Conte e i “finti” trionfalismi: non c’è mai fine per i disfattisti

Ci sono due modi, entrambi enormemente sbagliati, di interpretare l’esito della riunione del Consiglio dei capi di governo degli Stati-membri dell’Unione europea tenutasi dal 17 al 20 luglio. Il primo è quello di chiedersi “chi ha vinto?” e “chi ha perso?” Il secondo è quello di preoccuparsi dei “trionfalismi” dei “vincitori” italiani invece di occuparsi di quello che, da adesso subito, l’Italia e gli italiani, non soltanto il governo Conte debbono fare per utilizzare al meglio 209 miliardi di Euro (che non c’entrano nulla, come sostiene Salvini, con il MES). In una Unione politica che si muove in direzione federale è sempre difficile, ma spesso assolutamente fuori luogo, separare vincitori e vinti, ma, fra i vincitori desidero mettere, senza fare una graduatoria: Ursula von der Leyen e l’intera Commissione da lei presieduta; Charles Michel e Angela Merkel perché se lo meritano. È proprio vero che, per lo più, si vince tutti insieme e il conto delle eventuali sconfitte ricade su di tutti, qualche volta maggiormente sui più deboli. Nel caso dell’Unione europea, facendo un paio di semplicissimi elementari conti dovremmo affermare che l’Italia, avendo ottenuto più Euro di tutti, ha sicuramente vinto. Però, i sedicenti “frugali” non hanno perso visto che riceveranno rimborsi non marginali, anche se, nel complesso, ammontano all’incirca un decimo dei fondi assegnati all’Italia. L’Unione ha vinto poiché ha dimostrato di sapere decidere e di riuscire a farlo con un metodo democratico, aspetti ai quali gli eurocritici avevano indirizzato tutte le loro fosche previsioni. L’Unione ha vinto poiché è stata respinta la pretesa olandese di godere di un potere di veto. L’Unione ha vinto perché ha creato un significativo precedente di condivisione e solidarietà rispetto al quale è assai improbabile si possa tornare indietro. Anzi, ai commentatori di varia provenienza e scarsa competenza, si potrebbe ricordare che, anche quando nel passato le decisioni non furono ugualmente nette e quantificabili, il metodo operativo dell’Unione consentiva comunque passi avanti più o meno piccoli. L’Unione non è mai stata ferma. Credo che sia profondamente ingiusto e sostanzialmente inutile confondere la legittima soddisfazione del Presidente del Consiglio Conte (del ministro dell’Economia Roberto Gualtieri e della coalizione di governo meno sfrangiata del solito) con un non meglio specificato trionfalismo. Sono gli stessi commentatori che per settimane avevano scritto che l’Italia non avrebbe ottenuto quello che voleva, i quali, invece di giustificarsi per i loro errori, non da menagramo, ma da incompetenti, spostano il tiro sui problemi da affrontare ora subito. Alcuni, poi, hanno immediatamente ricominciato il gioco davvero fastidioso, talvolta irritante, della sostituzione più o meno imminente del presidente del Consiglio. Non sarà facilissimo predisporre programmi seri di investimenti cospicui nei settori che la Commissione privilegia, soprattutto economia verde e digitale. Pertanto, sarebbe opportuna una apertura di credito a Conte e ai suoi ministri al tempo stesso che si formulano suggerimenti, non vaghi, ma operativi: settori, interventi, tempi, costi. Comunque, l’eventuale non provato trionfalismo dei governanti italiani non può venire contrastato dal disfattismo dei commentatori (e di alcune delle opposizioni). Forse è anche lo stato del dibattito pubblico italiano che sconcerta tanto i governanti quanto gli osservatori degli altri Stati membri dell’Ue. Probabilmente, Conte ha ottenuto più di quel che desiderava anche perché, con qualche sorpresa da parte di alcuni altri capi di governo, è rimasto fermo sulle sue posizioni, con intransigenza, dimostrando di essere credibile e quindi affidabile. Il futuro prossimo dirà il resto.

 

Ex Ilva e Ponte di Genova: una lezione per il domani

Se è vero che l’origine del coronavirus va ricercata nel degrado ambientale, come sostengono diversi studi scientifici internazionali, allora bisogna riflettere a maggior ragione sulla dura “lezione” che la pandemia impartisce al nostro modello di sviluppo economico-sociale. E anche se questa ipotesi non fosse reale, di fronte all’emergenza climatica occorre comunque sottoporre a check-up i nostri processi produttivi e verificare la loro compatibilità con la tutela della sicurezza e della salute pubblica. È – appunto – quella che la cultura ecologista chiama “sostenibilità”, in rapporto all’uso o all’abuso delle risorse naturali e più in generale alla difesa dell’ambiente e alla qualità della vita.

Prendiamo, allora, gli esempi emblematici del Ponte di Genova e dell’ex Ilva di Taranto: la gestione della nostra rete autostradale e quella della più grande acciaieria d’Europa. In entrambi i casi, si tratta di due cespiti che appartenevano in origine allo Stato, realizzati con i soldi dei cittadini e gestiti da società pubbliche. Poi, sono stati privatizzati e i risultati sono sotto gli occhi di tutti: si sono trasformati di fatto in monopoli privati e si sono rivelati cattivi affari per la comunità.

Le autostrade versano in condizioni precarie; la loro manutenzione è palesemente insufficiente, tanto da aver provocato il crollo del Ponte Morandi e la morte di 43 persone; le tariffe dei pedaggi sono le più alte d’Europa. Ma nel frattempo i Benetton, a cui fanno capo la holding Atlantia e la società Aspi (Autostrade per l’Italia), “hanno beneficiato di condizioni irragionevolmente favorevoli”, come ha dichiarato il premier Giuseppe Conte, prima di ridurre la loro quota di partecipazione e far entrare lo Stato nella società per acquisirne la maggioranza attraverso Cassa Depositi e Prestiti.

Analoga, come si sa, la storia dell’ex Italsider. “Taranto è una città perfetta”, scriveva nel luglio del 1959 Pierpaolo Pasolini, in un reportage estivo sulle coste italiane: “Viverci è come vivere all’interno di una conchiglia, di un’ostrica aperta. Taranto nuova, là, gremita; Taranto vecchia, intorno i due mari, e i lungomari”. Esattamente un anno dopo, il 9 luglio 1960, fu posata la prima pietra dello stabilimento siderurgico che ha stravolto la faccia e la vita della città, inquinando l’aria e avvelenando i cittadini.

Non a caso l’Italsider fu ribattezzata una “Cattedrale nel deserto”. Era l’epoca dell’industrializzazione selvaggia. Bisognava trasformare l’Italia contadina in un Paese moderno e perciò furono strappate tante braccia alla campagna, per reclutare operai da adibire agli altiforni senza una formazione tecnica adeguata. Da qui, cominciò il triste fenomeno delle cosiddette “morti bianche”, le morti sul lavoro che in realtà erano e sono più nere di tutte le altre. Ora, nell’era post-Covid che per tanti versi assomiglia a una fase post-bellica, si può pensare di andare avanti così? Di lasciare le autostrade, i ponti e i viadotti alla gestione di un’ingegnosa famiglia veneta che è diventata ricca producendo jeans e maglioni? O a una sua società che naturalmente deve fare profitti, alzando i pedaggi e magari risparmiando le spese di manutenzione?

E si può pensare di produrre acciaio pulito, “green”, verde, senza una riconversione dal carbone all’idrogeno per azzerare le emissioni di polveri nocive, installando i forni elettrici al posto della cosiddetta “area calda”? Può mai essere una famiglia di industriali come i Riva, o una grande multinazionale indiana, a realizzare una tale ristrutturazione ecologica? Che cosa gliene importa, a lor signori, della salute dei cittadini?

Ecco, il Ponte di Genova e l’ex Ilva di Taranto. Le Autostrade e l’acciaieria. Due paradigmi di una transizione necessaria e possibile dal vecchio Stato-padrone a un nuovo Stato-imprenditore. Non più solo proprietario, dissipatore e sfruttatore; ma capace anche di intraprendere e di gestire, secondo criteri di trasparenza e di efficienza, al di fuori delle vecchie logiche assistenziali e clientelari. E magari in partecipazione con soggetti privati in grado di investire, di dirigere e di guadagnare.

La storia dell’economia insegna che non esiste un privato buono e un pubblico cattivo o viceversa. Nel campo delle grandi infrastrutture, delle reti strategiche e dei servizi essenziali, come la rete unica in fibra ottica per Internet ultraveloce, lo Stato deve esercitare la sua leadership orientando e promuovendo progetti, investimenti, iniziative, secondo le esigenze dei cittadini e gli interessi del Paese all’insegna della sostenibilità. Poi, la gestione delle singole società va affidata a manager capaci, pubblici o privati che siano, selezionati in base a criteri di competenza ed esperienza e non più di appartenenza o fedeltà politica.

 

Dopo il lockdown, il condominio di mia zia ha bisogno di regole

Alcuni condomini di zia, durante il lockdown, si sono messi a fare come cazzo gli pareva, creando problemi che, dopo 5 mesi, hanno reso necessaria una riunione di condominio che si è protratta per tutta la nottata. I Pirzio-Biroli, al secondo piano, stendono le lenzuola fin sotto il balcone, oscurando la visuale delle gemelle Mastrocinque, due fragili zitelle con chignon di cui si vocifera un passato burrascoso nei Nar; per giunta, i Pirzio-Biroli buttano dalla finestra cartacce e spazzatura nel giardino delle gemelle, come fosse una discarica; e il figlio (6 anni) prende a fiondate i loro polli. I Tracchia, al settimo, urlano a tutte le ore, sbattendo sedie, mobili, qualsiasi cosa; lei grida come Janet Leigh in Psycho, lui come Sylvester Stallone alla fine di Rocky I, una cosa non più sostenibile. I Facta, del terzo, dopo aver demolito una colonna portante di cemento nel loro box auto (molte mattonelle nel salotto delle gemelle Mastrocinque si sono crepate), hanno allargato il garage prendendosi un metro di atrio condominiale. Poiché l’amministratrice ha rinunciato all’incarico, pur di non avere a che fare con certa gente, mia zia ha preso in mano la situazione, riunendo tutti i condomini, delinquenti esclusi.

Ore 21. Zia introduce i lavori: “A una crisi straordinaria serve una risposta con strumenti straordinari.” I Geloso propongono un esposto alla Polizia comunale, i Nasi alla Procura della Repubblica. La vicina di zia passa un dito severo su un mobile. Ore 22. I Cerulli sconsigliano l’esposto: i Facta hanno un cugino alle Poste che può intercettare qualunque missiva. I Lessona: “Allora vanno querelati, occorre dare mandato a un legale”. Tutti d’accordo? Ore 23. No, la vicina di zia è contraria a spendere soldi per problemi che non sono suoi: “Chi vuole, faccia ricorso come singolo per far nominare un amministratore dal Tribunale”. Ore 24. Secondo gli Schiaffino, si potrebbe pagare l’avvocato con gli acconti delle rate condominiali, ancora da versare causa fuga dell’amministratrice. Ore 2. Le gemelle Mastrocinque dissentono: “Anche se intraprendiamo un’azione legale, e il giudice ci dà ragione, poi la pronuncia deve essere eseguita coattivamente, una cosa irrealizzabile. L’alternativa è mettergli paura, paura vera. Non è così difficile”. Ore 3. I Geloso dicono sì alla “paura deterrente”, segno che una parte dei condomini coglie la gravità della situazione. I Nasi concordano: “Paura! Paura!” Ore 4. Zia fa la proposta più ambiziosa: ipotecando gli appartamenti di tutti i presenti, sarebbe possibile accantonare 10 milioni con cui comprare una nuova palazzina altrove: “I cani abbaiano, la carovana passa”. Ecco la svolta. Zia è una macchina da guerra che, come temeva la sua vicina, “attraversa il Rubicone”. Il voto è 13 sì, un’astenuta (zia) e una contraria (la sua vicina). Ore 5. I Cerulli suggeriscono di preparare le ipoteche il più presto possibile, “per assicurare una risposta simmetrica a uno choc simmetrico”. Ore 6. Zia definisce “proficui” gli esiti del vertice. “La crisi ha dimostrato che, in un condominio, si è legati da una sorte comune, con pericoli comuni”, e la soluzione trovata “attenua l’egoismo dei più forti a danno dei più deboli”. Va da sé che, comprato il palazzo nuovo, le gemelle Mastrocinque avranno mano libera per la rappresaglia. Sapevate che versando sopra inerti cristalli di iodio un liquido innocente come l’ammoniaca si ottiene ioduro d’azoto, un esplosivo?

 

La verità sui numeri di Covid e Sarscov2

Il linguaggio è l’insieme dei codici simbolici che permettono di trasmettere, conservare, elaborare informazioni. Ruolo essenziale sono il significante (piano dell’espressione) e il significato (piano del contenuto), come ben descritto da Ferdinand de Saussure. Tali concetti dovrebbero essere ben chiari in chi fa comunicazione e diventano di estrema importanza quando ci si rivolge al pubblico, poiché un solo termine può avere conseguenze impensate. Sul sito dell’Iss è disponibile dal 9 luglio l’analisi di un campione di 34.026 pazienti deceduti e positivi all’infezione da SarsCov2 . Attenzione! Il significato dovrebbe essere: deceduti che risultavano positivi al test per SarsCoV2 e non, come qualcuno ha interpretato (o lasciato interpretare), deceduti a causa di Covid-19. Nello stesso documento seguono un paragrafo e un grafico “Patologie preesistenti”. Il 61.4% dei decessi sono avvenuti in soggetti con tre o più patologie croniche in atto, a fronte di un 4% di soggetti senza alcun altra patologia. Nel paragrafo “Decessi in pazienti con meno di 50 anni”, si riporta che sono nel totale 385, su 8 dei quali non si hanno informazioni cliniche, mentre 64 erano gravemente malati per precedenti patologie. A complicare la questione, l’Istat ha pubblicato un report in cui si afferma che l’analisi combinata dei dati di mortalità giornaliera con i dati della Sorveglianza integrata dell’Iss evidenzia come la mortalità “diretta” attribuibile a Covid-19 in individui con diagnosi confermata (di Covid o di SarsCoV2?), nel primo trimestre 2020, sia stata di 13.700 decessi. Spero che qualcuno faccia chiarezza. Si parla di mortalità riferendosi alla letalità (decessi percentuali nella popolazione ammalata), come indica il titolo del documento (“Caratteristiche dei pazienti deceduti positivi all’infezione da SarsCov2 in Italia”). Auspico una precisazione. Poiché si parla di 13.700 decessi con diagnosi confermata di Covid (non positivi al test, ma malati e morti per Covid!), il dato risulta incompatibile con quanto prima affermato: e cioè che solo il 4% dei decessi è dovuto esclusivamente a Covid. Sarebbe trasparente invece dire che 13.700 sono morti con positività al test e il 4% (come affermato dall’Iss) per Covid. Su questi termini ambigui, purtroppo, si continua a comunicare con conseguenze incontrollabili, dal panico al pericoloso menefreghismo della gente. Dobbiamo essere precisi. Non continuiamo a parlare di soggetti positivi al test come sinonimo di malati. Ora abbiamo ancora SarsCov2, ma Covid è praticamente scomparso (la preveggenza non fa parte della scienza). Seminare sfiducia nelle informazioni potrebbe provocare effetti drammatici.

 

Il gol facile facile del bomber Garimberti

L’Italia ha un bomber a sua insaputa. Non conoscevamo le doti realizzative di Paolo Garimberti, storica firma di Repubblica ricomparsa in tv martedì, dopo una lunga ibernazione, ospite di Stasera Italia su Rete 4. Garimberti è molto innervosito dall’entusiasmo dell’opinione pubblica per i risultati di Conte a Bruxelles. Sembra non capacitarsene. “Oggi ho sentito troppe fanfare per dire che è un grande giorno per l’Europa. Un paese come l’Italia continuerà a essere sotto attenta osservazione”, dice Garimberti. Poi aggiunge, con palpabile acidità di stomaco: “E cosa ha fatto l’Italia fino a oggi? Ho visto Conte che esultava come se avesse segnato un gol. Non ha segnato un gol, ha ottenuto un risultato”. Ma mica un risultato positivo, un risultato qualunque: “Un risultato che avrebbe ottenuto chiunque. Quel gol lì l’avrei fatto anch’io francamente”. In pratica – ci dice Garimberti –, il secondo vertice più lungo della storia europea è un bicchiere d’acqua. Un tocco a porta vuota. “L’avrei fatto anch’io”, insiste. E noi che lo teniamo in panchina.

Irrompe Casellati: “Basta con le foto!”

Senato, interno giorno. Giuseppe Conte riferisce in Aula sui risultati della trattativa di Bruxelles. Ma il premier non può essere l’unico protagonista di giornata: all’improvviso, irrompe Casellati. La presidente di Palazzo Madama, regina di regolamenti e soprattutto di stile, siede sul suo scranno con una sgargiante mascherina rossa calata sul naso. D’un tratto s’inalbera, come sovente le accade: “Non si possono fare foto in aula! – strilla verso l’emiciclo – Devo ripeterlo a ogni seduta. Senatrici Botto e Leone (due parlamentari grilline, ndr), prego di non usare la macchina fotografica, d’accordo? Non si può fare! Ormai dovremmo averlo imparato tutti!”.

Il discorso di Conte è interrotto, il premier osserva la scena leggermente interdetto. Casellati forse se ne rende conto: “Prego presidente, mi scusi. Mi scusi per l’interruzione, ma non è possibile che ogni volta devo ricordare le regole!”.

La padrona di casa di Palazzo Madama è fatta così. Elegante, mai sopra le righe. Con una speciale avversione per le fotografie scattate in aula, che violano il regolamento di cui è zelante custode. Costi quel che costi.

Meloni e l’idea di una destra più costruttiva

L’autunno scorso, ad Atreju festa di Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni organizzò un dibattito sul mio libro Il gesto di Almirante e Berlinguer centrato sul tema dell’interesse nazionale che negli anni 80 convinse i due leader storici, pur da posizioni conflittuali di destra e di sinistra, a collaborare nella lotta contro il terrorismo. Sul palco, assieme a Ignazio La Russa c’erano anche Walter Veltroni e Bianca Berlinguer, a dimostrazione di una visione politica rigorosa nei principi, ma aperta al dibattito che ogni giorno di più sondaggi alla mano, indicano la Meloni come la leader non solo della destra italiana, ma anche dell’opposizione, in un futuro meno lontano di quanto si pensi.

Nei giorni del negoziato a Bruxelles ha fatto molto discutere la sua frase: “Se Conte difenderà l’interesse italiano ci troverà al suo fianco”, completata ieri da un giudizio che è sembrato più sospeso che negativo (“abbiamo tifato per l’Italia, ma si poteva fare di più“) sui risultati ottenuti dal premier in Europa. Parole che nel confronto con le consuete esternazioni da bar di Salvini (“Una fregatura grossa come una casa”) hanno suscitato il solito stucchevole vespaio sulle divisioni nel destracentro. Differenze che se pure esistono (vedi le dolci espressioni di Berlusconi sui 209 miliardi ottenuti) non impediscono alla coalizione di mietere successi nelle elezioni regionali. Con concrete possibilità di piantare altre bandierine vittoriose nel prossimo turno di settembre. Se dunque l’opposizione a questo governo di FdI, in Parlamento e nelle piazze, prevedibilmente non arretrerà di un centimetro, non è detto che non si possa sviluppare in parallelo un dibattito sul tema dell’“interesse italiano”. Di come in una fase così difficile per il Paese tutto, destinata a protrarsi nel tempo, culture politiche diverse e opposte possano dare il loro sostegno alla coesione nazionale e quindi alle istituzioni democratiche. Come 40 anni fa seppero fare Almirante e Berlinguer. Cosa ne pensa Giorgia Meloni?

Lo Stato vende, ma l’affare è dei privati. I Benetton fanno il colpo immobiliare

A quasi 16 anni di distanza, la maxi cartolarizzazione di fine 2004 di immobili pubblici per 3 miliardi realizzata dal governo Berlusconi si rivela per ciò che è: un grande affare. Non per lo Stato, però: per molti grandi investitori privati che hanno comprato edifici di pregio dal Fondo immobili pubblici (Fip) a sconto e li hanno rivenduti e riaffittati a valori di mercato, grazie a preziose consulenze di ex dirigenti del Fip stesso.

Gli ultimi due esempi si concentrano nel cuore di Roma, in piazza Augusto Imperatore. L’edificio da 22mila metri quadrati tra la piazza, via della Frezza, via di Ripetta, via del Corea e via Soderini non è stato l’unico acquisto recente di Edizione Property. L’immobiliare della famiglia Benetton l’11 dicembre 2018 ha comprato per 150 milioni il palazzo dal Fip gestito da Investire Sgr, la società controllata da Banca Finnat della quale Regia Srl dei Benetton è socia con l’11,6%. Il 5 marzo scorso sempre i Benetton hanno finalizzato l’acquisto di 15mila metri quadrati nell’altro palazzo tra piazza Augusto Imperatore, via dei Pontefici, via del Corso e largo dei Lombardi. Atlantica Properties, società della famiglia Rovati, eredi della società farmaceutica RottaPharm, lo aveva comprato dal Fip il 28 settembre 2016 per 94,5 milioni più tasse e oneri per altri 2,9: dopo un anno di trattativa, lo ha venduto ai Benetton per 122.

Chi ha fatto l’affare? Di certo non l’Inps, che aveva ceduto gli immobili al Fip per un valore che il Fondo non vuol rendere noto. Per il primo edificio il valore di mercato a fine 2018 era di 180 milioni circa, per il secondo il prezzo è in linea con le quotazioni di fine 2019. Edizione Property ha affittato il primo palazzo alla catena di hotel Bulgari per 150 milioni in 10 anni e per il secondo risponde che “non commenta i valori economici. Il progetto non è ancora stato definito ma rispetterà tutte le norme e i vincoli”. Con la riqualificazione della piazza e del mausoleo pagata con 8 milioni da Fondazione Tim, tutta l’area sarà comunque valorizzata.

Il secondo edificio fu messo in vendita a maggio 2016 con una gara. Su 150 investitori istituzionali contattati, arrivarono quattro offerte tra 70 milioni e 95 milioni: la maggiore era di Atlantica Properties per 94,5 milioni corrispondente, secondo il Fip, a “un rendimento netto di circa l’1,6%”. Non un gran ritorno per il Fondo. Invece dopo appena tre anni e mezzo Atlantica Properties, vendendo ai Benetton, ha ottenuto una plusvalenza lorda di 24,6 milioni: il 25%.

Il merito è di Atlantica Real Estate, Srl (Are) che sin dalla fondazione nel 2015 è consulente immobiliare della società dei Rovati. Are per il 94% è di Clemente Di Paola, manager che nel 2000 ha fondato con Banca Finnat proprio Investire Immobiliare Sgr della quale, oltre che azionista, è stato direttore generale fino al 2008 gestendo il Fip. Da Investire ad Are con di Paola sono passate anche Stefania Macchia ed Eva Miceli. Grazie a Di Paola Atlantica Properties ha realizzato molte operazioni immobiliari e per i buoni consigli ricevuti dal 2015 al 2019 ha pagato ad Are commissioni per 15,9 milioni. Ma i legami non si fermano qui. In Are dal 2015 sino a maggio era vicepresidente il principe e finanziere Sigieri Diaz della Vittoria Pallavicini che dal 2015 sino a maggio scorso è stato anche consigliere della Fidim, la holding dei Rovati. Are ha sede nel palazzo romano dei Pallavicini in via 24 maggio al 43 dove c’è anche Athena Investments, società della quale il principe è vicepresidente. Contattate, né Atlantica Properties, né Are né Athena Investmens hanno commentato.

Molti affittuari non accettano lo sfratto da piazza Augusto Imperatore: fioccano le cause contro i nuovi proprietari che non hanno riconosciuto la prelazione, come quelle dei ristoranti Gusto e Alfredo l’originale. Non ci stanno pure i quaranta giornalisti che dal 2014 lavorano nella Sala stampa italiana, ristrutturata a spese loro con un affitto che scade tra due anni. C’è poi chi lì ci vive in affitto, come Jas Gawronski. Insieme ad altri inquilini l’ex corrispondente Rai, portavoce di Berlusconi, senatore ed eurodeputato ha fatto ricorso al Tar per ottenere il diritto di comprarsi l’attico con terrazzo dove da 18 anni ammira il mausoleo di Augusto.

“Il Comune di Capaci va sciolto. Ma nessuno vuole procedere”

Il presidente della Commissione Antimafia, Nicola Morra, ha annunciato l’acquisizione del fascicolo sulla proposta di scioglimento per mafia del Comune di Capaci (Palermo) al termine dell’audizione a San Macuto del luogotenente dei carabinieri Paolo Conigliaro, oggi investigatore alla Dia di Palermo, già protagonista di delicate indagini antimafia sfociate nel sequestro della banca di credito cooperativo Pietro Grammatico di Paceco, e nell’indagine Scrigno che nel marzo 2019, sempre a Paceco (Trapani), portò a galla i rapporti tra il “capofamiglia’’ Carmelo Salerno e il deputato regionale siciliano, Paolo Ruggirello.

In oltre un’ora e venti minuti (dei quali 50 secretati) l’investigatore, già bersaglio di un attentato in Calabria, ha denunciato che la sua proposta di accesso agli atti “si è fermata negli uffici del comando provinciale dei carabinieri di Palermo e non è stata mai inoltrata al prefetto’’, competente per l’apertura dell’eventuale procedimento di scioglimento del Comune per infiltrazioni. Conigliaro ha dichiarato anche che le sue denunce “sono state valutate dalla Procura di Palermo come fatti non costituenti reato’’.

Dopo avere elencato gli elementi a sostegno della proposta (frequentazioni di amministratori con mafiosi condannati, processioni religiose con inchini e soste davanti soggetti riconducibili a contesti mafiosi, confraternite religiose frequentate da mafiosi e consiglieri comunali e persino un ammanco di 8.000 euro di buoni pasto destinati ai consiglieri comunali), il luogotenente ha rassegnato ai commissari le “interferenze, gli ostacoli, il proprio demansionamento, fino al trasferimento e alla delegittimazione’’ dopo avere acceso i riflettori investigativi – ha affermato – “su un sistema politico affaristico mafioso’’. “A Capaci ho indagato anche sulla realizzazione di un centro commerciale in cui erano coinvolti esponenti del cosiddetto sistema Montante”, ha detto, riferendosi all’ex presidente di Confindustria Sicilia poi condannato in primo grado a 10 anni per corruzione.

Nei suoi confronti, ha denunciato Conigliaro, sono scattati demansionamento ed esposti alla Procura militare: “Il comando generale mi ha offerto supporto sanitario per la malattia oncologica di mia moglie – ha detto –, ma quando ho chiesto di essere reintegrato mi hanno risposto che c’era la pendenza penale a Napoli. Rilevo che gli ufficiali del caso Cucchi a processo per depistaggio non li ha demansionati nessuno’’. “La mia vicenda ricorda Il giorno della civetta di Sciascia – ha aggiunto –, quando ho appreso che un generale dell’Arma ha dichiarato che capitani Bellodi (protagonista del romanzo, ndr) non ce ne sono più, o non se ne è accorto, o gli è sfuggito qualcosa’’.

“Non ho mai messo in discussione l’Arma dei carabinieri – ha concluso –, ma è un fatto che nella mia carriera ho incontrato soggetti, anche a livelli apicali, non degni dei ruoli ricoperti, nel rispetto dell’articolo 54’’.

Soldi, “fumo” e caccia al “negro”

Padre amorevole di famiglia e spregiudicato picchiatore. “Minchia amore l’abbiamo massacrato” è una delle frasi che ripete spesso alla propria compagna Giuseppe Montella, capetto 37enne della presunta gang di carabinieri. “Amore senti il profumo dell’hashish? Mi raccomando mai metterlo sul balcone che si indurisce, capito amore?” Un uomo che non ha paura di nulla, e secondo gli inquirenti, pronto a “prendere parte ad azioni pericolose e pure violente”. Montella vive in un’esaltazione continua di sé stesso, anche con il figlio undicenne con cui si faceva bello dei propri pestaggi. “Mi sono fatto male ieri, ho preso uno strappo correndo dietro a un negro (sic)” racconta al bambino orgoglioso che chiede particolari: “L’hai preso? Gliele avete date?”.

Una famiglia unita, spesso rappresentata su Facebook a bordo piscina con un cocktail in mano o a bordo di macchinoni e moto. Uno stile di vita sopra le righe e soprattutto oltre le normali possibilità di un semplice appuntato dei carabinieri come hanno rilevato anche le indagini patrimoniali della Guardia di Finanza di Piacenza. Montella non ha limiti, mai.

A Pasqua, in pieno lockdown per le decine di morti Covid di Piacenza, organizza una bella grigliata con una decina di amici e litri di costoso champagne francese. I colleghi del 112 ricevono una segnalazione da una cittadina che denuncia l’assembramento: “Non voglio darvi il nome perché è uno dei vostri”. I solerti colleghi segnalano il fatto a Montella, rassicurandolo che non ci sarebbe stato nessun seguito, ma lui vuole di più: “Voglio sentire la voce, voglio capire se è la mia vicina, giusto lo sfizio che mi voglio togliere…” È lui a coltivare i rapporti con gli spacciatori, italiani e non, e a ideare gli spostamenti della “roba” con vere e proprie scorte alla macchina carica, spesso in prima persona in totale disprezzo degli altri colleghi delle forze dell’ordine: “Senti a me, è meglio che ci sono tutti questi coglioni in giro perché così ci facciamo i cazzi nostri, se ci fossero troppi buoni noi non camperemmo”. Sempre lui che organizza i festini con prostitute e trans all’interno della caserma, anzi nell’ufficio del Comandante: “Gliene ho fatto trombare due, una urlava come una dannata, ha buttato tutte le pratiche del Comandante a terra, mamma mia che bordello”. L’appuntato sognava una grande carriera, “A me quello che interessa è la cocaina”. L’immagine perfetta per raccontare Montella però l’ha caricata su Facebook uno dei pusher italiani coinvolti: insieme mentre mostrano orgogliosamente delle banconote. Per gli inquirenti un comportamento quantomeno “inappropriato, spesso un’immagine conta più di molte parole e questa ha il pregio di immortalare la realtà quasi onirica nella quale gli indagati vivevano. Un sogno caratterizzato dallo stravolgimento delle regole della convivenza civile”.