Emissioni diesel inquinanti: la Finanza nelle sedi di Fca

Torna attuale – con un’accelerata impressa all’indagine della Procura di Torino su spinta dell’autorità giudiziaria tedesca – l’addentellato italiano del “Dieselgate”, che negli Usa ha portato, nel settembre del 2019, all’arresto di un dirigente Fca. Ieri mattina infatti la Guardia di finanza di Torino – su delega del procuratore aggiunto Vincenzo Pacileo – ha effettuato perquisizioni in tre società del gruppo: a Mirafiori, Lingotto e Orbassano. Obiettivo: cercare prove di una presunta frode in commercio, su cui la Procura torinese indaga dal 2017. Il sospetto è che Fca abbia installato su alcuni modelli di auto dei dispositivi tecnologici capaci di abbassare le emissioni durante le prove in laboratorio: un modo per immettere sul mercato auto vendute come meno inquinanti che non lo erano affatto.

Se ricorda l’indagine Volkswagen non è un caso: è pressoché identica. Tanto più che le le perquisizioni di ieri sono state fatte in accordo con la Procura di Francoforte, che ha chiesto collaborazione ai magistrati torinesi – e in particolare la possibilità di fare i blitz nelle sedi di Fca a Torino – nell’ambito di un’inchiesta analoga. Il coordinamento internazionale dell’operazione è di Eurojust.

I tedeschi parrebbero essere più avanti nelle indagini rispetto all’Italia, forti anche dell’esperienza maturata in casa. Volkswagen ha già lasciato sul terreno parecchi miliardi in multe e risarcimenti ai consumatori per il “dieselgate”. Non solo: una recente sentenza tedesca ha riconosciuto a un pensionato 25 mila euro sui 31 mila del prezzo d’acquisto, aprendo una nuova falla nei bilanci dell’industria dell’auto. Fca pare seguire – in piccolo – le orme della casa tedesca, ivi compresa la nascita delle indagini negli Stati Uniti: non un bel viatico mentre si discutono i dettagli della fusione coi francesi di Psa che dovrebbe regalare, ai prezzi ipotizzati, un bel pacco di soldi agli azionisti Fca, Agnelli in testa ovviamente.

A Torino l’inchiesta per frode in commercio è contro ignoti. Forse le perquisizioni di ieri potranno permettere agli inquirenti di fare un passo in avanti: “Fca – è il testo della nota divulgata ieri dalla società – si è subito messa a disposizione degli inquirenti” e “sta esaminando gli atti per potere chiarire ogni eventuale richiesta da parte della magistratura”.

Oltre alle sedi piemontesi di Fca, ieri le perquisizioni sono avvenute in altre località europee. Dieci in totale, come dichiara la Procura di Francoforte sul Meno, che cita sedi nel Baden-Württemberg e in Assia (Germania) e nel Canton Turgovia (Svizzera). “I dispositivi – scrivono gli inquirenti tedeschi – erano in grado di alterare alcuni parametri di emissioni attraverso un cosiddetto defeat device. Al centro dell’indagine i motori diesel della cosiddetta ‘Family B’ omologati Euro 5 ed Euro 6 e utilizzati in modelli Alfa Romeo, Fiat e Jeep” più propulsori “utilizzati in modelli Fiat e Iveco”. A essere interessati dall’indagine sono, in Germania, oltre 200mila veicoli.

Se a Francoforte ritengono di avere prove solide della frode Fca, in Italia non è così. Al momento, come detto, non ci sono indagati, ma l’aggiunto Pacileo ha però sulla scrivania una consulenza tecnica molto utile, eseguita tra il 2017 e il 2019, dalla quale emergerebbe che nell’unità di controllo di alcuni motori sarebbe stato installato un software in grado di distinguere tra una situazione di test in fase di omologazione – in cui le emissioni risulterebbero sempre basse – e una fase post vendita, in cui il motore è più inquinante. Il problema ora, per la Procura, riguarda la progettazione del software: capire chi lo ha ideato e su richiesta di chi.

In realtà la situazione è ancor più complessa. in Procura sanno benissimo che per contestare il reato ipotizzato non è sufficiente né la presenza del software, né l’accertamento del superamento dei limiti delle emissioni, ammesso dalle norme Ue se serve ad esempio a proteggere il motore. Il punto nodale è provare se le emissioni superiori ai limiti dipendano da un trucco. A questo proposito, va ricordato che le censure mosse dai tedeschi su Fca erano state respinte dalla Commissione europea e dal ministero dei Trasporti italiano, che supporta la posizione di Fca secondo cui il “software incriminato” serve appunto a proteggere i motori. L’analisi dell’Istituto Motori del Cnr, chiesta tre anni fa dal governo, non riuscì a dimostrare la presenza (ma nemmeno l’assenza) di defeat device nei motori Fca analizzati.

Recovery e Bce danno all’Italia sei anni di calma sui mercati

Uno dei risultati da sottolineare dall’intesa raggiunta sul cosiddetto Recovery Fund è che ci sono adesso almeno 6 anni di tempo per fare quello che negli ultimi anni non si è avuto il coraggio, o la forza, di fare.

Andiamo con ordine. Il Recovery Fund andrà a finanziare il cosiddetto Next Generation Eu, il piano con il quale la Commissione europea metterà a disposizione dell’Italia dal 2021 al 2026 circa 209 miliardi di euro. Di essi una quota di circa 82 miliardi sarà a fondo perduto, quindi senza nessun obbligo di restituzione; la restante parte invece saranno prestiti.

Il piano si aggiunge alle altre misure prese a livello europeo, dalla Commissione e dalla Banca centrale, per contrastare gli effetti economici della crisi dovuta alla pandemia. Nel complesso, valutando l’effetto che queste misure avranno sulla capacità di finanziamento del nostro Stato, i prossimi 6 anni potrebbero costituire un periodo del tutto eccezionale, di relativa calma sui rendimenti dei titoli di Stato, per modernizzare il Paese.

Per una simile valutazione occorre partire dalla stima del fabbisogno dello Stato, che è la differenza tra entrate e uscite. Dal fabbisogno dipende l’entità, aggiuntiva rispetto a quelli in scadenza, di titoli di debito pubblico che lo Stato dovrà emettere. Per l’anno in corso la Commissione europea stima che esso raggiunga i 181 miliardi di euro, l’11,1% del Pil. Per il 2021 dovrebbe ridursi a 99 miliardi, 5,6 punti di Pil. Dopodiché occorre basarsi su ipotesi. Un’ipotesi che si può fare è che, se la ripresa non fosse così rapida, la Commissione adotti verso l’Italia un percorso di rientro dal deficit più morbido, simile a quello che aveva accordato a Spagna e Portogallo durante la crisi del 2010, che partendo da deficit intorno il 10% del Pil arrivarono al 3% solo dopo 6 anni. Sotto queste ipotesi lo Stato italiano ridurrebbe in modo progressivo ma costante il livello di fabbisogno, per ritornare al deficit nominale dello scorso anno solo a fine periodo. Sotto simili condizioni, in sei anni lo Stato avrà fatto un deficit cumulato di 500 miliardi. Se invece la Commissione fosse più rigida nella ri-applicazione del patto di stabilità, il fabbisogno dovrebbe esser ridotto più in fretta, provocando effetti certo peggiorativi sulla crescita, ma diminuendo la necessità di nuove emissioni di titoli di Stato.

Nel finanziamento dei 500 miliardi di fabbisogno complessivo entrerebbe così in gioco l’effetto combinato del Recovery Fund e della Bce (tralasciando dall’analisi il ricorso agli altri strumenti comunitari, dal Mes ai prestiti Bei e “Sure”). I 209 miliardi del Recovery Fund diminuiranno, via via che saranno erogati, la necessità dello Stato di emettere nuovi titoli ed il debito pubblico collocato sul mercato aumenterà non più di 500 miliardi ma di 291. A questo punto però c’è da considerare anche l’effetto dei piani di acquisto della Banca centrale europea.

La Bce quest’anno, attraverso i due programmi di acquisto di titoli pubblici in corso, quello pandemico e quello ordinario, acquisirà sul mercato secondario, toglierà quindi dalla circolazione nel mercato, circa 190 miliardi. Il prossimo anno poco più di 140. Dopodiché possiamo ipotizzare che questi programmi andranno a esaurirsi con i nuovi acquisti nel 2022 e rimarranno in essere solo per il reinvestimento di quelli in scadenza. Si scoprirà così che alla fine del 2022 i titoli di Stato che saranno in circolazione sul mercato saranno circa 70 miliardi in meno rispetto a quelli che erano in circolazione alla fine dello scorso anno. Alla fine del 2025 80 miliardi in meno.

Con un mercato che deve gestire un controvalore più basso di titoli in circolazione è ipotizzabile che anche le pressioni sui rendimenti siano moderate, a meno di rinnovate velleità di uscite dall’euro, rottura dei trattati o boutade simili.

Lo Stato italiano ha quindi sei anni di tempo di relativa calma per immettere in modo intelligente 500 miliardi nel sistema economico nazionale. Con un serio programma di investimento e di sviluppo si può veramente cambiare il Paese. Il compito arduo è non sprecare quest’ultima chiamata.

“La Merkel pensa all’Europa, Rutte solo agli affari suoi”

La formula utilizzata dai giornali europei per commentare l’accordo del Consiglio europeo è quasi sempre la stessa: “Storico”. Non solo perché la trattativa è durata 91 ore e 45 minuti, lo stesso tempo del vertice di Nizza del 2000 (il conteggio è di Politico.eu) ma perché il “deal” ha caratteristiche davvero inedite.

Financial Times Angela passa il Rubicone

Le considerazioni più sintetiche, e semplici, vengono tratteggiate dal Financial Times che, risiedendo a Londra, può guardare tutto con il massimo distacco. E il quotidiano salmonato nota come sia stato oltrepassato il “Rubicone del deficit spending finanziato a debito a livello dell’Unione”. Di un Rubicone per la Ue, nel caso avesse accettato i Coronabond, aveva parlato lo scorso 26 marzo Mark Rutte e il Ft sottolinea ora che “come i ‘frugali’ sanno e temono, quello che può essere fatto una volta può essere fatto di nuovo”. L’editoriale del board sottolinea invece come le conclusioni costituiscano “un omaggio al riconoscimento della cancelliera tedesca Angela Merkel della gravità della crisi e della necessità di una risposta rapida e decisiva”.

Le Monde Anche Macron

Le Monde è sulla stessa linea: “I 27 Stati membri sono stati capaci di un soprassalto unitario reso possibile dall’accordo del 18 maggio tra Macron e Merkel”. Quel giorno “la cancelliera tedesca ha avallato a titolo eccezionale la creazione di un debito comunitario”. Il giorno dopo, cioè ieri, Le Monde ha dato ampio risalto alle spiegazioni di Macron che ha dovuto rassicurare i francesi che i fondi ottenuti da Parigi “non saranno pagati dai contribuenti”. Una risposta a distanza alla bocciatura da parte di Marine Le Pen che parla di “peggiore accordo per la Francia di tutta la storia della Ue”.

Telegraaf Il signor no ha detto… sì

Mark Rutte ha avuto qualche critica in più visto che il principale quotidiano olandese, De Telegraaf ha titolato: “Il signor No Rutte alla fine dice sì al debito dell’Ue” per poi aggiungere che quel “sì” ha ottenuto “un forte sconto sul contributo all’Ue e la possibilità che un ‘freno di emergenza’ possa essere utilizzato se un Paese non consegna progetti adeguati”. Come scrive ancora Politico.eu, “Rutte può però tornare all’Aja in piena serenità” visto che “i quattro partiti della coalizione parlamentare hanno reagito positivamente all’accordo” mentre il nazionalista Geert Wilders lo ha definito un premier “in ginocchio”.

El País L’ora più dolce di Pedro Sánchez

Applausi in Spagna anche per Pedro Sánchez che secondo El País “vive ore le sue ore più dolci”. Sánchez, che porta alla Spagna il contributo più rilevante dopo l’Italia, ha attaccato duramente il leader dell’opposizione, il popolare Casado, accusandolo di non essersi mai fatto sentire. Mentre il suo alleato di sinistra, Pablo Iglesias, intervistato da Le Monde ha parlato di “svolta storica perché l’Europa rinuncia all’austerità”.

Handelsblatt Interessi

Se la Faz tedesca mette in evidenza i successi di un po’ tutti i leader europei, il quotidiano economico Handelsblatt rileva come Rutte lasci “un gusto amaro” perché dimostra che un “Paese pro-Europa come l’Olanda ora pensa soprattutto ai propri interessi nazionali”. Un po’ come faceva la Gran Bretagna e come fanno anche i Paesi dell’Est.

Nordici Sembrava meglio

In Danimarca sul Jyllands-Posten si registrano, oltre agli attacchi dei nazionalisti, i complimenti che la premier di sinistra ha ricevuto dall’opposizione liberale, di destra moderata: non proprio il massimo per la socialdemocratica Mitte. In Finlandia, l’Helsingin Sanomat mette in risalto le dichiarazioni della premier Sanna Marin che vanta di aver strappato la riduzione dei sussidi anche se poi è costretto a specificare che il contributo netto della Finlandia aumenterà. Come aumenterà anche quello svedese che, dice l’asciuttissimo Aftonbladet, dovrà versare maggiori fondi alla Ue la quale, grazie al nuovo fondo, “ha ora grandi possibilità di emergere più forte dalla crisi”.

Soldi Ue, è già lite sulla task force. Via libera a 25 miliardi di deficit

Pensavamo di averle archiviate con la fine della fase 2 e, va detto, nessuno mostrava segni di nostalgia. Anche perché dalla risibile campagna anti-fake news al prestigioso gruppo guidato da Vittorio Colao, non ce n’è una che abbia mantenuto le rivoluzioni promesse. Invece la task force è tornata. E con lei l’annosa questione del chi fa cosa che abbiamo imparato a conoscere con il Covid-19. Solo che stavolta in ballo ci sono i 209 miliardi del Recovery fund, di cui 81 in sussidi, e un governo che deve decidere – in fretta – come impegnarli.

L’unica cosa certa, per ora, è che Giuseppe Conte, il premier che ha condotto la trattativa in Europa, rivendica per sé il coordinamento della squadra chiamata a lavorare al piano di riforme. La task force, insomma, risponderà a Palazzo Chigi, anche perché Conte tutto vuole tranne che si ripeta il modello dei decreti Rilancio e Semplificazioni, cresciuti (e rinviati) di settimana in settimana per l’affastellarsi delle richieste arrivate ai ministeri che li stavano scrivendo.

Da subito, Conte ha immaginato un gruppo di lavoro autonomo, sulla falsariga di quello costruito con la (non fortunatissima) commissione Colao: tecnici indipendenti, in grado di garantire la massima efficienza agli investimenti da fare. Ma il solo fatto di averne parlato ha subito scatenato gli altri ministri: nessuno è in grado di sfilare a Conte la supremazia sulla task force, ma tutti sono più che intenzionati a sedersi al tavolo della torta da spartire. Che tradotto significa costruire una squadra in cui ognuno dei ministeri competenti abbia dei tecnici in quota. Dalla Salute all’Istruzione, dallo Sviluppo economico ai Beni culturali fino alle Infrastrutture, senza ovviamente dimenticare il Tesoro e gli Affari europei: tutti reclamano un posto e concordano sul fatto che a Conte convenga accontentarli.

Perché, ragiona chi sta seguendo la partita, il coinvolgimento dei ministeri è una variabile non indifferente, considerate anche le nostre abitudini quando si tratta di trasferimenti di fondi europei: “Nel classico sistema dei 7 anni – spiegano – noi di solito ne impieghiamo cinque per la programmazione e due per la spesa. Stavolta dovremo impegnare il 70 per cento dei fondi entro due anni: se ai ministeri arrivano progetti calati dall’alto, non sarà semplice metterli in pratica”. Detta in altre parole: se le strutture ministeriali non verranno coinvolte dall’inizio, la traduzione operativa dei piani della task force rischia di non correre così liscia come dovrebbe. Tra le varie ipotesi, c’è anche quella di usare cabine di regia già insediate a Palazzo Chigi, come “Strategia Italia”, creata nel 2019 per velocizzare gli investimenti pubblici e dove siedono i rappresentanti di diversi ministeri (Tesoro, Infrastrutture, Sviluppo economico, Sud etc.).

La discussione è ancora aperta, non l’ha risolta il vertice dei capi delegazione che ieri sera ha preceduto il Consiglio dei ministri chiamato ad approvare il nuovo scostamento di bilancio e a valutare la proroga dello stato di emergenza sanitario al 31 ottobre.

Il governo chiederà alle Camere di fare ulteriore deficit per finanziare il nuovo decreto che vedrà la luce in agosto.

Mentre andiamo in stampa il Cdm è ancora in corso. La cifra ipotizzata è intorno ai 25-27 miliardi. Serve a rifinanziare la Cassa integrazione per altri 18 mesi, accompagnata però da un meccanismo di incentivi per ridurre le richieste di ammortizzatori sociali. Il resto del budget è dedicato a Regioni e Comuni, scuola, aiuti al settore auto e al turismo.

Il governo pensa anche di consentire la rateizzazione delle tasse di inizio anno rinviate a settembre e di prorogare fino a fine anno il blocco dei licenziamenti.

Quagliariello&Romani: come s’offre Forza Italia

Tra i banchi di Forza Italia non si parla d’altro: a settembre, massimo ottobre, per rafforzare la legislatura sarà rimpasto o governissimo che dir si voglia. E bisogna prepararsi a questa prospettiva di cui Gianni Letta sarebbe il maggior tifoso e ispiratore. Anzi, a quanto si riferisce, “il dottor Letta è proprio convinto che sarà inevitabile un coinvolgimento diretto di qualche componente forzista al governo”.

Che nel frattempo, dati i numeri ballerini al Senato, merita di ricevere qualche aiutino: assenze tattiche, forse anche qualche voto di astensione. Ma ciò che inebria è l’idea di tornare a esprimere qualche ministro. E così la mossa di Paolo Romani, Gaetano Quagliariello e Massimo Berutti di fare proprio ora armi e bagagli da Forza Italia – dove erano rimasti pur avendo aderito al movimento di Giovanni Toti da tempo – è vissuta con la speranza che possa preludere a uno scenario tutto nuovo.

Nell’immaginario azzurro è come se si fossero aperte le danze. E tanti meditano di seguire i tre che hanno appena traslocato giurando sì di voler animare una componente di centrodestra “senza se e senza ma, all’opposizione di questo governo”. Ma chi ne osserva in filigrana le decisioni, tende a indugiare sulle ultime due parole che hanno usato per andarsene: questo governo. Quando i più profetizzano che all’inizio dell’autunno ce ne sarà uno nuovo o quasi, rispetto al Conte2. Il presidente del Consiglio, reduce dal successo europeo, ha blindato la sua prospettiva politica che però si associa a una precarietà dei numeri della maggioranza al Senato (enfatizzata dagli ultimi cambi di casacca in casa 5 Stelle) che ha fatto scattare l’allarme rosso a Palazzo Chigi. E ha rimesso in moto una serie di iniziative per evitare a qualunque costo un ritorno anticipato alle urne.

Del resto l’idea di partecipare al grande piano di ricostruzione del Paese post Covid che si prevede piatto ricco, fa gola a molti in Forza Italia. E naturalmente al suo leader e fondatore che appena qualche giorno fa ha incassato la nomina del nuovo collegio Agcom certamente non ostile a Mediaset. E allora è davvero estemporanea la mossa di Paolo Romani che gode di un rapporto strettissimo con Gianni Letta?

Ma non è tutto. Sempre tra i banchi di Forza Italia, i deputati della componente Udc Antonio De Poli, Laura Binetti, Raffaele Fantetti e Antonio Saccone lavorano per mettere insieme almeno 10 senatori di area cattolica (come Sandrina Lonardo in Mastella che dopo l’autosospensione da FI è tentata anche dai renziani): sono convinti che la maggioranza che sostiene il Conte II “ha delle insufficienze non solo numeriche, ma pure politiche”. Ieri proprio Saccone ha fatto finta di bacchettare il premier per i toni trionfalistici post trattativa europea, ma soprattutto ha infierito contro “un centrodestra che non cambia paradigma e narrazione nei confronti dell’Europa”. E che per questo “è destinato all’inconsistenza”.

Per i centristi come lui la missione non può che essere rappresentare in Italia la grande area che si rifà al Ppe: proprio la stessa motivazione che indusse nel 2013 Angelino Alfano a fondare Ncd per continuare l’esperienza di governo con il centrosinistra.

“Accordo eccellente. Ora va cancellato il Patto di Stabilità”

“Aspetti in linea, devo recuperare mio figlio”. Da una località di mare in Abruzzo, Alessandro Di Battista. L’ex parlamentare dei 5Stelle aspetta la nascita del secondogenito: “Ma qui sto incontrando tanti attivisti e studio”.

Il premier ha davvero vinto in Europa?

È stato un risultato eccellente. Questo è il primo tempo della partita, e stiamo vincendo. Vinceremo il secondo se l’Europa abolirà il Patto di Stabilità.

Non corre troppo?

Sono preoccupato dal fatto che tra qualche anno qualche Paese europeo possa svegliarsi e provare a rinfacciare all’Italia il suo indebitamento.

Lei è preoccupato dalle condizionalità del Recovery Fund.

No, il mio problema resta proprio il Patto di Stabilità, fatto di regole ormai obsolete di oltre 20 anni fa, e sono contento che Luigi Di Maio la pensi come me. Mi fiderò totalmente dell’Unione europea solo quando se ne sarà liberata.

Anni fa, voi 5Stelle parlavate di referendum sull’euro, ora festeggiate i soldi che arriveranno dalla Ue. Bella giravolta, no?

Ho sempre pensato che un’Europa davvero unita sia necessaria per contrastare i Paesi emergenti come Cina e India. E una Ue forte serve anche per non farsi dettare l’agenda da Washington. Penso alle sanzioni all’Iran, assolutamente ingiustificate.

L’Italia saprà gestire i miliardi della Ue? Già si discute se fare un cabina di regia o una task force.

Non so, non mi interessano i nomi o le squadre. Il M5S deve fare delle proposte chiare su come utilizzarli, e io ho delle idee.

Prego.

Innanzitutto, si potrebbe investire nel servizio ambientale, la mia proposta per dare lavoro a centinaia di migliaia di giovani impegnandoli in interventi per l’ambiente e contro il dissesto idrogeologico. Servirebbero tra i 4 e 6 miliardi all’anno.

Poi?

Bisogna riconvertire aree come Bagnoli, Marghera e l’Ilva di Taranto, dove va chiusa l’area a caldo. Ho visto che il ministro dello Sviluppo economico Stefano Patuanelli ha proposto di creare a Taranto un hub dell’idrogeno, e sono d’accordo. Poi va fatto un lavoro di modernizzazione delle aree interne del Paese.

Si vedrà anche in base alla tenuta del governo. Ora Conte è davvero più saldo?

Assolutamente sì. Tanti italiani, a cominciare da Carlo De Benedetti, hanno tifato contro di lui. I poteri forti volevano e vogliono mettere le mani sui soldi per ricostruire l’Italia. Gli è andata male.

Però la maggioranza resta agitata, con il Pd che insiste sul Mes.

Non so perché lo facciano. Ora dobbiamo pensare a come sfruttare al meglio le risorse del Recovery Fund.

Conte è sempre più un possibile capo del Movimento?

Questo va chiesto a lui. Di certo io in squadra voglio sempre grandi giocatori.

Luigi Di Maio ha detto che dovrebbe iscriversi ai 5Stelle.

Lo avevo auspicato anche io settimane fa, parlando a Mezz’ora in più sulla Rai.

Il M5S sembra sfiancato: quindi bisognoso di aggrapparsi a Conte.

Il M5S è forte quando si compatta su grandi battaglie. E a Conte serve un Movimento forte: lo si è visto sul tema Autostrade, dove siamo stati fondamentali.

Lei era ritenuto un problema per Conte.

Il premier non ha mai pensato una cosa del genere.

Vi sentite?

Abbiamo un buon rapporto. Gli ho fatto i complimenti dopo la sua presa di posizione sul Fatto su Autostrade.

Conte vorrebbe alleanze tra Pd e M5S nelle Regioni. E lei?

Io chiedo: dove sono i programmi? Li tirino fuori, poi si vedrà.

Chissà dove sono finiti gli Stati generali del M5S. Si parla di uno slittamento al 2021.

Gli Stati generali sono fondamentali per costruire l’agenda del M5S dei prossimi dieci anni. Vanno fatti il prima possibile.

Zinga-Mes rovina il gran galà di Conte. E Salvini resta solo

I giallorosa si alzano in piedi, tutti. Battono le mani, all’uomo che alcuni di loro avrebbero voluto disarcionare già settimane fa, al presidente del Consiglio Giuseppe Conte che parla alle Camere per raccontare la sua vittoria in Europa.
Ma il tempo degli applausi dura un pugno di ore, quanto basta al segretario del Partito democratico Nicola Zingaretti per tornare a battere il solito tasto, il Mes, con un tweet secco, scorbutico.

“Continuo a pensare che per l’Italia l’utilizzo del fondo salva Stati sia positivo e utile, il governo dovrà presto assumere una decisione e la nostra posizione è chiara” scrive il governatore del Lazio. Sillabe calate di primo pomeriggio, mentre Conte si trasferisce dal Senato a Montecitorio per la seconda parte delle sue comunicazioni al Parlamento. E davanti ai cronisti che lo assediano e gli chiedono sempre di quello, del Mes, il premier perde il buonumore: “Smettetela con questa attenzione morbosa, valuteremo insieme la situazione, ma non mi chiedete ogni giorno del Mes. Ora abbiamo il Recovery Fund”. Fuori microfono, fonti vicine al premier sibilano: “Il Pd continua a parlarne su pressione dei governatori che vogliono annunciare risorse per la sanità locale”.

Ma Conte ormai si è convinto che il fondo non serva, tanto più che il Movimento resta contrarissimo. Così presto il premier metterà un punto, assicurano. Però è una nube, sopra la sua giornata di trionfo. Paradossale, anche perché dietro le quinte il premier lavora per le alleanze tra Pd e M5S nelle Regioni, su spinta anche dello Zingaretti che pure non gli dà tregua sul fondo salva Stati. Così, raccontano, il premier sta spendendosi per un estremo tentativo di accordo in Puglia. Difficile, anche perché i 5Stelle locali, con in testa la candidata governatrice Antonella Laricchia, non vogliono saperne. “Ma da Roma lo farebbero” dicono fonti di governo di entrambi i fronti. Di certo ci sta lavorando soprattutto il ministro per gli Affari regionali, Francesco Boccia, vicino al governatore uscente Michele Emiliano. Un paio di giorni fa, Boccia ha incontrato il capo politico reggente del Movimento, Vito Crimi, per fare il punto. Ma la tela rimane complicata, a meno di sorprese. Conte, in silenzio, continua ad auspicare l’accordo nella sua regione come nelle Marche, altro snodo delle prossime Regionali. Nell’attesa, in Parlamento è sempre arte varia. Così in Senato un abbronzato Matteo Renzi reprime l’invidia e gli fa i complimenti: “Lei è stato bravo, se questa sarà la strada del governo saremo sempre più al suo fianco”.

Poi però è il turno di Matteo Salvini, e si sprofonda nel surrealismo involontario. Tra un’interruzione e l’altra dei giallorosa (per l’ira della presidente Casellati, che lo rassicura: “Questo è un Parlamento libero”), il capo della Lega si incarta in un discorso sbrindellato in cui parla di tutto, anche di pensioni, teorizzando: “Vi prego di non tornare alla legge Fornero, non occorre uno scienziato per intuire che in base a questo accordo (in Europa, ndr) c’è la cancellazione di Quota 100 e il ritorno alla legge Fornero. Ma la Lega è pronta a fare le barricate”. Nell’attesa, Salvini parla anche dei carabinieri, e siamo oltre il volo pindarico: “Per la prima volta nella storia è stata sequestrata una caserma a Piacenza. Da ex ministro dell’Interno ribadisco che chi sbaglia, paga, ma questo non serva a nessuno per attaccare o infangare le nostre forze dell’ordine”. Arriva a citare il taser, la pistola a impulsi elettrici: “Avevamo introdotto la sperimentazione, era tutto pronto, ma una circolare del ministero dell’Interno ora chiede la restituzione dei dispositivi: non vorrei ci fosse un pregiudizio per disarmare le forze dell’ordine”.

Cosa c’entri con la Ue e il Recovery Fund è arduo da intuire. Ma l’effetto è psichedelico. Molto più prosaico il capogruppo dem alla Camera, Graziano Delrio, che “saluta” così Conte: “Siamo convinti che i fondi del Mes siano necessari perché sono subito disponibili”. E i sorrisi per il vincitore sono davvero già finiti.

 

Traduzione simultanea

Nella commedia Viva l’Italia di Massimiliano Bruno, un vecchio marpione della politica (Michele Placido) è colto da uno strano malore che lo porta a dire, al posto delle solite menzogne, la pura verità. Con le conseguenze destabilizzanti che si possono immaginare. Quel film mi è tornato alla mente mentre facevo zapping fra i talk show estivi dedicati all’accordo europeo sul Recovery Fund. Su Rete4, a Stasera Italia, c’era un imbronciato Piercasinando, detto Er Forcone dei Parioli per aver vaticinato la cacciata di Conte inseguito dai forconi. Aveva la faccia da crisantemo di chi ha appena sepolto il gatto e non so cosa dicesse, ma sul cranio brizzolato campeggiava la nuvoletta dei fumetti con su scritto: “Soccia, e adesso come facciamo a levarci dalle palle ’sto Conte? Oh, ragassi, non facciamo scherzi con quei forconi: mica li vorrete usare contro di me!?”. Partecipava alle esequie Paolo Liguori che farfugliava le consuete fesserie, buone quando parla della Roma come quando discetta di politica, ma lo sguardo brillante da termosifone spento tradiva il vero pensiero: “E mo’ che dico? Sono mesi che dipingo Conte come un pirla e il padrone pareva contento, ma ora gli fa i complimenti. Meglio fare il vago: speriamo che la Gentili mi chieda la tabellina del sette”. A un certo punto s’è rivisto dopo secoli Paolo Garimberti, noto ciclista, ex presidente della Rai ed ex vicedirettore di Repubblica, detto Polentina per la calotta giallo-mais da Mastro Ciliegia: era lì per dimostrare che c’è chi rosica addirittura più di Salvini. Infatti, passando da ciclista a goleador, s’è detto stupito dell’esultanza di Conte: “Manco avesse segnato un gol! Ma quel gol l’avrei fatto anch’io!”. All’idea di Polentina al Consiglio Ue che battaglia giorno e notte con Rutte&C. e mette tutti in riga, in studio è calata una cappa d’imbarazzo mai vista neppure per il duo Maglie-Capezzone. Intanto, sulla chioma paglierina del Garimba, appariva implacabile la nuvoletta: “Guarda che mi tocca dire perché qualcuno, nel mio ex giornale, si ricordi che esisto”.

Ora, non so voi, ma io i balloon dei fumetti con la traduzione simultanea delle bugie li renderei obbligatori: sedute parlamentari, conferenze stampa, le dirette social, talk e giornaloni diventerebbero uno spasso.

Giuseppe Conte. “Il successo non è mio, ma dell’Italia. L’applauso del Parlamento mi ha emozionato, ma è per tutta l’Italia”. Traduzione: “Vi rode, eh, bastardi? Padre Pio, fammi la grazia, tagliami la lingua”.

Matteo Salvini. “È una fregatura grossa come una casa”. Traduzione: “Per me”.

Giorgia Meloni. “Conte si è battuto contro le pretese egoistiche dei Paesi nordici ed è uscito in piedi, ma poteva andare meglio”. Traduzione: “La figura di merda del rosicone la lascio al cazzaro”.

L’Innominabile. “Conte è stato bravo e gliene diamo atto”. Traduzione: “Tanto non vale, c’ho le dita incrociate dietro la schiena”.

Elisabetta Casellati. “Mi scusi, presidente Conte, ma non si possono fare fotografie in aula. Non usate macchine fotografiche, non si può fare!”. Traduzione: “Tutti ’sti applausi in aula a Conte non li sopporto, sgrunt… c’ho un travaso di bile, grrrr… che posso inventarmi per interromperli? Come? Le macchine fotografiche? Ma quali macchine fotografiche, idioti! Siamo nel 2020, ora ci sono gli smartphone! Ah, devo dire che le ho viste lo stesso? Bravi, idea astuta, non ci sarei mai arrivata. Adesso lo dico”.

Silvio Berlusconi: “Accordo buono. Pericolo per l’Europa dai partiti sovranisti”. Traduzione: “Cribbio, quel cazzaro mi farà diventare comunista”.

Renato Brunetta. “Avevamo consigliato al premier di andare a Bruxelles con spirito europeista”. “Un bene per il Paese, ma Conte ha presentato un’Italia piccola e furba”. Traduzione: “Per quella piccola ha seguito i miei consigli”.

Augusto Minzolini. “Il governo delle marchette rischia di fare crac sui fondi” (il Giornale, 22.7). Traduzione: “Io le marchette me le pagavo con la carta della Rai. Se serve una consulenza, sono qui”.

Daniele Capezzone. “Conte festeggia per nascondere la sconfitta” (La Verità, che lo firma “Capezzome”, 2.7). Traduzione (anzi, traduziome): “Stavolta mi vergogno troppo persino io. Scrivo in incognito”.

Vittorio Feltri. “Festeggiano Conte perché ci indebita”. “Non illudetevi, alla fine pagheremo noi”, “Occhio alla fregatura”. Traduzione: “Hic!”.

Stefano Folli (Repubblica, 22.7). “….”. Traduzione: “Oggi non scrivo. Rispettate il mio lutto, abbiate pietà”.

Marcello Sorgi. “Conte rafforzato. Sarà lui a dare le carte” (La Stampa, 22.7). Traduzione: “Prendete i miei pezzi degli ultimi due anni: dove ho scritto mai scrivete sempre, dove ho scritto brutto scrivete bello, dove ho scritto cade scrivete regge”.

Sabino Cassese. “Non è solo questione di soldi” (Corriere della Sera, 21.7). Traduzione: “Quel maledetto avvocaticchio porta a casa 209 miliardi, e io che dico? Occhio a non copiare Salvini, sennò da idolo degli antisovranisti divento l’idolo dei sovranisti. Dunque: se Conte porta patate, io dico che non è solo questione di patate; se porta soldi, io dico che non è solo questione di soldi. Furbo, io. Ammazza che volpe! Chissà se al Corriere ci cascano. Massì, dài, è una vita che se la bevono”.

Totti, Guadagnino, Muccino: Sky punta su serie tv (e pubblicità)

C’è chi ha presentato i propri palinsesti sul web e dal vivo, come la Rai, e chi ha annullato l’evento, come Mediaset. Sky sceglie di farlo sul web, con un evento-presentazione solo in streaming (senza conferenza stampa) per addetti ai lavori.

Anche da queste parti la crisi post Covid si fa sentire: gli abbonati sono sempre circa 5 milioni come nel 2019, ma c’è da dire che il palinsesto 2020-2021 è notevole. A partire dalle produzioni originali, in cui spicca una serie dedicata a Francesco Totti, Speravo de morì prima, interpretata da Pietro Castellitto, e la prima serie tv firmata da Gabriele Muccino, A casa tutti bene – La serie, la trasmigrazione seriale del suo ultimo film. Ma poi ci sarà Petra, con un’inedita Paola Cortellesi, We are who we are, serie firmata da Luca Guadagnino, e Romulus, racconto dell’antica Roma per la regia di Matteo Rovere. Ma anche Cops, una banda di poliziotti, le divertenti avventure di un gruppo in divisa con Claudio Bisio. E questo solo per quanto riguarda le serie italiane. Poi ci sono tutte quelle internazionali. E il grande cinema, con quasi tutti gli ultimi titoli.

Sull’intrattenimento, invece, vengono confermati grandi successi come X Factor (dove tornerà Manuel Agnelli insieme a Mika e Emma Marrone), Master Chef, 4 Ristoranti di Alessandro Borghese, 4 Hotel con Bruno Barbieri, Italia’s Got Talent, Family Food Fight, mentre come new entry ci sarà Pekin Express (con Costantino Della Gherardesca?).

Poi grande spazio all’informazione, con Enrico Papi che ha elogiato più volte l’impegno dei giornalisti di SkyTg24 e del direttore Giuseppe De Bellis per come hanno raccontato il dramma del Covid. “Noi cerchiamo di fare servizio pubblico con rigore e autorevolezza, tenendo presente che entravamo anche nelle case di chi poteva aver avuto un lutto”, ha raccontato una giornalista. E dall’autunno anche Tv8 avrà il suo telegiornale: Tg8. Inoltre, naturalmente, il core business di Sky, ovvero il calcio, tra cui gli Europei 2021 e la Champions, ma pure il basket, il tennis, la Formula Uno e la Moto GP.

Altra grossa novità è Sky Wifi, servizio di connessione lanciato in 124 città: un nuovo sistema di connessione domestica (a 29,90 euro al mese) che farà entrare Sky in un settore completamente nuovo per loro. Agli investitori pubblicitari, inoltre, viene garantito un profilo degli abbonati per fasce di età, reddito, componenti della famiglia, abitudini nei consumi e pure se possiedono un animale domestico. Insomma, la pubblicità può essere quasi personalizzata. E forse, in tal senso, il Garante per la privacy avrebbe qualcosa da dire.

Prima del “Pibe”: anarchici e proletari del fútbol argentino

Quando Fútbol venne pubblicato in Argentina, Osvaldo Bayer – storico, scrittore e giornalista argentino scomparso nel 2018 – aveva smesso di essere un tifoso appassionato del suo Rosario Central (l’altra grande passione era il Bayern Monaco, nulla di strano per un santafesino di sangue teutonico). Sosteneva che il calcio era ormai irrimediabilmente diventato solo un affare del capitalismo e quest’affare aveva cancellato, per sempre, il fútbol che Bayer aveva amato, quello fatto, ad esempio, di calciatori che per tutta la propria carriera scelgono di militare sempre nella stessa squadra. Sì, perché nell’Olimpo di Bayer c’è un posto speciale per José Manuel Moreno, attaccante del River che segna gol a raffica perché, prima di andare allo stadio, non rinuncia mai allo stufato e al vino rosso. E un posto d’onore lo occupa anche Isaac López, il portiere del Chacarita Juniors, retrocesso nel 1940, che rifiuta l’offerta del River perché non può lasciare i suoi compagni appena scesi in seconda divisione (confesso di nutrire la stessa nostalgia di Bayer – io, attempato appassionato di calcio – per la defunta Coppa delle Coppe e per la “bandiera” Giacomo Bulgarelli).

Ma se il calcio era ormai solo business, Bayer ci fa scoprire che le origini del fútbol argentino furono quanto di più lontano si possa immaginare dal mondo del capitalismo rapace. E solo l’autore di Patagonia Rebelde (pubblicato in Italia da Eulethera) avrebbe potuto restituirci questo racconto nei primi fulminanti capitoli del libro. Anarchici e socialisti, sfruttati e umili, marinai e operai navali furono il nerbo attorno al quale nacquero alcuni club che hanno fatto la storia del calcio argentino come di quello mondiale. Nomi che riempiono le vicende di un secolo intero e oltre: Boca, Huracán, River Plate, Independiente, Argentinos Juniors. Squadre prive di nobile lignaggio e non finanziate dall’alta borghesia di Buenos Aires o La Plata, ma sorte nei quartieri proletari. Ed è sorprendente scoprire che, persino nei nomi, alcune squadre esprimevano gli ideali di riscatto del nascente movimento operaio. L’Argentinos Juniors, che fa esordire Diego Armando Maradona nel 1976, in origine era niente meno che il Club Martiri di Chicago (lo sciopero represso nel sangue del Primo maggio 1886).

Bayer ci prende per mano e ci conduce attraverso una storia lunga un secolo che incrocia tutte le vicende sociali e politiche del Paese, anche di quei campionati che non potette vedere sugli spalti perché in esilio, a Berlino, dopo essere entrato nel mirino dei terroristi di stato della Triple A (l’Alleanza Anticomunista Argentina). Le sfide River-Boca, gli arbitri inglesi chiamati al capezzale del corrotto calcio argentino dove i forti sono sempre aiutati dagli arbitri, la sindacalizzazione dei calciatori, i tristi anni Sessanta, la rivalità con il calcio uruguagio, l’umile Chacarita (fondata il 1° maggio 1906!) che, nel 1969, conferma la teoria che la palla è rotonda e vince il campionato battendo, in finale, i “milionari” del River. Il racconto termina con la vittoria argentina ai Mondiali di Mexico ’86. La Mano de Dios chiude, per sempre, la sfida, iniziata un secolo prima, all’influsso coloniale inglese.

Gli argentini crearono proprie squadre e il segno del cambiamento fu un gesto che gettò basi solide per la costruzione dell’identità nazionale: durante gli intervalli delle partite bevevano mate cocido e bandirono il tè sorseggiato dai sudditi di Albione.

Fútbol è la storia del calcio argentino, ma anche la storia di Osvaldo Bayer e del suo rapporto col calcio: un tifoso tranquilo, che guardava il calcio in punta di piedi, non come l’amico Osvaldo Soriano, esagitato tifoso del San Lorenzo. Un giorno, al giornalista che gli chiedeva perché non avesse mai tifato per squadre come il River o il Boca, rispose che, nella vita, era stato sempre al fianco dei più deboli e questa stessa scelta aveva fatto nel calcio, lui che amava gli eleganti calciatori rosarini, quelli che giocano quasi ballando. Ma Bayer era stato fortunato. Da ragazzo aveva visto giocare “Torito” Aguirre del Rosario Central, il più forte di tutti. Più di Maradona!