Così a Vigne Nuove Verdone inaugura “Il palo della morte”

Chissà quanto è costato a Carlo Verdone, uno dei più famosi ipocondriaci d’Italia, l’abbraccio quasi asfissiante che gli ha regalato Roma. Centinaia di persone l’hanno accolto tra i palazzoni popolari di via Conti, dove esattamente quarant’anni fa è stata girata una scena cult della sua opera prima: Un sacco bello. Tutti stretti, tutti attorno a lui: non è il massimo in questi tempi di cautele sanitarie, ma è una prova d’amore commovente, oltre ogni aspettativa.

L’appuntamento è al “palo della morte”, dove nel film si incontrano il bullo Enzo e il timido Sergio, all’inizio di un improbabile viaggio verso Cracovia per alleviare la solitudine del Ferragosto romano. Enzo è il primo “coatto” di Carlo Verdone, il capostipite di un lungo elenco di personaggi entrati nell’immaginario collettivo. Un sacco bello forse è la sua opera più amata, sicuramente un esordio col botto. Merito anche di Sergio Leone, che convinse il giovane Carlo a confrontarsi con la macchina da presa e si offrì di produrre la pellicola. Quel giorno finiva la carriera di un comico di successo – i personaggi di Verdone spopolavano in Rai – e iniziava quella di uno dei più amati registi del cinema italiano. È il film del primo Verdone camaleonte (bullo, fricchettone e fregnone), di Renato Scarpa, di Mario Brega “communista così”, della bellissima Marisol/Veronica Miriel, delle musiche di Ennio Morricone.

Era il 1980, un’altra epoca, un’altra Roma. Sono passati quarant’anni tondi e nessuno se n’è dimenticato. Al “palo della morte”, che poi era un traliccio dell’energia elettrica che oggi non c’è più, ogni Ferragosto si svolge una piccola processione laica per celebrare lo spirito dell’estate romana. Stavolta si sono fatte le cose in grande, per iniziativa di Giovanni Caudo e Christian Raimo, presidente e assessore del III municipio di Roma, due che stanno mostrando come la cultura non abbia bisogno di tappeti rossi: si può portare anche in periferia.

La risposta del quartiere è straordinaria. In centinaia aspettano il regista in piazza, sotto il sole, bardati con mascherina. C’è un’Alfa Sud rossa proprio come quella di Enzo, con un cartonato a grandezza naturale del personaggio verdoniano, protagonista di un’inevitabile processione di selfie.

Alessia e Stefano sono una coppia di amatori: “Conosciamo i suoi primi film a memoria”. Li spinge qui, tra gli altri sentimenti, un filo di malinconia per quello che si è perso. Una suggestione che unisce tutti: “Roma era bellissima e ingenua. Era una città ancora in crescita”. Massimo e Damiano sono padre e figlio, il primo ha 70 anni e il secondo 36. Sono la dimostrazione che Verdone è un mito intergenerazionale. “Quando hanno girato qui era tutto un cantiere”, dice il papà. Il profilo delle torri dei giganteschi lotti popolari di Vigne Nuove nel film già si scorge, è l’unico segno di continuità, il resto è cambiato. “Era tutto appena costruito – ricorda Stefano –, erano i tempi delle prime assegnazioni. Prima c’erano state le lotte per la casa, la fuga da borghetti e baracche. Roma era un’altra città, aveva una dimensione differente”. Lo ripetono tutti: era bellissima. Nel 1980 il “palo della morte” era la frontiera, il confine della città. Ora è stato inghiottito da altro cemento.

Verdone arriva sul luogo dell’appuntamento alle 18, in perfetto orario, scortato dalle autorità del municipio, ma non si ferma: tira dritto. Partono le battute: “È ipocondriaco, se sarà andato a nasconde”.

La passeggiata continua, Verdone entra in un cortile delle case popolari. È quasi assalito dalla folla, strattonato come un santo: “Sei un grande Carlè!”, “Fatte tutto er giro de Roma così puliscono le strade, viecce sempre alle popolari!”. Cori da stadio, foto, abbracci. il regista riceve come omaggio una targa dal municipio: “La dedico a tutti voi, a questo quartiere, che ha avuto tanta poesia, perché oltre che risate c’era poesia, un pizzico di malinconia e anche molta follia”. Ricorda: “Quando io ho girato qui non c’era niente, tutti i palazzi erano in costruzione, sembrava una scena di Mamma Roma di Pasolini”. Poi si risale fino al “palo”. Viene svelata un’altra targa celebrativa, poi tutti al Cinema all’aperto, all’Arena Talenti, a vedere Un sacco bello.

“Sono basito dal Pd, insistere sul Fondo danneggia il Paese”

Nessuno spiraglio: “Non ci sono i presupposti per altre alleanze col Pd nelle Regioni, in Liguria è stata possibile perché noi 5S e i dem veniamo da 5 anni di opposizione al centrodestra. Ma dove governa il Pd, non ci sono le condizioni”. Il capo politico reggente del M5S, Vito Crimi, tira una linea sulle Regionali, ma parla anche di tanto altro, per esempio della gestione dei soldi del Recovery Fund: “Su come utilizzarli devono decidere gli eletti dai cittadini”.

Il Pd continua a spingere per il ricorso al fondo salva Stati. Perché?

Sono basito da questa insistenza sul Mes, non la comprendo. Capisco l’avere una posizione diversa, ma abbiamo la Bce che compra il nostro debito e soprattutto dobbiamo decidere come spendere i 209 miliardi del Recovery Fund. Concentriamoci su questo e non su uno strumento definito rischioso anche da molti economisti. Tra l’altro, continuare a parlare del fondo salva Stati trasmette all’estero l’immagine di un’Italia con l’acqua alla gola, e non è affatto così.

Sulla gestione dei soldi dell’Ue pare già guerra tra Palazzo Chigi e i partiti.

La decisione su come impiegarli va fatta in sede politica, dai ministri competenti. Eventuali task force possono dare un supporto tecnico alle scelte politiche.

Per lei come vanno spesi i soldi?

Le priorità sono la scuola, l’innovazione digitale, l’ambiente. Dobbiamo ragionare a lungo termine, investendo su cose che gettano le basi per il futuro.

Lei ha chiuso agli accordi nelle Regioni. Ma per l’intesa in Puglia si è speso anche il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Mario Turco vicino a Giuseppe Conte: “Una continuità governativa farebbe bene”. Lui e il premier devono rassegnarsi?

In questi giorni abbiamo avuto numerose interlocuzioni, ma non ci sono le condizioni. Bisogna dare ascolto ai territori e alle realtà locali. Non possiamo allearci in una Regione dove per 5 anni siamo stati all’opposizione del Pd, e questo vale anche per le Marche.

Se il Pd cambiasse i candidati, trattando sui nomi?

Se l’avesse fatto forse ora discuteremmo di quello. Ma ripeto, ormai non ci sono le condizioni, neanche per governare con serenità in seguito.

Così probabilmente condannate i dem alla sconfitta, mettendo a rischio il segretario Zingaretti: e lui è un sostegno per Conte.

Tutto il Pd sostiene il presidente del Consiglio, non solo Zingaretti, e se non fosse così sarebbe un grave problema già adesso per il governo. Quindi è un nodo che non esiste.

È vero che Beppe Grillo pensava a un video per imporre le alleanze?

Io e Beppe ci sentiamo, non mi risulta nulla di tutto ciò. Lui non ha mai nascosto il suo sostegno a eventuali intese, ma non ha mai forzato. L’obiettivo del M5S resta quello di contaminare la politica e le altre forze con i suoi valori.

Che fine hanno fatto gli Stati Generali? Si parla di rinvio al 2021.

Dobbiamo farli entro l’anno, subito dopo le Regionali. Ma rispetto ai piani di febbraio vanno ripensati come obiettivi e modalità.

Ossia?

Penso a un percorso di confronto che si snodi in un arco di tempo, e che potrebbe anche non portare necessariamente a un evento fisico. Credo si debba dare mandato a un gruppo di persone di organizzarlo nel migliore dei modi.

Nel fine settimana a Milano si terrà il villaggio Rousseau. Ma tra i parlamentari è fortissima l’insofferenza per la piattaforma web, tanto più che un sondaggio diffuso tra gli iscritti sulla selezione dei candidati ha fatto arrabbiare molti.

È solo un enorme fraintendimento. Rousseau fa periodici sondaggi per chiedere l’opinione degli iscritti sull’esperienza di voto e sull’efficacia del metodo.

Il tema del suo peso rimane.

È un non tema: Rousseau è solo uno strumento, le decisioni le prendono il capo politico e gli altri organi previsti dallo Statuto.

Si sente solo da capo politico?

Ci confrontiamo con diversi colleghi sulla solitudine del capo. Si discute, ma alla fine io devo fare sintesi, è il mio ruolo. C’è chi parla di errori, io preferisco parlare di scelte, e che scontentino qualcuno è naturale.

Cig e disoccupazione verso la proroga, ma molti aspettano i soldi

Il lavoro sul terzo decreto anti-crisi prosegue: le Camere dovrebbero approvare (a maggioranza assoluta) lo scostamento di bilancio da 25 miliardi deciso dal governo mercoledì 29 luglio, a quel punto l’esecutivo potrà usare quel maggior deficit per la seconda parte dell’anno.

Com’è noto il centro del prossimo intervento – che porta a quasi 100 miliardi il disavanzo utilizzato per la recessione innescata dal Covid e dal lockdown – sono ancora i provvedimenti sul lavoro: saranno prorogati, ha detto la ministra Nunzia Catalfo alle parti sociali, sia il blocco dei licenziamenti fino a fine anno che la Cassa integrazione per altre 18 settimane (sempre nella formula 9+9 utilizzata in questi primi mesi). Un combinato disposto che, secondo il Tesoro, nella prima parte dell’anno ha salvato almeno 1,6 milioni di posti di lavoro a tempo pieno.

Anche dal punto di vista dell’uso delle risorse, però, al momento non è chiaro quanto costerà concedere altri quattro mesi abbondanti di cassa integrazione: come hanno sottolineato molti esperti in questi giorni, il governo non sta comunicando il “tiraggio” della Cassa già in vigore. Tradotto: le richieste iniziali sono “teoriche”, per così dire, poi vanno confermate “ora per ora” dalle aziende. In genere si tratta di numeri molto più bassi (circa un terzo delle domande iniziali) ed è su questi che va calcolato l’esborso effettivo dello Stato.

In attesa dei numeri sull’uso effettivo della Cassa, però, ce ne sono altri che imbarazzano il governo e l’Inps. È stato lo stesso presidente del Consiglio di indirizzo e vigilanza dell’ente pensionistico, l’ex sindacalista Uil Guglielmo Loy, a rivelarli ieri parlando a Radio24: “Ci sono circa 120.000 domande nuove, dovute ai nuovi decreti, che sono arrivate in queste settimane e la cui lavorazione, se non è rapida, creerà un doppio problema: il mancato saldo della precedente ondata con quella nuova. Insomma ci sono circa 120.000 domande a ieri che sono adesso giacenti all’istituto, la stima che facciamo noi e che con intensità diverse mancano da 400 a 800 mila pagamenti, alcuni sono più recenti da fare altri sono invece incancreniti”.

Si tratta di stime, dunque, perché – dice Loy – “da qualche settimana non escono dall’Inps i dati completi sulla cassa integrazione. Lo dico con chiarezza: arrivano solo i dati su quanti sono stati pagati, cioè il punto finale di un percorso che l’azienda fa quando chiede la cassa integrazione. Questo oblio fa pensare che ci sono ancora una serie di problematiche da risolvere”.

In via di risoluzione, ma in ritardo spaventoso, un altro provvedimento del decreto di maggio: la proroga di Naspi e Dis-coll (in sostanza gli assegni di disoccupazione) per 60 giorni delle prestazioni scadute tra il 1° marzo e il 30 aprile. La ratio del provvedimento è che difficilmente un disoccupato avrebbe potuto trovare lavorare se le attività produttive erano chiuse per decreto: ora, ha annunciato Catalfo, potrebbe arrivare una nuova proroga di 60 giorni visto lo stato comatoso del mercato del lavoro.

Il problema è che dopo oltre due mesi dall’entrata in vigore del decreto (19 maggio) quasi nessuno ha visto quei soldi: la circolare applicativa dell’Inps porta la data del 23 giugno, da questa settimana online gli interessati possono ammirare la dizione “in pagamento”. La situazione si va risolvendo, ma è fine luglio: quei lavoratori non vedono un euro da tre o quattro mesi. Si spera che la proroga della proroga sia più celere.

Il pressing dei giornaloni e le accuse al Tesoro Riparte l’assalto sul Mes

Sul famigerato Meccanismo europeo di stabilità, Mes, e le sue linee di credito “sanitarie”, è ormai in piedi una battaglia politica senza esclusione di colpi, anche a costo di mettere nei guai il Paese sui mercati. L’assalto quotidiano di mezzo arco parlamentare, grande stampa e pezzi di establishment europeo – che si è perfino intensificato dopo l’accordo sul Fondo di ripresa trovato martedì – ieri ha raggiunto vette inesplorate, con tanto di incidente istituzionale.

Il Sole 24 Ore ha aperto la sua prima pagina attribuendo al ministro dell’economia Roberto Gualtieri la frase “tensioni di cassa se non usiamo il Mes”. Tradotto: l’Italia sta per finire i soldi.

Secondo il quotidiano di Confindustria, è il senso di quanto detto da Gualtieri al vertice tra i capi delegazione della maggioranza a Palazzo Chigi mercoledì, prima del Consiglio dei ministri che ha varato il nuovo scostamento di bilancio per 25 miliardi a copertura del nuovo decreto di agosto.

Per tutta la giornata il Tesoro è stato subissato di telefonate. La smentita è arrivata solo poco prima delle 13, dopo la rivolta dei 5Stelle e gli attacchi dell’opposizione, come se la notizia non fosse price sensitive, cioè in grado di creare tensione sui mercati. “Gualtieri non ha mai pronunciato le parole attribuitegli dal titolo del quotidiano e per il bilancio dello Stato non esiste alcun problema di cassa”, fanno sapere dal ministero all’ora di pranzo. Le ore passate senza smentire? Colpa di impegni istituzionali del ministro.

A Palazzo Chigi e tra i grillini non sono così convinti, tanto più che ieri anche Repubblica sparava in prima pagina una frase (“l’Italia prenda il Mes”) attribuita al commissario Ue agli Affari economici Paolo Gentiloni. Un riassunto molto apodittico del ragionamento dell’ex premier Pd: “I soldi del Recovery fund arriveranno nel 2021” e nel frattempo “uno strumento è già disponibile, ovvero il Mes”. In serata, per chiudere in bellezza, il Tesoro ha spiegato che le casse dello Stato non hanno problemi: a luglio, anzi, il saldo dovrebbe salire a 80 miliardi.

Un’ovvietà serale che contrasta con la leggerezza con cui per ore si è lasciato far credere a problemi di liquidità per l’erario: una di quelle informazioni che possono scatenare un terremoto finanziario e a oggi un vero controsenso visto che il rendimento dei decennali italiani è intorno all’1% e in calo dopo l’accordo di Bruxelles sul Recovery plan.

Non solo. Il Mes “pandemico” mette a disposizione per l’Italia 36 miliardi di prestiti vincolati alle spese sanitarie per la crisi Covid “dirette e indirette”. Niente che non possa essere fatto con normali aste di titoli di Stato: ai tassi attuali, peraltro, la famosa convenienza del Mes è più che dimezzata rispetto ai “conti della serva” dei suoi cantori di qualche settimana fa (da 6 a 3 miliardi in 10 anni). E questo a tacere dei rischi finanziari (il Mes è pensato per i Paesi insolventi) e politici dovuti alle forti condizioni macro-economiche sottostanti al suo impiego (oggi Bruxelles dice che non le richiederà, ma resta un impegno politico non giuridico).

Nonostante questo sul Mes è ormai un martellamento quotidiano. Il Pd lo vuole a tutti i costi e il segretario Nicola Zingaretti lo ha ribadito nelle stesse ore in cui il premier Giuseppe Conte festeggiava l’accordo europeo, tra lo stupore di pezzi del suo stesso partito, a partire dalla corrente orlandiana. Anche LeU è in gran parte favorevole, così come Forza Italia e i renziani di Italia Viva. I grandi giornali ne hanno fatto una campagna di stampa permanente. Confindustria lo chiede a gran voce da mesi.

Il tema è stato discusso mercoledì al vertice di Palazzo Chigi. Chi c’era ammette che Gualtieri ha ribadito di essere favorevole al Mes e di avere qualche timore sui conti per settembre. Il ministro della Salute Speranza ha spiegato di essere pronto a usare i fondi per il piano di investimenti nella sanità. Che però – gli ha ricordato Gualtieri – in buona parte contiene spese “strutturali” che non possono essere coperte dal Mes.

Ieri, comunque, lo spread non ha reagito alla notizia che il principale giornale economico dava sul ministro e le casse dello Stato: chissà se è un complimento per Gualtieri o per Il Sole.

“Nessun prigioniero: l’ordine per noi polizia è sterminare il cartello”

“Non facciamo prigionieri. Dal passato abbiamo imparato che se li arrestiamo con l’idea di rieducarli, per farli diventare persone migliori, ci ritroviamo sempre brutte sorprese poi. Perché una volta usciti si organizzano di nuovo con altri gruppi armati. Con l’obiettivo di venirci a uccidere. Per noi la legge ora è cambiata: come polizia comunitaria abbiamo l’ordine di uccidere tutte le persone che hanno un fucile e che ci sparano contro. È la sola cosa che possiamo fare: sterminarli”. Salvador Alanis Truijillo ha una calibro 45 cromata, con il calcio bianco in osso su cui c’è intagliata l’effigie della Santa Muerte, un culto pagano caro ai narcos. Dice che “non è Gesù né la vergine Maria ma è la Santa Muerte la protettrice dei pistoleros”. Lui la porta sempre così: cane alzato e colpo in canna, pronta a sparare. “Non la adoriamo perché abbiamo paura di morire, ma perché vogliamo vivere bene e vedere i nostri sogni realizzati. La Santa Muerte è un culto ‘buono’: ci sostiene nella vita, esaudisce le nostre preghiere”.

Sono in molti, spiega Salvador, ad avere un altare della Santa Muerte in casa: ognuno si realizza la propria effigie. È il culto della gente povera che deve prendere le armi, per difendersi. “Noi non compriamo una tv o un frigo, compriamo un’arma. Non compriamo vestiti alle nostre donne, compriamo proiettili. La sicurezza di un uomo sono questo: la pistola, un fucile, i proiettili”.

Salvador Alamis Truijllo è il comandante della polizia comunitaria “Heliodoro Castillo”. Ha la sua base a Filo de Caballos, un piccolo e stretto villaggio che si allunga su una strada tortuosa su cui si affacciano poche case, quasi tutte crivellate di fori di proiettile. Salvador è in guerra con il cartello del Sud che qui, nella Sierra di Guerrero, ha la sua principale roccaforte. Per incontrarlo ho attraversato lo stato di Guerrero, uno tra i più poveri, dove è concentrata buona parte delle coltivazioni di papavero da oppio e di marijuana di tutto il Messico.

“I contadini coltivano l’amapola, il papavero da oppio. Cos’altro dovrebbero coltivare per far mangiare i loro figli? Il governo dovrebbe prendere in considerazione l’idea di legalizzare queste coltivazioni”, continua Salvador. “Il Messico, per produrre morfina, importa il 60% di oppio dall’estero. E allora perché non utilizzare questi campi a questo scopo? Aiuterebbe i messicani, aiuterebbe noi tutti. Io ho studiato Economia negli Stati Uniti, sono un imprenditore, sono tornato per prendere in mano la piccola azienda di pomodori della mia famiglia. Non avevo mai impugnato un’arma, non avevo mai sparato prima. Oggi l’ho dovuto fare per necessità, proprio come tanti altri contadini, operai o quanti hanno un negozietto”.

I gruppi criminali hanno mandato Salvador via dalla sua terra, gli hanno rubato tutto. “Per questo continuo a lottare, per riconquistare gli spazi che la delinquenza e il governo colluso ci hanno tolto. E per difendere il popolo da cartelli come Sierra unida o cartello del Sud. Domani riconquisteremo un altro villaggio, la prossima settimana un altro ancora e continueremo così fino a che ridurremo questa violenza. Noi siamo il popolo che sta facendo il lavoro che il governo, colluso coi criminali, non vuole fare”.

Narcotica: In Messico sulle rotte dei trafficanti

La prima tappa è un piccolo villaggio. Si chiama Filo de Caballos, stato di Guerrero, Messico. Un “narcostato”, come mi spiega Luis Hernandez, editorialista de La Jornada, uno dei maggiori quotidiani messicani e profondo conoscitore del Paese. Il secondo produttore di oppio al mondo, dopo l’Afghanistan. “L’economia criminale in Messico rappresenta il 10% del Pil, stiamo parlando di 65 miliardi di dollari l’anno, quasi tutti legati alla produzione e al traffico di droga. Ma per poter mantenere un’industria di questa natura – dice Luis – c’è bisogno di protezione. C’è bisogno di polizia compiacente, spesso pagata per proteggere le coltivazioni. Ma anche di giudici, notai, sindaci, governatori, politici, alte sfere militari. Il Messico è un luogo completamente nelle mani del narcotraffico, anche se il mondo del narcotraffico è un’attività sommersa. Ma è la parte buia della Luna, quella che non vediamo e che però c’è”.

La povertà che incontro lungo la strada è disarmante, ma rende chiara la ragione per cui il narcotraffico sia considerato il principale datore di lavoro nel Messico. Offre un impiego ad almeno mezzo milione di persone tra i tanti che controllano le strade, i contadini che coltivano il papavero da oppio, i braccianti che raccolgono la gomma, gli operai che lavorano nelle raffinerie di eroina, e i sicarios. La produzione di eroina messicana – secondo la Drug Enforcement Administration, la Dea, l’agenzia federale antidroga statunitense – è aumentata del 37% nel 2017: lo stesso in cui la produzione di cocaina in Colombia aveva battuto ogni record. Oltre 30.000 ettari di superficie in America Latina sono coltivati a oppio: dieci anni fa, per avere un’idea, erano 6.900 (dati Undoc, ufficio delle Nazioni unite contro droga e crimine).

Arriviamo a Filo de Caballos al tramonto, dopo un lungo viaggio attraverso i check point degli uomini armati della milizia di Salvador Alamis (si legga intervista a fianco, ndr) che ha liberato il Paese dalla violenza del cartello del Sud. Ero stato qui un anno fa. Ritrovo le stesse facce, ragazzini in guerra che, dopo Filo de Caballos, hanno riconquistato altre porzioni della Sierra, la regione dello stato di Guerrero che è di fatto, da anni, zona di guerra. Ci fanno vedere il monstruo, un camion modificato con lastre di acciaio che sembra un carro armato. Lo hanno sequestrato ai Los Rojos, un altro dei cartelli della zona, al termine di una sparatoria durata sei ore. Nico abita con la sua famiglia dietro il palazzo, oggi trivellato di colpi, che fu il teatro di quella sparatoria. Sua moglie ci racconta di quella mattina, degli spari che sono entrati fin dentro casa. Racconta, mentre prepara la colazione ai figli che stanno andando a scuola. Poi Nico ci porta nel suo campo di amapola, a raccogliere oppio. La crisi del prezzo dell’oppio è disastrosa per i contadini e per tutta la regione, anche per questo la guerra si è di nuovo infuocata. Ed è ancora in corso.

I ragazzi della milizia della polizia di comunità che guida Salvador sono quasi tutti ragazzini: Benjamin e David hanno 18 anni, Smog 21, Pedro 26. Josè e Cholo sono più grandi hanno 42 anni. Dopo una settimana dalla nostra partenza, quei sei ragazzi sono stati massacrati. Il cartello è entrato con un centinaio di uomini a Filo de Caballos, li hanno presi, li hanno torturati e poi uccisi.

Sono almeno 80 i morti di quest’ultima guerra.

Tlacotepec stato di Guerrero

Troviamo un contatto. Ci porta in macchina di mattina presto a Tlatotepec, in una zona alta, su una stradina di fronte una casa bianca che si affaccia sul paese. Subito sotto c’è una scuola. Arrivano dei ragazzi, un uomo che avrà 35 anni. È il più alto di tutti, nella cintura ha una pistola semiautomatica. Sale in macchina con noi e ci porta in campagna, prima vicino a un ruscello, poi di fronte ad una casa piena di galline e conigli in gabbia. Sono i posti dove hanno nascosto l’attrezzatura per raffinare l’oppio in eroina. Torniamo in città, andiamo in una casa con un cortile da dove si può controllare chiunque stia arrivando. I ragazzi montano il laboratorio in pochi istanti, mentre alcuni bambini scorrazzano e giocano con un cane. Il proprietario è un uomo anziano, si siede fuori dal recinto per controllare la strada, aspettando di essere pagato. Il chimico ci spiega tutto il procedimento mentre srotola le palle di oppio, le disfa in un pentolone e le mescola con l’acqua. Inizia così il procedimento che dura sei ore. Il prodotto finale si chiama china white, eroina con un altissimo principio attivo. La droga che insieme al fentanyl sta facendo strage negli Usa e in Canada, e non solo. Ci dicono che i loro committenti sono soprattutto i cartelli: la Familia michoacana, i Guerreros unidos, il cartello del Sud. Secondo la DEA, uno dei passaggi ormai più utilizzati per eroina, cocaina, fentanil e metanfetamine è diventato il corridoio che va da Tijuana a San Diego, in California. Ed è proprio l’apertura di nuove rotte tra un confine e l’altro, e l’aumento del commercio, ad alimentare il mercato. E la violenza.

Quello dove siamo è solo un piccolo laboratorio improvvisato, il cocinero ci dice che di solito lavora in laboratori molto più grandi con una produzione che possiamo definire industriale, di almeno 50 chili al giorno. Noi, in sei ore, facciamo “solo” mezzo chilo che ha commissionato un piccolo spacciatore. Il chimico alza le spalle, a lui sembra tempo perso. Ma le immagini che ci portiamo a casa sono uniche: nessuno era mai entrato in una raffineria, per quanto improvvisata, di china white.

Tijuana Stato di Baja California

Juan è un ex sicario e trafficante di droga. Racconta la sua storia di fronte alla sua vecchia casa. Racconta di suo padre che a sua volta era trafficante, e tossicodipendente, racconta della droga e dei soldi che vedeva fin da bambino. Poi, quando ha iniziato lui a trafficare, ha preso pure lui a farsi di tutto, di tutto tranne che di eroina: era la droga che usava suo padre.

Juan non ricorda nemmeno più quanti camion ha guidato per esportare negli Stati Uniti carichi di marijuana, eroina, metanfetamine.

“Mia nonna faceva traffico di migranti irregolari”, ricorda Juan. “A casa nostra passavano centinaia di persone, di migranti irregolari. Poi siamo passati dalle persone alla droga. Così, nella cucina di casa impacchettavamo la droga da vendere in strada e quella da caricare sui camion, per portarla negli Usa. Veniva la polizia per accordarsi su come far continuare mio padre a vendere droga. Ho visto gente morire di overdose nella mia sala da pranzo… caricavano le siringhe. È un miracolo se siamo vivi io e mio fratello. Mi è difficile crederlo a volte. È come se sia stato tutto un sogno. Invece no, era reale”.

Juan ricorda anche il carcere. Andiamo al bordo, il canale di acque sporche accanto al confine con la California. Terra di nessuno dove non entra la polizia e dove i disperati consumano droga e muoiono senza che nessuno se ne accorga. Dietro il muro sventola la bandiera americana, sul bordo del canale qualcuno ha scritto a caratteri cubitali “El sol brilla para todos.

I partner europei pagano anche per i 55 siti Unesco

“Malgrado gli accorati appelli del Fai, dell’Associazione per l’Agricoltura biodinamica e delle numerose associazioni ambientaliste, la radio, la televisione e il web troppo sovente fanno orecchie da mercante su questi temi”

(da Il mio filo rosso di Giulia Maria Crespi – Einaudi, 2015 – pag. 441)

 

C’è una ragione in più, ignorata o rimossa, che rafforza il diritto dell’Italia di ricevere la quota maggiore di sussidi e prestiti del Recovery Fund, circa un terzo dell’intero stanziamento, dopo l’emergenza sanitaria e la crisi economico-sociale provocata dall’epidemia di Coronavirus. Ed è la nostra Grande Bellezza. Vale a dire quell’inestimabile deposito di beni storici, artistici e culturali che assegna al nostro Paese 55 siti Unesco, il più alto numero al mondo insieme alla Cina. Se sono patrimonio dell’umanità, l’Europa ha un motivo supplementare per contribuire alla rinascita del Belpaese e quindi ai costi della loro conservazione e della loro tutela.

Abbiamo ancora impresse nella memoria le immagini della Barcaccia del Bernini, in piazza di Spagna a Roma, sfregiata dagli hooligan olandesi del Feyenoord prima della partita di calcio pareggiata contro la squadra giallorossa il 19 febbraio 2015. Il centro della Capitale fu messo a ferro e fuoco da questi teppisti, barbari e violenti. Ma poi la Procura di Roma decise di chiedere l’archiviazione per 44 di loro che erano stati individuati e fermati dalla Polizia. E l’Ambasciata di quel Paese, cosiddetto virtuoso e frugale, si rifiutò di pagare i danni quantificati complessivamente in 1 milione e 700 mila euro.

Ecco un esempio, un piccolo esempio, che dimostra il deficit di solidarietà fra i partner europei. Ma, al di là di quell’episodio, resta il fatto che lo Stato italiano spende per i 55 siti Unesco più di quello che ricava dal turismo culturale (viaggi, soggiorni, biglietti) proveniente dall’Olanda e dal resto dell’Europa. E sostiene questi costi anche fuori stagione e quando i visitatori mancano o diminuiscono, come accade purtroppo nell’estate del dopo-Covid.

Quando si parla di patrimonio dell’umanità, è l’intero continente su cui questi beni artistici si trovano che dovrebbe sentirsi impegnato a salvaguardarli e valorizzarli, partecipando alla loro conservazione in nome di una storia e di una cultura comune. Monumenti, palazzi, castelli, chiese, musei, opere d’arte, costituiscono un patrimonio collettivo che travalica i confini nazionali. E perciò rappresentano un pegno di solidarietà, un deposito, una garanzia per tutti i popoli europei.

Un discorso analogo si potrebbe fare anche per le bellezze ambientali e paesaggistiche: il mare, le coste, le isole, le montagne, i parchi, i fiumi, i laghi. Con quasi ottomila chilometri di litorale, la nostra penisola è senz’altro più esposta e vulnerabile non solo rispetto ai flussi migratori, ma anche alle calamità naturali e ai fenomeni meteorologici. Spetta in primo luogo a noi, ovviamente, proteggere tutto questo bendidio. Ma la “svolta green” contemplata dal Recovery Fund implica la compartecipazione a un programma quotidiano di ordinaria e straordinaria manutenzione.

È necessaria, dunque, una campagna costante di informazione e divulgazione culturale per difendere l’Ambiente e la Grande Bellezza, come ci ha stimolati a fare con il suo impegno Giulia Maria Crespi, la fondatrice e presidente del Fai appena scomparsa, citata nel distico iniziale. Il “filo rosso” del suo memoir s’intreccia nel ricordo al nostro “filo verde”.

 

Pubblica amministrazione, basta coi “rapporti di bottega”

La vittoriosa conclusione della trattativa di Bruxelles impone le riforme di interi settori, tra cui la Pubblica amministrazione, spesso impedita o resa inidonea a rendere servizi celeri e di buon livello. Causa prima del disservizio è la pesante occupazione del sistema amministrativo da parte del potere politico, attraverso nomine e decisioni funzionali agli interessi anche d’immagine del potente di turno. Deviazioni del genere sono presenti in qualunque ordinamento; il nostro sistema amministrativo pecca tuttavia d’eccesso perché tende a una totalizzante occupazione della funzione, tramite la personalizzazione del potere. Esattamente l’opposto di quanto richiede un’ordinata gestione della cosa pubblica. Si sono invece create, quasi ad arte, tantissime figure di vertice nelle amministrazioni statali e regionali con l’effetto di polverizzare le competenze e di disarticolare gli uffici così da consentire la pratica più vieta del bonapartismo politico de noantri: il favoritismo e il rifiuto della competenza per agevolare, tramite solerti beneficati, interessi poco istituzionali. A questo scopo si elude e si viola il sacrosanto principio del pubblico concorso sancito dalla Costituzione. O meglio: lo si impone per i concorsi d’ingresso nell’amministrazione e lo si ignora per la nomina di alti dirigenti, spesso esterni, con curricula assolutamente deludenti, ma esaltati dall’entusiastico giudizio del Ministro o del Presidente della Regione: cioè da un pugno battuto sul tavolo.

Colpisce la carenza di tracciabilità sulla genesi dell’individuazione del nominato che collide con la necessità di un controllo a presidio del circuito democratico. Sarebbe molto utile se i candidati a posti di vertice di dicasteri ed enti pubblici territoriali fossero preventivamente esaminati da una Commissione parlamentare o consiliare così da rendere edotti i rappresentanti dello Stato comunità dell’iter seguito e del grado di competenza e di affidabilità dei nominandi. Manca poi un effettivo controllo su sostanza, qualità ed economicità della realizzazione, spesso gabbata. Quanto agli eventuali danni all’erario, il giudizio interverrà quasi sempre a babbo morto. Ciò dipende anche dalla natura di mera legittimità dei controlli, quando previsti. Una lunga e conforme sequenza di istanze, pareri, concerti, atti, infatti, può determinare il parto del topolino o un disastro economico e ambientale.

L’inefficienza del sistema e la conseguente paralisi operativa hanno contribuito a dare ampio spazio al concessionario. Si sono così instaurati rapporti di estremo pregiudizio per la parte pubblica. Il privato alla Benetton, tanto per intenderci. Cioè: convenzioni disastrose per l’amministrazione (e l’interesse nazionale), controlli ridotti a pantomima, riduzione a termini simbolici della redditività a fronte di arricchimenti oltraggiosi di privati concessionari e appaltatori. Quel modello è fallito con il crollo del ponte Morandi e tutti prima o poi se ne dovranno rendere conto.

In prospettiva, perciò, occorre configurare la Pubblica amministrazione come organizzazione diretta, ma non svilita nel suo operare dal potere politico, superando il rapporto pesantemente padronale di molti ministri e preposti a regioni ed enti locali con le strutture dipendenti. A determinare le posizioni organizzative non sarebbe più l’immotivato e talora vergognoso placet del politico ma la capacità progettuale e gestionale certificata da uffici di controllo esterno. Ciò significa spostare dal profilo soggettivo e di pura espressione dell’arbitrio a quello oggettivo dell’utilità e della competenza l’esercizio della funzione amministrativa. È tempo di rinnegare i rapporti di bottega politica che hanno snaturato e depresso la Pubblica amministrazione.

 

La “Salvinologia”: nuova scienza delle catastrofi

LLa Salvinologia, intesa come branca della Scienza delle catastrofi, vive oggi il suo momento d’oro. Un titolo di Libero ci fa sognare: “Coronavirus, il sospetto di Matteo Salvini: ‘Il governo sparge infetti per giustificare lo stato d’emergenza?’”. Il punto di domanda è puramente retorico, la risposta ovviamente è “sì”. Salvini denuncia: “Il governo sta spargendo infetti. Magari è una strategia per tenerci sotto lo stato di emergenza fino al 31 ottobre”.

A noi piace vederla così: Conte, Zingaretti, Speranza, Crimi, Guerini e Lamorgese, a turno, mentre Casalino fa da palo, nottetempo si intrufolano nel laboratorio del Sacco di Milano per prelevarne dei tamponi infetti e il giorno dopo li strofinano sui banchi e sulle maniglie di Palazzo Madama (il che spiegherebbe perché Salvini non s’è infettato, risultandone assente da mesi); ma l’ipotesi più probabile (e più verosimile presso il pubblico, visti i consensi che sta riscuotendo sui social) è che il governo stia facendo attraccare i barconi dall’Africa con a bordo clandestini infetti allo scopo di protrarre uno stato d’emergenza che – attenzione a questo passaggio – non è affatto necessario, essendo il virus inoffensivo, se non addirittura inesistente. Capite bene che qui si entra nell’insieme dei numeri irrazionali: il virus non fa paura, tant’è vero che Salvini è in tour da settimane per la consueta mattanza dei selfie senza mascherina a tre centimetri dalla bocca di migliaia di fan; perciò è necessario diramare l’allarme: “CLANDESTINI FUGGONO DALLA QUARANTENA, I CITTADINI DI LAMPEDUSA DISPERATI”.

Se c’è qualcuno che potrebbe spargere il virus (autoctono), se non altro per una questione di promiscuità, questo è proprio Salvini, che nasconde la sua irresponsabilità dietro la doppia narrativa di una specie di vantaggio biologico (gli africani sono più contagiosi degli italiani) e complottismo internazionale. La destra, quella che si vanta di tutelare i propri popoli, ha preso questa piega negazionista per puro sfregio all’intelligenza e al buon senso, qualità notoriamente radical chic (si pensi a Bolsonaro, che ha passato mesi a vantarsi di non poter contrarre il virus o eventualmente di stroncarlo in 24 ore, tipo Carlo Verdone ne La palude del caimano, e poi, infettatosi, frigna perché dopo un mese è stanco di stare in quarantena), e adesso non sa come uscirne, se non con l’autoinnesto, sul tronco delle variegate panzane statutarie, di leggende metropolitane a tema Covid. Le quali hanno peraltro il vantaggio di occultare la disastrosa gestione dell’epidemia nella Lombardia di Fontana, che – mentre Salvini aveva appena finito di prendersela coi cinesi, oltre che coi soliti africani, nelle stesse ore in cui il virus varcava le frontiere settentrionali con tutti i comfort in business class – lasciava morire gli anziani a grappoli nelle Rsa e consentiva al virus di scorrazzare negli ospedali di Nembro e Alzano Lombardo; intanto inaugurava inutilissimi ospedali-astronave a guida Bertolaso.

Del resto la responsabilità dell’opposizione di Salvini è nota: invitato agli Stati generali a Villa Pamphili, non va, perché “ci confrontiamo solo nelle sedi istituzionali”; pochi giorni dopo, nell’istituzionale Camera, durante l’informativa di Conte sul Recovery Fund, esce dall’aula perché non intende confrontarsi, decisione ribadita giorni dopo in conferenza stampa: “Non vedrò Conte, ho cose più importanti da fare”. (Elenco delle cose fatte da Salvini da allora: pubblicare foto della figlia che fa i compiti in treno; denunciare il caso del cane Spillo, “gettato tra i rifiuti organici e chiuso nel bustone dell’immondizia in un cassonetto”; linkare l’articolo del Giornale “Migranti smembrano pecora nel cortile del centro profughi”; postare un video in cui infarcisce panzerotti a Ceglie con la signora Maria Pia; twittare la scottante inchiesta: “Profumi di Lampedusa: granita pistacchio e gelsi, tutta italiana. Buona giornata Amici!”).

La verità è che la tragedia di Covid-19, con le terapie intensive piene, i 35mila morti, le famiglie distrutte dai lutti e dalla chiusura delle attività, ha prodotto l’effetto di tramortire definitivamente il personaggio Salvini, già auto-sabotatosi un anno fa tra i deliri alcolici dei pieni poteri invocati da uno stabilimento balneare. La paura vera, quella che nasce nel surrene, ha scalzato tutte le paure artificialmente indotte, e chi le aveva create ha finito per avere la stessa autorevolezza del tizio che va dicendo al bar di aver visto un coccodrillo uscire dal water. La novità è che è stato trovato qualche positivo sulle barche dei profughi: l’aporia che sulla base delle conoscenze mediche di Salvini, e per corroborare la sua teoria della minimizzazione, gli sbarcati non dovrebbero stare in quarantena ma essere arruolati sul posto per andare in tour con lui a baciare la gente è troppo sottile per essere risolta.

 

“La Santa Messa”: fiction su un delitto passionale, ma l’indagine è fumosa

E per la serie “Chiudi gli occhi e apri la bocca”, eccovi i migliori programmi tv della settimana:

Rai 2, 21.05: Quattro matrimoni e un funerale, film-commedia. Charles, un impenitente single, ha una vera e propria avversione per i funerali. Un giorno, però, proprio a un funerale incontra una salma che gli farà cambiare idea.

Canale 5, 21.20: Lo specchio della verità, film-thriller. Gli Styles fanno rientro a casa da una lunga vacanza e la scoprono occupata da un gruppo di magistrati. Mentre il marito Brian e la figlia sono tenuti in ostaggio, Lisa è costretta a prelevare denaro dal suo conto aziendale.

Rai 1, 10.15: La Santa Messa, fiction. Gesù, il figlio di Dio, viene trovato morto su una croce, di prima mattina. Sembra trattarsi di un delitto passionale, ma poi l’indagine segue un’altra pista…

La7 D, 9.45: I menu di Benedetta, cucina. Benedetta Parodi prepara uno dei suoi manicaretti. L’ospite di oggi lo fa assaggiare al suo cagnolino, che subito si lecca il pisello per togliersi il sapore dalla bocca.

Rai 2, 22.50: Blue Bloods, telefilm. Erin deve decidere se incriminare un medico che ha sottoposto la propria figlia, malata terminale, a una terapia sperimentale che l’ha trasformata in una colonna sonora di Morricone.

Italia 1, 21.30: Gli Aristogatti, film-animazione. Romeo, un simpatico gatto randagio, una sera si scopa Choupette, la gatta di Karl Lagerfeld.

Rai 1, 21.25: Superquark, documentario. Piero Angela conduce la nuova edizione del suo celebre programma. A 91 anni! Ci vogliono le palle. Le ho viste: sono grosse, pelose e molto penzoloni. Questo spiega la sua camminata. Ma insomma, arrivarci.

Rai 3, 21.20: La notte del giudizio, film-thriller. Nel 2022, il governo Usa istituisce un periodo di 12 ore, detto “Sfogo”, durante il quale gli atti criminali sono legali. L’ex cardinale McCarrick ne approfitta per scoparsi Choupette, la gatta di Karl Lagerfeld.

Sky Cinema, 21.15: Le ragazze di Wall Street, film-drammatico. Un gruppo di spogliarelliste in difficoltà economiche, tra cui Ramona, trova una soluzione originale per guadagnare grosse cifre di denaro: diventare professoresse di liceo.

Rai 1, 16.00: Con il cuore, nel nome di Francesco. Viene riproposta la serata di beneficenza del 25 luglio dell’anno scorso, che ha visto protagonisti i Kiss davanti alla Basilica di Assisi.

Rai Movie, 21.10: Free States of Jones, film-drammatico. Mississippi, 1862. Durante la Guerra di secessione, il contadino Newton Knight diserta l’esercito confederato e torna a casa, ma viene inseguito, e per difendersi dal linciaggio appicca il fuoco a un campo di mais, inventando il pop-corn.

Sky Action, 21.00: Red Dragon, film-thriller. L’ex agente della Cia Will Graham è sulle tracce del capo della P2, un folle assassino accusato di stragi efferate. Per risolvere il caso chiederà aiuto a Hannibal Lecter.

La5, 21.10: Invito al matrimonio, film-commedia. Jim sta organizzando le nozze della figlia. Tra i vari preparativi, la tradizione di famiglia vuole che tocchi a lui deflorarla.

La7, 20.35: In onda, attualità. Come ogni settimana, Luca Telese cerca di fare del suo meglio, ma non è abbastanza.

Rai 1, 15.40: Il paradiso delle signore, soap. Silvia continua a essere sconvolta dopo la perdita del bambino, anche quando la troupe le spiega che è solo un film.