Torna attuale – con un’accelerata impressa all’indagine della Procura di Torino su spinta dell’autorità giudiziaria tedesca – l’addentellato italiano del “Dieselgate”, che negli Usa ha portato, nel settembre del 2019, all’arresto di un dirigente Fca. Ieri mattina infatti la Guardia di finanza di Torino – su delega del procuratore aggiunto Vincenzo Pacileo – ha effettuato perquisizioni in tre società del gruppo: a Mirafiori, Lingotto e Orbassano. Obiettivo: cercare prove di una presunta frode in commercio, su cui la Procura torinese indaga dal 2017. Il sospetto è che Fca abbia installato su alcuni modelli di auto dei dispositivi tecnologici capaci di abbassare le emissioni durante le prove in laboratorio: un modo per immettere sul mercato auto vendute come meno inquinanti che non lo erano affatto.
Se ricorda l’indagine Volkswagen non è un caso: è pressoché identica. Tanto più che le le perquisizioni di ieri sono state fatte in accordo con la Procura di Francoforte, che ha chiesto collaborazione ai magistrati torinesi – e in particolare la possibilità di fare i blitz nelle sedi di Fca a Torino – nell’ambito di un’inchiesta analoga. Il coordinamento internazionale dell’operazione è di Eurojust.
I tedeschi parrebbero essere più avanti nelle indagini rispetto all’Italia, forti anche dell’esperienza maturata in casa. Volkswagen ha già lasciato sul terreno parecchi miliardi in multe e risarcimenti ai consumatori per il “dieselgate”. Non solo: una recente sentenza tedesca ha riconosciuto a un pensionato 25 mila euro sui 31 mila del prezzo d’acquisto, aprendo una nuova falla nei bilanci dell’industria dell’auto. Fca pare seguire – in piccolo – le orme della casa tedesca, ivi compresa la nascita delle indagini negli Stati Uniti: non un bel viatico mentre si discutono i dettagli della fusione coi francesi di Psa che dovrebbe regalare, ai prezzi ipotizzati, un bel pacco di soldi agli azionisti Fca, Agnelli in testa ovviamente.
A Torino l’inchiesta per frode in commercio è contro ignoti. Forse le perquisizioni di ieri potranno permettere agli inquirenti di fare un passo in avanti: “Fca – è il testo della nota divulgata ieri dalla società – si è subito messa a disposizione degli inquirenti” e “sta esaminando gli atti per potere chiarire ogni eventuale richiesta da parte della magistratura”.
Oltre alle sedi piemontesi di Fca, ieri le perquisizioni sono avvenute in altre località europee. Dieci in totale, come dichiara la Procura di Francoforte sul Meno, che cita sedi nel Baden-Württemberg e in Assia (Germania) e nel Canton Turgovia (Svizzera). “I dispositivi – scrivono gli inquirenti tedeschi – erano in grado di alterare alcuni parametri di emissioni attraverso un cosiddetto defeat device. Al centro dell’indagine i motori diesel della cosiddetta ‘Family B’ omologati Euro 5 ed Euro 6 e utilizzati in modelli Alfa Romeo, Fiat e Jeep” più propulsori “utilizzati in modelli Fiat e Iveco”. A essere interessati dall’indagine sono, in Germania, oltre 200mila veicoli.
Se a Francoforte ritengono di avere prove solide della frode Fca, in Italia non è così. Al momento, come detto, non ci sono indagati, ma l’aggiunto Pacileo ha però sulla scrivania una consulenza tecnica molto utile, eseguita tra il 2017 e il 2019, dalla quale emergerebbe che nell’unità di controllo di alcuni motori sarebbe stato installato un software in grado di distinguere tra una situazione di test in fase di omologazione – in cui le emissioni risulterebbero sempre basse – e una fase post vendita, in cui il motore è più inquinante. Il problema ora, per la Procura, riguarda la progettazione del software: capire chi lo ha ideato e su richiesta di chi.
In realtà la situazione è ancor più complessa. in Procura sanno benissimo che per contestare il reato ipotizzato non è sufficiente né la presenza del software, né l’accertamento del superamento dei limiti delle emissioni, ammesso dalle norme Ue se serve ad esempio a proteggere il motore. Il punto nodale è provare se le emissioni superiori ai limiti dipendano da un trucco. A questo proposito, va ricordato che le censure mosse dai tedeschi su Fca erano state respinte dalla Commissione europea e dal ministero dei Trasporti italiano, che supporta la posizione di Fca secondo cui il “software incriminato” serve appunto a proteggere i motori. L’analisi dell’Istituto Motori del Cnr, chiesta tre anni fa dal governo, non riuscì a dimostrare la presenza (ma nemmeno l’assenza) di defeat device nei motori Fca analizzati.