Cortina devastata dai cantieri dei Mondiali di sci (e Olimpiadi)

Vietato vedere i luoghi delle devastazioni provocate dalle opere per i Mondiali di sci di Cortina 2021. La questura ha negato all’ultimo momento, domenica scorsa, a Italia Nostra, Wwf, Mountain Wilderness e altre associazioni ambientaliste venete l’autorizzazione alla marcia programmata per raggiungere (seppure con mascherina e in “fila indiana distanziata”) i cantieri per la costruzione degli impianti e dei servizi necessari alla manifestazione sportiva del prossimo anno.

Con un centinaio di ambientalisti, comunque, abbiamo raggiunto alla spicciolata – attraverso incantevoli sentieri tra i boschi e i prati profumati della splendida conca cortinese – alcuni degli sbancamenti della montagna creati sul versante delle Tofane di Mezzo per allargare le piste da sci, potenziare gli impianti di risalita, creare anfiteatri per far posto alle tribune d’arrivo, alle postazioni televisive e ai vari servizi, con il contorno della trasformazione di sentieri forestali in strade di cantiere larghe 7 metri, scogliere antismottamenti alte 8 metri, tubazioni e nuovi serbatoi d’acqua per i cannoni spara-neve, in totale – calcolano le associazioni ambientaliste – verrà disboscata e dissodata un’area di almeno 250.000 metri quadrati (più di 30 campi da calcio). Il tutto, ovviamente, perfettamente autorizzato e vagliato dalle commissioni di valutazione di impatto ambientale in forza di una legge speciale, di un commissario ad hoc e della dichiarazione governativa di “pubblica utilità”.

Per chi volesse capire il significato concreto della parola “semplificazioni” in materia di conservazione del paesaggio, di difesa del suolo e della biodiversità dovrebbe fare un giro da queste parti. Ma i Campionati del mondo di sci del 2021 sono solo un assaggio di ciò che si prospetta per le Olimpiadi invernali del 2026 “vinte” dall’Italia in cogestione tra Milano e Cortina, tra Sala e Zaia. Per allora a Cortina dovranno essere costruiti tre nuovi villaggi olimpici, una pista di bob, trampolini di salto e quant’altro. Approfittando dell’evento, sono ripartiti i progetti di nuovi collegamenti con la Val Badia, con la Marmolada, con l’anello del Civetta. La chiamano senza pudore “mobilità alternativa” perché le nuove funivie dovrebbero alleggerire il traffico automobilistico attraverso i passi alpini. In realtà i prezzi proibitivi delle funivie non sono concorrenziali e nulla viene fatto in Veneto per disincentivare motociclette rombanti, quad e ora anche bici elettriche a raggiungere le vette attraverso sentieri incontaminati.

L’aggressione del turismo “mordi e fuggi”, meno acculturato e più indifferente alle bellezze naturali è incentivato dai “grandi eventi” sportivi, che durano lo spazio di una telecronaca in mondovisione e lasciano sul posto ferite indelebili e montagne di opere inutili. Roberta De Zanna, Patrizia Peruccon, Gianluigi Casanova sono tra i promotori e le promotrici dei comitati locali che fanno da sentinella ai cantieri denunciando le violazioni alla Convenzione delle Alpi, alla Carta del paesaggio e alle raccomandazioni dell’Unesco: “Ci dicono – affermano – che è tutto in regola e che verranno fatte le ricomposizioni e le compensazioni ambientali, anche per la Co2 immessa in atmosfera. A ogni albero abbattuto ne impianteranno un altro chissà dove. A noi pare il mercato delle indulgenze. Ma cominciano a esserci anche albergatori locali – oltre a importanti enti come il Club Alpino Italiano – che hanno capito che questo non è il modello di turismo che fa bene all’economia delle nostre montagne”. Le monocolture turistiche intensive, il Covid insegna, rendono le economie locali ancora più fragili, più esposte ai contraccolpi delle crisi.

 

Maroni s’arrocca dinanzi al saccheggio leghista

Politico navigato e figura di cerniera tra diversi ambienti del potere, Roberto Maroni torna a tesserarsi al partito di Salvini, da cui si era ritirato, perché sulla Lombardia leghista si addensano nuvoloni minacciosi; e da qualche parte bisogna pur ripararsi. A sentir lui, la prossima sfida politica in cui varrebbe la pena d’impegnarsi sarebbe quella per riportare la magistratura nei suoi ambiti. Le numerose inchieste per malversazioni in cui sono coinvolti esponenti del sottogoverno leghista, nasconderebbero un disegno persecutorio contro il partito che Maroni lasciò nel gennaio 2018, “sulla base di valutazioni personali”.

Disse proprio così, rinunciando a sorpresa a ricandidarsi presidente della Regione Lombardia tre mesi prima delle elezioni. Salvo aggiungere: “Metto a disposizione la mia esperienza di governo, se sarà necessaria”. All’epoca molti scommettevano sulla prossima nascita di un governissimo fondato sull’alleanza fra Berlusconi e Renzi. Maroni si distanziava dall’estremismo di Salvini, convinto che sarebbe andato a sbattere, mentre lui, il leghista moderato, poteva venir buono finanche a Palazzo Chigi. Come è noto, le cose andarono diversamente. Si consolò facendo il consulente aziendale e il consigliere d’amministrazione. Sembrava che potesse disinteressarsi anche dell’imponente distrazione di milioni del finanziamento pubblico occultati quando, per il solo 2012, era stato lui il segretario della Lega.

Con il senno di poi, la sua mai davvero chiarita rinuncia a un secondo mandato in Lombardia comincia a trovare spiegazioni meno vaghe. Maroni è uomo troppo esperto per non aver colto in tempo gli esiti nefasti del ricambio di classe dirigente da lui stesso propiziato nel dopo Formigoni. Un insieme famelico di nuovi venuti, attratti dal Pirellone come bancomat, che non hanno mai dato vita a un sistema di potere coeso al pari di quello ciellino. Fin dal suo nascere l’intelaiatura territoriale della Lega assegnava un ruolo importante ai commercialisti, spesso portavoce del malcontento dovuto alla pressione fiscale, oltre che praticanti dell’elusione. Ma adesso un’altra generazione di commercialisti poteva introdursi dritta nel sottogoverno, operando al tempo stesso per sé e per i politici che li proteggevano. In sua vece, con il beneplacito di Salvini che doveva saziare la componente varesina della Lega, Maroni promosse Attilio Fontana, rivelatosi debole e maldestro. Il sistema reggeva bene; anzi, la Lega sembrava destinata a completare il suo disegno di partito pigliatutto in Lombardia. Solo che l’estate scorsa Salvini si è dato la zappa sui piedi e, come se non bastasse, nel 2020 è esplosa la pandemia del Covid.

Nel disastro della sanità lombarda, anche Roberto Maroni suo malgrado è tornato a far parlare di sé. Un attacco frontale gli è pervenuto, lo scorso maggio, dal detenuto agli arresti domiciliari Roberto Formigoni. Che ha accusato Maroni di essere stato lui, pochi mesi dopo la sua elezione nel 2013, a smantellare la medicina di territorio. Maroni, stranamente, non gli ha replicato. E anzi il successore Fontana s’è affrettato ad annunciare provvedimenti correttivi, con ciò riconoscendo la validità delle critiche. Per poi riportare un ciellino alla direzione generale della sanità lombarda.

Nel frattempo illegalità e incompetenze di gestione stavano emergendo da tutte le parti. Il responsabile della centrale acquisti della regione ha chiesto di essere spostato ad altro incarico dopo la rivelazione del contratto stipulato per l’acquisto di camici con l’azienda del cognato di Fontana. La gestione della raccolta fondi per l’inutile reparto di terapia intensiva al Portello è finita nel mirino della magistratura. Per non parlare della riapertura frettolosa del pronto soccorso di Alzano Lombardo in piena epidemia. Della circolare che autorizzava a trasferire i pazienti Covid nelle residenze per anziani. E dell’indagine per peculato relativa all’accordo tra Diasorin e ospedale San Matteo di Pavia sui test sierologici, dove tanto per cambiare emerge la regia di esponenti leghisti. Nessuno negli anni scorsi ha avuto da ridire se il commissario politico della Lega di Varese, Andrea Gambini, era contemporaneamente al vertice, come presidente, dell’istituto neurologico Besta di Milano (e di altri enti preposti alla ricerca biotecnologica). L’occupazione del potere avanzava infischiandosene dello spessore dei curriculum. Come già al Pio Albergo Trivulzio, il più grande polo geriatrico italiano, la cui direzione generale è stata affidata a un laureato in Filosofia.

Maroni ora minaccia di querelare chi lo tira in mezzo allo scandalo del capannone della Lombardia Film Commission. Torna militante della Lega e si mette in posizione di arrocco. Ha capito che qui rischia di venire giù tutto. La Lega nazionalista di Salvini ha saccheggiato la sua roccaforte lombarda e ora ne paga le conseguenze.

 

Quel piacere sofisticato di rileggere i romanzi: “L’arte è sempre difficile”

Un’indagine dell’Aie (Associazione italiana editori) certifica che durante i due mesi di lockdown la metà degli italiani non ha letto libri. Di solito è il 42 per cento. Fra i commentatori, c’è chi ha motivato il calo della lettura sostenendo che la pandemia era più appassionante di qualunque romanzo, perché rendeva ciascuno di noi protagonista di una vicenda spettacolare dove erano in gioco la vita e la morte. Questa spiegazione è suggestiva, ma poggia su un pregiudizio diffuso, quello secondo cui un romanzo deve dare emozioni come un film. Esiste tutta un’editoria al servizio di questa idea, e il pubblico più numeroso legge libri in questo modo: per appassionarsi alla vicenda e sapere come va a finire. La narrativa popolare (fumetti, gialli, fantascienza, romanzi rosa & C.) soddisfa questo piacere semplice, e ci sono vizi peggiori; ma i lettori professionisti leggono i testi in un altro modo, ricavandone un piacere più sofisticato. Leggono un romanzo almeno due volte: la prima, per sbarazzarsi della trama, la cosa meno importante; poi lo rileggono per scoprire con quali inganni l’autore ha costruito il mondo di quel romanzo. La letteratura, infatti, comunica le sue cose più importanti non col testo (la presunta vicenda), ma con la texture (il modo con cui la vicenda è raccontata, il suo tessuto di pattern intra e inter-testuali). Per esempio, nella sua versione in russo di Lolita, Nabokov arricchisce i numerosi riferimenti originari a Poe e Verlaine di nuove connotazioni, con l’allusione alla loro versione russa dei simbolisti Balmont e Briusov. Leggere a questo secondo livello richiede cultura e metodo, ma la ricompensa è ineffabile: capire un’opera d’arte dona al lettore l’inesauribile gioia del contatto fra la mente e il mondo, la gioia della consapevolezza; e gli permette di partecipare della gioia della creazione.

L’arte dialoga sempre con l’arte che l’ha preceduta, della quale è approfondimento, critica, sviluppo. “Se il lettore deve lavorare a sua volta, tanto meglio. L’arte è difficile” (Nabokov, in un’intervista alla Bbc, 1968). Finché il pubblico resta al primo livello, troverà più interessanti i videogiochi, che lo rendono protagonista del loro plot adrenalinico. Videogiochi e film d’azione competono perché si limitano a promettere lo stesso tipo di coinvolgimento; mentre nulla possono contro la scrittura, che permette la metafora e l’analisi, a loro precluse. L’analisi, per dire, distingue due tipi di energia narrativa: energeia (tipica delle storie d’azione, è l’incalzante succedersi degli eventi) ed enargeia (dominante nella narrativa alta, è la riflessione sugli eventi). Quando, un anno fa, Scorsese criticò i blockbuster della Marvel perché “non sono cinema”, come invece i film di “Bergman, Fuller, Donen, Godard, Hitchcock”, che “riguardano la complessità dei personaggi e la loro natura contraddittoria”, e attraverso un “autentico pericolo emotivo” portano a una “rivelazione estetica, emotiva, spirituale”, mentre in quelli Marvel “niente è a rischio, sono prodotti per il consumo immediato… dopo test sul pubblico”; quando diceva questo, Scorsese stava dicendo che i film Marvel sono sola energeia. Perfetti per un quattordicenne, poco nutrienti per un adulto. “La maturità è tutto” (Pavese, citando Shakespeare).

Incipit famosi. Moby Dick, di Herman Melville. “Il capitano Achab non poteva immaginare che una cappella larga 40 cm sarebbe stata così dolorosa”.

 

Aiutate Salvini, Calenda e la Santanchè

Ho visto una Daniela Santanchè nervosissima, ieri mattina a Omnibus

su La7, e un po’ mi dispiace perché lei che si lamentava di essere interrotta dalla conduttrice è sempre stata un modello di correttezza televisiva, mai una parola di troppo e assai rispettosa delle opinioni altrui. Ho letto di un Matteo Salvini al Senato che leggermente scosso dagli applausi della maggioranza a Giuseppe Conte, si associava con una faccia un po’ così e ripeteva “e so’ contento”, come il Vittorio Gassman pugile suonato nel film I mostri

. Un discorso, il suo, coerente e lineare come una pista di ciclocross nella Foresta Amazzonica, con un picco assoluto quando rivolto alla sua sinistra ha sibilato: “Non è abbastanza nobile per i frequentatori di Capalbio parlare di agricoltura?”. Vivo turbamento tra i banchi governativi al pensiero che, invece, sulla spiaggia di Milano Marittima l’ex capitano leghista intrattenga i compagni di racchettoni e le cubiste sulla quantità di latte prodotto dalle mucche frisone e sulle performance delle galline ovaiole nella Pianura Padana. Poi il colpo del ko, contro i “cento parlamentari di Pd e 5 Stelle che ritengono che per rilanciare l’agricoltura italiana occorra legalizzare e spacciare droga in nome e per conto dello Stato”. Nessun nesso logico con il dibattito in corso, ma lui è fatto così: quando perde il filo, improvvisa con argomenti per così dire “ad minchiam”. Ho ascoltato Carlo Calenda esprimere giubilo, sprizzare euforiche bollicine come un Dom Perignon appena stappato e complimentarsi con il premier per l’esito del negoziato europeo. Salvo subito dopo spiegarci che i miliardi a fondo perduto in realtà ce li verseremo noi a noi stessi. Mentre quelli che avremo in prestito dovremo restituirli con le stesse modalità imposte alle laboriose popolazioni di Ostia e Coccia di Morto da “don Ciccio lo strozzino” e dal suo fidato collaboratore slavo “Dejan mani di pietra”. Una cortesia, cari patrioti sempre chini sui supremi interessi del Paese: la prossima volta esultate un cicinin di meno.

Gianni “Zolletta” l’eterno sussurratore, dal Divo a B. e oltre

Gianni Letta, detto Zolletta, è il presidente emerito della repubblica dei velluti. È fatto di gomma e dopobarba: “Se posso essere utile, mi attivo subito”. Non parla inglese. Sussurra in italiano e si copre la bocca quando risponde al telefonino da 29 euro. Si muove da solo. Lavora da solo. Conosce tutti. Presenta premi e libri. Poi saluta e scappa via. Divora dossier. Altri li fa scrivere. Non avendo labbra, indossa un sorriso standard che affila ogni mattina, proprio come faceva Giulio Andreotti, la divinità romanesca da cui discende. Da lui ha appreso l’arte della dissimulazione che è l’inchino esibito e il comando nascosto, il compromesso tra compari, secondo la regola aurea dei dorotei: “Perché escludere quando si può includere”, la torta è sempre grande, ce n’è per tutti. Basta non fare chiasso, intendersi sul numero degli invitati. E lanciare qualche osso a chi resta fuori dal banchetto.

Per vent’anni è stato lo schermo del Divo Giulio, addestrando epigoni come Luigi Bisignani, il più giovane piduista della Loggia, tra i flutti di governi provvisori e inflazione a due cifre. Per poi diventare – nell’anno 1987, tarda apoteosi craxiana – la cornice e il chiodo dell’altro suo benefattore, il nascente Silvio Berlusconi, con il compito di rimboccare le coperte alle sue tre tv che ancora pativano il trascurabile malanno di essere illegali. Compiendo il miracolo di fabbricare la medicina della legge Mammì, detta anche Polaroid, perché fotografava l’esistente voltando il misfatto in status quo: tre reti Rai ai Palazzi romani, tre a quelli nascenti di Cologno Monzese, con dotazione adeguata di spot a moltiplicare i miliardi e il potere. Per poi offrire lauta riconoscenza ai benefattori, dagli stand ben pagati nelle feste dell’intero arco costituzionale, agli spiccioli di un lavoro con riflettori e gloria per figli, mogli, amanti, giornalisti di area e di mondo.

Le finte domande in tv e il “Postal Market” dei politici

Strategia perfezionata con il varo dei telegiornali targati Caf, Craxi-Forlani-Andreotti, come ammise il sereno Confalonieri, scartavetrati dallo stesso Letta, titolare dell’indimenticata “Italia domanda” che sembrava una tribuna politica, ma era un Postal Market, dove ogni partito, da Almirante a Pannella, esibiva il proprio catalogo di buone intenzioni: mai una domanda scomoda, mai una rivelazione. Una sola volta pescato con l’omaggio di 70 milioni di lire, a nome Fininvest, per i socialdemocratici di Antonio Cariglia, più o meno gli ultimi della fila, peccato ammesso con infinita cortesia a Di Pietro, nel bel mezzo di Tangentopoli. E poi sparito per prescrizione. Ma che segnò un mutamento d’indole nel Nostro che fino ad allora, soprannominato “il signor Tavola rotonda”, si affacciava in tv e nei simposi a ogni ora del giorno e della notte, comprese le rubriche di Medicina dentale e i convegni sull’alta sartoria, convincendolo a eclissarsi.

Indossò da allora i panni ammiratissimi dell’invisibile esploratore dei corridoi romani, l’ombra buona di Silvio – essendo di Previti e Dell’Utri quella cattiva – che vegliava con il cardinal Ruini sui broccati d’oltre Tevere in qualità di Gentiluomo pontificio, e sulle condiscendenze del Quirinale, amico prima di Cossiga, che lo definì “eminenza azzurrina”, poi di Ciampi, poi di Napolitano, oggi di Matterella che sempre gli riconoscono “l’alto senso delle Istituzioni”, omaggiato con gran croci al merito e segrete missioni. Compresa quella di consolare le opposizioni, memorabili i giri di giostra della Bicamerale offerti al giovane pioniere D’Alema, che lasciò giocare per 18 mesi prima di farlo scendere. Artefice di crostate e desistenze, patti e sotto patti, con Fini, Veltroni, Rutelli, Bossi, fino a quello del Nazareno, in coppia con “l’amico Denis Verdini”. E oggi con quel che resta dei renziani, pompando l’ultimo ossigeno politico per Silvio, purtroppo disinteressato a tutto, tranne che agli occhi della nuovissima Marta Fascina.

Prima di essere “un dono di Dio”, Gianni Letta fu un dono d’Abruzzo. Nacque nella remota Avezzano, patria condivisa con “l’amico Bruno Vespa”, anno 1934, da famiglia benestante.

Appena c’era un problema: “Chiedete al dottor Letta”

Padre avvocato, tre sorelle, quattro fratelli, la passione per il giornalismo, nonostante la laurea in Giurisprudenza. Primo impiego nello zuccherificio sotto casa, che gli donò l’imprinting al glucosio e anche la fidanzata, Maddalena, figlia del direttore, con la quale convolò a nozze, inaugurando una nuova vita a Roma, nella redazione centrale del Tempo, quotidiano del senatore Renato Angiolillo, giocatore d’azzardo estremo e politico moderatissimo, ma dotato di una formidabile moglie, Maria Girani Angiolillo detta Maria Saura, collezionista d’arte e d’alti papaveri, che all’ombra di Andreotti regnò per cinquant’anni sui salotti romani, dal suo villino settecentesco, fiorito in cima alla scalinata di Trinità dei Monti, apoteosi d’ogni carriera politica e vanità. Quando morì il marito-editore, anno 1973, Maria scelse Letta alla direzione del Tempo e insieme lo nominò complemento d’arredo dei suoi famosi tre tavoli da cena: Alba, Meriggio e Tramonto, metafora d’ogni carriera, dove sedevano i suoi trenta invitati, rinnovati a ogni risacca.

Nei quattro governi arcoriani, compare ogni volta che Silvio esclama: “Chiedete al dottor Letta!”, cioè quasi sempre. Mai deputato, mai ministro. Sempre e solo Onnipotente Sottosegretario. Governando il visibile e l’invisibile. Le leggi ad personam e i pasticci internazionali. Comprese la liberazione delle due Simone e quella tragica di Giuliana Sgrena, con la morte di Nicola Calipari, 5 marzo 2005, sollecitato a correre all’aeroporto per festeggiare quella notte stessa in eurovisione, visto che stava andando in onda il rito nazionale di Sanremo.

Le tragedie non lo riguardano. I soldi li lascia fare ai figli: Giampaolo, presidente di Medusa e Marina, titolare col marito della Relais Giardini, catering d’alto bordo, ingaggiata ai G8 di Genova, finito nel sangue, e quello de L’Aquila, allestito sul sangue, con il notevole apporto dell’“amico Guido Bertolaso” che a Letta deve la sua ascesa (e caduta) di zar della Protezione civile.

Neanche le macerie lasciate da Silvio hanno impolverato i suoi abiti Battistoni. Nessun capello è andato fuori posto. Il disastro è stato anche opera sua, ma che importa? Per i rimorsi rivolgersi ai moralisti e alle cameriere, mai ai dorotei.

Quando la piccola Alessandra faceva i compiti con Gadda

È in una gelida villa di Fiesole, di proprietà di una ricca signora d’America scappata prima della guerra, che la famiglia di Alessandra si trasferisce nel ’45, in cerca di una nuova serenità dopo gli orrori della guerra. I bambini, abituati a correre verso i rifugi per sfuggire alle bombe, scoprono l’infanzia fra ulivi e limoni. È il tempo di nuove corse affannate, ma sono scorribande gioiose, su e giù ̀per la collina, scavalcando muri di cinta. Un bel giorno, poi, arriva anche la scuola. La matematica non è il mestiere di molti, nemmeno di Alessandra, nemmeno della sua mamma. Che una domenica, di fronte a un problema di aritmetica, si arrende e dice alla figlia: “Chiedi a tuo padre”. Papà Alessandro, letterato e scrittore, passa a sua volta la palla all’amico che gli sta di fronte: “Chiedi a Carlo Emilio, che è ingegnere”. E in men che non si dica Gadda risolve il problema. Senonché il giorno dopo la maestra lo boccia con un grande fregio rosso a tutta pagina. “Non ho sbagliato, non è possibile, mi ha aiutato Carlo Emilio Gadda”, protesta la piccola. La maestra insiste e non si accorge di dirne una davvero grossa: “Non so chi sia questo Gadda, ma so che il problema è ̀ tutto sbagliato”. Possibile che l’ingegnere non sapesse risolvere un problema da scuola elementare? No, e infatti a casa la questione viene liquidata così: “Avrà sbagliato la maestra”.

Quello che abbiamo appena raccontato è uno dei mille aneddoti di un meraviglioso libro da poco sugli scaffali – Stanotte dormirai nel letto del re, Archinto – in cui Sandra Bonsanti (giornalista e presidente onorario di Giustizia e libertà) raccoglie i ricordi della sua infanzia, nella Firenze degli anni Quaranta. Il memoir è dedicato ai suoi genitori: al papà Alessandro – intellettuale, scrittore, fondatore e direttore della rivista Letteratura – e alla mamma Marcella. Attorno un gruppo di formidabili amici: Eugenio Montale, Giovanni Comisso, Elio Vittorini, Giorgio Bassani, Filippo De Pisis, la famiglia Rosselli, i Ginzburg. Ma queste pagine sono soprattutto un viaggio nella storia straziata del Novecento, quando arriva il Fascismo e “l’interregno affidato alla letteratura venne trasformandosi sempre più in una lotta strettamente politica che la escludeva”, come scrisse Alessandro Bonsanti, raccontando la decisione di prendere la tessera per continuare a far sentire la voce della cultura. Letteratura nasce sotto i peggiori auspici, nel 1937, a causa di estenuanti trattative con la censura del regime; il posto d’onore però è riservato a Gadda, alle pagine impervie de La cognizione del dolore. Un passo di un taccuino di Bonsanti riassume in poche righe la grandezza dell’Ingegnere bocciato dalla maestra di Sandra. “Si dice, tante volte: vorrei arrivare per la prima volta da turista in questa città dove sono nato e dove abito da sempre, e sappiamo che è un desiderio irrealizzabile. Purtroppo, un Gadda inedito non potremo mai conoscerlo, noi che venimmo su con lui e ne delibammo, parola per parola sul loro nascere scritti e idiosincrasie”. Purtroppo molto del carteggio con Gadda (e Contini) finisce in una caldaia, nei giorni dopo l’8 settembre: un falò acceso dopo che i Bonsanti erano stati avvisati di una perquisizione. Qualcuno li aveva traditi; non un estraneo, qualcuno nella cerchia degli intellettuali del Gabinetto di Vissieux che Bonsanti dirigerà per quattro decenni, ma chi? Un famoso poeta, scrive l’autrice, di cui il padre scoprì il nome dopo la guerra, senza mai rivelarlo a nessuno. Di certo sappiamo solo che non fu Montale. Ci sono molte voci in Stanotte dormirai nel letto del Re (non è una filastrocca, ma un fatto vero) che per certi versi è un libro corale, tante sono le testimonianze estratte dall’archivio della memoria e dagli archivi reali.

Ma è l’alternanza degli sguardi della stessa autrice sulle vicende familiari a renderlo così prezioso: ci sono gli occhi della bimba che scambia per giochi i sotterfugi a cui il regime sottopone i genitori, e restano pieni d’incanto nonostante le parole terribili e sconosciute (“perquisizione”, “rastrellamento”) con cui l’infanzia viene violata; ci sono gli occhi attenti della giornalista che quando si trova a intervistare personaggi come il generale Clark, che era stato comandante in capo della quinta armata, ricompone i pezzi della grande Storia insieme ai tasselli delle vicende familiari. Nel puzzle ci sono anche tracce dell’ebraismo italiano, visto che mamma – nata Del Valle Marcella e trasformata in Bonatto Giselda da una carta d’identità falsa procurata da Bassani – era ebrea. Il nonno Giorgio accolse le leggi razziali con apparente tranquillità convinto com’era che fossero “le solite leggi fasciste”, promulgate ma poi non applicate, rivendicando con orgoglio la propria italianità. I nonni morirono di vecchiaia nella loro casa anche perché Bonsanti li fece “sparire” intestandosi tutte le utenze. Alla sorella della nonna andò peggio: fu fucilata ad Auschwitz, lo stesso giorno del suo arrivo.

Donazioni Fiera: la Gdf negli uffici della società che gestì i soldi

E nella cabina di controllo dell’Astronave che non ha mai volato arrivò infine la Guardia di finanza. A chiedere i documenti sull’ospedale in Fiera – l’Astronave, secondo l’immaginifica definizione del suo ideatore, Guido Bertolaso – voluto dalla Regione Lombardia per fronteggiare l’emergenza Covid-19.

La Procura di Milano, pm Cristina Roveda e procuratore aggiunto Maurizio Romanelli, hanno incaricato il nucleo di polizia economico-finanziaria della Guardia di finanza di Milano di effettuare acquisizioni di carte presso il Fondo Fondazione Fiera Milano per la Lotta al Coronavirus di via Manin, dove ha sede la Fondazione di Comunità Milano. È l’ente che è stato incaricato dalla Fondazione Fiera Milano di raccogliere le donazioni per realizzare l’Astronave, pensata come un ospedale d’emergenza dove ricoverare i pazienti in terapia intensiva colpiti dal coronavirus.

La struttura, presentata dal presidente della Regione Lombardia Attilio Fontana e dall’assessore al Welfare Giulio Gallera come la risposta di punta per affrontare l’emergenza, è ora vuoto e inattivo, dopo aver ospitato nei mesi scorsi non più di una ventina di pazienti. La Procura di Milano a maggio ha aperto un’inchiesta, sollecitata da un esposto dell’Adl Cobas Lombardia, un sindacato di medici e operatori sanitari. Un’indagine conoscitiva, senza per ora indagati né ipotesi di reato.

Nell’esposto, presentato dall’avvocato Enzo Barbarisi, si ponevano dubbi sull’effettiva esistenza di un interesse pubblico nel realizzare l’operazione. Il procuratore aggiunto Romanelli aveva spiegato che l’inchiesta si era necessaria per rispondere alle domande allineate dall’esposto: sulle donazioni (21,6 milioni di euro da parte di oltre 5 mila privati e aziende) e sul loro utilizzo, che secondo l’esposto costituisce “uno spreco di risorse” in cui “ha prevalso la necessità propagandistica” rispetto “alla prioritaria tutela della salute”. L’ospedale installato nei padiglioni della Fiera di Milano al Portello era stato annunciato come una struttura da 600 posti di terapia intensiva, via via ridotti fino a 221. Dividendo i costi sostenuti per il numero di pazienti ospitati, l’esposto calcola che ciascuno è costato 840 mila euro.

“Chi non segue la linea è fuori: lo dice Salvini”

Chiunque avesse appoggiato Roberto Francese, il sindaco di Robbio in provincia di Pavia, quando attaccava la Regione Lombardia, perché voleva fare i test sierologici, sarebbe stato messo fuori dalla Lega. E l’ordine sarebbe partito direttamente da Matteo Salvini. L’intimazione riguarda un esponente di lunga data come Lorenzo Demartini, ex consigliere regionale che, nella scorsa primavera, si era schierato per l’utilizzo dei test disponibili, senza attendere quelli Diasorin, per i quali era partita la convenzione con la Regione. A intimargli di non assecondare le iniziative di Francese è il deputato leghista Paolo Grimoldi, già commissario regionale del partito in Lombardia. Abbiamo chiesto all’ufficio stampa di Salvini di confermare o smentire ma mentre scriviamo non abbiamo ricevuto risposte.

Siamo in aprile e Francese trasforma Robbio nel paese della “disobbedienza civile”. Deciderà di procedere con i test sierologici e dai 16 casi ufficiali, quando avvia lo screening, a Robbio si passa a 140 persone che hanno sviluppato gli anticorpi al Covid. Tutto a spese del Comune e con l’aiuto di privati cittadini. Dovrebbe essere considerato un sindaco esemplare. Grimoldi – per quanto risulta al Fatto Quotidiano – lo giudica, in un messaggio inviato a Demartini, un “miserabile”. E gli intima di non assecondarlo. Pena l’espulsione dal partito. Spiega che è Salvini in persona ad averlo deciso.

“Non ricordo neanche chi sia il sindaco di Robbio. E’ della Lega?” chiede Grimoldi al Fatto. “A Lorenzo Demartini”, aggiunge, “può essere che abbia detto di non rilasciare dichiarazioni sui giornali…”. Sul sindaco di Robbio – chiediamo – e sui test sierologici?. “Non so neanche dove sia Robbio”, è la risposta. “A Demartini è molto probabile che, se ho detto qualcosa su qualche tematica di sorta, gli avrò detto ‘cuciti la bocca’”. Ma – insistiamo – sulle vicende legate al sindaco di Robbio? “Non ricordo, avrò detto a Demartini: ‘quello è un cretino lascialo perdere’…”. Il punto, obiettiamo, non è il suo giudizio sul quoziente intellettivo di Francese, ma il riferimento ai test sierologici: “Ma che ne so io dei test! Non so neanche dov’è Robbio! Al 90 per cento sarà uno di quelli che negli ultimi anni è venuto a chiedere di candidarsi in Lega. Avrò detto a Demartini che è un cretino, l’avrò anche scritto, ma io dei test… non sono medico, non sono eletto in Regione. Cerco di tenere la barra dritta del mio movimento politico sulla Lombardia. E se uno dice una cosa fuori dal coro cerco di intervenire”. Gli chiediamo se abbia fatto riferimenti a Salvini e al sindaco di Robbio: “Verificato”, ci risponde, “assolutamente falso: ho tutti i messaggi! Non so cio, chi sia il sindaco di Robbio, si figuri Salvini”.

C’è un motivo per cui rivolgiamo queste domande a Grimoldi. Precisiamo subito che il suo nome non è neanche sfiorato dall’inchiesta della Procura di Pavia sui test sierologici della Diasorin e l’accordo con il San Matteo di Pavia. Ma è chiaro, leggendo gli atti, che “diversi amministratori locali” e in particolare i “sindaci di Robbio e Cisliano” hanno “riferito di atteggiamenti ostruzionistici nei loro confronti da parte di esponenti politici regionali della Lega Nord” per la decisione di procedere autonomamente sui test sierologici. Il messaggio di Grimoldi a Demartini, a maggior ragione per il riferimento a Salvini, confermerebbe questa tesi – dal punto di vista politico, non giudiziario – e, considerato l’argomento, non si tratta di un dettaglio. Il sindaco di Cisliano Luca Duré ci ha spiegato: “Non ho mai ricevuto pressioni dirette da esponenti della regione Lombardia. L’Ats di Milano però ci ha diffidato dal fare i test. Certo, il direttore Walter Bergamaschi è di nomina leghista, ma più che con la politica, me la prendo con la burocrazia ‘all’italiana’ che, in un periodo di emergenza, ha creato difficoltà invece di agevolare iniziative che potevano dare risposte. Anche se i risultati non erano attendibili al 100% – il nostro viaggiava al 98% – era meglio del nulla. Infatti ci ha consentito di mappare il virus sul territorio. Noi sindaci che ci attivavamo eravamo visti male. Un comportamento incomprensibile”.

Test, intreccio diasorin-fondazione leghista

Il primo obiettivo della Procura di Pavia è quello di stabilire con certezza se, come sospetta, nel progetto di collaborazione firmato tra la Fondazione San Matteo e la multinazionale Diasorin per i test sierologici vi siano gli estremi del peculato e della turbata libertà degli incanti. Sullo sfondo, però, c’è la politica regionale e una particolare attenzione degli investigatori alla Lega Nord. I piani vanno ovviamente distinti. Vedremo perché. Partiamo dallo scenario politico.

Indagando sull’accordo tra Diasorin e San Matteo, la Procura scopre che la multinazionale, oltre ad avere una sede a Saluggia, ha degli uffici all’interno dell’Insubrias Biopark di Gerenzano. Parliamo di un polo scientifico tecnologico. “Nello stesso polo scientifico – scopre la Guardia di Finanza – c’è anche la sede della Fondazione Insubrico, il cui direttore generale è Andrea Gambini, già commissario della Lega Varesina e presidente della Fondazione Iccrs Carlo Besta”. La fondazione Carlo Besta è un istituto neurologico riconosciuto come un’eccellenza nel suo settore. E Gambini non è soltanto un funzionario di partito. Cinquantuno anni, si è laureato in Farmacia, a Milano, nel 1997. Dopo varie esperienze come collaboratore farmaceutico, nel 2007 diventa direttore generale dell’Insubrias Biopark. “L’ottavo parco scientifico tecnologico e bio-incubatore nel settore biotech italiano”, lo definisce lo stesso Gambini nel suo curriculum, spiegando che è “un luogo di incontro per promuovere il dialogo tra le culture scientifiche e imprenditoriali”. “Il suo scopo – continua – è di creare un eccellente punto di riferimento nel campo della ricerca ed essere capace di distinguersi in ambito nazionale e internazionale”. Gambini diventa anche il direttore generale della “Fondazione Istituto Insubrico di ricerca per la Vita” che si propone di “stimolare e supportare iniziative di sviluppo delle biotecnologie rivolte alla scienza della vita e alla salvaguardia della salute dell’uomo con particolare riferimento all’area geografica sovranazionale della regione insubrica”.

La Fondazione, a sua volta, è proprietaria al cento per cento della società Servire srl. Il suo oggetto sociale: attività di ricerca scientifica, svolta con mezzi propri e di terzi, sia in Italia sia all’estero, soprattutto nel settore delle nano tecnologie. E ancora: esami di laboratorio di vario genere. E poi gestione, ristrutturazione e manutenzione di immobili di proprietà o di terzi. E persino la manutenzione del verde, il magazzinaggio e quanto altro possa essere utile per la logistica di un laboratorio di ricerca. Il punto è che la Fondazione Istituto Insubrico e la sua Servire srl, secondo la Guardia di Finanza, hanno “evidenziato stretti rapporti commerciali” con Diasorin “già prima dello scoppio dell’emergenza Covid-19”, con fatture per 348mila euro nel 2018, 282mila nel 2019, 85 mila nell’anno in corso. Cifre che dimostrano, scrivono gli investigatori, “quanto la Diasorin SpA sia un cliente di primo piano della Fondazione”. Idem per la Servire srl, con fatture per 1,1 milioni nel 2019 e 429mila nel 2020. Gambini non risulta indagato ma la procura vuol capire la “natura e la reale consistenza delle prestazioni” nei rapporti commerciali tra Diasorin e e Fondazione Insubrico. E infatti s’è presentata nelle loro sedi per acquisire gli atti relativi. Di certo c’è soltanto che Gambini – presidente del Cda di Servire srl – è un noto esponente leghista. Ed è un esponente della Lega anche l’altro consigliere della società in questione: Alberto Bulgheroni, classe 1962, con un passato da consigliere comunale proprio a Gerenzano. Insomma, la società posseduta interamente dalla Fondazione, e in affari con Diasorin, vede al comando due uomini legati al Carroccio.

Gambini viene poi nominato presidente della Fondazione Besta negli stessi giorni in cui Alessandro Venturi viene nominato presidente della Fondazione San Matteo. I due si conoscono e frequentano. Potremmo immaginare che Gambini abbia parlato dei rapporti commerciali di Fondazione Insubrico e Servire srl con la Diasorin che, di lì a poco, in piena emergenza Covid, stringerà l’accordo con la Fondazione San Matteo e poi sarà scelta dalla Regione Lombardia per gli screening di massa, con relativa fornitura da 500mila kit per 2 milioni di euro di spesa, affidamento sul quale indagano invece i pm di Milano in un fascicolo aperto a maggio senza indagati né ipotesi di reato.

Abbiamo tentato di contattare Gambini sul suo telefono ma era irraggiungibile. Abbiamo chiesto a Venturi, che è tra gli indagati dalla procura di Pavia, se sapesse che Diasorin aveva rapporti commerciali con la Fondazione e la Servire srl: “Gambini non me ne ha mai parlato – è la sua risposta – soltanto ad accordo avvenuto mi disse che avevano gli uffici nella stessa sede. Ma dei loro rapporti commerciali, dei quali ignoro la natura, ho saputo soltanto leggendo il decreto di perquisizione”. Poi precisa: “È stata Diasorin a cercare noi e non il contrario”. Perché non avete valutato altre offerte per la validazione del test sierologico? “Perché nessuno ce l’ha chiesto – risponde Venturi – altrimenti l’avremmo fatto”.

La procura la pensa diversamente: sostiene che sia stata “turbata la regolarità del procedimento” perché la “scelta della controparte è avvenuta con assegnazione diretta alla società Diasorin e senza alcuna procedura di evidenza pubblica che garantisse un confronto competitivo ad altri operatori del settore per cedere in concessione i beni (della Fondazione San Matteo, ndr)”. Non solo: “Veniva impedito ad altri operatori del settore di partecipare al progetto di sviluppo del test insieme al policlinico San Matteo sebbene utilizzassero metodologie già validate o in possesso della marchiatura Ce a differenza di Diasorin”. C’è poi un riferimento al ruolo del professor Fausto Baldanti che era in “conflitto d’interessi perché svolgeva contemporaneamente il ruolo di Responsabile scientifico del progetto di collaborazione San Matteo – Diasorin e la carica di membro del ‘tavolo tecnico scientifico’ istituito dalla Regione Lombardia per l’approccio diagnostico omogeneo su base regionale per la diagnostica e testing in vitro per la ricerca Covid-19”.

Venturi offre la sua versione anche sul tema della ricerca: “Un conto è la ricerca che Baldanti aveva realizzato per noi, con i suoi test in laboratorio, grazie ai quali aveva individuato quali anticorpi sono in grado di neutralizzare il virus, un altro è il test Diasorin, che la società ha sviluppato da sé. Diasorin non ha usato la nostra tecnologia, ma la sua, noi abbiamo soltanto stretto l’accordo di validare la loro ricerca e proprio in vurtù degli studi portati avanti da Baldanti”. Questa è in sostanza la linea difensiva. Vedremo se convincerà la Procura di Pavia.

“Il comandante assecondava il militare amico dei pusher”

“Si sono trovati a operare nella medesima compagnia di una piccola città come Piacenza, un militare incline a sfruttare il proprio ruolo per accrescere i profitti delle attività illecite svolte nel contempo e un Comandante che non solo non operava alcuna attività di vigilanza per rendersi conto di tali scenari ma anzi finiva per assecondarli”. Poche mele marce ma ben protette. A quanto si legge nelle 326 pagine dell’ordinanza del gip Luca Milani, il maggiore Stefano Bezzeccheri, comandante della compagnia dei carabinieri di Piacenza, era un grande sostenitore del gruppo capeggiato dall’appuntato Giuseppe Montella. Colpevole, secondo le accuse, insieme ad altri carabinieri di aver organizzato un giro di spaccio ai danni dei pusher locali, spesso vessati e picchiati qualora non collaborassero. Tra i reati contestati c’è la tortura.

Ossessionato dal numero degli arresti e dalla “competizione” con le altre stazioni e le altre compagnie, Bezzeccheri (ora con l’obbligo di dimora a Piacenza per abuso d’ufficio) incitava Montella: “Io so’ fatto così Monte’, a Rivergaro e Bobbio gli devo fa un culo così! È una questione di orgoglio e mi dispiace che persone che non vale nulla rispetto a voi, fanno i figurini col colonnello, col comandante della Legione”. Infatti quelli della Levante collezionavano encomi e riconoscimenti. L’appuntato ovviamente lo asseconda, “Adesso vediamo di farne il più possibile, anche settimana prossima, di farne altri tre o quattro”, scatenando l’entusiasmo del superiore: “Il massimo risultato con il minimo sforzo, bravo!”. I due si sentono spesso, anche alle spalle del comandante stesso della stazione Levante, il maresciallo Marco Orlando considerato da Bezzeccheri un “peso”.

Su Orlando, ai domiciliari senza accuse di tortura, le intercettazioni telefoniche confermerebbero un ruolo più grave. “Uno degli aspetti più gravi della vicenda, che ha riguardato un arresto minato da plurime e gravi falsità, è rappresentato dall’amara constatazione per cui durante tutte le fasi Orlando era presente in caserma”, scrive il gip. “Grave pensare che egli possa aver tollerato che sostanzialmente per tutto il pomeriggio presso la sua caserma avvenissero costanti violazioni di norme penali e delle più basilari regola di buona condotta, dal maltrattamento di un soggetto che chiedeva notizie dei suoi effetti personali alle due sedute di pestaggio del soggetto arrestato che sono state correttamente qualificate dal pm come episodi di tortura”. I quattro, accusati proprio di questo reato, davanti ai finanzieri che li hanno arrestati si sono messi a piangere e a urlare.

Il maggiore Bezzeccheri è stato sostituito ieri dal capitano Giancarmine Carusone, 34enne trasferito da Barcellona Pozzo di Gotto (Messina). La caserma resta sequestrata. Otto carabinieri fanno servizio su una stazione mobile. Ma a Roma tutti si interrogano su come sia stato possibile che il comandante provinciale arrivato nel novembre scorso e il predecessore non si siano accorti di nulla, neppure di fronte a comportamenti palesemente sopra le righe di Montella che, oltre agli atteggiamenti violenti, aveva ingenti disponibilità economiche. E su perché l’ufficiale della prima segnalazione, il maggiore Rocco Papaleo oggi a Cremona dopo anni a Piacenza, abbia deciso di parlare con la sezione di polizia giudiziaria della Procura e non con i suoi superiori nell’Arma: non si fidava, avrebbe detto, dei responsabili piacentini. Il comandante generale Giovanni Nistri non sembra in discussione: ieri il ministro della Difesa Lorenzo Guerini ha visitato una stazione romana con lui e dato via libera alla sua inchiesta interna sui mancati controlli.