Mail box

 

 

Il Fai si deve anche a Renato Bazzoni

Caro direttore, nelle tante rievocazioni e biografie che hanno avuto quale protagonista Giulia Maria Crespi fondatrice del Fai non è mai comparso, mi pare, l’architetto Renato Bazzoni, milanese, per anni colonna di Italia Nostra a Milano (dalla quale veniva anche Giulia Maria che conobbi come presidente regionale). Ora, Bazzoni, architetto e fotografo importante, fu quello che, ispirandosi al National Trust inglese, elaborò e attuò intelligentemente con la Crespi tutta la prima parte di vita del Fai. A partire, se non erro, dal recupero del Castello di Avio nel Trentino. Volevo ricordarlo perché questo è un merito che spetta storicamente a Renato Bazzoni.

Vittorio Emiliani

 

Non mandiamo Laura Castelli alla ghigliottina

Forse la viceministra dell’Economia e delle Finanze, Laura Castelli, ha dei sostenitori che le hanno aggiustato e modificato quanto ha dichiarato a Post, rubrica di approfondimento del Tg2. Ma se è vero quello che, non avendo sentito la trasmissione, mi viene riferito, non riesco a trovare nelle sue parole niente di scandaloso. Le riporto: “Questa crisi ha spostato la domanda e l’offerta. Le persone hanno cambiato il modo di vivere e bisogna tenerne conto. Bisogna aiutare le imprese e gli imprenditori creativi a muoversi sui nuovi business che sono nati in questo periodo, perché ce lo possiamo dire che sono cambiati. Sono processi di lungo periodo, certo, ma se una persona decide di non andare più a sedersi al ristorante bisogna aiutare l’imprenditore a fare magari un’altra attività e a non perdere l’occupazione…”. Se l’intento è quello di screditare sempre e comunque i poveri grillini, ok, ma dichiarare che è una malvagia e paragonare la sua frase a quella di Maria Antonietta, ossia S’ils n’ont plus de pain, qu’ils mangent de la brioche”, ce ne corre. Evitiamo di mandare Laura Castelli alla ghigliottina.

Antonio Fadda

 

La polizia è violenta e il palazzo corrotto

L’Italia è un Paese in cui si discute e ci si divide sul rinnovare o meno la concessione a chi, per incuria e per guadagnare di più, ha fatto crollare un ponte causando una strage. Vuoi che ci si possa stupire se un presidio di polizia diventa un covo di delinquenti? Non è la prima volta e non sarà l’ultima: qualcuno ricorda la “banda del Pilastro”? Le forze di polizia sono le uniche formazioni autorizzate a usare la violenza, purché in modo rispettoso della legge (legittimo): se non sono ben addestrate e controllate, possono facilmente sottrarsi a questo obbligo e delinquere. Gli Usa ce lo dimostrano. Il fatto è che in una società non esistono corpi separati: se la corruzione dilaga e viene assecondata a livello politico e sociale, anche chi è deputato a perseguirla e a sanzionarla può essere tentato e irretito nelle sue trame. Urge la ripresa immediata della discussione sull’etica pubblica e privata.

Sergio Torcinovich

 

Il caso di Piacenza come Floyd e Regeni

Perché il caso di George Floyd in America ha scatenato proteste e rivolte mentre invece qui, in Italia, il caso dei carabinieri di Piacenza sta passando quasi inosservato? Si parla molto del caso Regeni e della responsabilità del governo egiziano; ma come si può pretendere di esigere dal governo egiziano ciò che noi stessi non siamo in grado di pretendere per i casi che accadono in Italia?

Michele Lenti

 

L’omertà si è fatta spazio nell’Arma dei carabinieri

Quanto successo nella caserma di Piacenza è di inaudita gravità. Non solo per i reati commessi, che vanno dai pestaggi all’abuso di potere, ma per il sintomo che questa inchiesta manifesta: corruzione delle forze dell’ordine. Perché, parliamoci chiaro, se un’intera caserma è sotto sequestro non si parla più di mele marce. Perché con grande probabilità molti, anche ai vertici, sapevano ma hanno taciuto. Dopo il caso Cucchi, certi abusi e violenze non dovrebbero più esistere. Purtroppo la corruzione pare essersi infiltrata anche nella prestigiosa Arma dei carabinieri. Dove anche l’omertà si è ritagliata troppo spazio.

Cristian Carbognani

 

Nelle culture nordiche debito e colpa pari sono

L’ostinazione manifestata dal premier olandese non è stata frutto di gretti calcoli contabili, ma rispecchia la cultura dei Paesi protestanti. Non è un caso che “schuld”, sia in olandese sia in tedesco, significhi contemporaneamente “debito” e “colpa”. L’equazione è intuitiva: chi è debitore è anche colpevole. Anche nella Bibbia il debito è morale. L’Umanesimo protestante ha, però, accentuato la “cultura della colpa”, mentre da noi domina ancora la “cultura della vergogna”. Ci vergogniamo dei nostri debiti, solo se sono conosciuti dai terzi, ma avvertiamo meno il senso di colpa. Mentre a Ginevra Calvino proibiva i balli e la musica, a Roma i Papi erano l’espressione gaudente del Rinascimento. Ancora oggi non è cambiato nulla. “Non fare il passo più lungo della gamba” si insegna ai bimbi olandesi.

Carmelo Sant’Angelo

 

I nostri errori

Ieri, nel pezzo a pagina 20 – “Quando la piccola Alessandra faceva i compiti con Gadda” – abbiamo scritto che Sandra Bonsanti è Presidente onorario di “Giustizia e Libertà” anziché “Libertà e Giustizia”: ce ne scusiamo con l’interessata e con i lettori.

FQ

Intercettazioni. Sono fondamentali, come s’è dimostrato pure a Piacenza

 

Gentile Direttore, la “Gomorra” dei carabinieri di Piacenza è stata scoperta grazie alle intercettazioni. Eppure qualcuno propone di limitarle. Ricordiamoci di costoro quando andiamo a votare. Inoltre, un caso del genere difficilmente sarebbe emerso in un sistema politico in cui il potere è concentrato nelle mani dell’uomo solo al comando . Solo la separazione dei poteri dello Stato permette di portare alla luce fatti così deprecabili. L’autonomia della magistratura, quindi, prevista dalla nostra Costituzione, che si ispira a Montesquieu, si è rivelata lo strumento più idoneo per tutelare i diritti e le libertà dei cittadini. Diffidiamo sempre di tutti coloro che propongono di rafforzare il potere esecutivo a scapito degli altri, fino a chiedere i pieni poteri per gli uomini della Provvidenza. Ogni riferimento al Felpato è puramente casuale.

Maurizio Burattini

 

Caro Maurizio, quello delle intercettazioni è uno strumento investigativo tanto formidabile, per i risultati che produce, quanto delicato. Le ultime inchieste raccontano quanto siano fondamentali. Le intercettazioni dell’indagine di Piacenza hanno consentito di arrestare sei carabinieri, mettendo fine, stando alle accuse, a un sistema di violenza e prevaricazione. Il trojan installato nel cellulare del pm Luca Palamara, per fare un altro esempio, ha svelato, oltre ai reati contestati, pure le trame dietro la nomina del procuratore capo di Roma. Per quanto non penalmente rilevanti (i politici Lotti e Ferri intercettati con Palamara non sono indagati), quelle conversazioni hanno svelato un modus operandi scandaloso. In loro assenza nulla sarebbe venuto allo scoperto. E i cittadini devono sapere anche ciò che non è reato. Ecco a cosa servono le intercettazioni, quelle penalmente rilevanti e quelle che invece non lo sono. Da destra a sinistra, la politica ha sempre puntato al bavaglio, limitandone la pubblicazione. È vero, possono essere uno strumento investigativo micidiale. Ma non per questo bisogna porre limiti né al loro deposito, né alla loro pubblicazione. La stampa però ha una grande responsabilità: dare al gossip da portineria (ad esempio, l’amante dell’indagato anche essa intercettata) il giusto peso: ossia nessuno.

Valeria Pacelli

Arriva in elicottero il ricordo della Diga

Avventure in elicottero, quelle del nuovo presidente di A2a, Marco Patuano. L’azienda multiutility dei Comuni di Milano e Brescia ha un appuntamento tradizionale che si ripete ogni anno: la “giornata del ricordo”, in cui nella prima domenica d’estate si tiene viva la memoria dei caduti sul lavoro durante la costruzione della diga di Cancano e degli altri grandi impianti idroelettrici in Valtellina di Aem, poi diventata A2a. È anche la celebrazione delle capacità umane di trasformare la forza dell’acqua in energia (pulita). Ogni anno arrivano alla diga di Cancano, nella chiesetta di Sant’Erasmo, i vertici di A2a, i sindaci dell’alta valle, i parroci della zona. Quest’anno, domenica 28 giugno, i presenti si sono stupiti per un cambio di stile: assente il nuovo amministratore delegato, Renato Mazzoncini; e il presidente di A2a è arrivato in elicottero. La tradizionale sobrietà della “giornata del ricordo” ha messo il turbo.

Regioni, il gettone agli eletti anche durante il lockdown

Qualcuno lo ha già ribattezzato “gettone di assenza”. E non è un controsenso, anche se così può sembrare a prima vista. La questione riguarda molti consiglieri regionali di tutta Italia che nel periodo del lockdown hanno continuato a lavorare in un momento di grossa crisi economica e sanitaria. E a riunirsi, sia per via telematica sia in presenza quando sono state allentate le misure restrittive. Ma, come se tutto rientrasse nella normalità, i consiglieri regionali di tutta Italia – dal Piemonte alla Calabria fino alle Regioni a Statuto speciale – hanno continuato a guadagnare la stessa somma (circa 10 mila euro lordi) nonostante le loro mansioni si siano molto ridotte.

Non solo: in alcuni casi, i consiglieri hanno continuato a prendere il gettone di presenza e il rimborso spese (il cosiddetto “bonus trasferta”) nonostante non dovessero fare alcuno spostamento dalla propria residenza alla sede del consiglio, nel capoluogo di Regione, dato che le sedute si tenevano via Skype. Tutto è stato demandato al buon cuore dei singoli consiglieri con donazioni individuali.

Il caso più lampante è quello della Regione Friuli-Venezia Giulia, governata dal leghista Massimiliano Fedriga, dove è dovuto intervenire il procuratore regionale della Corte dei Conti, Tiziana Spedicato, che ha aperto un fascicolo per fare accertamenti sul caso del “bonus trasferte”. In sintesi, anche durante le sedute telematiche, i 49 consiglieri friulani hanno continuato a incassare il rimborso forfettario, che costituisce un terzo del proprio stipendio: 3.500 euro per gli eletti nelle province di Udine e Pordenone (33) e 2.500 per gli eletti a Trieste (16). Che moltiplicati per il numero dei consiglieri non fa esattamente pochi spiccioli: un totale di circa 155.000 euro. I consiglieri, su iniziativa del presidente Pier Mauro Zanin, hanno lanciato una raccolta fondi per acquistare ventilatori polmonari per gli ospedali del Friuli. Sicuramente un bel gesto che però stride con il “bonus trasferte”.

In Toscana il Consiglio regionale è andato oltre: non solo i rappresentanti hanno continuato a prendere stipendi e gettoni come prima, ma l’Ufficio di presidenza ci ha tenuto a precisarlo con una delibera del 25 marzo scorso che non è passata inosservata nei corridoi di Palazzo Panciatichi. Sia perché il contenuto stona con i sacrifici chiesti agli italiani, sia perché il responsabile di quella delibera è il presidente del Consiglio regionale Eugenio Giani, che ora corre per diventare governatore.

La norma si cela dietro a poche righe inserite nell’allegato “A” della delibera relativa alle nuove regole di funzionamento del consiglio regionale via telematica. Ed è scritta in perfetto burocratese: dopo aver spiegato che vengono considerati presenti alla seduta chi si palesa “all’appello iniziale o al momento della votazione”, viene stabilito che viene applicato il regime di “rimborso spese” previsto dalla legge regionale del 9 gennaio 2009. Ergo: le stesse valide per i consigli regionali in presenza. Anche in questo caso non stiamo parlando di una piccola mancetta visto che, nel riepilogo degli emolumenti aggiornato al 30 giugno 2020, la quota variabile dei rimborsi dei 41 consiglieri regionali per le 22 sedute da inizio anno ammontava a 229.000 euro sui 2 milioni di stipendio totali. Per le tre sedute che si sono tenute via telematica il rimborso vale circa 30 mila euro.

Il “gettone di assenza” viene confermato dal consigliere del M5S, Andrea Quartini: “È così e non è certo un bel segnale da dare ai cittadini – dice al Fatto – noi del M5S avevamo proposto di eliminarlo e abbiamo donato 85 mila euro per la sanità regionale. Non so se gli altri hanno fatto donazioni simili a titolo personale ma hanno preso il bonus”. La vicepresidente del consiglio, Lucia De Robertis (Pd), spiega che il rimborso spese “è una componente marginale dello stipendio del consigliere regionale” ed essendo un rimborso forfettario “non può tenere conto della situazione reale”. Poi si giustifica attribuendo la responsabilità a tutti i gruppi: “Né a destra, né a sinistra o nei 5S è stata posta la questione”. Insomma, così fan tutti.

Notti insonni, Haribo e le chat dall’Italia: “Fategli il cucchiaio”

Ministro Amendola, la cabina di regia per la gestione dei Fondi europei sarà al Ciae (Comitato Interministeriale per gli Affari europei). Qual è la vostra mission, davanti a risorse oggetto di plurime ambizioni, con il clima che da festa ridiventa di scontro?

Si tratta di un patrimonio di risorse, non per il governo, ma per il Paese. È giusto coinvolgere Parlamento e opposizione. Tutti i ministeri sono pronti a indicare le priorità: il Ciae è una struttura di coordinamento dell’esecutivo, che si avvale di tecnici, presieduto da Conte. L’obiettivo è presentare progetti entro fine settembre, mirati, con tempi certi, indicazioni di spesa chiare.

Torniamo ai giorni di Bruxelles. Per un momento la vostra “squadretta” – il premier Conte, lei, il consigliere diplomatico di Palazzo Chigi, Piero Benassi, il rappresentante permanente presso la Ue, Maurizio Massari, insieme a Rocco Casalino – pareva seguita tipo la Nazionale di calcio. Quali erano i vostri ruoli?

Siamo stati uno squadrone. A Bruxelles, le delegazioni erano ridotte per il Covid. Ma alle nostre spalle c’era una schiera di funzionari e diplomatici di primo livello, che ci ha seguito in ogni istante tramite WhatsApp. C’era una chat con i diplomatici della Farnesina, il Mef con Gualtieri, la Ragioneria, i tecnici del Mae, pronti a fare simulazioni sulle risorse in tempo reale. Nessuno è mai andato a dormire, neanche in Italia. Conte era quello più esposto, ovviamente. In plenaria e negli incontri con i leader era da solo, con noi fuori dalle stanze. Sull’ammontare delle risorse a 750 miliardi e sulla governance non ha mai ceduto. A un certo punto ha anche indossato i panni dell’avvocato delle prerogative della Commissione, messe in discussione.

Qual è stato il momento peggiore?

La seconda notte, sabato, quando tutti parlavano di rinvio, che avrebbe significato non vedersi mai più o a settembre, in condizioni peggiori. Sono quegli attimi in cui stai tra l’Inferno e il Paradiso. Poi domenica mattina ci sono state varie riunioni con i ‘Frugali’. I nordici erano più morbidi sulla governance, Rutte non mollava, spinto anche dalle dichiarazioni del sovranista Wilders in patria. Leggevamo i giornali stranieri per sapere le opinioni di tutti. La questione della governance è stata al centro del negoziato: non ci accontentavamo di ambiguità nella formulazione del meccanismo del freno di emergenza, che forse altri avrebbero accettato. Benassi e Massari, due fuoriclasse tra gli ambasciatori, con grande esperienza, velocità e fantasia, cercavano soluzioni anche creative sui testi.

Che atmosfera c’era nella delegazione italiana? Come è uscito fuori il “cucchiaio” all’Olanda?

Siamo stati chiusi per cinque giorni in una specie di bunker, dentro una sede del Consiglio spettrale. Ironia della sorte, eravamo circondati: a sinistra, la delegazione olandese, a destra quella austriaca. Abbiamo dormito tre ore per notte e mangiato e fumato in continuazione. L’ultima notte sono andato avanti con le caramelle Haribo offerte dalla presidenza tedesca. Ci arrivava la frutta e solo una volta siamo andati al ristorante: ma appena ci siamo seduti, Conte è stato richiamato a negoziare. È stato un frullatore continuo. Riunioni e bilaterali una dopo l’altra. Era fondamentale tenere alto lo spirito. L’unico litigio lo abbiamo avuto io e Benassi durante Roma-Inter (lui romanista, io interista) per il rigore di Lukaku. Il cucchiaio, alludendo al rigore di Totti nella semifinale degli Europei 2000, è un suggerimento arrivato con i messaggi dall’Italia: “Fategli il cucchiaio all’Olanda!”. A me scrivevano i ministri: “Conte è abituato a prenderci per sfinimento, durante i Cdm in notturna. Che sarà mai per lui!”.

E gli altri? La Merkel ha accusato stanchezza? Macron ha mostrato smanie di protagonismo? Rutte ha tradito nervosismo?

La Merkel è un campione di negoziato. Resiste. Macron, anche quando discute ti mostra sempre il suo miglior sorriso. Loro due si sono dovuti difendere per aver lanciato la proposta dei 500 miliardi di grants: i ‘Frugali’ contestavano la loro leadership, Conte si è anche mosso per mediare, insieme a Sanchez e Costa. Ma nessuno ha mai avuto segni di cedimento, neanche fisico. Neanche nei momenti di scontro duro, come quando Conte ha messo sul tavolo l’opting out per l’Olanda. Rutte è da 10 anni che si muove in quelle sale, non tradisce emozioni.

C’è un momento che non dimenticherà?

Le ultime due ore, quando abbiamo chiuso l’accordo sulla governance. Si lavorava su avverbi e aggettivi. L’ambiguità nella formulazione faceva confondere il ruolo del Consiglio con quello della Commissione non sulla presentazione dei piani, ma sulla loro implementazione. Noi eravamo assolutamente contrari. Conte ha poi trovato la formulazione passando dalla decisione del Consiglio “in modo decisivo” a quella “in modo esaustivo”. Quando è arrivato il parere legale chiesto tre giorni prima, abbiamo capito che era fatta. Ma non abbiamo mai brindato. Abbiamo realizzato pienamente quello che era successo alle 9 di mattina di martedì, quando siamo atterrati a Roma, sommersi da messaggi di entusiasmo.

Ma già ora quello sul Mes sembra uno scontro per la supremazia tra Pd e M5S. Secondo un retroscena – poi smentito – del Sole 24 Ore, Gualtieri sostiene che senza ci saranno problemi alle casse dello Stato. È vero?

Non ho mai cambiato idea dall’inizio: bisognava prima chiudere i negoziati. Ora dobbiamo leggere il nostro fabbisogno reale, uscendo dalla guerra dei tweet. E scegliere con una gestione oculata della cassa come ha ribadito anche Gualtieri. Chiudo con una notazione: quando a marzo con la lettera dei 9 abbiamo tirato fuori l’idea dei bond europei, tutti ci sbeffeggiavano. Quattro mesi dopo abbiamo 750 miliardi di bond. E se ne parlava da 20 anni.

“Ci vuole il mio partito nuovo per sconfiggere la corruzione in Russia”

Ama mostrarsi in combattimento sul ring, dove le prende e le dà. Abbondano ritratti di lui mentre cavalca, si fa la barba col coltello o mostra qualcosa che ha appena trovato sul fondo dell’oceano. Immagini che fanno eco ad altre, quelle appese ai muri di tutta la Russia, le icone dove suo cugino, il presidente russo Vladimir Putin, cavalca a torso nudo. Dopo aver tergiversato per giorni, Roman Putin non è più il cugino nell’ombra del presidente: all’inizio del mese ha annunciato la sua candidatura alle prossime elezioni regionali, e poi alla Duma: il suo partito si chiama ‘Popolo contro la corruzione’.

Signor Roman, il suo cognome è Putin, lo stesso del presidente. Se scegliesse una parola per descrivere suo cugino quale sarebbe?

Patriota. A mio parere, Vladimir Putin è una persona forte e determinata, un politico che ha dedicato tutta la sua vita alla Russia e ai suoi cittadini. È il migliore presidente della storia della Russia. In tre parole: leader della nazione. A lui non ci sono alternative.

Lei ha lavorato nei Servizi segreti russi.

La lezione più importante che ho imparato al Kgb è “non tutto è ciò che sembra in un primo momento”. In qualsiasi situazione, anche la più semplice, prima di tutto è necessario comprendere, capire e solo allora prendere decisioni. Perché conclusioni affrettate generano conseguenze imprevedibili che influenzano il corso degli eventi.

Non solo il Kgb dove anche il presidente ha iniziato la sua carriera. Come Putin, lei ama le arti marziali ed è presidente della Federazione russa di Taekwondo.

È uno sport che sviluppa forza di volontà, resistenza, determinazione, spiritualità.

Lei è a capo della Putin corporation e ora ha deciso di entrare in politica.

La decisione è stata ponderata. Il Paese è in ritardo nella lotta alla corruzione, voglio dedicare la vita a trovare strumenti per combatterla, per questo ho deciso di assumere la leadership del partito “Popolo contro la corruzione”. Non credo che la problematica riguardi solo la nostra Federazione, colpisce la maggior parte dei Paesi del mondo. Al momento, non hanno ancora inventato una panacea funzionante al cento per cento contro questa malattia.

Molti accusano proprio il governo di suo cugino di corruzione.

La corruzione esiste non solo nel sistema dei servizi pubblici, ma anche nel settore privato. In ogni caso, il presidente ha dichiarato guerra a questo fenomeno negativo e i primi risultati possono già essere notati.

La corruzione fa male all’economia e lei è un imprenditore.

Gli imprenditori russi hanno difficoltà per due motivi: il primo è il forte impatto dello Stato sui processi aziendali, il secondo è la difficoltà di accesso delle piccole imprese ai finanziamenti bancari.

C’è anche la crisi innescata dal virus.

Non solo in Russia, ma in tutto il mondo, la vita dopo il Covid-19 cambierà. Come per ogni crisi globale, il risultato non è predeterminato, ma dipende dalle azioni che intraprenderemo. È necessario cercare attivamente la cooperazione globale per costruire un mondo migliore, più sicuro e più onesto.

L’economia russa è stata colpita anche dalle sanzioni occidentali dopo la guerra in Ucraina.

Le sanzioni occidentali hanno solo rafforzato il nostro Paese: abbiamo sviluppato l’agricoltura, potrei elencarle altri esempi, ma la cosa più importante è che i fondi russi hanno smesso di fluire fuori dal Paese e questo ha avuto un impatto positivo sull’economia.

Non è quello che leggiamo sulla stampa o nei report scritti lontano da Mosca.

La Russia è oggetto di propaganda, in gran parte negativa. Ma devo farle notare che questo non è un problema del nostro secolo, per la Russia è sempre stato così.

L’Occidente ha accusato la Russia di aver influenzato le elezioni Usa nel 2016, recentemente di aver fatto disinformazione sul Covid e di aver falsificato i dati del referendum costituzionale.

L’Occidente incolpa la Russia senza prove in tutti i modi che può. Il referendum ha registrato una vittoria trionfale, riflette pienamente il sostegno del popolo al presidente. Se qualcuno vuole dire il contrario, attendiamo che ci fornisca i fatti che lo provino.

A marzo lei ha dichiarato che nessuno può sostituire Putin. Lo pensa ancora dopo il risultato del referendum che permetterà al presidente di rimanere al potere fino al 2036?

Questa domanda assomiglia alla prima, e io ho già risposto.

Santa Sofia, Erdogan legge il Corano

È iniziato con la preghiera islamica del venerdì un nuovo capitolo della tormentata storia di Santa Sofia, finora simbolo religioso – anche se non più di culto – per eccellenza di Costantinopoli, il nome cristiano con cui i greci ancora oggi chiamano Istanbul. Non è stato possibile scrutare l’espressione del presidente Recep Tayyip Erdogan, il fautore di questo ricapovolgimento storico, causa mascherina anti Covid, mentre ne varcava la soglia, ma è facile immaginare cosa stesse pensando mentre l’imam iniziava il sermone del venerdì, il giorno in cui i musulmani sono tenuti ad andare a pregare in moschea. Dopo aver sfidato le chiese cristiane, in particolare quella ortodossa, che avrebbero voluto che l’ex basilica bizantina rimanesse un museo, e vinto, Erdogan non può che pensare di essere ormai paragonabile a Mehmet II. Ovvero il sultano che fu l’artefice della conquista di Costantinopoli nel 1453 e della conversione di Santa Sofia in moschea. E tale restò fino al 1934 quando il fondatore della Turchia moderna, il laico Mustafa Kemal meglio noto come Ataturk (padre dei turchi) decise di convertire il sito in museo. Dopo 86 anni in cui Santa Sofia è stata visitata da chiunque lo volesse, senza distinzioni di fede e di genere, ora questa meraviglia dell’architettura e patrimonio dell’umanità viene requisita dalla megalomania di Erdogan e costretta entro il culto islamico per essere visitabile solo da chi entrerà seguendo le modalità indicate dal direttorato degli affari religiosi, il cui presidente viene nominato dal capo dello Stato, cioè Erdogan. E ieri, come si conviene durante gli appuntamenti con la storia con la S maiuscola, Ali Erba, il presidente del direttorato nonché khatib (colui che fa il sermone) per l’occasione impugnava una spada che sembrava essere proprio quella di Mehmet II per tutta la durata del sermone. Mehmet II detto “il conquistatore” , riuscì nell’impresa di mettere fine all’Impero Romano d’Oriente mentre ora il ” Sultano contemporaneo” con questa mossa storica intende non solo sfidare il mondo cristiano nel suo complesso (compresa la Russia ortodossa) ma anche segnare un punto non da poco nella guerra in corso con l’Arabia Saudita, gli Emirati Arabi e l’Egitto – ovvero gli arabi che custodiscono i due luoghi più sacri dell’Islam, Mecca e Medina – per entrare nei libri di storia come il vero difensore dell’Islam del Terzo millennio. E mentre l’attenzione mondiale era rivolta a questo evento, Erdogan ne ha approfittato per assestare un altro colpo alla libertà di espressione e ai diritti sanciti dalla Costituzione. Il Parlamento si appresta a votare un disegno di legge per bloccare i social se non rispettano una serie di regole rigide: previste multe fino a 1,5 milioni di dollari.

Ren “il cannone” spara su Xi, lui bagna le polveri

Prima la risposta alla rappresaglia americana di chiudere il consolato di Houston per via della presunta attività di hackeraggio messa in piedi dai cinesi negli Stati Uniti: “La sede resta operativa, consigliamo agli Stati Uniti di rivedere la propria decisione e lavorare a migliorare le relazioni bilaterali”, ha intimato il portavoce del ministero degli Esteri cinese, Wang Wenbin al Segretario di Stato di Trump, Mike Pompeo. Poi la Cina è passata allo stop alle attività della sede diplomatica statunitense a Chengdu perché, a detta di Pechino, i diplomatici “si sono impegnati in attività incompatibili col loro status, interferendo negli affari interni della Cina e danneggiando i suoi interessi sulla sicurezza”, ha chiarito il portavoce Wenbin.

Il presidente Xi Jinping, dunque, pare non avere intenzione di mollare la presa nel tira e molla tra le due superpotenze che hanno ricominciato a farsi la guerra, o meglio, la cyberguerra. Dai dazi alle accuse di aver causato la pandemia di Covid-19 con la copertura dell’Organizzazione mondiale della Sanità, tra The Donald e Xi non c’è chi ceda. Eppure, a proposito di coronavirus, non è quello estero il fianco più esposto del leader del Partito comunista cinese, stretto tra il dissenso e le fughe di notizie sulle torture nei campi di detenzione della minoranza degli Uiguri in Xinjiang. E la risposta è sempre la stessa: zittire le critiche e far sparire le prove. Ultimo in ordine di tempo a essersi volatilizzato nel nulla è il funzionario di partito e imprenditore, Ren Zhinqiang, 69 anni, reo di aver criticato non solo la gestione della pandemia da parte del governo, ma di aver osato definire il presidente un “pagliaccio” per essersi fatto vanto di aver sconfitto il Covid-19. Di Ren si sono perse le tracce nel marzo scorso, quando amici e colleghi hanno dichiarato all’agenzia Reuters e al quotidiano statunitense The New York Times di non riuscire a rintracciarlo in nessun modo. Solo giovedì il regime ha fatto sapere che il magnate dell’impresa immobiliare controllata dallo Stato Huayuan Real Estate Group, espulso dal Partito, è ora formalmente accusato “di grave violazione della disciplina e della legge” oltre che di essere stato “sleale nei confronti del partito”. Secondo la nota del governo, Ren avrebbe dimostrato “di non essere allineato con il partito sulle questioni di principio”, di “aver diffamato l’immagine di ripresa del Paese”. Ma perché non sembrasse pura censura, il funzionario è stato accusato anche di “introiti illegali” per aver “utilizzato fondi ufficiali per le proprie spese, dal golf agli uffici e spazi messi a disposizione degli uomini d’affari, spazi da cui avrebbe tratto profitto”. Ren, anche detto “il Cannone” per le sue invettive contro il regime, verrà portato in tribunale, secondo la nota del Pcc, dopo quattro mesi di detenzione. Cosa non nuova per il dissidente: già nel 2016 era stato prima arrestato e poi rilasciato in libertà vigilata per le critiche al governo pubblicate sui social, dopo avergli chiusi gli account.

Ma il 23 febbraio scorso, Zhinqiang deve avere esasperato Xi Jinping quando in uno scritto lo ha accusato di “crisi di governance nel partito”, definendolo “non un imperatore in piedi che esibisce i suoi nuovi vestiti, ma un pagliaccio nudo che insiste nel voler continuare a essere imperatore”. Per poi passare alle critiche sulla gestione dell’epidemia: “La realtà dimostra – scriveva Ren – che il partito difende i propri interessi, i funzionari del governo difendono i propri interessi e il re difende solo il suo status e gli interessi dei suoi fedelissimi”. “Xi ha tolleranza zero nei confronti del dissenso politico, figuriamoci quando viene apertamente deriso”, spiega al New York Times Jude Blanchette, analista del Center of strategic and international studies. “Da Hong Kong allo Xinjiang, Xi e il partito useranno sempre più il pugno duro avvertendo una minaccia alle proprie regole. Le proteste internazionali saranno dannate”.

Cacciato dal partito per slealtà

Sotto controllo Ren Zhinqiang era già stato arrestato nel 2016 per aver espresso critiche al governo sui social, per poi essere rilasciato in libertà vigilata. Nel marzo scorso, dopo un nuovo attacco al governo, “il cannone” Ren era sparito. È in carcere con l’accusa di tradimento e frode

“Dal quiz in salotto alle chiacchiere con ‘la Maria’ (Callas): un genio”

“Al pomeriggio, spesso facciamo quello che chiamiamo ‘il quiz dell’opera’. Io inizio a fischiettare un’aria, e Franca deve indovinare. Le azzecca sempre tutte, già dopo pochi secondi.” Ad aprirci la porta del ménage familiare di casa Valeri, è Stefania Bonfadelli, devota figlia adottiva della grande attrice oggi sulla soglia di compiere un secolo tondo tondo. Sempre molto discreta, Stefania racconta con tatto che “I cent’anni si fanno sentire. La maggior parte della giornata la trascorre ascoltando l’opera, suo grande amore. Verdi su tutti – il Trovatore è la sua prediletta – ma anche Bellini. Proprio la sua passione per il teatro le è nata da piccola attraverso la lirica, quando andava alla Scala ospite nel palco del poeta Paolo Buzzi, grande amico del padre di Franca. Per scherzare, dice sempre che è stata un’appassionata più di Verdi che di Shakespeare”.

Lo stesso legame madre-figlia è avvoltolato dalla musica lirica: Stefania è un soprano, ed è grazie al concorso Battistini per giovani cantori – organizzato per più di un decennio dalla Valeri anni orsono – che si sono conosciute, nell’edizione vinta dalla Bonfadelli. Volto meno noto della talentuosa attrice, questo da raffinata musicologa, di cui non ha mai dato mostra (nella sua cifra sempre defilata), ma non a caso è stata anche regista di lirica al Teatro dell’Opera di Roma e al Festival di Spoleto. Tra le sue amicizie, infatti, vi è stata anche Maria Callas. “Nell’estate del ’58, ‘la Maria’ – così la chiama Franca, – preparava il debutto di Anna Bolena per la stagione a venire della Scala,” prosegue Bonfadelli, “e durante la vacanza che fecero insieme a Ischia, si confrontavano su come interpretare questo personaggio così complesso e appassionante. Ebbero un legame davvero speciale, tanto che Franca andò anche a vederla nell’ultima Norma che la Callas interpretò a Parigi”.

Un’altra cara amica di Franca Valeri è la celebre attrice di teatro e cinema Adriana Asti, che al solo accennare il nome della sua sodale e maestra, prorompe col sorriso: “Franca è eccezionale sotto ogni punto di vista: è un’autrice, una regista, un’attrice irripetibile. Nel senso che non ricorda nulla, non somiglia a nessuno prima di lei, e dopo di lei nessuno le somiglierà. Si situa anche al di sopra delle correnti, come chi la vuole recintare quale artista femminista. Lei è oltre, un genio”. Le due hanno lavorato ottimamente insieme in due commedie: Alcool (1999) e Tosca e le altre due (2003), poi divenuto anche un film. “Lavorare con Franca,” confessa Asti, “è stato un privilegio, e non c’è un solo segreto o dettaglio che non le abbia rubato; tutta la sua presenza in scena accanto a me è stata preziosa. Le sono profondamente grata e legata. Abbiamo vissuto mesi felici durante le tournée. Ecco, sì, siamo state felici, ci siamo divertite. Forse è per questo che, in un’intervista, lei ha dichiarato che l’unico matrimonio che aveva funzionato nella sua vita era quello artistico con me (ride). Se mi metto a pensare che sta per compiere un secolo, non posso non essere fiera di lei e del nostro legame, ma non riesco a immaginarmela cambiata. Me la figuro sempre intelligente, curiosa, coltissima. In una parola, sublime e anche questi suoi anni, saranno cent’anni sublimi”.

All’arte, del resto, Franca Valeri ha consacrato tutta se stessa. In esergo al volume Tutte le commedie del 2004, la dedica è “A me stessa. A chi altri?”, che è un modo inverso e ironico di ricordare quanto anche il pittore Delacroix annotava nei suoi diari, e cioè che “La pratica di un’arte esige un uomo per intero”.

L’importanza di essere Franca

Se la vita fosse una telefonata, a mammà, alla manicure o a chi volete voi, allora si capisce perché Franca Valeri è arrivata trionfalmente a cento anni, perché certe telefonate si vorrebbe che non finissero, e forse non finiranno mai.

Ogni dea ha il suo attributo. Quello di Franca Maria Norsa, nata a Milano il 31 luglio 1920, divenuta Valeri in omaggio a Paul Valéry – Signorina snob, beccati questa –, è la cornetta. Il telefonone di una volta – teatro puro, non multisala come i telefonini di oggi –, lo scettro casalingo a cui il divanetto dello psicoanalista faceva un baffo. Chiunque ci fosse all’altro capo del filo, rendeva più splendida la nostra solitudine. A parlare possono essere la Signorina snob o la sora Cecioni, con o senza bigodini in testa, ma dietro le maschere ci sono sempre lei e il suo inseparabile stile, il caschetto inventato da Vergottini negli anni Sessanta, gli abiti di Roberto Capucci, l’ironia scolpita già nei lineamenti, la maschera tagliente, l’occhialino lungo e stretto, il sorriso sottile come una lama, l’umorismo perenne ma selettivo, mai del tutto dichiarato. È una questione di principio. Bisogna essere all’altezza, e mai come di questi tempi cupi, ottusi e risentiti vale la pena di prendere ripetizioni dalla Franca. L’eleganza è un dono, lo stile un dovere. Se ce l’hai, non te lo puoi togliere.

Il filo del telefono comincia a srotolarsi alla soglia degli anni Cinquanta, quando teatro, cabaret, musica, letteratura e giornalismo sono camere comunicanti, quando la figlia dell’ingegner Norsa, buona borghesia milanese che pure ha dovuto vedersela con le leggi razziali, viene bocciata all’esame di ammissione dell’Accademia d’arte drammatica. L’ingegnere spera che la figlia se ne faccia una ragione, il palcoscenico non è il suo destino, “e invece fu una fortuna”, racconterà lei, “perché conobbi Vittorio Caprioli e Alberto Bonucci, con cui fondammo il Teatro dei Gobbi”.

Non solo. Siccome Caprioli e Bonucci volevano andare in scena a Parigi senza compagnia femminile, chissà poi perché, presentarono Franca a un dirigente della radio Rai. “È brava, inventa personaggi meravigliosi scritti da lei, ma è impegnatissima, richiestissima, non vi dirà mai di sì”. Il dirigente abbocca, la scrittura e la Signorina snob nasce così, in presa diretta dai salotti milanesi: “Ho detto alla mamma che quando muore deve farsi seppellire a Cortina, così i ragazzi vengono a vederla volentieri”.

Di cosa è fatto il talento? Di nulla che si possa toccare, a parte la cornetta del telefono. Presenza scenica e scrittura – la stessa scrittura brillante, lo stesso sguardo caustico sul costume delle migliori penne femminili di quegli anni: Camilla Cederna, Irene Brin, Floriana Maudente, Colette Rosselli. Lo stile è un dovere e un destino, un sesto senso che ti guida dove devi arrivare. Dopo la radio arrivano il debutto nel cinema, Luci del varietà (1954), regia a quattro mani di Alberto Lattuada e di Federico Fellini, a sua volta debuttante, poi l’approdo in televisione con i varietà di Antonello Falqui, il mago del bianco e nero (i colori sono di tutti, il bianco e nero è per pochi), mentre a teatro Giovanni Testori scrive La Maria Brasca tagliandola su misura per lei.

Insomma, c’è solo da scegliere, restando immobili. Negli anni Sessanta sarà soprattutto cinema, l’età dell’oro della commedia all’italiana affollata di signorine grandi firme, oche giulive e maggiorate, nelle forme e nel divismo. L’inalterabile Franca e le sue maschere giocano fuori casa, eppure negli oltre cinquanta film interpretati riesce a fare il controcanto anche a se stessa, un’autoparodia che raggiunge il culmine a fianco di Alberto Sordi con Il vedovo (1959), un continuo sorpasso a chi è più cinico. “Cosa fai Cretinetti, parli da solo?”. “Che cos’hai Cretinetti, ridi nel sonno?”. Il soprannome Cretinetti venne fuori per caso dalle labbra di Franca, e Dino Risi, altro eminente specialista del cinismo, non ebbe dubbi: “Teniamolo”.

Dagli anni Settanta in poi i tempi cambiano sempre più velocemente, vorticosamente, nello spettacolo e non solo. Lei si dissocia (“Non amo i cambiamenti. Sono quasi sempre funesti”), ma, a parte quelle di Vergottini, non fa una piega. Non smette di fare teatro, sperimenta regie d’opera, sua grande passione, pubblica l’autobiografia Bugiarda no, reticente e il memoir Il secolo della noia, miete premi e dichiarazioni d’amore, si fa venerata maestra ma anche icona gay, resiste a tutto, perfino a Marzullo. “Si faccia una domanda e si dia una risposta”. “D’accordo. Ci sarà ancora posto per un settimo cane in campagna?”. “E la risposta?”. “Ma certo”.

Cento anni dopo, la telefonata prosegue e la domanda rimane senza risposta, chissà chi ci sarà dall’altra parte del filo. Ma poi, è così necessario che ci sia qualcuno? Siamo soli al mondo, ma meglio non farlo notare troppo.