La psicosetta e il solito “al lupo al lupo” dei giornali orripilati

Non abbiamo imparato niente, verrebbe da dire leggendo le notizie sulla presunta psicosetta scoperta a Novara. Nonostante Veleno, nonostante Rignano, nonostante Sagliano Micca. Nonostante titoli sensazionalistici e processi mediatici con orchi, sangue, sette, abusi e gatti neri, in cui alla fine, tutto era una gigantesca bolla di suggestioni. O di soggezioni. Di buona e di cattiva fede, di dogmi e pregiudizi. Nonostante Bibbiano, anche. E più leggo le notizie su questa psicosetta, più leggo titoli quali “Potente psicosetta abusava di minori”. “Il racconto della schiava-bambina”, “Nella setta degli insospettabili”, “Una botola nell’armadio del dottore: così entrai nella setta del sesso”, più mi si appiccica addosso una sensazione di disagio, come se tutto fosse una strana evocazione non di Satana, ma di corto circuiti già visti.

Particolari scabrosi e reputazioni distrutte

Quanto e cosa sappiamo di questa vicenda? Sulla base di cosa stiamo già distruggendo reputazioni, formulando accuse marchianti? Ho letto le notizie trapelate, ho sentito le interviste a Valeria Dulbecco, dirigente della squadra mobile di Novara e la conferenza stampa in cui quest’ultima ha spiegato l’operazione Dioniso. E mi è parso tutto un groviglio di orribili sospetti suggeriti da ricordi lontanissimi nel tempo conditi da dettagli suggestivi nella narrazione. Fatti pochi e vaghi.

Tanto per cominciare, la setta agirebbe da 30 anni tra Milano, Novara e Pavia e la sua attività consisterebbe in corsi spirituali e lezioni sull’uso della spada celtica. Ora, basta andare su Google e vedere in cosa consiste un corso sulla spada celtica e ci si rende conto del fatto che il tutto è molto meno “esoterico” e “inquietante” di come sembra. C’erano riti collettivi, ma le caratteristiche di questi riti non è chiara. Se sono quelli mostrati in conferenza stampa, sembrano inni alla natura con donne che danzavano in topless e la coroncina di fori sulla testa. Non proprio Eyes Wide Shut. Secondo la dirigente della Squadra mobile a capo della sette c’era un settantasettenne chiamato “il Dottore”. “Ogni tanto esce con il suo bastone e il sorriso sul volto”, sono gli incredibili dettagli riportati da un paio di giornali su di lui. Sorride, beffardo, sempre. Con un bastone. Fa già paura. Il Dottore adescava, plagiava, indottrinava, riduceva in schiavitù le sue vittime anche minorenni e ne abusava sessualmente con ausilio di alcune psicologhe che convincevano quelle bambine della normalità di quegli atti “estremi e dolorosi”. Ora, se tutto questo fosse vero, sarebbe mostruoso, non c’è dubbio. Ma visto che gli indagati sono 30 e “probabilmente responsabili di atti sessuali anche nei confronti di minori”, c’è da chiedersi quanto siano solide le accuse. Perché poi l’eventuale “ci siamo sbagliati” – lo abbiamo visto a Rignano e altrove – si lascia dietro morti e feriti. Tanto più che “dal 2010 non emergerebbero coinvolgimenti di minori nella setta, per cui “alcuni delitti sono stati prescritti, per questo l’invito è a collaborare”, ha dichiarato Marco Martino, dirigente dello Sco di Roma. Il tutto partirebbe dalla denuncia di una quarantenne, due anni fa. Quando aveva otto anni (dunque 32 anni fa) sarebbe stata introdotta nella setta da un familiare. C’è rimasta per 16 anni, ha raccontato. Ha spiegato che c’era una botola nell’armadio che faceva entrare nel mondo fatato del Dottore, che se non ci entravi lui ti puniva. Questo particolare è il più inquietante. Perché anche ne Le cronache di Narnia si accedeva a un mondo fatato entrando in un armadio. E perché la botola era anche nei ricordi di quel bambino di Sagliano Micca che accusò nonni, padre e zia di abusi, giurando che c’era proprio una botola nella casa del nonno, attraverso la quale si accedeva ai luoghi nascosti degli abusi. Quella botola – le perquisizioni lo accertarono – non esisteva. Eppure la sua esistenza fu segnalata al pm dell’epoca attraverso un fax con su scritto “urgente” proprio da quel Claudio Foti di Hansel e Gretel, oggi rinviato a giudizio per Bibbiano. Nonno, nonna, padre e zio si suicidarono, per quelle accuse. Ora, magari “Il Dottore” ha davvero, una botola nell’armadio, ma visti i danni che psicologi, consulenti, pg, pm, giudici e stampa hanno fatto nel passato per aver creduto acriticamente a racconti simili, di fronte a ricordi così suggestivi e antichi bisognerebbe essere prudenti. E poi: come sono riemersi questi ricordi? Chi ha aiutato la donna nel suo percorso psicologico? Come sta? Sarebbe importante capirlo, perché non esserselo domandati, in passato, ha creato narrazioni folli.

Serve sapere le reali condizioni delle vittime

Tanto più che secondo gli inquirenti le pratiche attuate “hanno provocato nelle vittime danni psicologici gravissimi, in qualche caso sono state compromesse le facoltà mentali”. Considerato che le vittime per ora sarebbero tre in tutto, è importante capire cosa abbiano raccontato e quale sia la loro condizione psicologica. Uno degli indagati, professore di lettere, ha dichiarato che non vede il Dottore da 10 anni e che si facevano cene, piccoli concerti e se c’era sesso in quei frangenti avveniva in zone appartate tra adulti consenzienti. “Tutto assurdo. Mi hanno sequestrato e contestato pure un cimelio della seconda guerra mondiale”, ha affermato. Va aggiunto poi un dato importante: come dimostrato in un meticoloso studio dello psicologo Corrado Lo Priore, in Italia ci sono state 17 indagini sulle psicosette con minori dal 1996 a oggi. Nessuna di queste indagini ha confermato l’esistenza di una psicosetta, a parte una. (erano due educatori che avrebbero abusato di una vittima in una chiesa sconsacrata). Poi ci sono stati presunti casi raccontati ancora una volta Claudio Foti a La Stampa e a Famiglia Cristiana, oltre che un caso (surreale) finito negli atti di Bibbiano. Infine, sollevo un’ultima questione: che senso ha indire una conferenza stampa mentre va ancora analizzato il materiale sequestrato durante la montagna di perquisizioni effettuate? Perché ho visto il roboante filmato sull’operazione Dioniso mostrato dalla polizia e conteneva anche delle immagini delle perquisizioni. Spero abbiano trovato qualcosa di più inchiodante di Le poesie di Saffo, mostrato alla stampa come fosse la pistola fumante. Mica per altro, ce n’è una copia anche a casa mia.

Le famiglie di “Bologna” (ancora in lotta per la verità)

Partiamo da un punto fermo: senza l’Associazione fra i familiari delle vittime, costituita nel giugno 1981, certi risultati non sarebbero mai stati raggiunti. Dieci mesi dopo il 2 agosto 1980 – quando alle 10.25 esplose una bomba nella sala d’aspetto di seconda classe facendo crollare un’ala della Stazione Centrale di Bologna – alcuni parenti delle 85 vittime e un gruppo dei 216 feriti la crearono con uno scopo, riportato in testa allo statuto: “Ottenere con tutte le iniziative possibili la giustizia dovuta”.

All’inizio erano in 44 persone e nel tempo diventarono 300. A spingerli era stata una sentenza pronunciata meno di due mesi prima: il 21 aprile 1980 la Corte d’assise d’appello di Catanzaro aveva cancellato gli ergastoli comminati in primo grado agli imputati processati per la strage di Piazza Fontana. Tra di loro c’erano anche i capi della cellula padovana di Ordine Nuovo, Franco Freda e Giovanni Ventura, che da quella vicenda sarebbero stati assolti in via definitiva, salvo molti anni dopo – quando non erano più processabili per lo stesso reato – essere indicati come i responsabili del massacro del 12 dicembre 1969.

A Bologna, si dissero i componenti della neonata associazione vittime, non sarebbe dovuto accadere lo stesso e nel corso di quattro decenni non sono mai venuti meno al proposito. Non si sono fermati dopo le sentenze definitive che nel 1995 indicarono come esecutori due neofascisti dei Nar, Valerio Fioravanti e Francesca Mambro (il terzo condannato, Luigi Ciavardini, arrivò nel 2007), e come depistatori due ufficiali del Sismi, il generale Pietro Musumeci e il colonnello Giuseppe Belmonte. Si aggiungevano il capo della loggia P2 Licio Gelli e Francesco Pazienza, consulente del direttore del servizio militare, il generale Giuseppe Santovito.

A mancare, però, era il livello superiore, quello dei mandanti. Negli anni, insieme al team legale e ai consulenti che li affiancano, i familiari delle vittime hanno seguito lo svolgersi delle indagini per altre stragi: oltre a Piazza Fontana, scaturita dall’istruttoria degli anni Novanta del giudice Guido Salvini, c’è anche quella di Piazza della Loggia, frutto del lavoro dei pm Francesco Piantoni e Roberto Di Martino. Nell’enorme mole di carte messe insieme, da Bologna è stato scovato tanto.

C’è, per esempio, un’intercettazione ambientale del 1996. A parlare, nella sua casa della Giudecca, è Carlo Maria Maggi, ispettore per il Triveneto di Ordine Nuovo, e non solo lo si sente attribuire la responsabilità della strage di Bologna a Mambro e Fioravanti, che si sono sono sempre dichiarati innocenti. Parla anche di un altro personaggio, il padre di un aviere. Il secondo, nell’ipotesi della procura generale di Bologna, sarebbe Paolo Bellini, ex esponente di Avanguardia Nazionale, prosciolto dall’accusa di strage nel 1992 e con un ruolo nella stagione delle bombe del 1993 contro i monumenti e le opere d’arte. Il primo, invece, sarebbe suo padre Aldo, nostalgico del Ventennio e amico del magistrato che, il 2 agosto 1980, era a capo della procura di Bologna, Ugo Sisti.

I familiari delle vittime, poi, nei primi anni Duemila hanno recuperato anche un vecchio video amatoriale che giaceva negli archivi giudiziari. Venne girato il giorno della strage di Bologna da un turista svizzero che, a fine 1984, dopo la bomba sul Rapido 904, lo mise a disposizione degli inquirenti. Nei frame si vede un giovane, capelli ricci e folti baffi scuri, che con altri si aggira nel piazzale dello scalo ferroviario pochi istanti dopo l’esplosione. Ancora Bellini, che a propria volta proclama la sua innocenza? I magistrati della Procura generale ne sono convinti.

Houston, lo strano rogo al consolato del Dragone

Dopo le guerre dei dazi, del virus, dei visti, dei vaccini, ecco quella dei consolati: tra Washington e Pechino, ogni giorno porta un nuovo fronte di polemica e di tensione. Gli Stati Uniti hanno disposto la chiusura quasi immediata del consolato della Cina a Houston in Texas; e la Cina intende ribattere ordinando la chiusura del consolato degli Usa a Wuhan, il capoluogo dello Hubei, la città da cui partì l’epidemia di coronavirus. L’iniziativa aggrava le tensioni tra le due maggiori economie mondiali il cui contenzioso tocca, inoltre, Huawei e il 5G, la controversa legge sulla sicurezza nazionale a Hong Kong e le sanzioni per le violazioni dei diritti umani nello Xinjiang contro le minoranze musulmane.

Se Pechino farà chiudere a Washington il consolato di Wuhan, resterebbero quattro sedi consolari Usa in Cina – Chengdu, Guangzhou, Shanghai e Shenyang –, come ne restano quattro cinesi nell’Unione: New York, Chicago, San Francisco e Los Angeles. Ma il Global Times, che definisce “una completa follia” la mossa statunitense, ipotizza che la ritorsione potrebbe andare oltre, colpendo il consolato degli Usa a Hong Kong. Martedì sera, vigili del fuoco e polizia di Houston erano stati chiamati al consolato cinese, nel cui cortile venivano bruciati documenti. Agli agenti era però “stato negato l’accesso all’edificio”, nonostante ne provenisse del fumo. Si ignora se l’episodio fosse precedente o conseguente l’ordine di chiusura. Houston è città familiare con la distruzione su larga scala di documenti compromettenti: ai tempi dello scandalo Enron, nel 2001, i dipendenti dell’azienda energetica cercarono di frare in mille pezzi migliaia di fogli contabili, che vennero poi ricostruiti dagli inquirenti listella per listella. Confermando l’ordine di chiudere in 72 ore il consolato cinese, il Dipartimento di Stato Usa ha fatto riferimento, in una nota, alla “necessità di difendere proprietà intellettuale e dati privati americani”: “Gli Stati Uniti non accetteranno le violazioni della loro sovranità”, proprio mentre il presidente Donald Trump “insiste su equità e reciprocità delle relazioni Usa-Cina”. Martedì, il Dipartimento alla Giustizia aveva incriminato due hacker cinesi per attacchi a ricerche sul Covid-19 e ai database di numerose aziende. “Proteggeremo gli americani e le loro proprietà intellettuali”, assicura il segretario di Stato Usa Mike Pompeo, in visita in Danimarca. “Il partito comunista cinese è una minaccia alla libertà ovunque”. Il portavoce del ministero degli Esteri cinese Wang Wenbin denuncia “una provocazione unilaterale degli Usa contro la Cina”: “Una grave violazione delle norme di base delle relazioni internazionali, una grave violazione dei trattati consolari fra i due Paesi, un tentativo deliberato di minare i rapporti Cina-Usa”. “Da un po’ di tempo – aggiunge Wang – gli Usa conducono una campagna diffamatoria anti – Cina e creano senza ragione problemi al personale dei consolati cinesi: è un’escalation senza precedenti”. Pechino s’aspetta che Washington “corregga subito i suoi errori”. In caso contrario, “la Cina prenderà le legittime e necessarie contromisure”. Il ritorno del personale diplomatico Usa di Wuhan, andatosene all’inizio dell’epidemia, è stato rallentato da dispute sulle modalità da seguire, a partire dal rispetto della quarantena. La Cina ha intanto invitato i suoi studenti negli Stati Uniti “a stare in guardia”, causa interrogatori e detenzione arbitrari. “Di recente le forze dell’ordine Usa hanno intensificato interrogatori arbitrari, vessazioni, confisca di effetti personali e misure di studenti cinesi negli Stati Uniti”, si legge in una nota postata sui social media del ministero degli Esteri di Pechino.

Omicidio Dafne, la polizia: “Si è pugnalato” il testimone n° 1

Melvin Theuma è il tassista che ha confessato di aver fatto da mediatore fra il presunto mandante, l’uomo d’affari maltese Yorgen Fenech, e i tre presunti esecutori dell’omicidio della giornalista Daphne Caruana Galizia, saltata in aria nella sua auto il 16 ottobre 2017 mentre indagava su connessioni criminali del governo maltese. A novembre Theuma ha ottenuto la grazia presidenziale in cambio di una completa collaborazione con gli investigatori, e in questi giorni doveva testimoniare nel processo per l’omicidio della giornalista. Invece è ricoverato in ospedale: martedì sera avrebbe tentato il suicidio nella sua abitazione, presidiata all’esterno da agenti della polizia. Le sue condizioni sono “gravi”: non ci sarebbero segni di lotta ma è stato trovato con la gola tagliata, sei ferite profonde all’addome e tagli ai polsi. In conferenza stampa ieri mattina, a poche ore dal ritrovamento, il capo della polizia Angelo Gafa ha dichiarato che sarebbe stato lo stesso Theuma a dire all’ispettore Keith Arnaud che lo ha soccorso di essersi colpito da solo. Ma secondo fonti mediche sentite da The Shift News “il collo era diviso in due, la base della tiroide pendeva e la giugulare era recisa, le vie aeree perforate”. Ferite in grado di causare la perdita di coscienza e che renderebbero difficile parlare. Secondo le autorità Theuma si trovava da solo in casa, in un appartamento al terzo piano di un palazzo di otto, con porte e finestre chiuse, e questo avrebbe impedito alla scorta di rendersi conto del tentativo di suicidio. In una prima fase dopo la grazia, la protezione era garantita anche in casa; poi lo stesso Theuma avrebbe chiesto maggior privacy. Declinando ogni responsabilità negli ultimi sviluppi, Gaza ha negato che Theuma avesse mai manifestato propositi suicidi.

Ma, scrive The Shift, “durante le sue testimonianze in tribunale, l’uomo aveva detto più volte di soffrire di depressione, di vivere nella paura e, prima di essere arrestato, di aver meditato il suicidio, aggiungendo in lacrime che l’omicidio di Daphne aveva segnato la fine della vita anche per lui”.

Da notare che il processo è in una fase delicata: la difesa di Fenech sostiene che la polizia sia implicata nell’insabbiamento di alcune prove, fra cui una registrazione in cui Theuma prometterebbe di pagare l’ex capo della polizia, Lawrence Cutajar, in cambio della grazia.

Il segreto del dittatore. Stroessner: eredità contesa

Un dittatore sanguinario in esilio da riesumare, la sua eredità miliardaria, una love story durata vent’anni e due presidenti poco democratici e molto amici. Sarebbe la trama di un riuscitissimo romanzo sudamericano, se non fosse la pura cronaca dei fatti. Il dittatore, morto nel 2006, che per trent’anni (dal 1954 al 1989) ha torturato e ucciso oltre 20 mila persone, è il paraguaiano Alfredo Stroessner. Il suo corpo, sepolto a Brasilia dove era in esilio dorato dopo il golpe, ora sta per essere riesumato grazie all’assenso del Tribunale supremo brasiliano. A chiederlo è stato uno dei suoi presunti figli illegittimi, Enrique Alfredo Fleitas, nato dalla relazione con la sua amante Michele, il quale ora vuole la prova del Dna, non foss’altro che per riscuotere i 20 milioni di eredità che gli spetterebbero.

Strana mossa quella del Tribunale brasiliano di accettare che Stroessener venga riesumato, data l’amicizia che intercorre tra il presidente Jair Bolsonaro e il suo omologo paraguaiano, Mario Abdo Benítez. Quest’ultimo infatti – eletto nel 2018 a capo di una delle due formazioni in cui si è diviso il Partido Colorado, lo stesso che appoggiava di Stroessner – è ritenuto un figlio della dittatura, essendo suo padre un importante funzionario del regime. Lo stesso regime di cui Bolsonaro ha tessuto le lodi pubbliche nel primo incontro con Benítez. “Un grande statista, un uomo illuminato” l’ha definito l’ex capitano durante un evento al confine tra i due Paesi. Tanto illuminato che, secondo la Commissione per la verità e la giustizia, ha fatto sparire più di 336 persone, ne ha arrestate 19.862, torturate 20 mila e 3.479 sono state esiliate in 35 anni di dittatura.

A nulla finora hanno portato le denunce di decine di vittime della repressione, che chiedono tra l’altro che il denaro, più di 3 miliardi di euro della sua eredità, quella nota, vengano restituiti al popolo paraguaiano a cui Stroessner li ha sottratti. Una giustizia che insegue da anni anche Martín Almada, premio Nobel alternativo paraguaiano ed ex maestro, arrestato e torturato dal regime tra il 1974 e il 1977 per “insegnamento sovversivo”, sopravvissuto, a differenza di sua moglie, fermata con lui, a cui a “forza di far sentire le mie urla hanno fatto saltare il cuore”. Almada subito dopo il colpo di Stato che mise in fuga Stroessner, nel 1989, ha denunciato il regime e “i suoi complici”, ma la sua denuncia è stata archiviata da un giudice “nostalgico della dittatura”, come ha raccontato lui stesso in un’intervista al quotidiano online spagnolo, El Diario.es. Il punto, anche a detta degli stessi critici dell’attuale presidente di destra, Benitez, è che dopo “il finto golpe dell’89, al loro posto restarono tutti, anche i torturatori del regime”.

Nessuno dei quali è mai stato processato nonostante “l’Archivio del Terrore”, ritrovato dallo stesso maestro paraguaiano nel 1992: una lunga e dettagliata documentazione della repressione della dittatura stronista, con tanto di indicazioni sul coordinamento con gli altri regimi militari del Cono Sud e degli Stati Uniti, sistematizzati nel famoso “Piano Condor”. Tra i maggiori complici compare proprio il Brasile, terra d’esilio e di morte del dittatore, nonché di affari: una vera e propria rotta del denaro dello stronismo che da Asuncion arrivava a Brasilia. Secondo un’inchiesta del 2016, infatti, a portare i soldi dell’eredità del dittatore in Brasile attraverso società prestanome per il riciclaggio di denaro, era uno dei nipoti di Stroessner, Emmanuel Emilio Mansur Stroessner, con suo padre, Marco Antonio Mansur, genero del dittatore e del fratello, Marco Antonio Mansur jr. Diventati dal nulla grandi imprenditori con affari tra il Brasile e gli Stati Uniti, di Emmanuel Emilio si sa che dopo l’arresto di suo padre e suo fratello nel 2006 nell’“Operazione Diluvio” in Brasile, è tornato in Paraguay per farsi inserire nella lista degli eredi di suo nonno, così da poter muovere il denaro paraguaiano per i suoi affari brasiliani. Lo stesso denaro che reclamano le vittime. A livello statale, poi Benitez ormai è ritenuto a tutti gli effetti sottomesso a Bolsonaro. A dimostrarlo, i cosiddetti “accordi di Itaipú”, sulla falsa riga di quelli firmati dai dittatori dei due Paesi negli Anni 70 e che regolano anche la diga al confine. Secondo il Partito Comunista paraguaiano, “Benítez ha firmato non solo la rinuncia alla parte di energia in eccesso che gli spetterebbe a basso costo, ma anche di concedere al Brasile il 50% di quella paraguaiana, con il rischio di non essere in grado di soddisfare il fabbisogno nazionale”. Alla faccia dell’amicizia.

Non ci sono Zone franche: ora tocca agli ufficiali

C’è una foto agli atti dell’inchiesta che ha portato all’arresto di sei carabinieri della caserma di Piacenza che racchiude il senso di quello che è stato definito un “atto di giustizia”. È quella di uno spacciatore nigeriano, riverso a terra, tra le chiazze del suo stesso sangue, scalzo, ammanettato e con il volto graffiato. “Quando ho visto quel sangue per terra, ho detto: ‘Mo lo abbiamo ucciso’”, dice uno degli indagati. In queste parole e in quella immagine si racchiude il fallimento dello Stato. Quello che dovrebbe garantire ai cittadini il diritto di sentirsi protetto anche se arrestato e in una caserma. Secondo le indagini dei pm, a Piacenza l’obiettivo di alcuni degli indagati era quello di inseguire la “pratica degli arresti arbitrari di piccoli spacciatori, allo scopo di appropriarsi dello stupefacente e di eliminarne la concorrenza”. Il tutto con violenza e senza alcun ostacolo da parte dei superiori “interessati esclusivamente al numero di arresti per potervi costruire prospettive di carriera”, scrive il gip. I superiori non controllavano e neanche chi aveva gradi ancora più alti, salendo lungo la scala gerarchica dell’Arma. La stazione di Piacenza Levante, secondo le accuse, era un luogo che faceva Stato a sé. Come quella dove è stato picchiato Stefano Cucchi, quella delle violenze di Aulla (Massa) o quella dove l’americano Elder Finnegan Lee, accusato dell’omicidio del vicebrigadiere Cerciello, viene bendato. Sarà un processo a stabilire se le accuse sono fondate. Ma la frase di uno degli indagati “che cazzo ridi” e ancora “ci stiamo divertendo?”, davanti a un uomo del quale vengono registrati i conati di vomito, non si cancella. L’Arma non deve annunciare, ma rafforzare i propri controlli interni. Bisogna intervenire prima che arrivino i magistrati e le cronache. Negare i diritti costituzionali è un fallimento, vale anche per chi commette reati perché le pene le decidono i giudici. E di fronte all’ennesimo caso di violenza e prevaricazione, questa inefficienza dello Stato non può essere più tollerata.

Zangrillo, Covid finito?

Ci abbeveriamo alla fonte del Prof. Zangrillo, nostra sola speranza. “Inizio ad avere le palle piene, bisogna dire la verità agli italiani!”, è sbottato a In Onda. La verità – che evidentemente il primario del San Raffaele tiene nascosta al suo più illustre assistito, appena rientrato da una quarantena di 6 mesi in Costa Azzurra e ora sempre in quarantena nella sua villa in Sardegna, avvicinabile solo previo tampone – è che “il virus clinicamente non esiste più”. Allora “uscite, riprendete a vivere, andate al ristorante, andate in banca. In un locale chiuso mettete la mascherina, ma continuate a vivere”. Mentre l’Oms registra 230 mila contagi e 5670 morti al giorno, e persino Trump raccomanda le mascherine, Zangrillo ha prescia. Siccome siamo insipienti di virologia ma appassionati di logica aristotelica, dobbiamo pensare che esiste un complotto mondiale per protrarre un’emergenza inutile, a cui si è piegato pure Speranza (“aveva delle zavorre che gli impedivano di dire ciò che era evidente”). Al di là del merito, una domanda sgorga dal cuore: ma a Zangrillo cosa importa se la gente riprende a vivere? Che fa, lo psicologo? Che gli cambia se la gente va al ristorante? Lavora per la pro-loco? Fa il fornitore di mozzarelle? Il Corriere

lo dà come probabile candidato di FI a sindaco di Milano, il che spiegherebbe perché si prende tutta questa briga di dare alla cittadinanza consigli cognitivo-comportamentali e linee etiche che esulano dall’anestesia e rianimazione, materie in cui è specializzato (ma soprattutto spiega la gigantografia sul sito del San Raffaele: braccia conserte da life-coach, sorriso beffardo). Ma poi: perché questa “verità”, con tutta la ricerca che ci sarà dietro, Zangrillo la va a dire in tv, riscuotendo al più qualche like dei negazionisti e gli autorevoli consensi di Renzi e Giletti, e non la pubblica su Lancet?

Mail box

 

Che bello essere senza padroni (ladroni)

Il vostro (nostro) giornale mi diverte, mi accultura e mi fa capire. Che bello essere senza padroni ladroni! Grazie di esistere.

Tito Petrelli

 

Caro direttore, temo che le serva una scorta

Caro Travaglio, desidero dirle due cose: 1) siccome Renzi invia molte querele al Fatto e a lei personalmente, le propongo di denunciare a sua volta Renzi per lite temeraria (a proposito che fine ha fatto il disegno di legge sulle liti temerarie?); 2) lei Travaglio è un giornalista molto in gamba, non le manda a dire a nessuno. Continui così, ma siccome in giro ci sono tante teste pazze le consiglio di tutelarsi un po’, magari con qualche scorta o guardia del corpo.

Franco Rinaldin


Caro Franco, la ringrazio per il pensiero, ma per carità! Contro quelli come l’Innominabile, non c’è bisogno di uomini armati. Basta una risata.

M. Trav.

 

Benetton: non punizioni ma procedimenti penali

Caro Direttore, la vicenda dei Benetton è emblematica delle italiche beghe, però a essere sinceri, anche se l’insipienza e tracotanza dei ricchissimi concessionari andava certamente sanzionata, non mi pare che i Benetton ci rimettano tanto. È vero che di “buonuscita” si beccano solo 3 miliardi invece di 23, ma non dovranno sborsare soldi per la gronda di Genova e per le urgenti manutenzioni della rete stradale, che invece vanno in carico a Cassa Depositi e Prestiti, cioè a tutti noi cittadini. E una famiglia che ha fatto i miliardi sui pedaggi e ha causato 43 morti e 2 anni di ingorghi a Genova non mi pare che abbia pagato un così gran prezzo. E comunque conserva una quota del 11 per cento. Vorrei essere punito così io, quando commetto un grave reato. Too big to fail? Come al solito.

Enrico Costantini

Caro Enrico, per i reati verranno giudicati dal Tribunale di Genova (e da altri). Qui non c’erano punizioni in ballo: c’era da riportare un bene pubblico nelle mani dello Stato. Ed è stato fatto, credo, nelle migliori condizioni possibili.
M. Trav.

 

Nessuno difende i diritti di camerieri e stagionali

Cosa accade oggi negli alberghi e nei ristoranti italiani? Qualcuno ha deciso che in quei luoghi i diritti dei lavoratori siano aboliti? Parliamo tanto del terribile fenomeno del caporalato nel Sud, ma forse sarebbe bene che guardassimo cosa accade nel Nord. Mio figlio e i suoi amici dicono che la legge lo consente e questo mi lascia senza parole. Non ci sono più orari, non ci sono più mansioni predefinite, non ci sono più festività, non si pagano gli straordinari, le ore di lavoro notturne o festive… Potrei aggiungere anche l’arroganza con cui vengono applicate queste regole della nuova civiltà voluta dai banchieri, ma credo che basti, per inorridire, quello che prescrivono le leggi vigenti. E a questi imprenditori vogliamo anche regalare dei soldi? Che belli i tempi in cui c’erano i sindacalisti a difendere i diritti dei lavoratori!

Angelo Casamassima Annovi

 

“Il Fatto” mi ripara anche dalla pioggia

Sono partito giovedì per un giro in moto in Svizzera e Austria portando il mio giornale, Il Fatto: mi ha coperto il torace, visto la temperatura e la pioggia che ho trovato, e l’ho anche fatto durare per due sere. Ora, rientrato sano e salvo, leggerò le ultime tre pagine. Mi piace leggervi: domani avrò le due copie che mia moglie Luigina ha acquistato in edicola.

Umberto (Tino) Valtorta

 

Meno contanti in giro contro l’evasione fiscale

Dopo aver letto l’intervento del signor Zirilli, e le sue proposte per contrastare la lotta allo spaccio della droga, mi è sovvenuta una frase del Generale De Gaulle: Très vaste programme, mon ami. Se invece si pensasse a un drastico ritiro di contanti dai bancomat, diciamo 1.000 euro al mese per persona, non si combatterebbero in un colpo solo lo spaccio, la prostituzione, la corruzione e l’evasione fiscale che si cela dietro innumerevoli transazioni, anche di basso valore?

Pasquale De Girolamo

 

Ambiente: il silenzio dei politici è pericoloso

Ho letto sul Fatto l’appello per difendere il Territorio e il Patrimonio lanciato da vari esponenti. Da semplice cittadino sottoscrivo: sono in montagna tra le frane in Alto Adige, ma la situazione non è molto diversa nel paese da cui provengo in Emilia Romagna. È giunto il momento che anche noi cittadini elettori prendiamo coscienza di tutto ciò, visto che anche quelle forze politiche che parlano di tutela dell’ambiente – nei fatti, quando deliberano leggi poco e male – non rispettano quello che hanno detto o scritto in campagna elettorale, ad esempio. E addirittura, il silenzio/assenso è il più rischioso per una vera tutela ambientale.

Aldo Gardi

 

I NOSTRI ERRORI

Ieri nel richiamo in prima pagina sul caso “Lombardia Film Commission” abbiamo scritto “Gdf in Regione: ‘1 mld regalato’”, quando in realtà si tratta di “un milione”, come correttamente riportato nel pezzo di Gianni Barbacetto e Valeria Pacelli e nel titolo interno. Ce ne scusiamo con i lettori.

Fq

Aldo Montagna. Il prof. di Bologna, eroe suo malgrado contro le mafie

Un sentito ringraziamento a Nando dalla Chiesa per aver ricordato Aldo Montagna. Ho avuto la fortuna di essere una sua studentessa negli anni 90 nonché di aver viaggiato con lui in diverse occasioni, il che ha rappresentato per me un privilegio notevole. Uomo di raffinata intelligenza, la cui cultura era disarmante, intollerante verso la furbizia finalizzata alla disonestà, pronto a rischiare la vita per una giusta causa. Aveva viaggiato in paesi del Sudamerica talmente poveri da fargli provare vergogna per il suo disgusto. Riuscito a superare quelle barriere, aveva insegnato anche là, in quei posti dimenticati da tutti, riuscendo a dimostrare che non sempre povertà è sinonimo di bassa qualità. Aveva viaggiato in Abissinia, rimanendo sorpreso da quella naturale disponibilità e attitudine alla gentilezza da parte dei bambini, arrivando alla conclusione che il colonialismo aveva avuto il grande difetto di essere ridicolo. Mi sono chiesta anch’io perché non abbia mai scritto tutto ciò che ha fatto: credo che non rientrasse tra le sue vanità, appunto, “voler passare alla storia”. Concludo con una sua frase storica: “D’altra parte, le passioni rappresentano il massimo che ci è consentito”.

Marianna Nadalini

 

Questa lettera è un refolo di gelsomino. Racconta la bellezza dell’insegnare, della possibilità di lasciare tracce indelebili con le proprie parole, con il proprio esempio, rivolgendosi a tutti e a nessuno. Racconta la poesia di quel professore combattivo e scanzonato, il sessantotto e l’antimafia e chissà quante altre cose che non ho visto negli anni in cui non ci siamo frequentati. E la sua tenerezza, che sarebbe piaciuta al Che, di fronte a ogni essere indifeso. La curiosità, la cultura, lo schierarsi istintivamente con i deboli, ma anche – lui calabrese – la diffidenza suprema per le loro furbizie. Con il viaggio, andare ovunque, come dimensione della vita, fino a desiderare di essere sparso nel mare di Itaca. Ci divideva la sua antipatia per i troppi progetti, eppure ci univa la massima beffarda di Lennon, “la vita è quel che ti accade mentre la stai programmando”. Grazie a Marianna, che non conosco. Scrivendo l’articolo di lunedì su Aldo Montagna sentivo di fare una piccola opera di giustizia. Perché uno magari non vuole passare alla storia. Ma poi su questo decidono gli altri.

Nando dalla Chiesa

Tagliamento, il fiume “autentico” da salvare insieme all’Unesco

Èil re dei fiumi d’Europa. L’ultimo grande corso d’acqua del continente che ancora scorre liberamente, morfologicamente intatto, non imbrigliato dall’uomo. È il Tagliamento, fiume-simbolo per il Friuli, corridoio fluviale che dalle Alpi arriva all’Adriatico, studiato per le sue peculiarità da esperti che arrivano da tutto il mondo. Per proteggerlo dai continui assalti degli uomini che lo vogliono imbrigliare e sfruttare e addomesticare e uccidere la sua unicità, un gruppo di cittadini friulani propone di farlo diventare patrimonio dell’Unesco. Una richiesta che la comunità scientifica internazionale ha avanzato già a partire dal 1995. Ora la rilancia lo scrittore Tullio Avoledo e il gruppo politico regionale da lui promosso, il Patto per l’Autonomia, con una raccolta di firme in corso su Change.org. Il patrimonio Unesco rappresenta “l’eredità del passato di cui noi oggi beneficiamo e che trasmettiamo alle generazioni future”. L’unicità del fiume Tagliamento è un valore da tutelare, difendere, promuovere e da consegnare intatto a chi verrà dopo di noi. “Prendetevi un’ora di tempo”, scrive Avoledo, “e andate a camminare lungo il Tagliamento, in un punto qualsiasi del suo corso. Aria, acqua e luce v’incanteranno, vi parleranno sottovoce all’orecchio di felicità, di libertà. Il vostro cuore batterà più forte, la vostra fantasia volerà, come quando eravate bambini. Il Tagliamento è una fonte vitale, è il fiume a cui la nostra terra deve la vita, è un’eternità che possiamo toccare con mano. Immergete le vostre dita in quell’acqua limpida e quel contatto libererà qualcosa di grande dentro di voi”. È lo stesso fiume, continua lo scrittore, “sul quale passarono le tribù preistoriche, e i Romani, e i Longobardi. È rimasto lo stesso, nel tumulto della storia”.

Nei giorni scorsi, ventuno consiglieri regionali del Friuli-Venezia Giulia hanno detto no alla proposta del Patto per l’Autonomia di far dichiarare il Tagliamento patrimonio dell’Unesco. Uno di questi ha motivato il suo no dicendo che, se passasse sotto la tutela dell’Unesco, non sarebbe più possibile organizzarvi rally automobilistici. “Questi personaggi vivono nel passato”, commenta Avoledo, “credono in un modello di sviluppo obsoleto, che semplicemente non ha futuro. In nome di un profitto immediato c’è chi vorrebbe seppellire la nostra terra sotto ancora altro asfalto e cemento, come se non bastasse il troppo già versato dagli anni Sessanta in poi. Aprite gli occhi: l’economia del consumo e del superfluo è morta, l’umanità chiede una nuova sensibilità verso l’ambiente e la qualità della vita. La pandemia ci ha insegnato che la china presa dal liberismo sfrenato è una corsa verso il baratro”.

Continua lo scrittore: “Non so se i nostri figli, o i figli dei nostri figli, chiederanno un Processo di Norimberga per chi sta uccidendo il pianeta. So che guardando ai nostri tempi ci giudicheranno severamente, se non con disprezzo. Ci giudicheranno pazzi per non aver saputo fermarci in tempo e cambiare direzione. Quel voto contrario non è un voto qualunque. Quel voto potrebbe essere la condanna a morte dell’ultimo fiume libero d’Europa”. Qualche tempo fa, alcuni ragazzi espressione della buona borghesia friulana sono finiti sulle cronache nazionali perché indossavano magliette su cui era scritto “Centro stupri”. “Eppure anche loro sono stati bambini”, commenta Avoledo. “Vorrei sapere se qualcuno di loro è mai stato portato a immergere la mano nell’acqua del Tagliamento. Il fatto è che certe persone hanno paura della grandezza, paura di sognare. Conoscono il prezzo di ogni cosa, e il valore di nessuna. Il progetto di fare del Tagliamento un patrimonio Unesco è un sogno grande, degno di un popolo fiero come il nostro. Salvare il Tagliamento vuol dire salvare anche la nostra vita e il nostro futuro”.