“Spaccio, botte e torture”. Ecco i carabinieri banditi

“In questa caserma non c’è stato nulla di lecito, solo comportamenti criminali”. Non usa giri di parole Grazia Pradella, nuovo capo della Procura di Piacenza: sei carabinieri arrestati e una stazione, Piacenza Levante, sequestrata. Un’inchiesta senza precedenti che ha svelato orrori e abusi da film, al pari di Gomorra. Qui però le violenze erano tutte commesse dalle forze dell’ordine. Le accuse, pesantissime, sono di spaccio di droga, arresti falsificati, perquisizioni illecite, sequestro di persona, tortura e pestaggi sistematici, forse anche con la tecnica del waterboarding, come ha lasciato intendere la procuratrice. Cinque carabinieri in carcere; un sesto, il maresciallo comandante della stazione, agli arresti domiciliari. Tra i destinatari delle misure meno restrittive, anche un ufficiale, il maggiore Stefano Bezzeccheri che comanda la compagnia di Piacenza.

Dietro tutto c’è la droga, hashish e marijuana in particolare, e la voglia di fare soldi, più di quelli che uno stipendio da appuntato o carabiniere semplice può garantire. L’idea viene a Giuseppe Montella, vero dominus del gruppo: una rete clandestina di spaccio, alternativa ai soliti pusher, e senza spese. Basta usare la sostanza stupefacente o i contanti sequestrati nelle operazioni. La concorrenza? Sbaragliata a suon di minacce o convinta con la forza a collaborare. “Ho fatto un’associazione a delinquere. Se uno vuole vendere la roba vende questa qua, altrimenti non lavora. E la roba gliela diamo noi. Poi a loro volta avranno i loro spacciatori… quindi è una catena che a noi arriveranno mai, siamo irraggiungibili”, dice in un’intercettazione. Nessuno scrupolo, nemmeno quando sbagliavano. Come con un egiziano, scambiato per un compratore: la banda lo colpisce con violenza gratuita in mezzo a una strada e gli sequestra il portafoglio e il cellulare urlandogli “dì la verità che ti faccio andare in ospedale, adesso ti spacco!”. L’uomo in tasca non ha nulla, ribadisce di essere un onesto lavoratore. Poche ore dopo va in caserma a chiedere indietro i suoi averi: viene accolto con strafottenza e salutato con un calcio nel sedere (c’era la telecamera). Ad altri è andata peggio. In una foto, trovata sul cellulare di uno degli arrestati, c’è uno spacciatore nigeriano: a terra il suo sangue. “Pem! Mi ha fatto uno scatto, quando ho visto quel sangue per terra mi sono detto che l’avevamo ucciso, minchia!” si esalta Montella. Non è il solo, anche l’appuntato scelto Salvatore Cappellano si scalda spesso durante gli interrogatori: “Se mi dici la verità io non faccio entrare l’amico mio ma come mi dici una cazzata lui entra, ti spacca di legnate e ti rompe tutte le ossa. Io poi ritorno e ti sfasciamo tutte e due!”. Il pusher non collabora. Colpi, urla e commenti vergognosi dei carabinieri: “Tu qua sei morto, non fiatare perché ti ammazzo”.

Colpisce anche il periodo in cui sono stati commessi i reati, come ha sottolineato la procuratrice Pradella: “In piena epoca Covid e del lockdown. Mentre la città di Piacenza contava i tanti morti del coronavirus, questi carabinieri approvvigionavano di droga gli spacciatori rimasti senza stupefacente a causa delle norme anti Covid”. Per il ministro della Difesa, Lorenzo Guerini, sono “fatti inaccettabili, che rischiano di infangare l’immagine dell’Arma, che invece è composta da 110.000 uomini e donne che ogni giorno lavorano con altissimo senso delle Istituzioni al fianco dei cittadini”. Al comando generale dell’Arma sono attoniti, anche perché l’indagine è stata affidata alla Finanza in contrasto con la (discussa) prassi per cui ciascuno indaga in casa sua: sospesi anche i militari non arrestati (per gli altri è automatico). Il comandante generale Giovanni Nistri al Tg1: promette il “massimo rigore”.

Capaci, via al confronto tra il Dna sui guanti e quelli dell’ex agente Peluso e della “libica”

“La genetista Nicoletta Resta ha ipotizzato la presenza di una donna sul cantiere di Capaci. Per fare i processi ci vogliono elementi di prova certi e il nostro impegno è quello di non fermarsi mai”: parole della procuratrice generale di Caltanissetta Lia Sava al processo Capaci bis due giorni fa. “La presenza di una donna”: la Procura di Caltanissetta si sta muovendo proprio per accertare questa presenza. Capaci, 23 maggio 1992, i magistrati Giovanni Falcone e Francesca Morvillo con gli agenti di scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro, saltano in aria sull’autostrada. A 63 metri dal cratere vengono ritrovati del mastice, una torcia e due guanti. Sulla torcia sono poi state riscontrate le impronte di Salvatore Biondino, uno dei boss di Cosa nostra condannati per la strage. Sui guanti in questi 28 anni è rimasto mistero fitto, nessuno dei condannati ha lasciato tracce di dna, ma alcune tracce ci sono: un profilo maschile e uno femminile, appunto.

E allora il procuratore capo Amedeo Bertone ha disposto la comparazione tra il dna sui guanti e quello dell’ex poliziotto Giovanni Peluso, attualmente indagato con l’accusa di esser stato “compartecipe ed esecutore materiale della strage di Capaci”. Al riguardo il pentito Pietro Riggio ha riferito addirittura questa frase: “Giovanni Peluso mi ha detto: ‘Giovanni Brusca ancora è convinto di avere schiacciato lui il telecomando…’”. Il dna di Peluso, quindi, sarà confrontato con quello sui guanti: il profilo maschile.

Rispetto al profilo femminile, il confronto avverrà col dna di Marianna Castro, ex compagna dello stesso Peluso, secondo le dichiarazioni dello stesso pentito Riggio figlia di un uomo già operativo nei Servizi segreti libici da cui avrebbe ereditato il ruolo: “Per le operazioni particolari si avvaleva spesso di una donna che faceva parte dei Servizi libici, anche lei coinvolta nella strage di Capaci”. Nei prossimi mesi si saprà se su questo versante, quello dei guanti, quindi, la Procura di Caltanissetta ha fatto bingo o meno. Nel frattempo la stessa Procura ha interpellato ufficialmente i Servizi segreti per chiedere quali rapporti abbia avuto con gli 007 Giovanni Peluso, e i Servizi hanno risposto: “Nessuno, mai”. Eppure gli inquirenti di Caltanissetta restano convinti di aver raccolto elementi importanti che dimostrano proprio il contrario di quanto dichiarato dall’Aisi.

Decreto Bonafede antiscarcerazioni, la Corte non decide

La Corte costituzionale ha restituito gli atti al giudice di Sorveglianza del Tribunale di Spoleto che aveva sollevato eccezione di incostituzionalità contro il decreto antiscarcerazioni dei boss mafiosi per l’emergenza coronavirus. Il magistrato ora dovrà riesaminare la questione posta, ossia la supposta limitazione del diritto alla difesa dal momento che il decreto del ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, del 10 maggio scorso, ha stabilito una rivalutazione dei provvedimenti con cui ai boss sono stati concessi i domiciliari o il differimento della pena per ragioni connesse al Covid-19. Secondo quel decreto, la rivalutazione, periodica, deve essere effettuata sulla base anche del parere della Procura nazionale antimafia e delle indicazioni del Dap, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Ma, evidenzia la Corte “a seguito delle modifiche introdotte” con la conversione del decreto in legge, è necessaria una nuova analisi da parte del magistrato di sorveglianza per stabilire se ritiene ci siano ancora profili di incostituzionalità. “Quando il magistrato di sorveglianza ha disposto in via provvisoria la revoca, ricorda la Corte, e il condannato è tornato in carcere, il Tribunale di sorveglianza è tenuto a pronunciarsi in via definitiva sull’istanza di scarcerazione entro il termine perentorio di 30 giorni, nell’ambito di un procedimento in cui la difesa ha pieno accesso agli atti”. Quindi il giudice di Spoleto dovrà “rivalutare se i diritti costituzionali del condannato siano ora adeguatamente garantiti”.

Presidio in piazza contro i soldi ai torturatori libici

“Isommersi e i salvati”. Riprende il titolo dell’opera di Primo Levi l’appello di intellettuali, politici e associazioni per lo stop al finanziamento della guardia costiera libica, la chiusura dei centri di detenzione e la creazione di corridoi umanitari. I firmatari – tra cui Gad Lerner, Luigi Manconi, Roberto Saviano, Laura Boldrini, Michela Murgia e Valeria Parrella – invitano lunedì 27 luglio alle 18 la cittadinanza a un presidio in piazza San Silvestro a Roma, accompagnato da letture di Ascanio Celestini e Valentina Carnelutti.

“A guardare l’immagine ripresa dall’aereo Seabird della Sea Watch che ritrae il cadavere di un uomo, incastrato tra i tubolari di un gommone, a 40 miglia dalla costa libica, viene in mente il titolo del fondamentale libro di Primo Levi: I sommersi e i salvati, appunto”, scrivono i firmatari. “Quella foto è l’ultima testimonianza di una tragedia in corso da anni nel Mare Mediterraneo. Le strategie finora adottate per controllare il flusso di migranti e profughi verso le coste dell’Europa sono state fallimentari e destinate a riprodurre all’infinito la strage. Gli uomini, le donne e i bambini che prendono il mare fuggono da situazioni di estrema miseria, regimi dispotici, persecuzioni tribali e conflitti etnici. E, una volta arrivati in Libia, sono sottoposti a un sistema di violenze, estorsioni, detenzione inumana, sevizie, stupri e torture”.

“Il 16 luglio – prosegue l’appello – la Camera dei deputati, per il quarto anno consecutivo, ha approvato il finanziamento della missione italiana in Libia, che prevede in particolare il sostegno economico alla cosiddetta Guardia costiera libica. Lo consideriamo un atto gravissimo. La Guardia costiera libica è la stessa che, ormai da anni, è parte dell’organizzazione del traffico di esseri umani, non soccorre chi fa naufragio e che riporta i sopravvissuti nei centri di detenzione. Questa è l’attività criminale che l’Italia ha deciso di continuare a finanziare”.

“Bonifiche e Via scontate”, comitati critici sul decreto

Meno tutele per l’ambiente sulle bonifiche e indebolimento della partecipazione dei cittadini dall’iter per le autorizzazioni: sono le accuse di alcune associazioni ambientaliste contro il ministero dell’Ambiente e il decreto Semplificazioni, che mira a velocizzare la “svolta green”. Secondo diverse associazioni, forum H2O in testa, c’è un “tana libera tutti per i grandi inquinatori delle acque sotterranee”. Il testo, spiegano, prevede che la certificazione di avvenuta bonifica sia rilasciata anche per il solo suolo, con conseguente svincolo delle garanzie finanziarie che l’inquinatore deposita quando segnala la contaminazione. “E la bonifica dell’acqua sotterranea contaminata che fine fa, togliendo pure questa esile deterrenza?”. Il secondo punto riguarda il taglio sulla partecipazione dei cittadini alla Valutazione di Impatto Ambientale. “Si sacrificano i già brevi termini per presentare le osservazioni su progetti enormi, dalle raffinerie alle centrali termo-elettriche, che hanno centinaia di elaborati tecnici e migliaia di pagine”. La verifica di Assoggettabilità passa da 45 giorni a 30, la Via “normale” non cambia (60 giorni), nella nazionale tramite conferenza dei servizi simultanea si passa da 60 a 30, da 60 a 45 giorni per quella regionale. “Paradosso: per un’opera regionale si avranno più giorni che per una nazionale per conferenza dei servizi”. Dal ministero e dalla relazione tecnica, il punto fermo è che la norma (pubblicata in Gazzetta ufficiale) abbia tutti gli elementi per la tutela dei cittadini e la prosecuzione delle bonifiche mentre si restituiscono spazi alla comunità e allo sviluppo di energie green. Sulla Via, invece, c’era stato a inizio luglio un forte braccio di ferro interno al governo per ottenere che il tempo di consultazione rimanesse di 60 giorni. “Il testo – dicono gli ambientalisti – andrà ora in Parlamento per la conversione in legge. Se non elimineranno questi regali, siamo pronti per difendere territori e cittadini”.

Roma, confiscato il Salaria Sport Village simbolo della “cricca” Anemone-Balducci

Il Salaria Sport Village passa allo Stato. E la Figc è in pole per la gestione. La Finanza ha confiscato il noto complesso sportivo di Roma nord, di proprietà dell’imprenditore Diego Anemone, “acquistato con disponibilità finanziarie frutto di reati di evasione fiscale, riciclaggio e appropriazione indebita”. Con Angelo Balducci, già presidente del Consiglio superiore dei Lavori pubblici, Anemone per i giudici era a capo della cosiddetta “cricca degli appalti”, che dal 1999 al 2010 ha ottenuto appalti per oltre 450 milioni di euro nell’ambito di grandi eventi come i Mondiali di Nuoto 2009, il 150° dell’Unità d’Italia e il G8 della Maddalena. I due sono stati condannati in primo grado nel 2018 a 6 anni di carcere. Nelle carte si parla anche della “connivenza” della Banca delle Marche, “che ha erogato due mutui per un importo di 10.700.000 euro” nonostante sapesse “dei rapporti societari anomali” della cricca. Il centro, 17 ettari, vale 145 milioni. Il Comune ne ha chiesto l’acquisizione e ha sottoscritto un protocollo con la Federcalcio per farne la “Casa delle Nazionali”.

“Nessuna linea guida per noi pompe funebri”

Tra i monti della Val Seriana, nel Bergamasco, c’è stata una fase in cui nella gestione delle salme dei defunti tutto procedeva come se nulla stesse succedendo, come se l’epidemia non stesse avanzando proprio qui, prima ancora di travolgere il resto della provincia lombarda. Per oltre due settimane, tra la fine di febbraio e la prima settimana di marzo, le tradizioni legate all’ultimo saluto e la propagazione dei contagi hanno convissuto pericolosamente. Il signor Zambonelli (si legga il pezzo qui a fianco, ndr), racconta come il 23 febbraio, al funerale della madre, deceduta all’ospedale di Alzano, “nella chiesina di Villa di Serio c’era moltissima gente: strette di mano, baci e abbracci, accanto alla salma di mia madre. Aveva 8 fratelli, siamo una famiglia numerosa, e quella mattina eravamo 70-90 persone almeno”. “Proprio come se nulla fosse”, ricorda Antonio Ricciardi, titolare dell’impresa di pompe funebri Centro funerario bergamasco di Ranica, oltre 40 dipendenti. Come se nulla fosse perché non c’erano direttive. Mancavano le linee guida della Regione. Mancavano le indicazioni dell’Ats di Bergamo. Così: casse aperte, accesso libero di parenti e amici a camere mortuarie, esposizione delle salme.

Un problema avvertito soprattutto nelle case di riposo, dove l’epidemia aveva già cominciato a fare vittime tra gli anziani ospiti. “Per le Rsa non era stata fissata una procedura unica – prosegue Ricciardi – per questo c’erano strutture che consentivano l’accesso alle camere mortuarie, altre no. Da qualcuna ci arrivava la richiesta di entrare nelle residenze, nelle camere dei defunti, per prendere i documenti necessari a espletare le pratiche burocratiche. Un grande caos. Ora possiamo dire che è stato probabilmente un errore che potrebbe aver favorito ulteriormente la diffusione del contagio”.

Alle tante mail inviate all’Ats da parte dell’impresa bergamasca, per avere indicazioni, non c’è stata risposta, dice l’altra titolare Roberta Caprini: “Mediamente ci occupiamo di 1.300 defunti all’anno, ne abbiamo gestiti 1.090 nel solo mese di marzo. Tutto è stato sottovalutato. Eravamo esposti al contagio anche noi, privi come eravamo di dispositivi di protezione individuale e di indicazioni chiare sulle procedure da seguire. Il 12 marzo abbiamo anche mandato una mail alla Regione, alla Protezione civile, alla Prefettura, chiedendo che fosse attivata una unità di crisi sulla gestione delle salme. Noi eravamo già in preallerta da quando, il 20 febbraio, si era scoperto il focolaio di Codogno”.

Quando arrivano le linee guida della Regione, il virus è già fuori controllo. Al Centro Funerario bergamasco, quattro dipendenti sono già in quarantena. E ad altri va anche peggio. È il caso di Giuseppe Vavassori, titolare della Vavassori Onoranze Funebri di Seriate, altro comune della Val Seriana. “Io e i miei collaboratori ci siamo tutti ammalati agli inizi di marzo – dice Vavassori – e ho dovuto chiudere l’attività. Prima ancora, a partire da febbraio, quando non si sapeva ufficialmente che il contagio si stava diffondendo, tanti morivano di polmonite e non riuscivamo a capire perché. Il tasso di mortalità era notevolmente aumentato anche nelle Rsa”.

Dal 20 febbraio alla fine di marzo, come sappiamo, le persone stroncate dal virus, nella provincia di Bergamo, sono state 6.238, delle quali 5.900 nel solo mese di marzo, con una impennata che sfiora il 600% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Quasi 200 morti al giorno.

Alzano, 5 mesi dopo chi c’era (e non c’è più)

È domenica 23 febbraio quando Sabrina, con un bimbo piccolo di sei mesi e il compagno, decide di andare a trovare la madre in ospedale. Loredana Savoldi, 56 anni, è ricoverata da qualche giorno al “Pesenti Fenaroli” di Alzano, per sottoporsi a un ciclo di radioterapia, in seguito a un tumore. “Mia mamma mi chiede un caffè. Ci fermiamo una volta entrati al piano terra, alle macchinette”, racconta Sabrina. “Presenti anche due infermieri: indossano le mascherine. La sensazione fu subito strana, non avevo mai visto qualcuno con mascherine, all’interno dell’ospedale. Dietro di noi, c’era un’altra coppia con passeggino, cercavano la Pediatria. Nel corridoio, altri infermieri con mascherine: erano un po’ agitati. Nessuno ci dice niente, però. In quello stesso momento ricevo un messaggio vocale da parte di mia madre. Ore 14.10. ‘Sabry, ciao, non so dove siete, ma han detto che non fanno entrare nessuno per boh, non ho capito, a Medicina probabilmente c’è qualcosa che non va…’”. È così che Sabrina e la sua famiglia abbandonano l’ospedale. “E preciso che usciamo da soli, senza che qualcuno ci dica alcunché”. Poco dopo inizia a circolare la notizia: quella notizia che nessuno si aspettava – o voleva – ascoltare. “Il mio compagno chiama immediatamente l’ospedale, per sapere come dovevamo comportarci, avendo anche un bambino piccolo. Ci dicono di contattare il 112. Il 112 ci dice di chiamare il numero verde regionale, che ci risponde solo all’alba del giorno seguente. Se non eravamo transitati dal pronto soccorso o entrati a contatto con persone infette, non dovevamo fare niente. Ci dicono questo”. L’ultima volta che Sabrina comunica con la madre è il 4 marzo. “Aveva bisogno di cambi. Dopo cena le mando la buonanotte. Quel messaggio non l’ha mai letto”.

“È una vecchia abitudine dell’umanità, passare accanto ai morti e non vederli”, scriveva José Saramago. Cosa è successo all’ospedale “Pesenti Fenaroli” di Alzano Lombardo, e poi al territorio della Val Seriana e all’intera Bergamasca, è tristemente noto. Meno i dettagli, le facce, i ricordi. “Flashback”, per usare le parole di alcuni tra i “sopravvissuti”. Cose a cui uno, sul momento, non era riuscito a dare un significato. Ma che ora che il dolore inizia a spannarsi, riacquistano luce. Anche grazie al lavoro dei magistrati. OB1 e OB2, per esempio. È la sigla che ricorre per i due reparti di Medicina, nei giorni in cui, in quell’ultima settimana di febbraio, il virus fu lasciato correre pressoché indisturbato. Dentro e fuori l’ospedale di Alzano. A cinque mesi da quella domenica 23 febbraio – giorno in cui il Pronto soccorso venne chiuso e dopo qualche ora riaperto, per riprendere poi il lunedì le normali attività, dal centro prelievi alle sale operatorie – ci sono storie che si intrecciano nelle denunce che i tanti parenti stanno depositando assieme al Comitato “Noi denunceremo – Verità e giustizia per le vittime di Covid-19”.

Il 23 febbraio, alle ore 16.10, la notizia è pubblica. “Quattro i casi positivi nella Bergamasca. Chiuso il pronto soccorso dell’ospedale di Alzano Lombardo, dove si sono registrati due Covid19”. Un’ora dopo, sono moltissimi i telefonini che in Valle ricevono, come una catena di sant’Antonio, lo stesso WhatsApp: “Generalità 2 persone risultate positive. Ravelli Ernesto, nato ad Alzano il 12.09.1936, residente a Villa di Serio; Criserà Alfredo, nato a Caulonia l’11.01.1954, residente a Nembro”. Una “fuga di notizie”, da fonti interne all’ospedale. In quegli stessi minuti, Alfredo Criserà scrive alla nipote: “Ti prego, fai un salto qui da me”. Come ha raccontato la nipote a Valseriana News, “zio Alfredo va in Pronto soccorso ad Alzano il 20 febbraio, e viene ricoverato per una polmonite in Medicina. Qualche giorno dopo – era la sera del sabato 22 – trovo mio zio spostato in un’altra stanza, con altri due pazienti che hanno un casco per respirare. Mi spavento, chiedo a un infermiere: non c’è nessun problema, mi dice. Mio zio mi dice che gli avevano detto che aveva un virus, ma che non c’era da preoccuparsi. Il giorno dopo abbiamo scoperto tutto da Internet. Nessuno ci ha mai chiamati”. Criserà, nel frattempo, quella notte tra sabato e domenica viene trasferito al Papa Giovanni di Bergamo, e l’indomani al San Raffaele, dove morirà, dopo un mese di ricovero. Assieme a Ernestino detto Tino Ravelli, 83enne di Villa di Serio, e all’ex camionista di Nembro Franco Orlandi, passeranno alla storia come i primi contagiati della Bergamasca. Tutti della Val Seriana. Tutti passati quella notte dall’ospedale di Alzano e tutti, purtroppo, deceduti. Ravelli era ricoverato in isolamento in Chirurgia dal 22 febbraio. Era stato dimesso qualche giorno prima da Medicina. Morirà la stessa notte del 23 febbraio, dopo il trasporto d’urgenza a Bergamo. Franco Orlandi, invece, era ricoverato in stanza proprio con Criserà. Morirà il 25. È sempre a Valseriana News che una delle nipoti di Orlandi ricostruisce quei giorni: “Da quel sabato a mio zio fanno mettere il casco Cpap. In ospedale resta mia mamma. L’indomani, è domenica, vado a trovare lo zio. Vedo la cugina di mia mamma: indossa una mascherina. Fermo un’infermiera e le chiedo se per entrare devo indossarla anche io. Poi scendo ai distributori automatici. Davanti a me ho tre operatori sanitari. Dicono: ‘Li chiuderanno tutti dentro l’ospedale’. Era la mattina del 23 febbraio”.

Insieme a Criserà, in quella stanza al 3° piano di Medicina, c’è anche Samuele Acerbis, 63 anni, “rappresentante vecchio stampo” di Nembro. Sarà il quarto tampone positivo accertato in zona tra domenica 23 e lunedì 24. Aveva iniziato due giorni prima ad avere problemi a un polmone, e si reca al pronto soccorso più vicino: Alzano. È deceduto il 19 marzo. Di fronte alla stanza di Criserà, è ricoverata la mamma di Ezio Limonta, la signora Maria Marziali, 89 anni. Stanza 9, letto numero 10. “Mia madre continuava a peggiorare – racconta nella sua denuncia, una delle più interessanti per gli investigatori che le stanno passando al vaglio una ad una – tossiva continuamente, non riusciva nemmeno a respirare. Nella sua camera, c’erano altre 3 signore anziane, una di queste venne poi dimessa e trasferita in una Rsa, dove, ci è stato riferito, è morta un paio di giorni dopo”. Tutte le pazienti presenti in quella stanza 9 sono decedute. Compresa la signora Maria, il 26 febbraio. Il figlio ricorda: “Quando la domenica si scoprì che quei pazienti di fronte alla camera di mia madre col casco avevano il Covid, successe il finimondo… La porta di quella stanza era spalancata”. Nessun isolamento, come secondo il protocollo. Nessuna sicurezza per gli altri pazienti ricoverati né per i parenti.

Ricoverata in Medicina, c’era anche la mamma di Francesco Zambonelli, Angiolina Cavalli di 84 anni. Era stata male a inizio febbraio. E da allora era in ospedale. La notte tra il 21 e il 22 febbraio, muore. Anche il padre di Zambonelli, Gianfranco, qualche giorno prima che la moglie muoia si ammala. Verrà ricoverato anche lui al Pesenti Fenaroli e poi trasferito. “Il 13 marzo la chiamata per comunicare il decesso. Mi chiedo ancora oggi come sia possibile, mentre piango entrambi i miei genitori. Avevamo frequentato un reparto con pazienti positivi… Io e la maggior parte dei miei parenti nei giorni successivi abbiamo avuto febbre e tosse. Una mia zia è deceduta. Nessuno di noi è stato avvisato del pericolo. Né in ospedale né, tantomeno, una volta usciti”.

Si ringraziano Arianna Dalba e Gessica Costanzo

Pavia, s’indaga sui sierologici e sui rapporti Diasorin-Lega

C’è la politica, un link sui rapporti tra Diasorin e la Lega, e un richiamo all’“ostruzionismo” del partito di Matteo Salvini contro i sindaci dei Comuni lombardi come Robbio e Cisliano che avevano provato ad avviare screening con test sierologici di altri tipi e altre marche, nelle carte delle ipotesi di reato contestate ai vertici dell’ospedale San Matteo e della multinazionale della diagnostica Diasorin. La Procura di Pavia indaga per peculato e turbata libertà della scelta del contraente, nel mirino c’è l’accordo tra Fondazione San Matteo e Diasorin per lo sviluppo del test sierologico con estrazione del sangue e analisi di laboratorio, per la ricerca degli anticorpi neutralizzanti al Covid, capaci di assicurare “la patente di immunità”, così recitava l’annuncio che fece schizzare il titolo in borsa. È il test poi scelto senza gara dalla Lombardia per i suoi screening di massa con una fornitura da 500 mila kit per 2 milioni di euro.

Ma c’è di più: la Procura ha sequestrato il telefono del sindaco di Robbio, Roberto Francese, che nel pieno dell’emergenza Covid tentava di fare altri test. Sul suo telefono anche i messaggi con l’assessore Giulio Gallera: “Ats e l’assessorato di Gallera mi scrivevano mail chiedendo di attendere i test ufficiali della Regione” spiega Francese al Fatto. Gallera (non coinvolto negli atti dell’inchiesta) smentisce: “Ho solo evidenziato che i test sierologici hanno una funzione epidemiologica e non diagnostica e che l’uso che voleva farne era in contrasto con le indicazioni ministeriali. Non sono mai entrato nel merito dei test del sindaco. Chiunque sostenga che l’ho invitato a usare quelli della Regione dice il falso e si attenda una querela”.

Ieri la GdF ha perquisito case, uffici, laboratori, pc e cellulari: otto indagati, tra i quali il presidente della Fondazione San Matteo Alessandro Venturi e il direttore di virologia dell’ospedale di Pavia, il professore Fausto Baldanti, responsabile scientifico del progetto. Per il quale gli inquirenti sollevano “un evidente conflitto d’interesse” peraltro già svelato da uno scoop del Fatto: Baldanti era membro del gruppo di lavoro del consiglio superiore della sanità e componente del tavolo tecnico scientifico della Regione Lombardia chiamato a decidere “l’approccio diagnostico omogeneo” per la diagnostica anti Covid-19. Un tavolo che decise di non adoperare i test rapidi pungidito “ritenuti inaffidabili sulla scorta, anche, di articoli pubblicati dallo stesso Baldanti su riviste scientifiche nonostante vi fossero pareri opposti” scrive il pm Paolo Mazza. Dopo gli articoli del Fatto, Baldanti dichiarò le dimissioni dai due tavoli.

La Lombardia decise di non usare i pungidito e aspettare che Fondazione San Matteo e Diasorin completassero il loro progetto “malgrado altri operatori del settore (tra cui Technogenetics, che ha presentato un ricorso al Tar e un esposto penale contro l’accordo, ndr) avessero manifestato reiterate manifestazioni di disponibilità” a collaborare con metodologie già validate o in possesso del marchio Ce (che il kit di Diasorin otterrà solo il 17 aprile). Il pm vuole “fare luce sui legami politici che possono avere influito sulla scelta del contraente” in Diasorin. E sottolinea che all’Insubrias Biopark, in provincia di Varese, c’è la sede di alcuni uffici sia di Diasorin Spa, sia della Fondazione Istituto Insubrico, il cui direttore generale è Andrea Gambini (non indagato, ndr) “già commissario della Lega varesina e Presidente della Fondazione Irccs Carlo Besta”. Per la Fondazione Diasorin è “un cliente di primo piano”.

Gambini è anche presidente del Cda di Servire srl – si occupa di manutenzione di “macchinari per la ricerca biotecnologica” (socio unico è la stessa Fondazione Istituto Insubrico). Nel 2018, Servire srl dichiara “un volume d’affari” pari a 1,3 milioni e si “conferma” lo “stretto rapporto con la società di diagnostica”. “Ci auguriamo che la Procura faccia presto chiarezza come ha già fatto la magistratura amministrativa – dichiara il presidente del San Matteo Venturi – abbiamo operato correttamente e nell’esclusivo interesse della salute dei cittadini”.

Il commercialista amico dei leghisti scelto pure da Sala

Non c’è solo la Regione Lombardia. Anche il Comune di Milano, retto dal centrosinistra di Giuseppe Sala, ha dato una poltrona importante a uno degli attuali indagati dell’inchiesta sull’immobile di Cormano (Milano) acquistato dalla Regione e diventato sede della Lombardia Film Commission. È Andrea Manzoni, revisore del gruppo della Lega alla Camera, oggi accusato insieme ad Alberto Di Rubba, amministratore del gruppo leghista al Senato, di peculato e turbata libertà del procedimento di scelta del contraente. Manzoni, commercialista bergamasco, è stato scelto dal Comune di Milano come membro del collegio sindacale della Sea, la società comunale che gestisce gli aeroporti di Linate e Malpensa. Proprio nei giorni della sua nomina alla Sea, nella primavera 2019, il settimanale L’Espresso ha raccontato l’operazione di compravendita della sede della Lombardia Film Commission, che ora i magistrati definiscono finalizzata “al drenaggio di risorse” della Regione Lombardia. “Di Rubba e il suo ‘socio’ Manzoni”, scrivono poi i pm, “beneficieranno della quota maggiore”. Indicato dal Carroccio, Manzoni è stato accettato senza batter ciglio da Sala e dal centrosinistra, benché fosse stato già perquisito, da non indagato, nel dicembre 2018 per la vicenda dei 49 milioni spariti della Lega. Hanno sollevato dubbi solo Basilio Rizzo, storico consigliere della sinistra milanese, e David Gentili, presidente della Commissione antimafia comunale. Nella seduta del Consiglio comunale del 6 maggio 2019, Rizzo avverte i colleghi: “Adesso che li abbiamo visti sui giornali, questi nomi, è normale che noi magari nella prossima assemblea della Sea (tanto per essere precisi) nominiamo, nell’organismo sindacale, qualcuno dei nomi più ricorrenti in queste indagini giornalistiche? Faccio questa proposta: non nominiamo qualcuno dei nomi chiacchierati… Forse è bene che ci fermiamo”. La sua richiesta rimane inascoltata. Manzoni è tuttora sindaco di Sea.

L’indagine della magistratura ora sta cercando di chiarire com’è avvenuto l’acquisto dell’immobile di Cormano: acquistato dalla Immobiliare Andromeda, società di cui i pm ritengono essere “amministratore di fatto” Michele Scillieri, il commercialista nel cui studio nel 2017 è stato domiciliato il movimento “Lega per Salvini premier”. L’edificio era stato acquistato a 400 mila euro ed è stato rivenduto alla Lombardia Film Commission a 800 mila euro. Soldi provenienti, secondo i pm, dagli stanziamenti 2015 della Regione Lombardia, allora presieduta da Roberto Maroni. I magistrati ritengono quel denaro una sorta di “regalo” chiesto e ottenuto dalla Lombardia Film Commission per realizzare un’operazione studiata per far arrivare soldi ai commercialisti della Lega. L’ex presidente Maroni ieri ha scritto su Facebook: “Contrariamente a quanto insinuato da alcuni giornali, non c’è stato alcun ‘regalo’ alla Lombardia Film Commission da parte della Regione Lombardia. Nella seduta del novembre 2015 la Giunta regionale deliberò (in modo assolutamente trasparente e regolare, come sempre) l’assegnazione di contributi straordinari agli enti di spettacolo partecipati dalla Regione, tra cui la Scala, il Piccolo Teatro, la Fondazione Pomeriggi Musicali e la Lombardia Film Commission”. Due giorni fa la Guardia di finanza è entrata negli uffici del Pirellone per acquisire, tra gli altri documenti, anche la delibera della Giunta regionale del 2015. Maroni, non indagato, potrebbe essere convocato dai pm nei prossimi giorni.