Zangrillo al Fatto “Non mi candido e insisto: il virus ha perso forza”

Gentile Direttore, vorrei rispondere alle curiosità gentilmente sollevate dalla Dr.ssa Ranieri sul “Commento” del 23 luglio.

È verissimo che alcuni tra i miei illustri assistiti sono meno tracciabili del solito, ma potendo comunicare con loro quotidianamente, sono poco interessato ai loro movimenti, comunque non condizionati dalla necessità di alcuna quarantena.

Quanto alla politica, il mio totale disinteresse ad ogni tipo di coinvolgimento è confermato, ora e sempre, semplicemente perché quando un obiettivo è così semplice da raggiungere, perde il mio interesse. Ironie a parte, ho la fortuna di fare un lavoro che mi appassiona e che non intendo lasciare.

Anche se non sono uno psicologo, né un commerciante, o un ristoratore, sono comunque molto addolorato quando osservo un tassista che attende invano, da ore, un cliente e mi chiedo di cosa vivrà la cameriera dell’albergo, chiuso da mesi. Per me questa non è politica, ma umanità.

Chiunque sia in contatto con un medico ospedaliero italiano sa che, negli ultimi mesi, la principale causa di ricovero in ospedale di pazienti con tampone positivo per Sars-Cov2 è rappresentata da malattie coesistenti e non da manifestazioni cliniche di polmonite da Covid. L’Istituto Scientifico San Raffaele produce evidenze e non “verità”, con i numerosi lavori su Sars Covid-2 già pubblicati su top-journals, quali The Lancet, Jama etc. L’analisi della mortalità è stata da noi pubblicata già il 25 giugno ed è in linea con quanto da me comunicato da tempo.

Certo, in altri Paesi, i dati epidemiologici restano molto preoccupanti ma non ci devono impedire di nutrire fiducia e infondere ottimismo. Questo ci stanno suggerendo le evidenze scientifiche.

Catalfo: “Proroga per Cig e blocco dei licenziamenti”

Il dato è più che scontato, però dà la misura di quel che è successo negli ultimi mesi e a cosa bisogna rispondere nei prossimi: ad aprile, dice Istat, le assunzioni sono crollate dell’83% rispetto a un anno prima, si sfiora il -40% invece se si prende in considerazione il primo quadrimestre dell’anno. Le imprese non assumono, lasciano scadere senza rinnovarli i contratti a termine (-500mila il saldo), gli intermittenti (-91.000), i somministrati (-133.000) e gli stagionali (-169.000). Nonostante qualche segnale negativo, sopravvivono per ora, grazie alla cassa integrazione Covid e al blocco dei licenziamenti, i lavoratori stabili: come ha spiegato Roberto Gualtieri in Parlamento, secondo il ministero dell’Economia almeno 1,6 milioni di posti sono stati salvaguardati con questi provvedimenti.

Siccome, però, la crisi innescata dal coronavirus ed esplosa coi lockdown è lungi dall’essere conclusa, quei due provvedimenti – entrambi in esaurimento – saranno prorogati. Lo ha annunciato ieri la ministra del Lavoro Nunzia Catalfo al tavolo sulla riforma degli ammortizzatori sociali: “Il nuovo decreto conterrà un pacchetto di misure per il lavoro che comprende la proroga della cassa integrazione di ulteriori 18 settimane” a partire dal 15 luglio con una formula “9+9”, com’era già successo durante le chiusure della primavera. In alternativa dovrebbe essere approvato anche “uno sgravio per quelle aziende che decidono di far rientrare i propri dipendenti al lavoro”, nuove decontribuzioni per le assunzioni, la proroga di Naspi e Dis-coll (entrambi assegni di disoccupazione) e altri provvedimenti a partire dalla proroga – probabilmente fino a fine anno – del blocco dei licenziamenti “con alcune eccezioni come ad esempio la cessazione di attività”, ha spiegato Catalfo. Tutte norme da inserire in un decreto che vedrà la luce all’inizio di agosto, dopo che le Camere avranno autorizzato il nuovo scostamento di bilancio da 25 miliardi di euro approvato dal governo mercoledì.

“Ponte Morandi, inutilizzati da Toti 22 milioni su 27”

Ventidue milioni non spesi sui ventisette stanziati per gli interventi sul ponte Morandi. Tutti fondi arrivati dal governo e a oggi inutilizzati dalla Regione Liguria governata da Giovanni Toti. A metterlo nero su bianco è il procuratore della Corte dei Conti Claudio Mori nella memoria riguardante il giudizio di parifica del bilancio regionale del 2019. Nella capitolo della relazione sul trasporto pubblico regionale e dopo aver valutato positivamente gli investimenti sugli autobus, Mori dedica una parte agli interventi per il ponte. Attaccando a testa bassa la giunta Toti: “Ciò che desta perplessità e in parte preoccupazione – si legge – è lo stato di inutilizzazione delle risorse provenienti dal ministero a seguito del crollo del viadotto del Polcevera-Ponte Morandi”. Nell’elenco delle voci di spesa, il procuratore regionale calcola che solo 5 milioni sui 27 totali (meno di un quinto) sono stati liquidati. “Orbene – conclude Mori – questa Procura contabile non conosce le ragioni, anche in considerazione della gravità dell’evento e del pesantissimo impatto che lo stesso ha avuto sulla economia locale e su quella regionale, per le quali queste somme non siano state spese o, comunque, spese in misura minima”.

La relazione si sofferma anche sullo stato della sanità ligure e anche qui sono dolori per il governatore Toti che a settembre cerca la riconferma: il procuratore Mori, infatti, certifica che la Liguria ha chiuso il 2019 con un disavanzo di 64 milioni, il peggior dato di tutta Italia dietro solo al Molise. Non solo: gli obiettivi inseriti nel piano regionale 2017-2019 non sono stati raggiunti. Scrive Mori: “Sarebbe necessario comprendere, anche ai fini del doveroso rispetto del principio di trasparenza dei bilanci e del principio di accountability, le ragioni del mancato raggiungimento degli obiettivi prefissati dal legislatore regionale”.

Spese pazze all’Ars Sicilia, cinque condanne 4 anni a Pogliese: è il sindaco FdI di Catania

Una sentenza che assomiglia a un terremoto, almeno da un punto di vista politico, ha scosso ieri pomeriggio il Comune di Catania. Il sindaco Salvo Pogliese è stato condannato a quattro anni e tre mesi per peculato. Il pronunciamento arriva mentre la città è segnata dal profondo rosso del dissesto economico-finanziario. Per i giudici della terza sezionale del Tribunale di Palermo, Pogliese – ex europarlamentare vicinissimo a Giorgia Meloni, che lo ha voluto come coordinatore di Fratelli d’Italia in Sicilia – si sarebbe appropriato indebitamente di soldi pubblici negli anni in cui è stato deputato all’Assemblea regionale siciliana. Il nome di Pogliese è uno dei tanti finiti dentro alla maxi-inchiesta sulle spese pazze. Nel mirino i fondi destinati ai gruppi parlamentari che, secondo i magistrati, sarebbero stati utilizzati per finalità private. All’epoca dei fatti il primo cittadino, in quota Alleanza Nazionale, occupava lo scranno di capogruppo del Popolo delle libertà.

Tra le spese contestate dall’accusa c’erano 1.200 euro per la “sostituzione di varie serrature e varie maniglie per porte” in uno studio professionale di famiglia, 30 mila euro per soggiorni in albergo a Palermo, anche assieme ai familiari, cene e spese di carburante, 280 euro per la retta scolastica del figlio e 30 mila euro in assegni girati sul conto personale. Il primo cittadino ha sempre respinto le contestazioni, decidendo di candidarsi alla carica di sindaco nonostante il fardello del processo fosse già di dominio pubblico.

Ora il giudizio di primo grado farà scattare per Pogliese la sospensione dalla carica, per almeno 18 mesi, così come previsto dalla legge Severino. Al suo posto dovrebbe subentrare l’attuale vicesindaco Roberto Bonaccorsi, già sindaco del Comune di Giarre ed ex vicesindaco a Catania durante il mandato di Raffaele Stancanelli. “Le dimissioni di Pogliese sono per noi un atto dovuto, considerata la condanna e la condizione di forte sofferenza economica del Comune”, commenta al Fatto Quotidiano il consigliere comunale Movimento 5 Stelle Graziano Bonaccorsi. A chiedere il passo indietro è anche il Pd, mentre nessuno ieri fiatava tra le file del partito di Giorgia Meloni, dove Pogliese ha trovato casa un anno fa. L’addio porterebbe il Comune a elezioni con quasi tre anni di anticipo. In questo filone processuale Pogliese però non era l’unico imputato. A essere condannati dai giudici sono stati anche l’ex capogruppo Udc Giulia Adamo, tre anni e sei mesi, Dino Fiorenza, tre anni e otto mesi, Rudy Maira, quattro anni e sei mesi, Livio Marrocco, tre anni. Unico assolto Titti Buffardeci, ex assessore regionale passato dal Pdl agli autonomisti di Grande Sud, all’epoca guidati da Gianfranco Miccichè.

Il memoriale di Graviano: “B. fece i soldi grazie a noi”

L’ex presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, avrebbe avuto un “ruolo strategico” nella cattura di Giuseppe Graviano. È lo stesso boss di Brancaccio ad affermarlo nel lungo memoriale che dal carcere di Terni, dove è ristretto al 41 bis, ha inviato alla Corte d’Assise di Reggio Calabria.

Va subito ricordato che Giuseppe Graviano è stato condannato per le stragi del 1992 e 1993, non è un pentito e le sue parole vanno prese con le doppie pinze. Non sono riscontrate, potrebbero essere solo messaggi infiocchettati tra menzogne e minacce. Le sue affermazioni però non possono essere ignorate come fanno i grandi giornali e restano un fatto eclatante: uno dei maggiori boss di Cosa Nostra, solitamente adusi al silenzio, scrive nero su bianco ai giudici di essere creditore e vittima di Silvio Berlusconi.

La Corte di Assise di Reggio da martedì è in camera di consiglio per decidere su ben altro: la richiesta di ergastolo del procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo nei confronti di Graviano e del calabrese Rocco Santo Filippone, entrambi accusati di essere i mandanti del duplice omicidio dei carabinieri Fava e Garofalo consumato il 18 gennaio 1994. La sentenza potrebbe arrivare in giornata ma in queste ore a tenere banco sono le circa cinquanta pagine che Giuseppe Graviano ha letto, riletto, corretto a penna e inviato ai giudici reggini che potrebbero infliggergli l’ennesima condanna. Il memoriale cristallizza la scelta di parlare in aula nei mesi scorsi quando il boss ha puntato il dito contro il fondatore di Forza Italia.

L’incipit di Graviano è contro i pentiti che lo hanno accusato durante il processo. Poi Graviano sostiene di non conoscere Marcello Dell’Utri e nella parte finale si dedica a “la vera natura del rapporto con Berlusconi”.

Sullo sfondo ci sono sempre i 20 miliardi che il nonno materno di Giuseppe Graviano (a dire del boss) avrebbe dato – insieme ad altri imprenditori di Palermo – a Berlusconi negli anni 60 e 70.

Quando Graviano al processo ’Ndrangheta stragista tirò fuori la storia, l’avvocato di Berlusconi, Niccolò Ghedini, replicò che le sue affermazioni “sono platealmente destituite di ogni fondamento, sconnesse dalla realtà nonché palesemente diffamatorie”. Per Ghedini, Graviano stava “inventando incontri, cifre ed episodi inverosimili e inveritieri”.

“Mi rendo solo ora conto però – insiste Graviano nel memoriale – che a fine ’93 qualcosa cambia intorno al sottoscritto, e questo momento corrisponde, a mio avviso e a mente lucida, con l’ultimo incontro che ho avuto con Berlusconi a Milano (in precedenza lo avevo incontrato altre due volte). In quell’incontro si parlò di mettere, dopo tanti anni (più di 20), nero su bianco quello che era stato pattuito con mio nonno, Quartararo e gli altri investitori palermitani. Negli anni i rapporti con Berlusconi, come ho già riferito, erano stati curati da mio cugino Salvo anche perché io ero sempre latitante. Dopo più di venti anni però, gli investitori, che non avevano ricevuto alcuna somma rispetto all’investimento iniziale, intendevano ottenere i propri utili e formalizzare l’accordo davanti ad un notaio”.

Stando alla ricostruzione di Graviano, l’appuntamento a Milano presso lo studio di un notaio era stato fissato nella prima settimana del febbraio 1994. Ma quell’incontro tra Berlusconi, Giuseppe Graviano e il cugino Salvo non si fece mai. Il boss è stato catturato il 27 gennaio con il fratello Filippo a Milano. Stessa sorte è toccata al cugino che “il 2 febbraio 94 era stato arrestato con l’accusa infamante di aver commesso un omicidio”, da cui poi è stato assolto. Graviano sorvola sul perché nessun altro della sua famiglia abbia rivendicato quell’antico credito in tutti questi anni, ma si concentra sul suo arresto avvenuto a Milano, il giorno dopo la discesa in campo di Berlusconi.

“Qualcuno o più di qualcuno aveva interesse a toglierci di mezzo”. Il j’accuse di Graviano è esplicito: “L’arresto di Milano è stato veramente singolare e inaspettato. Sono certo che un ruolo, oltre chiaramente alle forze dell’ordine, sia da attribuire a Contorno e a Berlusconi”. Cosa c’entra il boss pentito, Salvatore Contorno, con il leader di Forza Italia?

Stando alla versione un po’ cervellotica del boss, sarebbe stato il “gruppo Contorno” a fare “scattare l’attività investigativa conducendo gli inquirenti a Milano. Vi è però un’altra persona che ha avuto un ruolo strategico in tutto ciò: Berlusconi”. Per Graviano Berlusconi avrebbe “avuto sempre un rapporto stretto e privilegiato con il gruppo Contorno, Bontate e soci” peccato che Contorno non abbia mai parlato di rapporti con Berlusconi.

A dire del boss, che si professa innocente per le stragi, la sua carcerazione sarebbe stata utile per non restituire i proventi degli antichi investimenti dei siciliani sul Berlusconi. Per Graviano “queste manovre messe in atto da “qualcuno” o più di “qualcuno”, hanno fatto guadagnare al signor Berlusconi, alla fine degli anni 60, la cifra di ben 20 miliardi di lire, che si dovevano tradurre nel 20 per cento degli investimenti fatti negli anni dallo stesso. Quello che è accaduto in tutti questi anni, compresa la volontà di tenermi ristretto al 41 bis e in area riservata, è la dimostrazione di quello che ho appena descritto”. Alla fine, al di là dei passaggi poco credibili, resta il messaggio: il boss Graviano chiede soldi a Berlusconi.

“Ma quale pausa? Siamo vivi e non ci siamo mai fermati”

Jasmine Cristallo, lei è il simbolo delle Sardine nel Mezzogiorno. Perché scegliere Lecce per l’evento più importante del vostro tour?

Perché la questione meridionale è al centro della politica che vogliamo costruire. In questi mesi ci hanno contattato tantissimi ragazzi dalle regioni che andranno al voto a settembre, chiedendoci di partecipare, di tornare a incontrarci e dialogare. Allora abbiamo deciso di lanciare una rete a tutta Italia, e di farlo dal Sud: è un fatto simbolico importante.

Cambierà qualcosa rispetto al movimento che abbiamo conosciuto?

Be’, è cambiato il mondo. Noi incoraggiavamo le persone a stringersi come Sardine in una scatola, ora c’è da stare distanti. Ma la sostanza non cambia. Vogliamo fare politica nel senso più nobile del termine, una politica di prossimità. E dimostrare la nostra affezione alla parola politica, troppo spesso maltrattata.

E la lettera di Santori che annunciava una “pausa di riflessione”?

È stato un errore, non avrebbe dovuto essere pubblicata. Si trattava di un confronto interno di idee. Siamo vivi e non ci siamo mai fermati.

Come avete scelto i nomi del parterre dell’incontro di Lecce?

Sono persone che ci indicano la strada di un dialogo possibile: hanno storie e provenienze diverse e non le rinnegano, ma tutti praticano la politica che vorremmo. Elly Schlein è il simbolo di una coerenza coraggiosa, che ha ottenuto risultati sotto gli occhi di tutti. Aboubakar rappresenta gli ultimi, i dimenticati: come potevamo non chiamarlo? Sandro Ruotolo è un esempio di candidato civico indipendente che ha unito le forze progressiste. Rossella Muroni, ex presidente di Legambiente, ci parlerà della questione ambientale. Il ministro Provenzano si è rifiutato di partecipare a un tavolo di lavoro dove c’erano solo uomini. Quanti lo avrebbero fatto?

Nel campo largo che immaginate c’è spazio per i 5 Stelle?

Sì, siamo in contatto con Giuseppe Brescia, speriamo ci raggiungano a Lecce. Noi vorremmo essere un corpo intermedio, porre le basi di un confronto.

“È la partecipazione che serve, spero che ci stiano anche i 5Stelle”

Elly Schlein, lei è un po’ il riferimento delle Sardine. Il campo progressista che vorrebbero loro è lo stesso che sogna lei?

Io credo serva una visione del futuro, che adesso alla politica manca. La troviamo nei movimenti sociali spontanei degli ultimi mesi: le Sardine sono un esempio, ma penso anche a Black Lives Matter o Fridays For Future. Io sono entrata in punta di piedi in tutte queste piazze, ascoltando richieste precise: giustizia sociale, lotta alle diseguaglianze, transizione ecologica. Che poi sono nodi centrali dell’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile e persino dell’enciclica “Laudato sì” di papa Francesco. I progressisti dovrebbero partire da qui.

Domani, a Lecce, si potranno gettare le basi?

Quello delle Sardine è un esperimento collettivo importante: serve un luogo dove fare politica, nel senso di condividere visione e coordinare azioni. L’iniziativa di Lecce è un tentativo di riunire soggetti culturali, artistici e politici che su questi temi la vedono allo stesso modo.

Compreso l’M5S?

Penso di sì, e spero ci saranno anche loro. Dirò di più: vorrei che ambiente e giustizia sociale fossero i temi centrali per rilanciare l’azione del governo. I fondi ottenuti dall’Europa possono essere il volano giusto. Così le forze di maggioranza potrebbero lavorare su quello che le accomuna, invece di piantare bandierine.

Chi è l’interlocutore politico che questi giovani che scendono in piazza hanno?

C’è un’estrema confusione. Da un lato, due grandi contenitori, Pd e 5S, che sui grandi temi hanno posizioni variegate, a volte contraddittorie. Dall’altro, una quantità di sigle e associazioni, a sinistra, che dicono le stesse cose, ma non riescono a fare fronte comune. È importantissimo tentare di far dialogare tutti questi soggetti e le Sardine possono facilitarlo.

Le Sardine, però, sono cambiate. Avranno la stessa importanza nelle corse regionali?

Lo spero: la destra è competitiva e lo diventerà sempre di più all’aumentare delle diseguaglianze post-Covid. Credo che le Sardine non abbiano perso il loro spirito. Mi auguro che possano risvegliare la stessa partecipazione.

Le Sardine son tornate: il tour nelle Regioni (senza candidati)

Duemila chilometri e 18 tappe per ricominciare. 40 Sardine in carovana tra le sette regioni al voto, “per riscoprire i valori della politica partendo dai luoghi, dalle persone, dai temi”. E per rinascere, dopo i mesi del Covid e quella strana lettera – la “pausa di riflessione” annunciata dal leader Mattia Santori – che ne aveva fatto immaginare la fine precoce. Nato per contrastare la scalata leghista all’Emilia-Romagna, il movimento che ha riempito le piazze di tutt’Italia sceglie un altro voto regionale per buttarsi di nuovo nella mischia: “Non sarà un tour elettorale, però – scrivono – ma politico, non si parlerà di nomi ma di visioni, persone, comunità”. Quindi nessun endorsement ma una missione, fare da “facilitatori” all’unità del campo progressista intorno ai totem di ambientalismo, femminismo e giustizia sociale.

Si comincia dal Veneto, dove ieri Santori ha dialogato in pubblico con Arturo Lorenzoni, lo sfidante di Zaia candidato da Pd, Verdi e sinistra. “Non importa se il centrodestra vincerà al 99%: noi non abbiamo obiettivi elettorali. Parliamo di persone”, dice il portavoce del movimento Adriano Dossi. “Non era scontato scegliere di essere qui, perché in questa regione il centrosinistra rifiuta di giocare la partita dandola per persa”, conferma Virginia Libero, 23enne Sardina padovana e studentessa di Legge. “Eppure la retorica della buona amministrazione leghista è debole. I giovani scappano dal Veneto perché non riescono a realizzarsi, professionalmente ma anche umanamente. Pensiamo ai diritti civili: qui c’è stata la mozione anti-aborto di Verona e l’anno dopo la vergogna del Congresso mondiale delle famiglie. Per questo abbiamo scelto di incontrarci al Padova Pride Village e invitare Alessandro Zan, il deputato estensore del disegno di legge anti-omofobia. Vogliamo marcare la distanza tra i nostri valori e quelli di Zaia”.

Ma la tappa più importante è domani, quando la carovana arriverà a Lecce. In Puglia, dove la partita elettorale si gioca sul filo, Santori e compagni vogliono riunire il dream team della politica che sognano. Il titolo è “Stand-up politics, la politica rialza la testa”: al parco di Belloluogo 400 giovani incontreranno la vicepresidente dell’Emilia-Romagna Elly Schlein – eletta a suon di voti a gennaio anche grazie all’onda delle Sardine – il sen. Sandro Ruotolo e il ministro per il Sud Provenzano. In collegamento anche Aboubakar Soumahoro, l’ex ministro Fabrizio Barca e la deputata Rossella Muroni. Tutti in cerchio, nessun palco, al centro un microfono. Un’agorà, la chiamano. Non sarà piazza Maggiore, ma la speranza è che l’effetto sia lo stesso.

La Rai col buco: 50 milioni ora e 200 nel 2021

Sprofondo rosso Rai. Non è il remake del film di Dario Argento, ma la drammatica situazione dei conti della tv di Stato a fronte dell’emergenza economica post Covid, con relativo calo degli investimenti pubblicitari, che ha colpito tutte le tv, ma Viale Mazzini in particolare. A fine anno la previsione è di un meno 20% di pubblicità, circa 127 milioni in meno, visto che il bilancio pubblicitario 2019 è stato di 635 milioni. Per la tv pubblica, in generale, si prevede un bilancio 2020 con una perdita tra i 45 e i 50 milioni. Ma molto peggio potrebbe andare nel 2021, con un rosso di 200-220 milioni. Per questo motivo l’ad Fabrizio Salini sta cercando in tutti i modi di recuperare risorse. La situazione è talmente nera da essere stata oggetto di un’audizione in Vigilanza, mercoledì sera.

“Il costo per l’azienda durante il periodo di massima emergenza Covid (il trimestre marzo-aprile-maggio, ndr) è stato di 160 milioni, a causa del minor impatto della pubblicità e di altre voci”, ha spiegato Salini ai parlamentari. Da qui l’invito alla politica per il ritorno dei soldi dell’extra gettito, ovvero la parte di canone che il governo trattiene per sé – 102 milioni l’anno – e la riconsiderazione del prelievo del 5% sempre da parte dell’esecutivo, altri 84 milioni tolti alla Rai. “Solo in questo modo potremo affrontare il 2021, che al momento fa paura”, ha aggiunto l’ad. Recuperare l’extra gettito e altre risorse dallo Stato, dunque, ma anche muoversi su altre strade. Per questo Salini ha confermato il taglio del 15% alle produzioni e ai compensi, sforbiciata che produrrebbe un risparmio di circa 20 milioni. Da qui, però, la preoccupazione di Riccardo Laganà sul fatto che a farne le spese siano i dipendenti. “Trovo inaccettabile anche solo pensare che a pagare la crisi siano, come al solito, i lavoratori del servizio pubblico, che durante la pandemia hanno garantito offerta e qualità nella produzione Rai”, ha dichiarato il consigliere.

L’intenzione di Salini, però, è anche quella di tagliare sulle produzioni esterne. “Ormai l’80% dei programmi è realizzato all’interno”, ha sottolineato l’ad. Ma ai piani alti di Viale Mazzini si stanno valutando pure altre azioni. Per esempio stoppare il canale in inglese e quello istituzionale, entrambi bloccati per motivi diversi. O annullare il concorso per 90 giornalisti delle sedi regionali, visto che sono appena stati regolarizzati 230 precari. Ma su questo fronte “si sta ancora valutando”. Una voce su cui si potrebbe invece sforbiciare sono gli 80 milioni di consulenze esterne. Basti pensare, ad esempio, che Unomattina vanta 28 tra autori e collaboratori esterni, 32 invece quelli a La Vita in diretta. Insomma, le voci su cui Salini può metter mano sono tante. “Non vogliamo che la Rai diventi una nuova Alitalia”, si è spinto a dire il pentastellato Emilio Carelli in Vigilanza. Un paragone davanti al quale tutti si sono precipitati a fare gli scongiuri.

Nel frattempo a Viale Mazzini si ragiona sugli ascolti, strettamente legati agli introiti pubblicitari. A preoccupare, al momento, sono gli scarsi risultati del day time estivo di Raiuno, dove l’unico programma a far numeri (poco meno di 1 milione e mezzo di telespettatori) è quello di Pierluigi Diaco, già tagliato dal palinsesto autunnale da Stefano Coletta. Nel Cda del 29 luglio, infine, è previsto un altro giro di nomine, con il nuovo direttore di Rainews (Vianello o Montanari, con Di Bella che si sposta a New York), mentre è lotta feroce sulle vicedirezioni di rete, specialmente su Angelo Mellone (molto spinto da Fdi) a Raiuno, su cui si sono alzate le barricate di 5 Stelle e Pd.

Mediaset va a tutta destra: in talk e tg solo Salvini e B.

La tv pubblica è lottizzata, si sa, ma quella privata, bisogna (ri)cominciare a dirlo, è minata da una politicizzazione altrettanto perniciosa. L’ultimo richiamo dell’Autorità a Mediaset e Sky è solo la punta di quell’iceberg che la politica fa finta di non vedere e che da anni determina una grave anomalia nel confronto politico. Sotto accusa questa volta, oltre a SkyTg24, ci sono Studio Aperto e Tgcom24, ma più in generale è Mediaset tutta a giocare con carte truccate la partita al tavolo dell’informazione, dove la primazia assoluta nell’esposizione in video di Salvini è solo un aspetto della torsione partigiana cui i canali berlusconiani sottopongono la politica. L’altro è lo smaccato favoritismo verso Forza Italia, quarta nei consensi alle ultime elezioni (e oggi secondo i sondaggi ancora più indietro) ma prima in visibilità. Nelle strategie politico mediatiche dell’oligopolista privato ai talk di Rete4, infatti, spetta il compito di dare sostanza a una aggressiva ‘destra televisiva’, quella dei Del Debbio, dei Porro, dei Giordano, completamente organica e subalterna alla destra politica (a differenza di Santoro e Lerner che alla sinistra facevano le pulci), mentre ai telegiornali Mediaset è riservato quello di ristabilire puntuali le gerarchie proprietarie accendendo i microfoni soprattutto e principalmente agli esponenti di Forza Italia.

Salvini torna al comando
Restaurazione post-covid

Passata la crisi del virus, il capo della Lega da maggio è tornato al comando in video e voce. Ancora una volta grazie all’apporto dei talk di Rete4, e non solo, dove sovrasta tutti gli altri con 2 ore e 13 minuti di parlato, davanti a Sgarbi, Paragone e Tremonti; il primo giallorosa è Di Maio con 38 minuti, figuratevi. Certo, pure le altre reti non si sottraggono alla seduzione dell’uomo del Papeete, visto che Rai3 gli regala la primazia nei suoi programmi per il secondo mese consecutivo, mentre La7 dopo averlo fatto a maggio ha pensato che non fosse il caso di insistere nonostante le compiacenze di Giletti. Sempre per Mediaset se qualcuno pensasse a un riequilibrio sulle altre reti verrebbe smentito: su Canale 5 primeggia la Meloni (1 h 24’ di parlato nei talk). Altro che Rai, a Mediaset la lottizzazione non esiste. Se si guarda poi al complesso delle sette reti principali, Salvini parla nei Tg e nei talk per oltre 8 ore, più di Conte che si ferma a 7; il primo leader della maggioranza (si fa per dire) è Renzi con 3 ore e mezza, meno della metà, mentre anche per Holmes sarebbe difficile ritrovare tracce di Di Maio e Zingaretti (96 e 65 minuti rispettivamente). Le novità riguardano l’ascesa di Gualtieri che è dietro Salvini e Conte, ma prima di Renzi e Meloni, e la new entry di Calenda.

Il biscione azzurro
silvio vince su tutti

Dicevamo che a Mediaset la lottizzazione non esiste. Il perché lo si capisce con uno sguardo ai dati degli ultimi 9 mesi. Elaborando i numeri che l’Agcom ha appena prodotto (ma di cui ci eravamo occupati su questo giornale in passato) viene fuori che nei tre tg Mediaset vige il regime del latifondo, considerato che il partito che ha più voce è sempre Forza Italia: un totale di 16 h e 20’, più del premier, della Lega e quasi il doppio del Pd. Nel Tg4 lo squilibrio è clamoroso: da settembre a maggio FI è sempre il primo partito e da sola realizza spesso più di premier e governo messi insieme! Nel trimestre della crisi, con il governo sovraesposto, Conte e i ministri parlano al Tg4 per 3 ore e 11’, mentre gli azzurri per 3 ore e 31 minuti! Al Tg5, che è l’organo d’informazione più importante del paese dopo il Tg1, il quadro cambia di poco: tra settembre e maggio FI parla per 4h28’, la Lega 4 h 06’; distanti il M5S (2 h 35’) e il Pd (2 h 32’). Tra l’altro nel tg-ammiraglia di Mediaset c’è (nel periodo più recente) un momento preciso in cui avviene un mutamento di rotta, ed è dopo l’estate 2017 quando l’esposizione di FI comincia a diventare debordante e superiore a quella degli altri partiti. Un fenomeno attenuatosi durante le elezioni, ma che riprendeva con forza dopo e che continua ancora oggi.

Agcom a parte, è chiaro che è la politica a dover riequilibrare il sistema, mettendo la Rai in sicurezza, ridimensionando lo strapotere dell’oligopolista privato (al contempo soggetto politico) e cambiando le regole di nomina dei Garanti, spesso inadeguati a esercitare un ruolo di controllo e sanzione perché frutto di accordi politici. La politica, dicevamo. Ma dubitiamo che lo vorrà fare.