Pure le Ong ambientaliste scontente: “Zero impegni”

Il Piano di rilancio Ue post-pandemia premia l’Italia, ma sacrifica l’ambiente. Nessun rigoroso vincolo ecologico è previsto per il capitolo di spesa Resilience Recovery Facility (Rrf) che rappresenta la fetta più grossa del pacchetto:€672,5miliardi su un totale di 750 di cui l’Italia otterrà la percentuale più alta (il 28%) tra prestiti e sovvenzioni.

L’accordo è caduto sotto il fuoco incrociato degli ambientalisti che lo giudicano un’inversione di marcia rispetto all’impegno di decarbonizzare l’economia europea. A nulla è valso l’appello lanciato la settimana scorsa, alla vigilia del Consiglio europeo, dalle 10 maggiori Ong green europee (G10). In una lettera indirizzata ai governanti dei 27 Stati membri, veniva chiesto un elenco di esclusione che vietasse l’uso dei fondi per le attività dannose per l’ambiente. L’Rrf si limita invece ad affermare che i governi dovranno finanziare progetti di transizione ambientale o digitale, lasciando aperta la possibilità che i soldi non vengano necessariamente spesi in modo sostenibile.

L’assenza di stringenti eco-condizionalità rischia di svuotare di senso la quota complessiva del 25 per cento che il fondo riserva a iniziative a favore del clima. Una soglia che gli ambientalisti avrebbero peraltro voluto portare al 50 per cento. “Potremmo sprecare un’occasione unica per rendere l’economia italiana sostenibile nel lungo periodo”, avverte Veronica Aneris, attività di Transport & Environment, una delle Ong firmatarie dell’appello. “Ci troveremmo a spendere i soldi dei nostri figli, perché loro ripagheranno i debiti contratti tramite il piano di rilancio, per alimentare i cambiamenti climatici che renderanno il loro mondo invivibile”, le fa eco il suo collega Luca Bonaccorsi. Il pericolo è che finanziamenti vengano usati per mantenere l’economia sporca che neanche il Green Deal, presentato dalla Commissione lo scorso dicembre, ha voluto scardinare con decisione.

Il taglio del 50% dei gas a effetto serra entro il 2030, infatti, non accompagnato dall’eliminazione dei sussidi ai carburanti fossili, è ritenuto insufficiente per rispettare l’Accordo di Parigi che blocca l’aumento delle temperature globali a 2° C in più rispetto all’epoca preindustriale. Secondo gli ambientalisti, gli strumenti finanziari introdotti dal Green Deal per combattere il cambiamento climatico, ossia InvestEU e Just Transition Fund, finirebbero per foraggiare attività inquinanti in assenza di un chiarimento terminologico su cosa è veramente “green” o no. Proprio questi due strumenti sono stati penalizzati dal compromesso finale sul piano di rilancio per lasciare invariata la quota dell’Rrf destinata all’Italia nella proposta iniziale della Commissione: agli altri pacchetti del piano sono stati attribuiti solo 77,5 miliardi rispetto ai 190 del piano originario. In particolare, InvestEU è sceso da 30,3 a 2,1 miliardi; Il Just Transition Fund da 30 a 10.

I tagli, in generale, si sono resi necessari anche per strappare il sì dei cosiddetti “frugali” del Nord aumentando la quota degli sconti sui contributi che versano al normale Bilancio Ue.

Quasi 2 miliardi di euro sono stati restituiti al governo olandese, contrario fino all’ultimo agli stanziamenti per i Paesi del Sud, più gravemente colpiti dalla crisi economica.

“Quest’accordo è un paradosso: è storico, ma indebolisce le istituzioni comunitarie”

“Questo accordo nasce con un paradosso”, sostiene l’eurodeputato del Pd Pierfrancesco Majorino, ex assessore a Milano e voce “di sinistra” nel partito di Zingaretti. “È un fatto storico per l’Europa. Per la prima volta c’è una risposta comune alla crisi e non ci sono condizioni capestro imposte ai paesi in difficoltà. Ma allo stesso tempo – e qui arriva il paradosso – è un accordo che indebolisce le istituzioni comunitarie”. In particolare il Parlamento, in cui Majorino siede da maggio 2019: “L’intesa è arrivata con il classico metodo intergovernativo – un accordo politico tra Stati – e questa in prospettiva non è una questione banale”.

Per vincere le resistenze dei “frugali” sono stati decisi tagli dolorosi alle risorse in bilancio per ambiente, ricerca, istruzione. Ne è valsa la pena?

Decisamente sì. Certo, sono stati indeboliti gli strumenti comuni, non possiamo nascondere che si tratta di un compromesso. Ma il risultato è un grande atto di solidarietà.

Il Just Transition Fund per la riconversione ambientale è più che dimezzato.

In realtà formalmente non c’è un taglio, ma un aumento inferiore alle aspettative rispetto alla cifra garantita dalla Commissione. La partita della sostenibilità ambientale è la più importante e quella più a rischio, ora nel dialogo tra le istituzioni bisogna cercare di riguadagnare un po’ di risorse. Possono farlo anche i governi nazionali attraverso i loro piani. Mi fido di Conte, che sull’ambiente è stato piuttosto chiaro. Ma spero che sapremo correggere il tiro, nei prossimi mesi, anche su altre questioni considerate marginali come la cooperazione allo sviluppo.

Lei è ottimista, ma la risoluzione che avete votato contiene passaggi molto duri sull’accordo per il Recovery Fund. Il Parlamento userà il veto contro il bilancio pluriennale?

Sono fiducioso che riusciremo a mediare e recuperare un po’ delle risorse perdute nell’accordo. Insisto: non abbiamo votato contro il Recovery Fund, piuttosto abbiamo stabilito che il Parlamento europeo non è un passacarte.

Le misure approvate bastano per trainare l’Italia fuori dalla crisi?

A me preoccupano i tempi. Le risorse del Recovery Fund saranno disponibili dal 2021 in avanti. Significa che l’Italia rischia di poterle investire materialmente sui territori tra alcuni anni. La crisi e l’impoverimento invece non aspettano, corrono veloci. Per questo servono misure ponte, sono convinto che il governo italiano ci stia lavorando. E anche per questo non escluderei il ricorso al Mes: quelli sono soldi che possono essere spesi con grande velocità.

Riecco il Mes, vuole litigare con i Cinque Stelle?

Su questo tema secondo me i Cinque Stelle drammatizzano. Non ne faccio una questione ideologico: al vecchio Mes avrei detto di no anche io, ora non ci sono più le condizionalità di prima. Io penso che si possa anche fare a meno delle risorse del Mes, ma allora bisogna indicare dove si vanno a prendere quei soldi che servono subito. Dobbiamo sfruttare questa situazione straordinaria. Non vorrei che al risveglio scoprissimo di aver fatto un regalo postumo al sovranismo. E poi occhio al futuro.

Cosa intende?

Il Patto di Stabilità, ad esempio, non può rientrare dalla finestra a emergenza sanitaria conclusa. Quella sarà un’altra grande partita da giocare.

L’Europarlamento minaccia il veto sul bilancio dell’Ue

È una strana risoluzione, quella approvata ieri dal Parlamento europeo. Dice un generico “sì” al Recovery Fund e all’accordo “storico” raggiunto dai leader degli Stati dell’Unione sulla pioggia di denaro da investire per l’uscita dalla crisi del Covid. Ma dice anche un sacco di “no”. E li mette in fila con formule ed espressioni concepite per sottolineare un consistente disagio: il Parlamento “deplora”, “non accetta”, “rimpiange” i sacrifici e le forzature che sono state necessarie per raggiungere l’accordo.

Il documento – passato nell’Eurocamera con 465 sì, 150 no e 67 astenuti – si può riassumere così: il Parlamento rivendica un ruolo nel processo decisionale, non permetterà di essere considerato un “passacarte” delle decisioni prese in sede di Consiglio e minaccia di usare il suo diritto di veto sull’approvazione del Quadro finanziario pluriennale (Qfp), il bilancio a lungo termine dell’Unione.

Sono tutti propositi, per quanto bellicosi, che probabilmente resteranno sulla carta. Un tentativo della più marginale delle istituzioni europee di battere un colpo e dimostrare di esistere. Ma intanto, dopo i brindisi e gli applausi degli ultimi giorni, ieri è stata l’ora dei mugugni.

La risoluzione approvata in aula a larga maggioranza punta il dito contro i tagli applicati al bilancio europeo che “contrastano con gli obiettivi dell’Ue” e andranno a colpire i progetti su politiche ambientali (il Just transition fund passa da 30 a 10 miliardi), istruzione e ricerca (Horizon da 13,5 a 5 miliardi), sanità, transizione digitale, asilo e gestione migranti.

Il Parlamento, soprattutto, “deplora” il metodo. Quello di sempre: non comunitario, ma intergovernativo. Un compromesso tra capi di governo. “Spesso – si legge nella risoluzione approvata – l’adesione esclusiva agli interessi e alle posizioni nazionali mette a repentaglio il raggiungimento di soluzioni comuni nell’interesse generale”.

Insomma, il Parlamento approva l’accordo, ma allo stesso tempo lo demolisce. Perché è “una responsabilità per il futuro dell’Europa – come ha detto nel discorso introduttivo la presidente della Commissione Ursula von der Leyen – anche se i tagli al quadro finanziario pluriennale sono una pillola amara da mandare giù”.

Gli europarlamentari italiani come si sono mossi? In ordine sparso: Pd, Cinque Stelle e Forza Italia hanno votato a favore della risoluzione, Lega e Fratelli d’Italia si sono astenuti. Con un’ulteriore complicazione, che riflette le divisioni nazionali: Lega, FdI e M5S hanno votato insieme un emendamento anti-Mes (bocciato dalla maggioranza con 560 voti contrari), che “respinge un utilizzo del Meccanismo europeo di stabilità finalizzato a stimolare l’economia in seguito alla crisi della Covid-19”. Forza Italia invece ha votato “pro-Mes” insieme a Pd, Italia Viva e Azione. I riflessi nazionali sono sempre curiosi, osservati da Bruxelles.

A Roma intanto già si prepara la battaglia sulla gestione futura del “malloppo” Recovery.

Tre senatori del Pd (guidati dall’ex renziano Andrea Marcucci) hanno presentato una mozione per istituire “una Commissione straordinaria” per monitorare l’uso dei fondi e gli interventi adottati “costituita da 25 componenti in ragione della consistenza dei Gruppi stessi”. Una sorta di bicamerale sulla gestione del Recovery fund.

Ma pure alla Camera il presidente Cinque Stelle Roberto Fico riflette, con formula diversa, su una “commissione speciale” per la gestione dei fondi. Anche in Italia, insomma, il Parlamento vuole contare.

“Noi senza l’alleanza rischiamo, ma il Pd tratti sui programmi”

Va dritta al cuore della questione: “Se le Regionali andassero male per Pd e Cinque Stelle sarebbe un enorme problema gestire la Conferenza Stato-Regioni, per la quale passano quasi tutti i provvedimenti del governo. Si rischierebbe di non toccare più palla”. Roberta Lombardi, capogruppo in Regione Lazio del M5S, veterana del Movimento, riconosce che “bisogna essere pragmatici”. Ma sugli accordi a livello locale con i dem ha paletti da seminare.

Il Pd vi chiede le alleanze nelle Regioni quasi ogni giorno, ma è molto difficile, ovunque.

Il segretario dem Nicola Zingaretti lo ripete come un mantra: ‘Dobbiamo andare assieme contro la destra’. Ma non ci si può presentare solo in contrapposizione contro qualcuno: è irrispettoso verso gli elettori. Bisogna proporre un’idea di Paese, o di Regione.

Fare fronte contro il centrodestra è vitale per il governo, no?

Zingaretti sostiene che ci si può anche dividere sui programmi, ma che non si può partire dal presupposto di andare divisi a elezioni. Sono d’accordo sulla seconda parte del suo ragionamento, non sulla prima. Gli accordi si devono fare su progetti condivisi, e il M5S non è tenuto a imbarcare i loro ras locali, senza che il Pd si impegni per un rinnovamento anche dei nomi. Allearsi solo per vincere non è nel nostro stile.

Il presidente del Consiglio Conte ha detto che se non ci fossero le intese a livello locale sarebbe “una sconfitta per tutti”.

Quella di Conte è stata una chiamata al buon senso. Se si lavora assieme a livello nazionale non vedo perché si debba andare separati a livello locale. Il premier ha richiamato tutti alla realtà, però non ha detto che bisogna allearsi per non far vincere la destra.

Lei farebbe l’intesa anche nella Puglia di Conte? I 5Stelle locali sono inamovibili dal no al governatore Michele Emiliano.

Non conosco quel territorio e ho massimo rispetto dell’opinione dei nostri portavoce in Puglia. Loro sanno se ci sono le condizioni o meno per un accordo.

Luigi Di Maio ha sconfessato l’intesa in Liguria e Beppe Grillo ha dovuto metterci una toppa. Così è complicato…

Noi 5Stelle dobbiamo decidere una volta per tutte se presentarci da soli alle elezioni locali, rassegnandoci nella maggior parte dei casi a restare all’opposizione, oppure se essere una forza di governo e correre con coloro con i quali abbiamo cose in comune. Nell’incertezza, ogni comportamento è legittimo.

Quando e come lo deciderete?

Possibilmente negli Stati Generali, e possibilmente presto.

Tira aria di rinvio al 2021.

Mi auguro di no, perché bisogna chiarire i nostri obiettivi per i prossimi dieci anni. Possiamo organizzarli in tutta sicurezza.

Come?

Si può organizzare un percorso sul web con i territori, decidendo assieme a loro su organizzazione e struttura, regole e rotta politica. Ci sono i tempi per concludere questo lavoro tra ottobre e novembre e poi ratificare tutto sulla piattaforma Rousseau o in un’assemblea.

Lei vorrebbe Conte come capo politico?

Anche se il premier ha dimostrato di essere un uomo con grandi competenze, e siamo stati noi a sceglierlo, preferirei una struttura collegiale.

Qualcuno nel M5S rema contro il premier?

Sarebbe strano il contrario. C’è sempre qualcuno che rema contro.

Il Movimento non può che allearsi con il Pd: è così?

Non ad ogni costo. Ad esempio a Guidonia, in provincia di Roma, è stato il Pd a non voler far partire il primo esperimento di amministrazione congiunta. Dopo aver perso la maggioranza in Consiglio, il sindaco del M5S si è rivolto, tra le varie forze politiche, anche ai dem. Ma poiché loro non hanno voluto rinunciare a degli imbarazzanti notabili locali, non è stato possibile fare un “contratto di governo” locale. Zingaretti dovrebbe preoccuparsi anche di questo.

@lucadecarolis

Matteo, campagna a metà (senza aiuti a Meloni e B.)

La spiaggia, questo è certo, non intende abbandonarla. L’anno scorso era stato il Papeete di Milano Marittima, questo agosto saranno le “capanne” di Forte dei Marmi. Ma tra un mojito e un selfie, Matteo Salvini è pronto per fare campagna elettorale in vista delle Regionali di settembre. La strategia, che si è palesata nei primi tour in Puglia e in Toscana, è molto chiara: prendere casa nelle due regioni dove ci sono i “suoi” candidati, la leghista Susanna Ceccardi in Toscana ma anche Giovanni Toti, considerato ormai un leghista a tutti gli effetti, e trascurare le altre.

Salvini si vedrà molto meno nei territori dove Forza Italia e Fratelli d’Italia hanno imposto i propri candidati.

Tant’è chenelle sue ultime visite in Puglia e in Campania, il leader del Carroccio non ha mai affiancato Raffaele Fitto (espresso da Fratelli d’Italia) e Vincenzo Caldoro (Forza Italia), a lui notoriamente sgraditi, creando non pochi malumori tra gli alleati del centrodestra. Nel fine settimana, Salvini è sbarcato sulla spiaggia del Coco Loco di Ugento (Lecce) e tra i selfie con i fan (tutti rigorosamente senza mascherina) ha trovato solo il tempo per attaccare il premier Conte e il governatore uscente Michele Emiliano (“Non è stato in grado di fare nulla”) senza pronunciare mai il nome del candidato della coalizione. “Lo sosterrò e lo incontrerò – ha risposto stizzito ai giornalisti che gli chiedevano di esprimersi su Fitto –, ma a me piace la squadra e non i singoli”. Una formula studiata anche per l’omologo in Campania Caldoro, che Salvini continua a non digerire. “Credo nella sua candidatura, ma soprattutto nella squadra – aveva ripetuto come una cantilena il leader leghista durante una visita a Castel Volturno a fine giugno – da soli non si vince”. Come dire: farò campagna ma per conto mio e solo per il bene del centrodestra.

Solo sabato, ad un mese dalla sua ultima visita, il leader del Carroccio tornerà nelle Marche (a Pesaro) ma “solo per un caffè al volo” e non ha trovato nemmeno il tempo di incontrare il candidato Francesco Acquaroli, scelto da Giorgia Meloni. Sarà un’iniziativa “della Lega” spiegano dal partito.

Salvini si vedrà meno anche in Veneto, sia perché lì la Lega ha già la vittoria in tasca, sia per non legittimare il governatore uscente Luca Zaia come nuovo leader del centrodestra, prospettiva che il leader del Carroccio teme più di ogni altra cosa. Per questo deputati, senatori e peones della Lega sono pronti a dividersi tra la Versilia, la Liguria e la Riviera romagnola dove Salvini trascorrerà i giorni di vacanza. Eppure, la prospettiva non piace agli alleati che temono l’ effetto boomerang soprattutto in Toscana: “Se torna sulla spiaggia, fa solo male a Susanna” chiosa un alleato.

I Mastella, Scajola e tutti gli altri Valzer di cambi per le Regionali

“La crisi della democrazia italiana è una persona che si immagina di essere salita chissà dove, ma in realtà è scesa nel sotto scala del trasformismo politico… il trasformismo è il cancro dell’Italia”. Era il febbraio del 2013 e Vincenzo De Luca, a pochi giorni dalle elezioni politiche, non risparmiava parole di fuoco nei confronti di Mario Monti, reo di essere passato in due mesi da premier tecnico a candidato di Scelta Civica. Chissà cosa penserà oggi, sette anni e molta acqua sotto i ponti più tardi, il governatore della Campania degli innumerevoli candidati e sostenitori delle sue liste che in poche settimane sono passati dal centrodestra a sposare la sua causa alle Regionali di settembre.

Gli ultimi sponsor per eccellenza, loro sì da far impallidire il teorico del trasformismo Agostino Depretis, sono i coniugi Mastella: Clemente da Ceppaloni, ex ministro del Lavoro del governo Berlusconi I e quindi ministro della Giustizia del governo Prodi II, aveva già abbandonato da tempo la causa berlusconiana per fondare “Noi campani con De Luca”, mentre è dello scorso fine settimana la dipartita della moglie, la senatrice di Forza Italia Sandra Lonardo. Che i rapporti tra Lonardo e i vertici azzurri fossero ridotti al lumicino era cosa nota, ma Lonardo ha deciso di lasciare Forza Italia con un coup de théâtre: è andata a un evento a Castelfranci, nell’Avellinese, per presentare la lista del marito. Bum. Il segretario di Forza Italia, Fulvio Martusciello, l’ha liquidata spiegando che “politici come lei vanno archiviati perché sono il peggio della politica campana” ma la diatriba si è trasformata in una faida: Martusciello ha sfilato ben cinque consiglieri di Forza Italia al sindaco di Benevento, Clemente, dicendo che appoggeranno Caldoro. E adesso la maggioranza dell’ex Udeur traballa.

I Mastella però non sono gli unici partecipanti al valzer del cambio di casacca in Campania. Prima di loro c’era già stata l’ex consigliera regionale del Pdl, Paola Raia, e un bis di uscenti, sempre berlusconiani: Flora Beneduce (“Per me Vincenzo è come l’albero della vita”), fedelissima di Luigi Cesaro eletta nel 2015 con 14 mila preferenze e Carmine Mocerino. Ma anche l’ex capogruppo di FI a Napoli, Felice Di Maiolo e la presidente del’Asi Napoli, vicina a Mara Carfagna (da tempo in pessimi rapporti con Caldoro), Giosy Romano.

Il valzer del cambio di casacca riguarda anche altre regioni al voto: in Toscana i renziani candideranno l’ex consigliere comunale del Pdl Massimo Pieri mentre, a Firenze e Prato, Italia Viva ha scelto l’ultimo arrivato dal Pd Maurizio Sguanci e l’ex consigliere comunale, Antonio Longo. Il candidato Eugenio Giani, avrà dalla sua una lista – “Svolta!” – piena di ex 5 Stelle tra cui il consigliere regionale Gabriele Bianchi e soprattutto il livornese Maurizio Pascucci, campione di giravolte nella sua lunga carriera politica: dalla scuola del Pci era diventato il simbolo del M5S come candidato sindaco a Corleone prima che Luigi Di Maio lo sconfessasse per una foto nel bar del nipote di Bernardo Provenzano, Salvatore. Oggi Pascucci sostiene apertamente Giani: “Vengo dal mondo della sinistra”, dice convinto.

In Puglia, invece, ha impressionato la foto del governatore Pd, Michele Emiliano, con i 14 rappresentanti delle liste che lo sostengono: si va dal Partito animalista ai rautiani di “Emiliano sindaco di Puglia” ai neo borbonici di “Sud Indipendente”. Tra loro, spuntano anche i “Popolari con Emiliano” dell’ex sottosegretario al Lavoro di Ncd, Massimo Cassano.

In Liguria, dopo la candidatura di Sansa, le due coalizioni si stanno muovendo per formare le liste. E, come un giglio di campo, rispunta il deus ex machina della politica ligure: Claudio Scajola che sosterrà Giovanni Toti.

Il pistola fumante

Nella mia lunga carriera di denunciato, ne ho viste tante. Pure la famiglia Angelucci, compresa una nidiata di figli e nipoti di 8 e 5 anni, che mi chiedevano non so quanti milioni per averli chiamati “gli Angelucci”. Poi, quando Stefano Folli mi querelò per il paragone fra il suo bel riportino e un nido di cinciallegra, pensavo di averle viste tutte. Invece l’altroieri ho aperto la rituale busta verde e ho trovato una citazione civile dell’Innominabile (la quindicesima in otto mesi) che, con l’aria di prendersela con me, denuncia un rotolo di carta igienica. Avete capito bene: il corpo del reato, di cui presto dovrà occuparsi il Tribunale di Firenze fra un processo e l’altro ai suoi cari, sono 20 piani di morbidezza. I giudici, annoiati da cause pallosissime, questa se la strapperanno di mano. Il criminoso fattaccio è del 13.2.2019, quando mi collego con Tagadà, il programma di Tiziana Panella su La7. E, siccome la sala riunioni che uso per i collegamenti è occupata, vengo ripreso alla scrivania del mio ufficio. Si parla del Tav e di Conte al Parlamento Ue. Nei giorni seguenti qualche feticista del web ingrandisce un fermo-immagine e scopre ciò che nessuno in diretta aveva notato per l’impossibilità di vederlo a occhio nudo: nella libreria alle mie spalle, fra libri e oggetti vari (un gufo e varie foto incorniciate), appare – cito dall’atto – “un rotolo di carta igienica con sopra stampato il volto del Senatore Dott. Matteo Renzi accanto a una cartolina che ritraeva anch’essa il volto del senatore insieme a un segnale di ‘pericolo generico’ e a un’immagine di feci umane ‘fumanti’”. A parte “umane” e “fumanti” (a vederle così parrebbero feci generiche, non saprei di quale animale, ma certamente né fumanti né fumatrici), è tutto vero.

Confesso di aver ricevuto da un’abbonata molto spiritosa e molto poco renziana, subito dopo la nostra battaglia vinta in difesa della Costituzione al referendum del 2016, quel gadget prodotto a Napoli e piuttosto diffuso (l’Innominabile non si monti la testa: sul web, a 3,90 euro, si vendono rotoli con altri politici stimati quanto lui, “Berlusconi vai a zappare” ecc.). E, quel che è peggio, l’ho poggiato sullo scaffale accanto al gufo e al libro Perché no sul referendum. Non solo: mi sono scordato della sua esistenza, come accade di solito per i soprammobili. Tutto immaginavo fuorché di ritrovarmi quel rotolino, invisibile a occhio nudo in tv, ingrandito sul web e poi su un atto di citazione che mi dipinge come un criminale, autore di un “comportamento gravissimo”. Un orrendo delitto, ma non di chi ha confezionato e messo in vendita il turpe oggetto nella bizzarra convinzione che i politici bugiardi abbiano la faccia come il culo.

Bensì del sottoscritto, animato dall’“evidente fine di attribuire l’epiteto offensivo di ‘PERICOLOSA’ ‘MERDA’ alla persona di Renzi, nelle diverse comuni accezioni quali ‘uomo di…’, ‘politico di…’, pericoloso perché una…’”. E qui gli avvocati s’interrompono, avendo già suggerito abbastanza. Poi tentano di dimostrare che il gadget sia opera mia, così come la sua collocazione in bella vista (anzi “in prima vista”). In effetti è molto plausibile che io, dovendo parlare di Conte e del Tav in tv, abbia strappato un rotolo dal bagno, gli abbia appiccicato la faccia del Sen. Dott. su ogni foglio, l’abbia riarrotolato e incellophanato, abbia ordinato allo stampatore la cartolina con segnale stradale di pericolo, foto della cacca non fumante e del Sen. Dott.. Del resto, questa è “una vera e propria tecnica comunicativa, studiata ad hoc dal Travaglio… abituato a inviare messaggi offendendo esponenti politici”. Come no, non faccio altro: lo dimostrano “alcuni esempi chiarificatori”.
Alla MaratonaMentana sul referendum 2016, “Travaglio espone alle sue spalle una prima pagina incorniciata di un quotidiano di fantasia, con la scritta in prima vista (ridàgli, ndr) ‘Hanno la faccia come il culo’” (si tratta di una celebre prima pagina di un settimanale vero, Cuore, con cui collaboravo, ma è del 1991, quando l’Innominabile aveva 16 anni; però è bello che ci si riconosca). E 15 anni fa “su Youtube il Travaglio esponeva una statuetta rappresentante un ‘maiale antropomorfico’ con le fattezze di Berlusconi” (si tratta del pupazzo Silviolo, che non ha nulla di suino e che B., molto più spiritoso, si guardò bene dal denunciare). “Pertanto non ci sono dubbi che, considerato il posizionamento degli oggetti e l’abitualità della modalità comunicativa – il Travaglio abbia deliberatamente e volontariamente veicolato tali immagini diffamatorie” contro lo Statista Rignanese. Ora il giudice dovrà visionare “l’immagine-ingrandimento degli oggetti diffamatori esposti” e tutti gli altri “soprammobili a sfondo e carattere diffamatorio in altre trasmissioni e video”. Manca solo un’istanza per l’invio del Nap, il Nucleo Arredatori della Polizia, per bonificare i miei uffici onde evitare la reiterazione del reato. C’è invece la richiesta di “danni morali, esistenziali, patrimoniali e non patrimoniali”, aggravati dall’“assenza di rettifica o dichiarazione correttiva” (testuale) e dalla “notevole risonanza mediatica suscitata dalla notizia”, di cui nessuno s’era accorto finché il Sen. Dott. non ha annunciato coram populo la denuncia al rotolo. Ma alla fine si contenta di poco: “la somma di euro 500.000,00”. Che poi sarebbero 250.000, se la carta igienica non fosse doppio velo.

Scott e Macdonald ci riprovano: nel 2020 torna “Life in a Day”

Esattamente dieci anni fa, in un solo giorno, il 24 luglio 2010, 80 mila utenti dislocati in 197 Paesi nel mondo, realizzarono autonomamente oltre 4.500 ore di girato contenente stralci della loro vita quotidiana, che i registi premi Oscar Ridley Scott (Blade Runner e Thelma&Louise) e Kevin Macdonald (L’ultimo re di Scozia e State of Play) assemblarono in un unico lungometraggio della durata di 94 minuti. In quelle 24 ore, i partecipanti alla call lanciata dalla piattaforma Youtube, promotrice del progetto, diedero vita a Life in a Day, il primo esempio di film partecipato della storia.

Con la pandemia da Covid-19 e il lockdown che ne è scaturito, la voglia di crowdsourcing (da crowd “folla” e sourcing “origine”, coinvolgimento degli utenti nella creazione di contenuti e idee) è riesplosa prepotentemente portando con sé decine di esperimenti, alcuni promossi da nomi eccellenti e tutti ancora in fase di completamento. Tra gli esempi italiani vi sono Tutte a casa. Donne, Lavoro; Relazioni ai tempi del Covid-19, documentario partecipato tutto al femminile ideato da un gruppo di professioniste del cinema; il docufilm #rEsistiamo di Endemol Shine Italia realizzato con video-diari girati rigorosamente con smartphone; Il grande caos, il film di Gabriele Muccino sulla quarantena che racconterà le storie suggerite dagli stessi italiani in lockdown, e per finire Viaggio in Italia del premio Oscar Gabriele Salvatores, regista già avvezzo ai social-movie in quanto autore nel 2014 di Italy in a day, versione italiana del progetto capostipite.

A distanza di una decade dal fortunato primo esperimento, anche la coppia Scott-Macdonald torna alla ribalta con Life in a Day versione 2020. Cos’è cambiato nel frattempo? Il mondo intero. Dagli incendi in Amazzonia alle proteste a Hong Kong, fino alla più grave pandemia del nuovo millennio corredata di lockdown per circa un terzo della popolazione mondiale, il 2020 si colloca tra gli anni che passeranno alla storia, e come tale va raccontato, per lasciare una viva e concreta testimonianza alle future generazioni.

Il prossimo sabato (25 luglio), dunque, giorno designato per il nuovo film-evento, tutti i possessori di una videocamera o di un semplice smartphone potranno partecipare al più grande video-documento collettivo sullo “strambo” anno in corso, girando un momento della propria giornata e caricandolo entro il 2 agosto sulla pagina lifeinaday.youtube. Coloro che saranno scelti per comporre i 95 minuti del film lasceranno, nelle intenzioni dei creatori del progetto, una traccia indelebile del proprio passaggio nella storia.

“Funghi super, Maria con te, Segugi”: è la stampa, bellezza

Morite dalla voglia di leggere un reportage sulla “crisi del trainato”? O sfogliare un dossier sul sesso tra uomini e alieni? Semplice, basta fare un giro in edicola. Sì, perché ad abitare gli storici chioschi verdi non solo sono i quotidiani. E neanche, solo, le patinate riviste femminili – coi soliti speciali sui solari uguali da mezzo secolo –, né i giornali di gossip dalle tirature massicce grazie a chiappe e gravidanze in copertina.

L’edicola, in realtà, è un pozzo di scoperte: vi si trovano centinaia di riviste che spaziano dai motori agli animali, dalla cronaca nera all’astrologia, dalla cucina al giardinaggio, dalla storia al soprannaturale, con titoli-perla che andrebbero quasi collezionati a futura memoria. Tra i magazine dediti alle ruote, ecco Top Gear, Tutto rally, Enduro, Endurista, Officina del vespista, Chop and roll, Low Ride, About Bmw, Ruote classiche e Car, ma anche, ad esempio, Professione camionista, su cui godersi, per esempio, l’inchiesta “Volvo o Scania? La sfida definitiva”, circondata da pubblicità di coprisedili e lampade automotive.

Se avete un animale, invece, l’imbarazzo della scelta è completo. Ci sono Argos – con titoli tipo “Annuso dunque sono” –, Quattro zampe, Magazine Gatto, Il mio cavallo, Cavalli e cavalieri, Cinghiali e cane e infine l’irrinunciabile Cani da seguita. Bimestrale di cultura segugistica.

C’è poi il plotone delle riviste di cucina, ormai sempre più specializzate per vegetariani e vegani (We Veg, Vegetarian, Insalatone Bio), ma vanno forte pure la tecnologia, con magazine super specializzati – da Ubunto facile a Hacker Journal –, l’architettura – con Casa facile, Casabella, Casa naturale e poi Ville&Casali o Villegiardini per rosicare un po’ – e soprattutto, specie di questi tempi, il giardinaggio. Dove si passa dal generale, Il mio giardino, Pollice verde, Il mio orto perfetto, Il mio orto perfetto bio, al particolare, con spasmodica attenzione sui funghi: Passione funghi e tartufi, Funghi super e pure il bimestrale Porcini e altri boleti buoni e cattivi.

C’è poi il settore degli appassionati di tecnologie volanti (Vfr Aviation, Droni Magazine), le serie sugli aerei storici, il cucito (I love cucito, Mani di fata, Motivi all’uncinetto Filet e non solo), infine la cronaca nerissima con Giallo, Così cronaca, Cronaca vera, addirittura settimanali perché l’ammazzatina, si sa, è cosa frequente.

Molto popolato il settore del soprannaturale: sia in versione cattolica – Credere, Maria, Miracoli, Maria con te, Il mio papa – sia in versione yogica – Yoga e Yoga quotidiano – infine new age, come la rivista Angeli, in cui scoprire, che so, cos’è la “chiaroudienza”. Per restare sempre in ambito mistico-dark potete chiedere anche Mistero, una delle tante pubblicazioni nate dalla tv (come anche Freedom oltre il confine di Roberto Giacobbo): l’ultimo numero è dedicato, e non potrebbe essere altrimenti, allo speciale “Ufo e pandemia: il clamoroso aumento di avvistamenti durante il lockdown”. Troverete in edicola, anche, una vera biblioteca sui tatuaggi – Idea tattoo, Tattoo energy, Global tattoo, Inked Italy – e infine l’infinita gamma dei magazine sui puzzle, dove il problema degli editori ormai sta nell’evitare l’omonimia: Simpatici Puzzle, Bel puzzle, Splendidi Puzzle, Iperpuzzle, Magnum Puzzle etc.

L’edicola, però, è anche un luogo di cultura storica: ecco Roma gloriosa, Forma Urbis, Civiltà Romana, Civiltà Medioevale, Il Medioevo Misterioso, Guerre, Wars, infine una rivista dedicata interamente al Far West, la Far West Gazette, con speciali su sceriffi e sciamani storici. La vostra curiosità non è ancora paga? Beh, allora, grazie alle app “Readly” e “Cafeyn” potrete non solo passare, per pochi euro al mese, dai porcini agli angeli, ma farlo anche, se masticate le lingue, in francese, inglese o filippino o norvegese. Chissà se Nanni Moretti, che in Aprile dedica un monologo ai soli, surreali, titoli delle riviste in edicola, è stato avvisato. Perché (per limitarci alla Gran Bretagna), già con Countryman weekly, Shooting Time o Fusion Flowers altri meravigliosi e inquietanti mondi si aprono ai lettori.

Il mistero rock fa 50. Hendrix moriva nel settembre 1970

Quando la ruota del destino ha compiuto il suo giro, la sedia a dondolo di Jimi prende a muoversi. A più di settemila chilometri dal luogo della morte. Nella casa di Seattle, subito dopo aver saputo del decesso del figlio a Londra, Al Hendrix commenta: “È tornato”. Un fenomeno paranormale a corollario di un fatto tragicamente banale, quello in cui alle 12.45 del 18 settembre 1970 si chiude l’esistenza del più grande chitarrista della storia del rock, a soli 27 anni. A ricostruire con puntualità i fatti, in un volume sobrio e ricco nel suo taglio cronistico come The story of life – Gli ultimi giorni di Jimi Hendrix sono due documentati studiosi del Nostro, Enzo Gentile e Roberto Crema. Analisi preziosa, la loro, perché sin da quelle prime ore dopo la breaking news l’incredulità dei fans ha montato teorie complottistiche, e anche il Fato, lungo l’arco di cinquant’anni, ha dato pennellate capricciose alla trama. Come sia, Jimi Hendrix non è stato assassinato, né stroncato da abusi di droghe: lo certifica l’autopsia del dottor Teare, che non ha riscontrato sul corpo segni di violenza né di tossicodipendenza. Semmai, gli furono fatali nove pastiglie di Vesperax, un barbiturico custodito nella cucina della fidanzata, la pittrice tedesca Monika Dannemann, con la quale progettava di sposarsi (ma era un piano che Jimi cambiava spesso, sostituendo la candidata) e con cui condivise anche l’ultima notte nell’appartamento al 22 di Landsdowne Crescent, dentro il Samarkand Hotel. Jimi era sbarcato in Europa già in agosto, dapprima per partecipare a una caotica, leggendaria edizione del Festival di Wight, dove suona quando il pubblico è ormai esausto e con il malus di un impianto in tilt; e poi per intraprendere un insidioso tour continentale, tra concerti riusciti e altri in cui un’immensa stanchezza psicofisica lo costringe a lasciare il palco dopo pochi minuti. Hendrix, superstar del rock-blues psichedelico, esploratore dell’universo della Stratocaster, vuole cambiare tutto attorno a sé.

Prima di partire da New York, al party inaugurale dei suoi Electric Lady Studios, confida a Patti Smith di voler invitare lì tutti i musicisti possibili perché trovino una “consonanza astrale”, basata su una singola nota. Quanto a sé, ripete di non sentirsi un bravo chitarrista. Il suo sogno è scappare su un’isola, da anacoreta sui generis proteso verso il segreto della reincarnazione, ma con un’indole da predatore sessuale. Però per il momento deve lavorare, incastrato com’è dalla cupidigia del manager Mike Jeffery. La tournée si risolve in un mezzo flop, complici gli acidi che fanno precipitare il bassista Billy Cox in una paranoia incontrollabile: Hendrix dovrà rimandarlo in America. Per fortuna la “sua” Londra è piena di amici. Il 16 settembre ecco il Nostro impegnato in una session al Ronnie Scott’s con Eric Burdon e gli War. Il 17 è giorno easy: Hendrix e la compagna risolvono questioni pratiche, fanno shopping e restano fino all’ora di cena in casa di Phillip Harvey, figlio di un Lord conservatore. Tornati nella propria tana, si godono un po’ di tranquillità. All’una di notte Jimi decide di fare una capatina a un party dal produttore Pete Kameron, dove però sa che incontrerà alcune vecchie fiamme: tra queste, una figura distruttiva come Devon Wilson, che ora frequenta Mick Jagger, ma è ancora possessiva nei confronti di Hendrix. Devon è una tossica persa: alla festa offre a Jimi una potente amfetamina, la Black Bomber. Verso le tre citofona Monika Dannemann e riporta il fidanzato al Samarkand Hotel. I due bevono vino, mangiano sandwich, prendono un Vesparax a testa e si addormentano. Al mattino, dopo le dieci, Monika esce per comprare le sigarette. Torna subito e scopre che lui sta male, ha tracce di vomito attorno alla bocca. La ragazza telefona a Burdon e altri amici: nessuno prende l’allarme sul serio. L’ambulanza, chiamata alle 11.18, arriva in fretta, i due infermieri non paiono preoccupati, ma poco più di un’ora dopo, al St.Mary Abbott Hospital, Jimi viene dichiarato morto. Chi aveva fatto ingerire le altre otto pastiglie di Vesparax al musicista? Se la Dannemann ha ricostruito fedelmente gli eventi, solo un annebbiato Hendrix avrebbe potuto alzarsi e prenderle. Ma c’era qualcuno interessato a toglierlo di mezzo? Il fratello Leon Hendrix, autore della prefazione per Gentile e Crema, sostiene che sì, “è stato ucciso”, ma dal sistema che gli girava intorno. Tre giorni dopo quel 18 settembre, Jimi era intenzionato a tornare a New York per mettere al sicuro molti nastri inediti prima che il manager Mike Jeffery, con cui voleva rompere, potesse soffiarglieli. Poi il Caso ha ingarbugliato il racconto. Leon non ha mai avuto parte nelle beghe ereditarie che hanno coinvolto la famiglia e non solo; Devon Wilson è precipitata da una finestra del Chelsea Hotel nel 1971; due anni dopo Jeffery muore in un incidente aereo in Francia (il corpo non viene ritrovato), Monika Dannemann si suicida nel ’96, dopo aver passato anni a ripetere invano la sua verità su quel mattino di mezzo secolo fa.