Luigi Di Mario

I partiti della maggioranza-ammucchiata escono, chi più chi meno, con le ossa rotte dalla corsa al Quirinale, ultima tappa del loro lento assassinio pianificato un anno fa con l’Operazione Dragopardo. Ciascuno è stato infiltrato dal Partito Trasversale Draghiano per scardinarne la leadership e ribaltarne la linea dopo tre anni di governi sgraditi all’establishment. Missione compiuta nel Pd, con l’avvento di Letta jr., che tra il fronte giallorosa e i draghetti renziani sceglie sempre i secondi. Lavori in corso nella Lega, con Giorgetti&Fedriga contro Salvini; in FI, con i poltronisti Brunetta&Gelmini contro il cerchio nanico di Arcore; e nel M5S, col draghetto Grisù-Di Maio contro Conte. La differenza fra i partiti infiltrati è che nel Pd il voltafaccia di Letta sulla Belloni per compiacere Guerini&C. non produce alcun dibattito: si fingono morti per vivacchiare. Nella Lega qualche espulsione e tutti zitti. In FI ci pensa Mediaset con l’editto anti-Meloni. Invece nei 5Stelle come sempre si discute, forse troppo e scompostamente, ma si discute. E con le uscite allo scoperto di Conte, Di Maio e Grillo si parla della vera posta in gioco: non una lite di comari o di galli nel pollaio, né una guerra per la leadership; ma un dissidio politico sul draghismo.

Di Maio non vuole cacciare Conte otto mesi dopo aver contribuito a incoronarlo, né prendere il suo posto (fuggì dopo tre anni, spossato dagli impegni ministeriali e dalle liti interne): da quel che si intuisce, vuole dirottare la nave verso la stella polare Draghi perché la ritiene irrinunciabile per i prossimi anni e, se non ci riesce, farsi una corrente nel M5S o traslocare altrove, ma sempre all’ombra del premier (infatti ha fatto di tutto per portarlo al Quirinale). Conte non vuole (purtroppo) uscire dal governo, ma lo considera una parentesi emergenziale da sopportare per limitarne i danni dall’interno e chiudere a fine legislatura per tornare alla politica (infatti ha sbarrato a Draghi la via del Colle). Perciò Conte piace alla base: perché appare molto più “grillino” di Di Maio. Basta leggere l’ultimo post di Grillo, che ritrova lucidità e indica obiettivi incompatibili col draghismo. Così discute un movimento che vuol “passare dagli ardori giovanili alla maturità”: non dei battibecchi e dei tradimenti personali, ma dell’enorme questione politica che li ha originati. Siccome il governo Draghi è nato anzitutto per spazzare via i 5Stelle, questi non possono sostenerlo per altri 12 mesi solo per difendere le cose fatte, ma a patto di ottenerne di nuove: salario minimo, nuovi ristori, aiuti contro il caro bollette, no al nucleare, nessuna scappatoia per i boss al 41-bis. Qui si parrà la nobilitate dei 5Stelle, di Conte e di Di Maio. Sempreché non sia già diventato Di Mario.

Jacobs torna a vincere “Ora punto ai Mondiali”

Lo sprinter Marcell Jacobs ha vinto in 6”51 i 60 metri al meeting “Istaf Indoor” di Berlino. L’azzurro ieri sera nella Capitale tedesca è tornato alle gare dopo la trionfale e storica Olimpiade di Tokyo nell’agosto scorso dove si è laureato campione nei 100 metri e conquistato l’oro con la staffetta 4×100. “C’era tensione, era la mia prima gara dopo l’oro olimpico ma se comincia così ora si può solo migliorare“, ha detto l’atleta. “Peccato non essere riuscito ad avvertire buone sensazioni già in batteria _ ha proseguito il velocista delle Fiamme Oro – Era la mia prima gara da oro olimpico e lo speaker ha fatto una presentazione infinita. Voglio essere al massimo della forma quando conta di più, cioè a Belgrado, ai Mondiali indoor”.

Ritorno a Kabul, dove il dialogo con i talebani resta il nostro dilemma

Non dimenticare Kabul, non dimenticare l’Afghanistan. Il libro di Nico Piro giunge in un momento adatto per ricordare a tutti i destini del Paese martoriato da almeno quarant’anni, se non più.

Le immagini del ritiro delle truppe occidentali, lo scorso agosto, sono ancora vivide, nonostante il centro del dibattito internazionale si sia spostato in Ucraina. Ma per il giornalista che di Afghanistan si è occupato a lungo e che torna a Kabul 115 giorni dopo il ritiro occidentale il Paese resta ancora una priorità anche perché “ciò che accade in Afghanistan non resta mai in Afghanistan”.

Il “cimitero degli Imperi”, dove si sono arenate le ambizioni inglesi, russe e statunitensi costituisce una pedina vitale nello scacchiere globale. Gli Stati Uniti, del resto, non si sono ritirati per un errore della storia o per disattenzione, ma consapevoli di consegnare a potenze regionali, come la Cina, una pietra che scotta.

Il libro non è un saggio, ma un racconto. Piro si siede con i miliziani e chiede loro senza mezzi termini: “Oggi sono qui con voi al sicuro, ma fino a poco fa facevate di tutto per ammazzarmi perché ero un giornalista e uno straniero. Cosa è cambiato?”. E il cambio è dovuto al fatto che il giornalista è venuto in pace, non ha equipaggiamento militare. E il Paese infatti è cambiato, anche se l’Emirato è ancora nelle mani dei talebani che sono quelli di sempre. Ma si può non porsi il problema di una relazione con il Paese?

Il “dilemma dell’Occidente” resta questo, interloquire o meno con i talebani. E quindi dare soluzione o meno alla radicale povertà che attraversa il Paese, evitare o meno ulteriori esodi, contribuire a una possibile evoluzione. Ma forse un’interlocuzione significherebbe dire che la guerra è stata inutile e che anche la superiorità morale dell’Occidente è venuta meno.

 

Kabul, crocevia del mondo Nico Piro Pagine: 336 Prezzo: 17,50 Editore: People

 

Violeta, nuova eroina da realismo magico

Isabel Allende, 80 anni il prossimo 2 agosto, è l’autrice di lingua spagnola più letta e più tradotta nel mondo. Scala le classifiche dei best-seller a ogni latitudine fedele a un mantra: “La letteratura è come l’amore, un impegno a tempo pieno”. La sua bibliografia vanta una trentina di opere, inclusa una trilogia per ragazzi. “Posso scrivere quattordici ore al giorno senza mangiare nulla” ha dichiarato in un’intervista, “e tuttavia mi sento bene, proprio perché il processo è così entusiasmante. Ma ciò che lo innesca è doloroso. Quando scrivo, piango spesso”. Forse è questa punta di sentimentalismo che la rende indigesta a certi critici, che le imputano di distillare “telenovele letterarie”. Altri, più benevoli, coniano per lei la definizione di “realismo magico dal volto umano”.

Unica donna tra i protagonisti del boom della narrativa latinoamericana (cominciato alla fine degli anni 60 con Cent’anni di solitudine di García Marquez), Allende nasce nel 1942 a Lima da genitori cileni, entrambi diplomatici. Quando divorziano segue la madre a Santiago e vive insieme ai nonni. Dopo il diploma intraprende la carriera di giornalista e sposa il primo di tre mariti, un ingegnere dal quale ha due figli. Nel 1972, a seguito dell’assassinio dello zio, il presidente Salvador Allende, è costretta a lasciare la patria: “Il golpe di Pinochet ha spezzato a metà la mia vita, come un colpo d’accetta.” Si trasferisce in Venezuela. È qui che qualche anno più tardi scrive il suo romanzo più celebre: La casa degli spiriti. Comincia la stesura l’8 gennaio 1981. Ecco perché da allora la prima parola di ogni sua opera, sul filo di un rito scaramantico, viene vergata in quella data. La vocazione di narratrice si invera dieci anni dopo una profezia di Pablo Neruda. Prima di morire nel settembre 1973 il poeta premio Nobel l’aveva esortata: “Perché non si mette a scrivere romanzi?” La casa degli spiriti è una saga familiare di amore e di militanza politica che passa attraverso tre generazioni di donne cilene. Il romanzo, uscito in prima edizione nel 1982, si diffonde in Cile come lettura clandestina di gruppo nelle biblioteche e alimenta la resistenza contro la dittatura militare di Pinochet. Analogo successo riscuote D’amore e ombra, che narra delle battaglie di una giornalista contro il regime ed è tratto dalla storia vera della scoperta di una fossa comune. Si susseguono romanzi altrettanto fortunati come Eva luna, avventura di una picara che finisce per diventare una sceneggiatrice di telenovele. I suoi romanzi hanno sempre al centro eroine-vittime che pian piano approdano a una consapevolezza antifascista e femminista. “Mia madre, mia figlia, mia nonna, mi aiutano” spiega nei suoi reading, “ogni mattina, quando scrivo, accendo una candela. Loro sono là, il loro spirito è con me.” Alla figlia Paula, morta nel 1992, ha dedicato l’omonimo Paula, che racconta i dodici mesi trascorsi al suo capezzale. In queste pagine struggenti brilla una frase che potrebbe valere anche per tutte le protagoniste delle sue storie: “La gente muore solo quando viene dimenticata.” Protagoniste che difendono i propri sentimenti dentro la Storia.

Da Inés, la conquistadora del 16° secolo di Inés dell’anima mia alle due eroine dell’Ottocento Eliza di La figlia della fortuna, meticcia che finisce nella California della febbre dell’oro e la fotografa Aurora di Ritratto in seppia con la sua lotta contro il patriarcato. O ancora la pianista Roser di Lungo petalo di mare, che dalla Guerra civile spagnola si rifugia esule in Cile. Anche l’ultima fatica della scrittrice coniuga il personale con il politico. Violeta, in libreria per Feltrinelli, attraversa il secolo di vita di Violeta del Valle: “Sono nata nel 1920, durante la pandemia della spagnola, e morirò nel 2020 durante la pandemia del coronavirus.” Tanta la carne al fuoco. Fortune familiari rovesciate dalla Grande Depressione, padre suicida, nozze con un veterinario tedesco, relazione extraconiugale con un pilota della Royal Air Force, figlio giornalista braccato dalla dittatura, figlia tossicodipendente. Violeta, come tutte le donne che ha raccontato, non sono che uno specchio della stessa Allende perché “Non c’è niente di più pericoloso del demone della fantasia acquattato nell’animo femminile.”

Un detective “imbrattacarte” nella Londra puzzolente del 1753

Imbratta carte. Sinonimo di giornalista nella Londra di metà Settecento, dove la novità è l’avvento del calendario gregoriano che anticipa di undici giorni la fine dell’anno, rispetto a quello giuliano. Imbrattacarte ma anche pezzente, ché scrivere non rende granché e fa irritare i nobili: “Questa città è infestata da imbrattacarte che rendono di pubblico dominio molte questioni private e mancano di rispetto a chi è meglio di loro”. E così Harley l’Imbrattacarte si ritrova a trascorrere la notte di Capodanno del 1753 in una lurida locanda insieme ad altri avventori soli come lui. Nevica. E quando Harley s’incammina verso casa, prima dell’alba, trova il cadavere di una donna. Sgozzata. Pensa a una prostituta, ma la donna è vestita bene, sembra una lady. Si scopre che è la moglie fedifraga di un lord schizofrenico. Ma che ci faceva lady Barbara, questo il suo nome, di notte in quel quartiere pulcioso?

Inizia qui l’inchiesta di Harley, giornalista, autore di biografie di condannati a morte nonché traduttore di Virgilio dal latino. Con un cappotto logoro e le scarpe rotte, l’Imbrattacarte gira per una Londra sporca, puzzolente e classista, resa con nitore mirabile e feroce da Margaret Doody, la scrittrice canadese che ha inventato la fortunata serie di Aristotele detective. In tempi di pandemia fa impressione leggere come all’epoca la febbre diventasse mortale nei luoghi al chiuso. Ecco un’aula dell’Old Bailey, lo storico tribunale penale di Londra: “Presumo che i prigionieri abbiano la febbre in questo periodo dell’anno. Ti ricordi delle Sessioni Nere del 1750? Morirono quattro giudici, uno sceriffo e alcuni dei giurati. Effluvi maleodoranti. Il Bailey è un posto pericoloso, l’aria non circola”. Doody non si smentisce, il suo è un giallo storico di alto livello.

 

Omicidi in inverno Margaret Doody. Pagine: 315, Prezzo: 18, Editore: Il Giallo Mondadori

Ave Marías: 007, terroristi e donne Il noir è servito

Dopo aver compulsato e amato Berta Isla, c’è qualcuno che davvero desideri conoscere la sorte di Tomás Nevinson, il marito sparito, dato per morto, fedifrago, bigamo, 007 e assassino al bisogno, tornato come una fantasma nel letto di sua moglie, dopo aver abbandonato per anni lei e i figli? Sì, e quel qualcuno si chiama Javier Marías, lo scrittore dei due mondi, il creatore dei protagonisti eponimi, l’incantatore di serpenti più abile della narrativa contemporanea.

Pur avendo desiderato tornare sul controverso personaggio di Nevinson, l’autore ha però ammesso di essersi lasciato guidare dall’attore nella costruzione della trama: “Sarebbe molto noioso se sapessi tutto, come altri romanzieri che hanno degli schemi, che hanno nella testa il loro libro prima ancora di cominciare… Per me, quando si comincia un romanzo c’è molta nebbia”. E altrettanto fumo di sigaretta, come nel precedente: bastano le copertine a testimoniarlo; una tabagista in bianco e nero per Berta Isla (Einaudi, 2018); un tabagista in bianco e nero per Tomás Nevinson (sempre Einaudi).

Tom è uno di quei tipi senza qualità, pur possedendone molte, un “individuo della possibilità” – direbbe Musil – che “vive in una trama più sottile, fatta di fumo, immaginazione, fantasticherie e congiuntivi”: un’esistenza appesa a niente, o almeno a niente di visibile, perché è una ex spia al servizio del “Regno” britannico, ora in congedo, che viene improvvisamente richiamata al lavoro sporco dal fu capo Bertram Tupra (e altri svariati nomi e identità). Madrid, fine anni Novanta: l’anglo-ispanico Nevinson – sotto rinate spoglie del professor Miguel Centurión Aguilera – è inviato nel Nord della Spagna, nella città immaginaria di Ruán, per investigare su tre donne dal passato oscuro – María Viana, Celia Bayo e Inés Marzán – e smascherare, tra queste, la terrorista al soldo dell’Ira e dell’Eta, già coinvolta nel sanguinoso attentato del 1987 al centro commerciale Hipercor di Barcellona (21 morti e 45 feriti). Il dilemma morale fa da spina dorsale a questo romanzo dal gusto noir: è lecito uccidere un potenziale assassino, o un futuro dittatore, un papabile Himmler, un bambino di nome Adolf Hitler che esce dalla sua scuola elementare a Leonding?

Marías si conferma un talento ipnotico, colto, labirintico, angosciante: non c’è mai il fondo nei suoi personaggi, c’è sempre un mondo dietro al mondo, “siamo tutti impenetrabili e opachi per natura e la menzogna è invisibile”. E poi c’è Shakespeare, col suo Macbeth dal Corazón tan blanco, anche qui citato a più riprese per “l’insufficiente cattiveria” dei primattori della recita.

Alternando, come nel precedente, prima e terza persona, Tomás Nevinson si divincola però da Berta Isla e si struttura come romanzo a sé: tuttavia, specie nella prima parte, sarà difficile per il lettore vergine apprezzare o anche solo capire tutti i riferimenti al libro e, soprattutto, ai personaggi originari. Cherchez la femme parrebbe essere un buon claim per quest’opera vertiginosa, ma no: suona troppo femminile per un romanzo squisitamente maschile. La vita è inquietante per Tomás, ma non come per Berta; la sfida è avvincente per lui, e non fa così paura come a lei; la solitudine è guerriera qui, ma non gelida né triste, di quella tristezza che sanno solo le donne abbandonate: “Costrette con la forza al ruolo di depositarie della memoria, sono le uniche a restare quando sembra che non resti più nessuno, e le uniche a poter raccontare ciò che è accaduto”. Ave Marías.

 

Tomás Nevinson  Javier Marías, Pagine: 596, Prezzo: 22, Editore: Einaudi

“Pam & Tommy”, il revenge porn diventa “celebre” nel mondo

I primi tre episodi sono già su Disney+, i rimanenti cinque arriveranno con cadenza settimanale: non perdeteli, Pam & Tommy ha più di qualcosa da dire, e sa come dirlo.

La storia è vera, e nota, almeno a qualche generazione, per sommi capi: il sex tape di Pamela Anderson (Lily James, metamorfosi rimarchevole) e Tommy Lee (Sebastian Stan) venne trafugato dalla casa della coppia da un operaio scontento (Seth Rogen), per trasformarsi quando arrivò sul neonato web nel 1997 in fenomeno, ovvero scandalo, globale.

Tra love story e crime, la serie creata da Robert Siegel per Hulu sonda il rapporto tra privacy, tecnologia e celebrità, attraverso quel nastro rubato visto da milioni di persone, sebbene destinato solo ai due protagonisti. Come rilevato da Liz Shannon Miller su Consequence, la contiguità con l’universo di American Crime Story è spuria ma sensibile, che il co-showrunner sia quel D.V. DeVincentis autore di tre episodi di The People vs. O.J. Simpson illumina in modo sinistro l’analoga “intersezione di nostalgia degli anni Novanta, superstar e scandalo”.

Sopra tutto, Pam & Tommy triangolando tra uno scapestrato batterista, un’iconica modella-attrice e l’alba di Internet ci manda intenzionalmente a sbattere, servendoci con piglio energico e vocazione pop “uno choc, quando ricorda come effettivamente ci fu una violazione”, una violenza vagamente riconosciuta quale crimine all’epoca.

Oggi reality tv e revenge porn sono pane quotidiano, e il giornalismo ci banchetta senza ritegno, ma gli otto episodi, i primi tre diretti dal Craig Gillespie di I, Tonya, non si accontentano del ritorno al futuro, della rievocazione storica con ricaduta sociologica, se non ideologica, sul presente.

No, involontariamente fanno di più, perché la presa in carico dello scandalo non è esente da compiacimento, da voyeurismo, da reificazione, ossia ripetizione, sicché la trattazione del problema è essa stessa problema, a uso e consumo delle generazioni che di quel fattaccio poco sanno.

Ambigua, controversa e godibilissima, Pam & Tommy infila nel buco della serratura un occhio pesto: il nostro.

Con Paravidino gli “Spettri” di Ibsen diventano fantasmi: adattamento frivolo

Sincronie, ossimori: nei minuti in cui a Sanremo Gianni Morandi cantava “Fai entrare il sole”, al Goldoni di Venezia la battuta “Dammi il sole” (una preghiera di eutanasia) chiudeva la prima dei nuovi Spettri di Henrik Ibsen, curati da Fausto Paravidino per la regia del lituano Rimas Tuminas.

Secondo un grecista norvegese Spettri è “ciò che più si avvicina al dramma antico nel teatro moderno” (le tare e i misteri familiari, il fato e gli incesti, il “coro” rappresentato dal pastore Manders): se ne hanno qui pallidi echi. La riscrittura, lontana dal testo, è gravata da una regia lenta “alla Nekrosius” poco assimilata dagli attori (che banale lo specchio a fondo scena!) e da tagli copiosi (l’incendio del convitto è a stento menzionato). Si può forse capire la scelta – già proposta da Paravidino quando interpretò lui stesso il ruolo dieci anni fa – di rendere il giovane Osvald (il bravo Gianluca Merolli) come una sorta di drogato allucinato tornato ai fiordi dalle baldorie di Parigi. Ma c’è da chiedersi come sua madre (Andrea Jonasson), la depositaria degli indicibili segreti della famiglia, possa avere 80 anni e parlare un italiano caricaturale da governante tedesca. Né è chiaro perché la giovane e smaliziata Regine, oggetto delle nefande passioni di Osvald, grondi invece di bianca purezza, laddove ella in Ibsen, dopo aver flirtato col pastore e avere poi scoperto chi è davvero suo padre, anziché disperarsi e andar via sperando “Troverò la mia strada”, protesta di non essere stata cresciuta come la figlia di un uomo ricco, e – potenza del destino di classe – si avvia a fare l’intrattenitrice nel locale per marinai aperto dal padre putativo, il demoniaco falegname Engstrand. Personaggi semplificati, messaggio confuso, inani anacronismi: Osvald canticchia Ridi pagliaccio (aria scritta dieci anni dopo la pièce) e, mentre in Ibsen difende le convivenze extraconiugali contro il perbenismo del pastore Manders (un legnoso Fabio Sartor), si lancia qui nell’apologia arcobaleno delle famiglie “con due madri o con due padri”, e dei “nuclei basati sull’amore” (sic).

 

Papaioannou, illusionista di corpi

In uno dei suoi primi riconoscimenti, nel 2015, come “coreografo dell’anno”, di Dimistris Papaioannou si disse che era “un pittore della scena”, capace di plasmare corpi, materia e luci “in un teatro di movimento rarefatto, visionario, ricco di affondi emotivi, frammenti di storia (ellenica di ieri e di oggi), quadri di vita”. E anche nella sua ultima creazione, Transverse Orientation – di nuovo in passaggio in Italia, questa volta al Teatro Argentina di Roma – il regista, coreografo e scenografo greco, tra i più quotati a livello mondiale, si conferma un illusionista: dello spazio e del tempo; dei corpi e delle persone. Il titolo dello spettacolo , quel “Transverse Orientation”, fa riferimento all’attrazione delle falene per le fonti di luce. E così arrivano le ombre che si stagliano su una scena giallo-caldo, i fari manovrati i controluce, i giochi di trompe-l’œil (travolgente è il finale). Tutto sembra far sentire il peso dei corpi, e degli oggetti. Si riconosce l’eredità di Bob Wilson in queste studiate proiezioni di luce (Papaioannou è stato, per un caso, giovanissimo assistente del regista americano negli anni 80, a New York). E soprattutto la sua formazione, il suo apprendistato nelle arti visive (diplomato all’Accademia delle Belle Arti sotto la guida di Ghiannis Tsarouchis, uno dei massimi pittori greci contemporanei, Papaioannou inizia la sua carriera come vignettista: solo dopo arriverà l’incontro con la danza, folgorato da Pina Bausch).

Il corpo, per l’artista greco, è nudità scultorea. Ma non solo. Diviene figura mutilata, come nella trasfigurazione dell’uomo/donna-insetto, capace anch’essa di rimandare, col suo rigore estetico, alle antiche statue rotte e poi ricomposte, in un ordine nuovo. In questa ultima evocazione del mito in Transverse Orientation – il Minotauro – Papaioannou rappresenta, ancora una volta, l’archetipo dell’uomo contemporaneo. E quella lotta per la sopravvivenza che prevede il continuo sgretolare di maschere, statue, muri. Gli uomini sono umani e pure insetti, e oggetti. Nel loro avversare faccia a faccia il toro, il mostro ucciso da Teseo, restano imprigionati – prima di riuscirsi a liberare – in delle brande di ferro, confine della solitudine e simbolo della lotta. Provano a oltrepassare il muro, prima instabile e poi solido: un blocco materico che pare invalicabile, fino a quando a scorrere è l’acqua – figura femminile, Madonna – che scioglie tutto e segna il nuovo avvento. Nel mezzo del cammino, pietre su pietre: da riporre, impilare, ordinare.

“Nelle performance – ha detto dei suoi lavori l’artista – faccio riferimento alla storia della pittura, alla sopravvivenza umana e, nel divenire scenico, si intrecciano dialoghi fra movimento e immobilità”. Quello di Papaioannou è un teatro danza che si fa arte visiva. E che lascia traccia, scavando. I suoi sono quadri materici in movimento. Talmente intensi ed essenziali che la musica – per questo spettacolo, Vivaldi e le stagioni della vita – sembra superflua. Gli unici rumori sono quelli prodotti sul palco: il neon che si interrompe, gli strofinamenti della lingua del toro, le pietre che rotolano, la porta che sbatte, lo scagliarsi contro il muro, l’acqua. Risuonano come in una performance muta dove a parlare sono solo immagini e corpi. Una traccia di quei “paesaggi esteriori/interiori complessi” di cui ha tanto parlato una delle sue “scopritrici”, la critica Marinella Guatterini. All’insegna della poesia.

 

Transverse Orientation  Dimitris Papaioannou

Solo cattive notizie “Dal Pianeta degli umani” pazzi

Mezz’ora di strada. Tanto basta per lasciare le luci festivaliere di Sanremo e addentrarsi in un mondo oscuro radicato nella Storia, dove uomini e bestie si fondono al di là del Bene e del Male.

“C’era una volta a quei tempi, ai nostri tempi” recita la voce avvolgente del narratore, perché quanto va raccontando è una fiaba immaginifica e terrificante, più dark del mare notturno che lambisce le coste della Riviera dei Fiori. E quanta verità c’è in questa “storia incredibile” lo sa bene il narratore, perché lui ne è il regista, all’anagrafe Giovanni Cioni, artista del documentario classe 1962, italiano “del mondo” che l’ha premiato ai migliori festival.

Titolata Dal pianeta degli umani, questa sua nuova avventura testimoniale inizia come esplorazione di un territorio nel presente per diventare il viaggio in un passato misterioso, inquietante come un thriller, angosciante come un horror. Il racconto è circolare, procede a ritroso per poi rimbalzare nella contemporaneità pandemica che “esiste, non esiste”. Al centro è il tema delle distorsioni della Storia incrociato a quello della frontiera, qui esemplificata nell’italo-francese di Ventimiglia, un varco intentato da migliaia di migranti, regolarmente bloccati e rispediti in un limbo atroce, tra il silenzio e l’indifferenza dei più. Gli sciagurati, i cui nomi e le vicende il narratore prova a riordinare nel suo testo lirico cadenzato in versi sciolti, vengono ingabbiati in cisterne come le scimmie che negli anni Venti erano rinchiuse dal famigerato chirurgo russo-francese Serge Voronoff, sorta di Frankenstein, che trapiantava i testicoli dei primati negli uomini come “cura di ringiovanimento”. Per questo divenne famoso, ricco, celebrato: creava mutanti oltre la frontiera della coscienza nella sua villa di Grimaldi che proprio sopra la frontiera giaceva.

Altra scoperta: dal giardino della villa parte un sentiero segreto, il Passo della Morte, quello che portava Oltralpe i partigiani e che oggi è attraversato dai reietti, dopo il limbo delle cisterne. Il “testimone beffardo della Storia” ha un’altra rivelazione: poco più in qua, a Bordighera, sorge un altro vessillo degli orrori, l’Hotel Angst dove Mussolini e Hitler s’incontravano, tramavano razzie.

La follia, l’oblio, l’urgenza dei fantasmi antichi e degli zombie contemporanei, il tutto in un frammento di mare, terra e roccia anestetizzato dal turismo balneare di allora come ora: in Dal pianeta degli umani nulla sfugge e tutto si mescola, fra riprese odierne, footage d’archivio e sequenze di pellicole emblematiche come il King Kong del 1933, la bestia mostruosa nella gabbia degli umani. “Essere in vita, quale vita?” accusa il narratore in questo requiem di straordinaria intensità emotiva e qualità artistica, cinema allo stato primigenio, ove l’invisibile si fa visibile e Memoria.

Candidato al David di Donatello, vincitore del Festival dei Popoli dopo la première al Festival di Locarno, Dal pianeta degli umani uscirà nelle sale il 12 febbraio.