Opel Corsa-e, la city car elettrica abbordabile

Una vettura importante nella svolta verso l’elettrificazione voluta da Carlos Tavares per il suo gruppo Psa, a cui il marchio Opel appartiene dal 2017 e al quale il manager portoghese ha affidato la missione di mantenere la sua personalità, nonostante il tempo e le logiche delle sinergie. Un metodo che non potrà non interessare anche la futura produzione degli attuali marchi Fca, dopo la fusione tra le due aziende. Perché Corsa-e è elettrica, ma soprattutto condivide la stessa piattaforma Cmp che fa da base a tutti i modelli compatti della galassia Psa, e rilancia bene l’idea che una vettura a batteria debba mantenere naturalezza di un’auto normale: le zero emissioni dovranno arrivare a rappresentare una alternativa quotidiana e possibile piuttosto che una scelta di campo, con il senso del drastico.

Ecco perché nulla è forzato su Corsa-e, che ricalca dimensioni e stile di guida delle varianti a combustibile fossile. La batteria da 50 kwh di capacità, che promette una autonomia di 337 km secondo il ciclo Wltp, è posizionata a T, in modo da non penalizzare lo spazio a bordo e nel bagagliaio. L’elettrica rinuncia casomai alla modalità di frenata rigenerativa più aggressiva, tanto che la marcia e l’arresto hanno la stessa fluidità di una vettura con buon cambio automatico. Pochi compromessi anche nelle finiture, di discreto livello, così come nelle prestazioni, sicuramente interessanti selezionando quella modalità sport che valorizza la grinta del motore elettrico da 136 Cv. Con una velocità massima limitata a 150 Km/h, conta più la capacità di ripresa e di accelerazione, il tutto con una distribuzione dei pesi che non mette mai in crisi l’assetto e la percorrenza in curva.

Oltre alla stabilità c’è anche una attenzione alla sicurezza, con una dotazione che prevede anche i sistemi di frenata automatica di emergenza, rilevamento pedoni, mantenimento della corsia di marcia, riconoscimento cartelli stradali e cruise control. Il messaggio da vettura elettrica non inarrivabile arriva forte e chiaro, con un listino che parte da 31.300 euro, a cui vanno sottratti 5.000 euro di sconto in caso di finanziamento Opel e l’ammontare degli incentivi statali per le vetture a zero emissioni, fino a un massimo di 10.000 euro.

Land Rover Defender: estetica e tecnica nuove ma stessa avventura

Ci sono auto che hanno fatto la storia, e Land Rover Defender è una di quelle. Una di quelle, per chiarirci, cui ci si avvicina con il rispetto dovuto a un oggetto che da settant’anni quasi disdegna l’asfalto, per mettersi costantemente alla prova tra buche, sassi, sterrati, sabbia, neve, acqua e quant’altro non sia, per così dire, d’ordinanza. A ogni latitudine. Stavolta però c’era il timore di non riconoscerla dopo la rivoluzione, tecnica ed estetica, subita dalla nuova generazione. Il nuovo pianale monoscocca in alluminio e leghe leggere, capace di ospitare anche componenti elettrificate, le consentirà gli stessi numeri in off-road? O anche: sarà ancora riconoscibile, dopo un cambiamento di connotati così netto rispetto al passato?

Il responsabile del design Land Rover Gerry McGovern aveva abbozzato una risposta, dicendo che la nuova Defender “rispetta il passato, ma non ne è prigioniera”. Poco rassicurante per gli amanti della tradizione. Eppure, con una sincerità intrinseca, valutando a posteriori. Perché se è vero che l’aspetto e la tecnologia non sono più gli stessi, non si può negare che lo spirito originario di questo modello sopravviva. E con esso, la singolare attitudine di tutti i fuoristrada del marchio inglese, a “copiare” l’ostacolo anziché “abbatterlo” come fanno gli altri. La Defender ha due varianti: la 110 a quattro porte, oggetto della nostra prova, e la 90 che ne ha due e il passo più corto, ma in accordo con le strategie commerciali Land Rover arriverà più in là. Oltre ai noti propulsori della gamma Ingenium, avrà anche i powertrain elettrificati. Il gasolio e benzina al lancio hanno 4 o 6 cilindri e due o tre litri di cilindrata. Quanto alle potenze, per i diesel sono di 200 e 240 cavalli, mentre salgono a 300 e 400 nel caso dei benzina. I quali sono pure dotati della tecnologia Mild Hybrid a 48V, mentre dal 2021 saranno disponibili anche le varianti ibride plug-in. Un pacchetto completo tra cui scegliere, visti i tempi di incertezza automobilistica che stiamo vivendo.

Dell’esperienza al volante, resta la consapevolezza di un mezzo votato all’off-road. Ma che ha saputo adeguarsi anche alle esigenze di praticità urbana di tutti i giorni. Insomma, l’asfalto non è più un tabù. E a guidarci sopra non si ha la sensazione di non trovarsi nel proprio habitat, come a volte succedeva in passato. Certo, il fruscio aerodinamico e quella rumorosità da rotolamento, così come lo sterzo, ci ricordano di essere pur sempre alla guida di un fuoristrada, ma il comfort è anni luce avanti rispetto alle generazioni precedenti, anche considerando la stazza. Stazza che non sembra essere un problema neanche quando ci si arrampica su sentieri impervi o si affrontano guadi, forti di quella trazione integrale permanente e di una messe di sistemi di assistenza che consentono un monitoraggio continuo, ma soprattutto un aiuto concreto a chi guida. Ciò di cui non si può fare a meno, purtroppo, è pagarla. La versione 110 ha un listino che parte da poco sopra i 57 mila euro, mentre la 90 che arriverà in futuro si ferma a 51.400. Ma attenzione, la lista degli optional è lunga e invitante. Farsi prendere la mano è un attimo.

Proietti: “Tanto Shakespeare, nessun risparmio e zero abbracci”

“Era un dovere oltre che un piacere realizzare una stagione normale. In più, a dispetto di chi va al risparmio, il nostro sforzo è stato quello di impiegare e far lavorare il maggior numero possibile di attori e professionisti dello spettacolo”. Così, Gigi Proietti matador del Silvano Toti Globe Theatre di Roma, il teatro elisabettiano nel cuore di Villa Borghese, narra la stagione estiva, che partirà con un netto calo dei posti vendibili: da 1.200 a 400 circa.

Si inizia il 29 luglio (e fino al 2 agosto) con Venere e Adone, diretto da Daniele Salvo, il poema più popolare dell’età elisabettiana, tanto che si racconta i gentiluomini ne serbassero una coppia sotto il cuscino per sedurre le donzelle che vi capitassero, decantando qualche verso (ma lo si poteva trovare anche nei boudoir delle damine più imbronciate). Poi, sarà la volta dell’immancabile Sogno di una notte di mezza estate, dal 6 al 23 agosto, che mantiene la regia del compianto Riccardo Cavallo. E se da un lato si prosegue nel repertorio di Shakespeare con le commedie I due gentiluomini di Verona (dal 27 al 30 agosto, diretta da Andrea Baracco), e La dodicesima notte – testo curtense di grande impatto, nella regia di Loredana Scaramella che occuperà tutta la seconda metà di settembre –, verrà dato spazio anche alle contaminazioni dal moderno:Le opere complete di Shakespeare in 90 minuti (18-19 agosto), un condensato di comicità e stravaganza di linguaggi; e dal 2 al 6 settembre toccherà al pluripremiato Shakespea Re di Napoli di Ruggero Capuccio che Proietti, chiosa, “Ho fortemente voluto”. Ma il Globe aprirà anche al cinema: Il 7 settembre, avrà luogo la terza edizione del Murmat short film festival, rassegna di cortometraggi, quest’anno sul tema dell’ambientalismo. C’è tutto, dunque, anche la polemica. A chi chiede a Proietti un commento su come sarà il teatro senza il contatto fisico nella prima stagione post-covid, il maestro risponde: “L’unico modo per abbracciarsi in scena è che qualcuno faccia goal”.

E ora Villa Verdi rischia una Messa da Requiem

C’è il letto dove ha dormito per cinquant’anni. C’è il suo fortepiano – antenato del pianoforte – dove ha composto molte delle sue opere. C’è la camicia da notte che indossava quel 27 gennaio 1901 quando, poco prima dell’alba, si spense nella sua camera del Grand Hotel et de Milan. E poi ci sono il suo amato cilindro, le sue poltrone, le sue carrozze, il parco dove passeggiava, insomma tutto è fermo a quel giorno in cui lui salutava il mondo e il secolo (non suo) che stava iniziando.

Parliamo di Giuseppe Verdi, forse il musicista più famoso di ogni epoca, e della sua amata villa a Sant’Agata, la casa che ha abitato per quasi tutta la vita. Sant’Agata, piccola frazione piacentina ma a “un tiro di schioppo” – come dicono da queste parti – dalle Roncole, altra frazioncina-ina-ina di Busseto, in provincia di Parma, dove è nato. E sia Sant’Agata sia le Roncole oggi completano il loro nome con il suo, Verdi. Qui alla villa è arrivato a neanche 40 anni, con la seconda compagna, la cantante Giuseppina Strepponi, perché dovettero fuggire da Busseto: gli insulti ai due conviventi non sposati erano diventati troppi. In questa casa Verdi compose molte sue opere, comprese Aida, Don Carlos, La forza del destino, e la Messa da Requiem per la morte dell’amico Alessandro Manzoni. Quando lui e Giuseppina non erano in giro per l’Europa e l’Italia – Parigi, Londra, Mosca, Milano, Venezia… – erano qui, nella casa della quale il grande compositore è stato anche “architettore”, per dirla alla Giorgio Vasari.

Questa casa infatti Verdi l’ha progettata, costruita, curata, forse quasi più delle sue partiture. Una casa museo per la quale, oggi, possiamo gridare al “miracolo”: la villa non è infestata – come tante case di grandi artisti – né da musica né da schermi al plasma: qui non ci sono proiezioni sui muri dove Violetta amoreggia con Alfredo, qui regnano la Storia e il silenzio, quello che ispirò il Maestro.

Alcuni degli eredi di Verdi vivono ancora oggi proprio in questa villa. E negli anni, nonostante sia una casa privata, c’è sempre stata la possibilità di visitarla, con tanto di visite guida e book shop, tutto gestito dagli eredi, senza aiuti pubblici (il ministero dei Beni culturali è assente da sempre). Ma Covid-19 ha bloccato per mesi le visite, e ora la situazione è critica. Per questo gli eredi chiedono aiuto: o le economie arrivano almeno al pareggio di bilancio o la chiusura è inevitabile. E se chiudesse Villa Verdi al pubblico sarebbe un danno culturale e di immagine di dimensioni enormi per il nostro Paese.

Giuseppe Verdi era il genio assoluto che conosciamo, ma era anche molto altro: uomo d’affari, litigioso e gentile, spesso contraddittorio, forse perché “conteneva moltitudini”, come scriveva di se stesso in quei giorni, dall’altra parte dell’oceano, Walt Whitman. E anche era un uomo molto generoso: a Milano fece costruire una casa di riposo per musicisti, ancora oggi aperta – “la mia ventottesima opera”, disse – aiutò persone in difficoltà, si spese per i suoi compaesani, insomma un animo nobile. Alcuni politici di oggi, che rivogliono il vitalizio, dovrebbero sapere che quando Verdi venne chiamato in Parlamento accettò subito – ma solo perché a chiamare era Cavour… – e che all’epoca i parlamentari non venivano pagati, lo facevano par amor di patria. Però veniva dato loro un carnet di biglietti per il treno, almeno avrebbero viaggiato gratis. Quello di Verdi è visibile in una teca della villa museo, ed è intonso. Il treno se lo pagava a sue spese, lui.

Il sindaco che scala l’Everest, ma “inciampa” sui lacrimogeni

Agenti federali con i gas lacrimogeni contro il sindaco di Portland, che contesta proprio la presenza nella sua città di forze inviate da Donald Trump. Portland è la più popolosa città dell’Oregon – oltre 600 mila abitanti – ed è attraversata da otto settimane di manifestazioni anti-razziste. Mercoledì sera, Wheeler, democratico, bianco, 58 anni, sindaco dal 2017, un sportivo che si tuffa nel Pacifico a Capodanno e che ha scalato l’Everest nel 2002, s’era unito alla folla che protestava per l’arrivo in città degli agenti federali. Per il sindaco non è stata una serata facile: i manifestanti lo hanno fischiato perché non gradiscono come sta gestendo la presenza dei federali; e commercianti, artigiani e imprenditori lo criticano perché da due mesi non riesce a ristabilire la calma in città. Trump ha annunciato che manderà agenti federali anche a Chicago, divenuta la capitale dell’America più violenta, e ad Albuquerque nel New Mexico, oltre che a Kansas City. Ma i sindaci di 15 città gli hanno scritto chiedendogli di ritirare gli agenti da Portland e di non inviarli in altre città a guida democratica. Fra i firmatari, i primi cittadini di Chicago, Atlanta, Los Angeles e Washington Dc. Per i sindaci, l’intenzione di Trump di inviare agenti federali senza l’assenso delle autorità locali è un “abuso di potere. Sono tattiche – scrivono i sindaci – che ci aspettiamo da regimi autoritari, non nella nostra democrazia”. E la sindaca di Washington, Muriel Bowser, mette alla prova la conversione di Trump alla mascherina per il coronavirus: da ieri, nella Capitale federale è obbligatorio indossarla quando si esce e se si sta in luoghi pubblici chiusi. Il presidente è stato finora riluttante a metterla, ma s’è recentemente convertito a raccomandarne l’uso. Cattive notizie anche dal fronte economico: ci sono state 1,4 milioni di richieste di disoccupazione nell’ultima settimana, dopo che da aprile il numero di disoccupati risultava in calo per la ripresa delle attività. L’inversione di tendenza si manifesta proprio allo scadere d’un extra-bonus di 600 dollari la settimana per chi non ha impiego.

Tutti uguali agli occhi di Dio, però alle diacone meno soldi

Non è tutto oro quello che luccica nei tabernacoli della Chiesa di Svezia. Almeno non per le diacone che rispetto ai colleghi maschi guadagnano circa 2.200 corone, più o meno 200 euro, in meno. Nella patria della parità di genere, anche in termini salariali, questo divario, reso noto dal quotidiano della chiesa Kyrkans Tidning, risulta ancora più stridente. Eppure sono giá sessant’anni che le donne vengono ordinate pastore nella Chiesa di Svezia. E ora, nel Terzo Millenio, sono diventate più numerose dei loro omologhi. Cristina Grenholm, segretaria della Chiesa di Svezia, ritiene che il motivo di questa disparità di trattamento economico sia dovuta al fatto che a occupare le posizioni apicali del clero siano ancora quasi esclusivamente religiosi.

La Chiesa di Svezia ha permesso alle donne di essere ordinate diacone a partire dal 1958, ma le resistenze dell’establishment e del clero in generale hanno ostacolato per decenni questa apertura storica. Nel 1982, sono dovuti subentrare i legislatori svedesi per provare a demolire il muro della “clausola di coscienza” e spingere i membri maschi del clero a collaborare con le colleghe. Ora, molte parrocchie hanno sia un uomo che una donna a presiedere alle funzioni domenicali. “Dal punto di vista storico, questa parità è avvenuta più rapidamente di quanto avessimo immaginato. Ne è prova il fatto che oggi il 50,1 per cento dei sacerdoti in Svezia sono donne”, ha spiegato Grenholm. Un vero boom visto che un rapporto del 1990 stimava che le donne non avrebbero costituito la metà del clero totale fino al 2090. C’è dunque da sperare che il Primate, l’Arcivescovo di Uppsala Antje Jackelén, si renda conto della doppia ingiustizia considerato che le pastore hanno generalmente l’incombenza di occuparsi anche dei propri figli. Il luteranesimo, orientamento della confessione evangelica protestante, permette infatti ai propri sacerdoti, maschi e femmine, di sposarsi e avere figli. Nel 2017, il Primate aveva compiuto un passo senza precedenti verso l’uguaglianza tra uomo e donna in ambito teologico esortando il clero a usare un linguaggio neutro dicendo che “Dio non è umano e pertanto va al di là delle nostre determinazioni di genere.” La Chiesa di Svezia da allora ha imposto al proprio clero di usare frasi neutre, astenendosi dall’usare termini come “Signore” e “lui” a favore del termine “Dio”, che risulta meno specifico.

Questa decisione è una delle tante prese allo scopo di aggiornare un manuale di 31 anni fa che dà indicazioni sulla liturgia. Christer Pahlmblad, professore di teologia associato presso l’Università svedese di Lund, allora tuonò che questo capovolgimento cruciale “stava minando la dottrina della Trinità e della comunità con le altre chiese cristiane.” Un’accusa che però le chiese colleghe non hanno in seguito mai avanzato. La Chiesa evangelica di Svezia, con 6 milioni di fedeli su 10 milioni di svedesi, rappresenta la Chiesa luterana più numerosa al mondo. Fino al 2000 era riconosciuta come religione di Stato. Un dato di tre anni fa mostrava tuttavia con chiarezza la disaffezione crescente dei fedeli, soprattutto giovani, nei confronti del culto nazionale. Sebbene il 59,4% dei cittadini svedesi si riconosca in questa confessione solamente il 2% dei fedeli dichiarati frequenta regolarmente le funzioni. Per tornare al passo storico compiuto dal Primate, va ricordata un’altra sua affermazione a cui solo Papa Giovanni XXIII nella storia della Chiesa Cattolica si avvicinò. “Poiché crediamo che Dio abbia creato gli esseri umani, sia uomini che donne, a propria immagine, è essenziale che non ne parliamo solo, ma che sia anche mostrato con i fatti”, ha ribadito più volte Jackelén. Ma bisognerebbe ricordarsene anche in occasione delle buste paga.

Ora anche a Cuba privato è bello

La coda inizia quasi all’alba e ben presto chi ne fa parte si organizza per una lunga attesa, sfruttando ogni zona d’ombra, appena i raggi del sole iniziano a prendere forza. La meta, per tutti coloro che sono in fila, è giungere alla porta di ingresso del supermercato “3°y70”, uno dei negozi dell’Avana dove, dallo scorso lunedì, è iniziata la vendita di prodotti alimentari, di igiene personale e elettrodomestici in “moneta liberamente convertibile” (Mlc). Ovvero, in dollari americani.

Il compito di regolare l’afflusso delle persone è affidato a un poliziotto coadiuvato in questa operazione da alcuni militari in funzione di ordine pubblico. Prima di entrare, ai clienti viene controllata la carta di identità e la carta di debito in Mlc, unico mezzo per l’acquisto dei beni desiderati. In effetti la coda per comprare la mercanzia è stata preceduta da un’altra implacabile fila per entrare in una banca e poter avere la carta di debito mediante il versamento di un qualunque tipo di valuta “pregiata”: dollari (americani o canadesi), euro, sterlina inglese. L’impiego di tanto tempo e fatica sono giustificati dal miraggio di trovare in questo supermarket – come pure negli altri 71 mercati di questo tipo aperti in tutta Cuba – quei beni che sono quasi spariti nei negozi “normali” nei circa quattro mesi di durata del lockdown a causa della Covid-19: fra questi pollo, olio di semi, insaccati, detersivo e shampoo, condizionatori d’aria e freezer, soprattutto. L’apertura di questo tipo di supermarket fa parte di un pacchetto di misure varate dal governo cubano per far fronte a una crisi economica senza precedenti, dovuta a un cumulo di fattori ostili, collegati alla pandemia: l’assenza di turismo (fondamentale per l’acquisizione di valuta straniera) a causa della chiusura dei confini, riduzione della produzione e dei servizi, recrudescenza dell’embargo Usa voluto dal presidente Donald Trump (una manovra che ha comportato anche la riduzione delle rimesse dei cubano-americani verso le famiglie d’origine), accoppiata all’inefficienza cronica del sistema produttivo.

Il piano annunciato la settimana scorsa prevede una serie di riforme strutturali per ‘modernizzare’ il sistema socialista cubano che erano state previste in vari documenti del Partito comunista e del governo. Ma che, soprattutto per una resistenza interna sia della burocrazia sia degli “ortodossi” del Pc, non erano ancora state attuate o si trovavano in mezzo al guado. Riforme che vanno nella direzione di aprire l’economia e liberare le forze produttive sottoposte a un rigido controllo della burocrazia e dello Stato. Gli elementi chiave del programma propongono un impulso senza precedenti all’iniziativa privata: si prevede di dare un figura giuridica alle micro e piccole imprese private – che fino a oggi sono considerate ‘lavoro per conto proprio’ – che potranno così associarsi sia con imprese statali che straniere e soprattutto importare ed esportare beni di vario genere. Per incrementare questo settore dell’economia cubana che ha dimostrato un deciso dinamismo e che occupa il 13% della forza lavoro cubana (più di 600.000 persone vi trovano impiego) verranno creati mercati all’ingrosso, per rifornirli di materie prime. Contemporaneamente, sono previsti maggiori margini di autonomia dell’impresa statale perché funzioni in accordo con una sorta di mercato socialista e più libera dal piano centrale.

In particolare viene dato un impulso alla produzione di alimenti che diventa ‘una questione di sicurezza nazionale’, in una situazione come quella attuale, che registra una forte penuria di generi di prima necessità e di aumento dei prezzi.

Il problema più difficile sarà superare il sistema di monopolio statale nella commercializzazione delle merci; un sistema che ha dimostrato da anni una grave inefficienza e che ripropone l’annoso problema del rapporto del prezzo dei beni in base alle possibilità economiche dei cittadini.

L’apertura di negozi dove si può comprare in dollari americani fa parte delle misure annunciate, e ha lo scopo di raccogliere la maggior quantità di valuta pregiata in una situazione in cui Cuba ha visto ridursi pericolosamente le sue fonti di ingresso, e far fronte alla necessità di importare quei beni (la gran parte) che non vengono prodotti nell’isola. Ogni anno Cuba importa circa 2 miliardi di dollari di prodotti alimentari. Per favorire gli acquisti, il governo ha deciso di togliere la tassa del 10% che era applicata nel cambio del dollaro. Di fatto però questa nuova scelta produce una divisione nella società cubana che ora è divisa tra chi possiede valuta di pregio, e chi ne è priva.

E questo, secondo un ingegnere in coda di fronte al supermarket “3°y70” in attesa del suo turno per concludere le sue compere, “va in senso contrario all’egualitarismo socialista”.

Mail Box

 

“Caro direttore, lei è troppo potente”

Caro Travaglio, ho appena letto il suo editoriale “Er Più” e devo invitarla a fare poco lo spiritoso: lo sappiamo tutti che lei, assieme ai suoi amici comunisti col Rolex, ha fatto cacciare i Benetton solo perché la Lacoste le regala le magliette; e che dire della sua ripulsa nei confronti di Matteo Renzi? Guardi che lo sappiamo che quando lui era sindaco, lei ha preso una multa per divieto di sosta a Firenze e dopo averla impugnata davanti al giudice di Pace di quella città, si è visto respingere il ricorso perché il Gdp era amico del sindaco e lei ha chiamato il suo amico Palamara e ha fatto cacciare il giudice. Vuole rimediare? Faccia liberare Patrick Zaky dai suoi amici egiziani. Guardi che qui siamo informati e, soprattutto, nisciuno è fesso… Un caro saluto dal reparto di Psichiatria di non le dico quale ospedale perché tanto il suo amico ministro Speranza sa già tutto.

Danilo Fedriga

Caro Danilo, vedo che mi ha sgamato: temo che lei sia ancora (se possibile) più potente e tentacolare di me.

M. Trav.

 

Presidente Conte, fermi l’inutile Mose a Venezia

Gentile presidente Conte, lei ha partecipato all’innalzamento delle paratoie del Mose: le ricordo che tali “paratoie” contro l’acqua alta a Venezia sono state progettate dai tecnici olandesi, e scartate dagli stessi perché non idonee a resistere alla forza del mare in tempesta. Le prove funzionano quando il mare è calmo, e magari proprio quando le maree sono in “fase neutra” e il moto ondoso è pressoché “piatto”. Per cui non funzioneranno mai quando il mare è in burrasca e dovrebbero proteggere Venezia dall’acqua alta. A questo punto, insistere a sprecare risorse economiche su questa struttura è veramente una follia “paranoica”: se vi sono risorse, sarebbe utile metterle a disposizione per togliere le paratie, poiché potrebbero essere dannose qualora si bloccassero a “pelo d’acqua”, non viste, provocando gravi danni ai mezzi in transito sui boccaporti. Gentile presidente, lei è persona a cui il “buon senso” non manca: lo metta a disposizione del nostro Paese. E, insieme a tutti quelli come lei , vi sarà la possibilità di uscire da questa “pandemia mediatica” che plaude ai troppi furbi.

Mario Ferrari

 

Grazie alla Siae per il suo contributo

Sono un autore ottantenne iscritto alla Siae da sessant’anni. Ho dedicato l’intera vita allo studio del dialetto e alla salvaguardia delle meravigliose tradizioni letterarie della mia Napoli e dell’intera Campania. Ho al mio attivo una quarantina di pubblicazioni. Ho parlato di poesia, mai di “diritti d’autore”: infatti non ho ricavato un solo centesimo da nessuno dei vari editori che hanno pubblicato i miei scritti. So di varie edizioni dei Promessi Sposi – da me interpretati in poesia napoletana – pubblicate addirittura negli Stati Uniti, ma non ho mai ricevuto un centesimo. Sono inserito in antologie di rilevanza nazionale, hanno parlato e scritto di me autorevoli voci della letteratura. Nel 2006 sono stato insignito dell’onorificenza di Commendatore della Repubblica… Potete immaginare la mia personale riconoscenza nei confronti della Siae quando il Direttore generale mi ha preannunciato sia l’arrivo dei due pacchi dono (graditissimi!) sia il contributo di 5.000 euro per i canoni di affitto. Sono orgoglioso di confessare pubblicamente che mi sono sinceramente commosso. Grazie, Siae!

Raffaele Pisani

 

Il problema non è Salvini, ma chi lo vota

Ho atteso giorni prima di capire perché Salvini, nonostante il successo di Conte riconosciuto pure da B., si ostini a sparare battute. La soluzione me la suggerisce il grande Petrolini. Durante una recita del Gastone, dalla galleria parte un fischio al suo indirizzo; Petrolini si ferma e con calma da grande artista dice: “Non me la prendo con quello che ha fischiato, me la prendo con quello che gli sta vicino e non lo butta di sotto”. Ecco, sono quelli che votano Salvini i veri colpevoli.

Giuseppe Trippanera

 

Ottimo lavoro in Ue: lo “certifica” il Carroccio

Ci speravo, ma non ne ero affatto sicuro. Invece è arrivato puntuale l’imprimatur ufficiale del grande risultato ottenuto dal governo a Bruxelles. Da chi? Dal senatore della Lega Salvini che ha definito il risultato “una grande fregatura”: quindi un grande risultato. Mi sarei preoccupato fortemente se il suddetto avesse mostrato anche un pur velato apprezzamento per il lavoro del premier. Forza senatore, continui così.

Giancarlo Faraglia

 

DIRITTO DI REPLICA

In merito all’articolo di ieri a pagina 17 – “Il Comune di Capaci va sciolto. Ma nessuno vuole procedere” –, chiediamo la rettifica del titolo: tale affermazione, al presente, appare decontestualizzata dal periodo storico in cui il luogotenente dei Carabinieri Conigliaro ha esposto i fatti innanzi alla Commissione parlamentare nazionale antimafia; mentre nella versione online dello stesso quotidiano il riferimento al periodo storico appare chiaro, evidente e non afferente alla attuale Amministrazione comunale.

Assessore Aldo Sollami e Avvocato Giancarlo Cicala

Prendiamo atto della precisazione, la richiesta di accesso agli atti del luogotenente Conigliaro si riferisce all’amministrazione comunale di Capaci in carica nel 2014.

FQ

Dottorato. Il futuro del nostro Paese passa soprattutto dalla ricerca

 

Gentile Professor Montanari, sono un dottorando del XXXIII ciclo in “Matematica, Fisica e applicazioni per l’Ingegneria” presso l’Università degli Studi della Campania “L. Vanvitelli”. Lunedì ho avuto modo di leggere il suo articolo sul Fatto Quotidiano. Tengo a ringraziarla per aver portato alla ribalta un tema praticamente sconosciuto in Italia: il dottorato di ricerca. Quante volte ci sentiamo dire: “Sì, ma nella vita che fai?”. Visti come ibridi tra una non meglio definita categoria e “assistenti” universitari, viviamo nel pieno precariato, tra diritti non riconosciuti e doveri imposti a ogni livello. Come mirabilmente scrive, a guidarci è solo la passione per scienza e progresso. Purtroppo, si guarda all’estero; eh sì, perché se si desidera vedere la parola “Futuro”, questo Paese sembra esserne l’antitesi. La ricerca va bene, fintanto che non la si debba finanziare. Sembra quasi un lusso che non possiamo concederci. Da rappresentante dei dottorandi del mio dipartimento (di Matematica e Fisica) ho vissuto tutte le incertezze del periodo dei dottorandi che non avevano (e ancora non hanno!) possibilità di accedere ai propri laboratori per fare ciò per cui sono pagati: studiare e progredire.

Marco Menale

Caro dottor Menale, sono io che la ringrazio: per aver preso la parola, per aver dato un nome e uno spessore umano a una figura (quella del “dottorando” di ricerca) che l’opinione pubblica italiana sostanzialmente ignora. Ho l’impressione che niente mai cambierà, anche su questo fronte, se non saremo capaci di far capire ai nostri concittadini che la ricerca li riguarda tutti. Anche i più remoti dallo studio, i più disinteressati alla scienza. E non (solo) per i ritrovamenti pratici della ricerca applicata, ma assai di più perché una comunità viva, nutrita e libera di ricercatori attivi (e soprattutto di ricercatori giovani, capaci dunque di rimettere in discussione certezze e dati acquisiti) è una insostituibile risorsa di pensiero critico. In fondo, la politica non finanzia la ricerca per la stessa ragione per cui strozza il parlamentarismo e perseguita la poca stampa libera: perché non ama chi pensa da solo, chi contesta, chi si mette di traverso, chi chiede spiegazioni e non accetta le verità rivelate. Ricerca e dissenso sono fratelli: e abbiamo bisogno di entrambi.

Tomaso Montanari

Servono più diritti che tutelino anche le nuove generazioni

Con una breve ordinanza contenente il quesito per una Consulenza tecnica di ufficio, il Tribunale di Torino ha dato una prima veste formale a una straordinaria innovazione istituzionale della nostra giustizia civile. Un avvocato delle generazioni future può adire in via d’urgenza un tribunale civile per ottenere un rimedio nei confronti di comportamenti che, pur autorizzati o posti in essere dalla Pubblica amministrazione, potenzialmente ledano gli interessi dei bambini a un libero sviluppo nel lungo periodo.

Questo principio, per ora implicito alla decisione, pone la giurisprudenza italiana in linea con i più avanzati orientamenti internazionali che, dall’Olanda all’Oregon, stanno cercando di dare soggettività giuridica a chi ancora non c’è, attivandosi per impedire che le scelte che noi oggi compiamo come specie compromettano le possibilità di chi ancora deve nascere e crescere. Mentre tuttavia all’estero la questione è stata decisa (a favore delle generazioni future) in materia di riscaldamento climatico (climate change litigation), in Italia essa è stata oggi concretamente posta in materia di elettrosmog, una minaccia non meno grave per un futuro sostenibile delle nostra specie.

Quello che stiamo vivendo è un momento topico per il diritto. Esso, come un Giano bifronte, può difendere i beni comuni diventando strumento di uscita virtuosa dalla crisi ecologica che stiamo vivendo, oppure limitarsi a servire il potere nei suoi interessi di breve periodo, incuranti dell’impatto ambientale di lungo periodo nonché della lungolatenza di certe patologie. Sul tema fa il punto il volume di un giovane studioso del diritto e dell’economia Michael W. Monterossi, L’orizzonte intergenerazionale del diritto civile. Tutela, soggettività, azione (Ets, 2020).

La questione sintetizzata dal quesito tecnico della prima sezione civile del Tribunale, emersa dopo due ore di discussione fra avvocati, riguarda lo status presente e futuro di un imponente palo porta-antenne alto 25 metri. Il palo è stato collocato nel cuore del complesso scolastico di Frossasco Torinese, Comune alle porte di Pinerolo, da un consorzio pubblico-privato fra Regione, Città metropolitana, Università, Politecnico, Facebook, Netflix, Cisco Systems, Fastweb e altri colossi privati della tecnologia e dell’economia. Contro la struttura, sulla quale al momento sono state installate due antenne per la trasmissione wi-fi di Internet a banda ultra larga, è insorto un comitato di genitori e insegnanti che, dopo aver invano cercato rassicurazioni attendibili per la salute dei propri figli, bambini fra i 4 e i 13 anni che in quel complesso vivono anche sette ore al giorno, si sono rivolti al Comitato Rodotà (www.generazionifuture.org), che ha presentato il ricorso tramite la propria Cooperativa di mutuo soccorso intergenerazionale, dando legittimazione processuale all’avvocato per le generazioni future. Gli attori chiedono il riconoscimento delle scuole come vere e proprie oasi protette nell’interesse della specie, dove gli umani possano far crescere i propri piccoli liberi da rischi di cui si ignorino le conseguenze di lungo periodo. Il magistrato ha riconosciuto l’urgenza della questione e sta conducendo la prima istruttoria in tempi record, in modo da poter prendere una decisione, arricchita dalle più avanzate conoscenze scientifiche, prima dell’apertura dell’anno scolastico, quando alla fonte di inquinamento elettromagnetico sarebbero esposti centinaia di bimbi.

Nella società tecnologica complessa, un diritto (e una politica) che si ponga solo il problema del qui e adesso non produce giustizia ecologica. Dalle leucemie giovanili ai mesoteliomi di Casale Monferrato, se quarant’anni fa ci fosse stato in Corte l’avvocato delle generazioni future capace di far valere davvero il principio di precauzione, si sarebbero evitate tante tragedie.