupefacente. Ha dichiarato di aver lavorato come client top manager di Vodafone Italia, ma ora è in cerca di un altro impiego. Ha anche ammesso di far uso saltuariamente di sostanza che però “non è stupefacente” e ribadisce che quella sequestrata non è metanfetamina, ma 3-Mmc,un farmaco, “legalmente venduto su Internet”, ha detto in udienza il 13 aprile. Non si sa come finirà il processo, che non è l’unico per Emanuele. Ne ha un altro in primo grado per guida in stato di ebbrezza: anche qui ha denunciato falsi negli atti dei medici. Stavolta però ci sono i video. Il suo legale li ha depositati al Tribunale del Riesame quando ha richiesto l’annullamento dei domiciliari. Richiesta rigettata. Tuttavia i giudici hanno deciso di inviare il materiale in Procura.
La donna e il diritto negato Il legale: “Ecco i falsi”
C’è un altro aspetto sottolineato dalla difesa: la falsità, si sostiene, di alcune circostanze riportate nel verbale di perquisizione. Qui vengono citati quattro agenti, ma nei video ripresi a casa di Emanuele c’è anche una poliziotta, che non è indicata. In un altro passaggio poi è scritto che l’uomo, informato della facoltà di chiamare un difensore, ha deciso di non avvalersi di tale diritto. In un video però si sente Emanuele chiedere se può chiamare un avvocato. Le voci si sovrappongono, finché si sente un agente dire: “Se quella è sostanza stupefacente sarai accusato di…”. A un altro non manca la battuta pronta: “Stupefacenzia”. Il primo agente continua: “Di detenzione ai fini di spaccio… Se non è niente te ne vai”. Emanuele quindi chiede: “A questo punto posso chiamare l’avvocato?”. E l’agente: “Ti faccio chiamare a tutto quanto…”.
Infine il verbale precisa: “Nel corso della perquisizione non sono state arrecate lesioni a persone o danni alle cose”. Quello schiaffo in pieno volto devono averlo dimenticato.
Approvata legge sui social: utenti schedati, via post sgraditi
Dopo la chiusura di giornali e televisioni non allineate al pensiero del presidente Erdogan, i social network costituiscono in Turchia una forma di sfogo e anche una piattaforma per convogliare il dissenso. Dal 1° ottobre però chi vorrà pubblicare commenti di critica nei confronti del governo sarà registrato con nome e cognome e andrà a finire dentro un database. La Turchia stringe le maglie: il Parlamento ha approvato una legge che darà alle autorità maggiore potere per controllare le piattaforme con più di un milione di utenti, più popolari e frequentate come Facebook, Twitter e YouTube. Il dibattito è stato lungo, ben 16 ore; i sostenitori della maggioranza di governo hanno chiamato alla necessità di agire contro i bulli on line e di proteggere le donne troppo spesso oggetto di insulti e denigrazioni, l’opposizione ha definito la legge una manovra di censura. Cosa prevede la norma? Sarà possibile chiedere e ottenere la cancellazione dei post sgraditi, i dati degli utenti finiranno in un server ed è prevista la nomina di un responsabile legale che faccia rispettare le richieste dei giudici, da assolvere entro le 24 ore dall’ingiunzione. Amnesty International non ha dubbi, il presidente Erdogan e il suo partito di maggioranza Akp vanno verso il controllo del web: “È l’ultimo attacco, e forse il più sfrontato, alla libertà di espressione in Turchia”.
Quando il testo entrerà in vigore, in ottobre, i giganti dei social si dovranno adeguare: saranno obbligati a indicare un proprio referente in Turchia per ottemperare alle richieste di rimozione di contenuti: se non lo faranno, rischieranno multe, divieti di raccolte di pubblicità e riduzioni della larghezza di banda. In altre parole, potrebbero a loro volta creare un disservizio agli iscritti per una connessione troppo lenta. La questione del database con i nomi degli utenti è poi molto delicata: centinaia di persone sono state indagate o arrestate in Turchia nell’ultimo periodo per commenti relativi alla pandemia, per critiche alle operazioni militari in Siria contro i curdi, e infine per la svolta islamista voluta da Erdogan, che ha avuto il suo esempio più evidente con la trasformazione del museo di Santa Sofia in moschea, la scorsa settimana. Il presidente stesso non ha mai nascosto il suo giudizio sui social – “immorali” – e di volerli controllare. Nel primo semestre del 2019, la Turchia era in testa alla graduatoria dei Paesi che avevano più sollecitato rimozioni di post su Twitter.
Sistema sanitario narcos. El Mencho ha il suo ospedale
È un edificio bianco, basso, circondato da alberi e da altre piccole abitazioni a cui si accede per strade sterrate, nella frazione di El Acihuatl, nel municipio di Villa Purificación, Jalisco, Messico. A detta dei Federali è l’ospedale che si è fatto costruire tutto per sé, la famiglia e gli amici fedeli, Nemesio Oseguera Cervante, al secolo El Mencho, leader del Cartello Jalisco Nueva Generacion (Cjng) e ricercato numero uno del Dipartimento Antidroga statunitense con 10 milioni di dollari di ricompensa.
Lì, nel villaggio di 200 abitanti a 250 km da Guadalajara, fallì l’ultimo tentativo della Dea di catturarlo nel 2015. Nel blitz l’elicottero statunitense fu abbattuto dai suoi a forza di lanciagranate. E lì, sulla Costa del Sud, dal 2012, El Mencho, “vincitore” della successione a Joaquin “El Chapo” Guzman Loera, 54 anni, malato di insufficienza renale e per questo bisognoso di continue cure si rifugia, affatto timoroso di possibili tradimenti. Ai contadini e pastori, infatti, dalle sue tenute di lusso tra tigri e tucani, El Mencho ha elargito ogni tipo di aiuti, comprese costruzioni utili alla popolazione, in linea con gli insegnamenti dei ‘maestri’, dal Chapo al colombiano Pablo Escobar. A suggellare il patto tra narcos e abitanti, poi è arrivato il Covid-19: da Jalisco a Michoacan non c’è chi non rispetti le misure anti-contagio. Pena, essere visitati dai fedelissimi del capo vestiti per l’occasione i panni di sentinelle della legge, a sostituire le forze di polizia del presidente Juan Manuel Obrador, non sempre presenti o efficaci. Dato per morto a giugno scorso, El Mencho, vivo e vegeto, seppure invisibile, continua a dimostrarsi a capo di uno Stato parallelo. E per dimostrarlo, una settimana fa, 80 presunti sicari in forza al Cjng, armati fino ai denti, uniformi militari e cingolati sfidavano l’autorità federale messicana in un video diventato virale sui social network. “Siamo pura gente del signor Mencho”, “puro gruppo di élite”, “viva il signore dei galli” (dalla passione del capo per le lotte tra pennuti) urlavano imbracciando armi di grosso calibro. “Si tratta di un fotomontaggio”, si è affrettato a dichiarare in una conferenza stampa il capo della polizia. “Nessun cartello uscirebbe vincitore da una sfida con le forze dell’ordine, men che meno partendo da questo video-montaggio”, ha assicurato. Eppure El Mencho ha dato prova di saper tener testa alla sfida: poche ore dopo, i suoi lanciavano in rete un altro video in cui minacciavano il leader di un cartello rivale, quello di Santa Rosa di Lima, con il quale si disputano il controllo delle attività di narcotraffico della regione di Guanajuato. Il video in realtà è stata una risposta al messaggio del presidente Amlo in visita al municipio di Zapopan, a Jalisco. “Voglio che mi ascoltiate bene, anche da lontano. Non negozieremo con i delinquenti. Ci atterremo strettamente alla legge. Continueremo a combattere la delinquenza e non ci lasceremo intimidire”, ha assicurato Lopez Obrador riferendosi all’attentato del 27 giugno, contro il capo della polizia di Città del Messico, Omar Garcia Harfich, vivo per un pelo dopo che un commando con armi pesanti ha attaccato il veicolo sul quale viaggiava uccidendo un civile e tre agenti della sua scorta. Un attacco brutale: i sicari hanno aperto il fuoco con un fucile Barret 50, capace di perforare le blindature.
Per l’attentato la polizia ha arrestato 19 persone e sequestrato in un covo 150 armi di ogni genere, compresi esplosivo e lanciagranate. Ma non è questo l’unico colpo inflitto da Amlo all’organizzazione criminale: il presidente ha piazzato militari a porti e dogane, nel tentativo di fermare le spedizioni di prodotti chimici usati dagli uomini di Jalisco per produrre droghe sintetiche e ha estradato negli Usa Ruben Oseguera, niente di meno che il figlio di El Mencho, El Menchito, e ha arrestato la figlia, Jessica Oseguera, detta La Negra. Ruben e Jessica sono considerati dalla Dea i principali operatori finanziari dell’organizzazione del padre, passata da mera esecutrice del cartello di Sinaloa del Chapo a principale cartello della droga su 31 dei 32 stati del Messico, nonché degli Usa con il traffico di fentanil e metanfetamine. Eppure c’è chi giura che stia nascendo già la sfida alla leadership del Mencho da parte di due luogotenenti: Juan Carlos González, noto come “03”, che secondo il governo ha fondato l’anno scorso il gruppo d’élite, e Ricardo Ruiz Velazco, “Doppia R”, leader nello Stato di Michoacán.
Bancarotta di Wirecard, due ministri sulla graticola
Lo scandalo finanziario di Wirecard, la società tedesca di servizi finanziari finita in bancarotta a metà giugno, è arrivato a lambire i piani alti della politica tedesca e ieri è toccato al ministro delle Finanze Olaf Scholz e al ministro dell’Economia Peter Altmaier finire sulla graticola. Per diverse ore i due ministri, socialdemocratico uno e cristiano-democratico l’altro, sono stati bersaglio del fuoco di fila delle richieste dei deputati della commissione Finanze del Bundestag sullo scandalo più imbarazzante della recente storia tedesca.
Ventidue le pagine di domande dei Liberali, 89 gli interrogativi dei Verdi, riferisce la Sz. Cosa hanno saputo delle irregolarità su Wirecard e quando? Perché non hanno preso provvedimenti, prima che fosse la Procura ad aprire un fascicolo? Questa la sostanza delle richieste dell’opposizione. La posta in gioco è alta: dall’esito della vicenda dipende il futuro politico del ministro delle Finanze, probabile candidato in pectore del Spd alla cancelleria alle elezioni del prossimo anno, e la credibilità di un fedelissimo di Angela Merkel come Altmaier. Scholz è accusato di non aver vigilato abbastanza sull’organo di sorveglianza bancaria tedesca, il Bafin. Mentre ad Altmaier viene contestato di non aver avuto controllato l’operato delle società di revisioni di bilancio, come Ernst & Young, che ha certificato fino al 2018 il bilancio di Wirecard, anche se appena due anni dopo sono d’improvviso mancati all’appello 1,9 miliardi di euro. La faccenda è seria, non il furto di una notte. Secondo la procura di Monaco è almeno dal 2015 che Wirecard presentava bilanci truccati. La catena delle responsabilità politiche quindi potrebbe allungarsi, finendo per coinvolgere anche Wolfgang Schaeuble, ex temuto ministro delle Finanze e il suo sottosegretario di allora, l’attuale ministro della Salute e astro-nascente della Cdu, Jens Spahn. Al momento il sospetto maggiore cade sull’autorità di vigilanza bancaria, che si è difesa dicendo di aver potuto vigilare solo su Wirecard Bank, non sul gruppo. Da ieri però la posizione del titolare dell’organo federale è più debole. Secondo Spiegel, infatti, il presidente Felix Hufeld non avrebbe detto tutta la verità nella prima audizione alla Commissione Finanze. Ha sostenuto di aver chiesto informazioni all’autorità di polizia di Singapore ed essere in attesa di risposta, mentre dalla Cina è arrivata la smentita: la risposta c’è. Nei giorni scorsi poi è venuto fuori che il ministero delle Finanze già dal febbraio 2019, quindi un anno e mezzo prima delle indagini, era stato informato dal Bafin che Wirecard era finita sotto osservazione e che erano “in corso indagini su sospette manipolazioni del mercato in tutte le direzioni”.
“Olaf Scholz avrebbe dovuto controllare meglio il Bafin e quest’ultimo avrebbe dovuto prendere più seriamente il suo compito” ha detto oggi la presidente della Commissione Finanze dell’Fdp, Katja Hessel, in un’intervista a Deutschlandfunk. Secondo il deputato della Linke, Fabio De Masi, per chiarire il coinvolgimento del governo sarebbe necessario “che le comunicazioni interne al governo su Wirecard fossero rese pubbliche”. Per replicare alle accuse il ministro Scholz ha ripetuto in Commissione quanto aveva già anticipato nei giorni scorsi: se le regole di controllo non hanno funzionato, sono da cambiare. La bozza di progetto di legge presentata nei giorni scorsi prevede di potenziare la capacità d’azione della vigilanza, migliorare la comunicazione tra autorità di controllo e di rendere più stringenti le regole di revisione del bilancio. Già, ma perché non pensarci prima?
Si muove la società civile: da Milano una nave per salvare i migranti in mare
“Abbiamo bisogno che si muova la società civile perché gli Stati hanno dimostrato di non essere all’altezza”. Non è un milanese qualunque che ieri l’ha detto, bensì colui che ricopre in questo momento la massima responsabilità internazionale assegnata a un cittadino italiano: Filippo Grandi, Alto commissario delle Nazioni Unite per i rifugiati.
Lungi dall’avvalersi del suo prestigio e della sua esperienza, il nostro governo sembra sopportarlo come se si trattasse di un rompiscatole quando ricorda che non c’è nessuna invasione di migranti in corso, che sono i Paesi poveri a farsi carico di più del 90 per cento degli 80 milioni di profughi nel mondo, e che il flusso in atto verso le nostre coste sarebbe facilmente gestibile. Per questo Filippo Grandi ha scelto di definire “moralmente giusto e assolutamente indispensabile” il progetto ResQ people saving people nato a Milano per salvare le persone che rischiano di affogare nel Mediterraneo. Se lo Stato, per viltà, si sottrae al proprio dovere, ci penseranno i cittadini di buona volontà che non riescono a far finta di non vedere.
Tra i promotori ci sono anche dei magistrati in pensione, consapevoli del fatto che l’omissione di soccorso è un reato. Né può costituire un alibi che i naufragi avvengano in acque internazionali o libiche. Presidente onorario della nuova onlus è Gherardo Colombo. Ne è socio fondatore anche Armando Spataro. Insieme a loro numerosi avvocati, medici, assistenti sociali, educatori, missionari, sindacalisti, giornalisti, studenti. La società civile, appunto, che stavolta non si muove solo per protestare, ma per giungere entro la fine dell’anno prossimo al varo di una nave attrezzata per il salvataggio dei migranti.
Si prevede una spesa complessiva di circa 2,5 milioni per la quale è partita una campagna di crowdfunding che si avvale dell’esperienza di Banca Etica. Chiunque può associarsi e contribuire sulla piattaforma resq.it.
Il primo obiettivo è moltiplicare fino a mille il numero dei soci che attualmente sono 130. Il presidente operativo di Resq è Luciano Scalettari, giornalista di Famiglia Cristiana che conosce molto bene l’Africa: “Non possiamo tollerare che tanti Sos cadano nel vuoto, che Italia e Malta pratichino silenziosamente dei respingimenti in violazione del diritto del mare, e che vengano riportate a forza in Libia persone che lì vengono detenute per l’unica colpa di essere migranti”.
La nuova onlus lavorerà in piena collaborazione con l’unica organizzazione italiana che attualmente pratica il soccorso in mare: Mediterranea. Unendosi a una flotta europea ormai ridotta ai minimi termini in seguito al boicottaggio scatenato dal primo governo Conte; i cui decreti sicurezza, che prevedono multe salatissime, ancora non sono stati modificati da quello in carica.
Chissà se Luigi Di Maio avrà il coraggio di definire “taxi del mare” anche la nave di soccorso della società civile milanese. Da quando profferì quell’infamia, una dopo l’altra le insinuazioni rivolte contro l’azione delle ong si sono rivelate false. Si è dimostrato che il numero delle partenze dalla costa africana non aveva alcuna relazione con la presenza (ora sarebbe meglio dire: l’assenza) delle navi dei soccorritori. E nessuna delle indagini promosse dalla magistratura ha potuto dimostrare una complicità di questi ultimi con i trafficanti. Al contrario. È ormai comprovato che i miliziani della cosiddetta Guardia costiera libica e i carcerieri finanziati dal nostro governo sono spesso loro stessi criminali scafisti travestiti. Pronti a uccidere, com’è successo la notte di lunedì scorso, se i migranti intercettati sui barconi si ribellano a essere rinchiusi nei campi di detenzione.
La politica italiana nel suo insieme si sta rendendo colpevole di bugie disonorevoli in materia di immigrazione. Penoso è l’allarme lanciato per 25mila sbarchi in 7 mesi. Nessuna delle modifiche promesse è stata apportata al Memorandum italo-libico. Lo sbandierato accordo di Malta per la ricollocazione dei migranti è rimasto lettera morta. Con il varo di ResQ tornano in azione i cittadini di buona volontà.
Salvini ora rischia il processo. In Senato incognita renziani
Il destino giudiziario di Matteo Salvini torna nelle mani del Senato. Dove di certo non si discuterà sul merito della colpevolezza del leghista, ma dove oggi si deciderà a maggioranza se autorizzare il processo a suo carico o respingere la richiesta dei magistrati che indagano per sequestro di persona plurimo aggravato e rifiuto di atti d’ufficio.
Il caso è quello della Open Arms, che da ministro dell’Interno Matteo Salvini tenne in mare per 20 giorni nell’agosto del 2019 prima che la Procura di Agrigento ordinasse lo sbarco dei 164 migranti.
Per poter procedere con l’accusa serve il via libera dell’aula, che in passato aveva salvato il leghista nel caso della nave Diciotti (coi voti dei 5 Stelle) autorizzando invece il processo per la vicenda della Gregoretti. Salvini arriva forte del voto contrario all’autorizzazione che a fine maggio fu espresso dalla Giunta per le elezioni, in cui decisivi furono i tre parlamentari di Italia Viva (che non parteciparono alla votazione) e i due “No” dell’ex grillino Mario Michele Giarrusso e di Alessandra Riccardi, a sua volta passata dal M5S alla Lega.
Anche oggi i numeri sono incerti, anche se alla fine dovrebbe passare il “Sì”. Salvini può contare su 135 voti del centrodestra, numero sovrapponibile alla somma dei senatori di M5S, Pd e LeU, favorevoli al processo. Resta da vedere cosa faranno i componenti del Misto e i 18 renziani, finora ambigui sulla vicenda ma orientati ad allinearsi col resto della maggioranza. La difesa del leghista è la stessa da mesi e ieri l’ha ricordata nella sua memoria al Senato: la decisione di chiudere i porti era di tutto il governo ed era una legittima difesa dei confini. E infatti l’ex ministro accusa tutti: “Voglio vedere se i 5Stelle diranno che erano d’accordo, come è scritto nero su bianco, o se vogliono andare avanti con un processo politico. Se qualcuno riterrà che sia stato commesso un reato ne risponderanno in tanti, a cominciare dal premier Conte visto che sono scelte prese collegialmente”.
Da par suo, Conte ha sempre negato di aver condiviso la linea dura di Salvini: in quei giorni si era in piena crisi gialloverde e il premier aveva avuto un duro scambio di lettere con il suo ministro, contestandogli la gestione dell’emergenza.